#odio i tagli che hanno fatto
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MARCO TVTTTTTB
#odio i tagli che hanno fatto#e questa non è assolutamente la canzone della vita#ma lui è un cuoricinooooo#ed è stato tanto bravo#e io sono una proud zia#eurovision 2023#eurovision
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"Il cuore e la fiducia di una persona possono essere fragili come il più piccolo degli insetti.... Come una coccinella...
Tu la guardi e rimani incantato da quel rosso vivo e da qui puntini così neri e perfetti...
Basta un niente per schiacciarla, basta un soffio per spazzarla via...
E così porresti fine a una delle creature più belle del mondo...
Per questo ti dico:
"Pesa bene le parole, pesa bene ciò che fai. Basta un niente per distruggere la vita delle persone, specialmente quelle fragili, che sono fragili solo perché più dolci e più sensibili di te. E piantala con il tuo egoismo e la tua ipocrisia, perché un giorno capirai di aver sbagliato e ti ritroverai solo/a senza nessuno accanto, rimpiangendo amaramente di essere stata una persona così meschina ed egoista. E non ci sarà nessuno a riempire quel cazzo di vuoto che sentirai dentro, non ci sarà nessuno a riempire i tuoi silenzi, ad asciugare le tue lacrime e a credere in te. Sarai solo tu, in un angolo, le tue dita tra i capelli, con la voglia di strapparli. Gli occhi gonfi, il cuore pesante e i tagli che porterai dentro saranno più grandi di quelli che ti sei fatto/a sulle braccia. Saranno più grandi delle cicatrici che ti hanno accompagnato lungo tutta la vita...
Impara a fidarti di qualcuno, impara che il mondo non è solo odio, ma anche amore.
#ANIMAFRAGILE❣️
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Soffro di autolesionismo ma non mi sento affatto valida. I miei tagli sono superficiali, poco aperti, sembrano linee rosse. Di recente ho provato lo styro ma non sono andata oltre. Non ce la faccio più a sopportare questa sensazione. Le mie cicatrici sono piccole e poche, tendono a sbiadire. Questo mi fa sentire una fallita, mi sento come se non avessi mai lottato con SH, mi sento come se non fossi abbastanza ferita, le mie ferite non sono abbastanza gravi da considerare davvero questo un problema. Non provo più sollievo quando lo faccio ma solo rabbia per non essere riuscita a raggiungere l'obiettivo. Come posso farmi bastare questi tagli?
la domanda che mi poni è assurda. l'autolesionismo non si basa sul numero di tagli inferti o sulla profondità delle ferite. l'autolesionismo è uno stato mentale, non è semplicemente l'atto in sé. l'autolesionismo è desiderio di farsi del male in qualsiasi modo, e ce ne sono davvero tanti di modi per raggiungere l'obiettivo. la domanda è un'altra: perché credi di meritare qualsiasi forma di autolesionismo? perché sei arrivata al punto di credere di meritare questo dolore? io non ti conosco, ma ti assicuro che ti sbagli, perché nessuno merita di ricevere odio, figuriamoci di riceverlo addirittura da sé stessi. anch'io sono stata autolesionista, non ne vado fiera, ma ne ho sofferto, e ho imparato ad accettare la mia natura e il mio passato e guardo le mie cicatrici con rassegnazione. il fatto che tu voglia farti così male purtroppo lo comprendo, ma non ti porterà da nessuna parte e lo sai anche tu. te stessa è l'unica cosa che hai, pensaci un attimo attentamente: le persone sono egoiste, spesso cattive, ti tradiscono, ti feriscono, ti lasciano andare. e cosa resta a noi una volta che siamo rimasti soli? noi stessi. tu resterai sempre fedele a te stessa, tu sei l'unica a conoscere il vero valore della tua anima e a sapere chi sei, ed è per questo che il dolore, le ferite e i tagli che ti autoinfliggi sono ancora più dolorosi. nessuno può farti più male di quello che fai tu a te stessa. e se pensi di valere poco ti stai sbagliando di grosso, perché ognuno di noi ha un valore inestimabile che niente e nessuno può cambiare per il solo fatto di avere un cuore che sente e prova emozioni. non farti questo, non ferirti ancora più di quanto già il mondo non faccia. le tue lacrime, le tue sofferenze, il tuo dolore, hanno un valore e un prezzo. devi capirlo, voglio che tu lo capisca. ti prego di parlare con qualcuno, con una persona cara, anche con me se lo desideri, sono a tua disposizione per un confronto e uno scambio di vicissitudini. ti prego solo di darti una possibilità, perché la meriti.
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10 (What are three myths about BPD that people need to understand- and three hard truths about BPD?)
Secondo il mio pensiero
Miti:
1. Le persone con il disturbo borderline possono avere delle relazioni e portarle avanti, è sicuramente molto più difficile ma non credo sia impossibile. Inoltre sono capaci di amare, a differenza di quello che può essere l'immaginario comune che rappresenta una persona che ha più rapporti e tradisce e così via.
2. Non tutte le persone con la diagnosi di bpd sono uguali, non tutti manifestano gli stessi sintomi, anche se alcuni sintomi sono molto caratteristici e quindi spesso sono presenti. E aggiungo che l'impulsività nel disturbo non è intesa solo come guida spericolata, rapporti sessuali promiscui, abuso di sostanze, abbuffate, gioco d'azzardo ecc... uno può essere impulsivo anche con le parole, con il modo di pensare e di comportarsi, nelle relazioni e nel modo in cui percepisce le cose, anche scappare ed evitare è un impulso.
3. Le persone con il bpd non manipolano, stanno male e semplicemente cercano di soddisfare il bisogno di amore e attenzione che tutti abbiamo, ma che loro faticano a percepire dagli altri. In più non penso che chi soffre di questo disturbo non voglia guarire e non si impegni per farlo. Magari hanno difficoltà e interrompono la terapia più volte, ma non credo che vogliano stare male, si impegnano sempre anche se dall'esterno forse non sembra abbastanza.
Verità.
1. Penso che la visione estrema del mondo sia terribilmente vera, questo modo di pensare tutto o niente, bianco e nero... e non è per niente figo, fa schifo e ti rovina la vita. E' totalmente disfunzionale e ti impedisce di fare qualsiasi cosa, di portare a termine qualsiasi cosa, di vivere. Soprattutto come percepisci e interpreti i comportamenti delle altre persone, puoi davvero amare qualcuno e poi provare un odio immenso subito dopo. La cosa peggiore è che il tuo cervello si blocca in quella modalità e tu non riesci a vedere altro, a capire altro, non riesci a ragionare, a distaccarti e guardare la situazione in modo più oggettivo. Vieni sommerso e non ne esci... e basta poco per scatenare certe catene di pensieri/comportamenti.
2. Una cosa orribile dell’autolesionismo di cui non si parla molto è il fatto di essere “innamorati” delle cicatrici. Passare la mano sulla pelle e sentire tutte quelle linee in rilievo piace, fa stare meglio, è come avere la conferma del tuo malessere. Il dolore mentale non lo vedi perché sta dentro e quindi spesso ti ritrovi a chiederti se è davvero reale, se non stai solo esagerando tutto... ti perdi nella sofferenza, ti chiedi "è vero?" e poi ci sono quei segni che ti rispondono di sì, ti tranquillizzano, ti tengono ancorato al mondo, possono farti sentire vivo. Può essere un amore/odio, quindi allo stesso tempo ci si vergogna dei tagli, si nascondono, ti fanno sentire in colpa e credere di essere "pazzo".
3. Per stare bene penso che il percorso sia molto difficile e assolutamente non lineare, nessuno può stare meglio da un giorno all'altro, ma neanche nel giro di qualche mese, ci vogliono anni e anni di impegno, terapia, rete di persone che possono supportarti e tante lacrime per riuscire a stare meglio. E questo non vuol dire che poi le cose andranno sempre per il verso giusto, continueranno ad esserci momenti critici e problemi. E' una linea a zig zag, non una retta in discesa.
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Non sono molte le cose che so su di me eppure so una cosa: non so come usare la parola "scusa". Potrebbe sembrare insignificante, forse lo è diventata a cauza del mio abuzo del suo utilizzo ma puo significare diverse cose. Uno dei significati piu dolorosi e quello del "sono ferita a causa tua ma do la colpa a me perche ho paura che mi abbandoni". Lievemente sciocco direi eppure questo risalta un cosi profondo disprezzo nei miei contronti a tal punto di dover calpestare i miei stupidi sentimente, schiacciare il mio orgoglio, il mio dolore solo a causa del pensiero che perderei una delle poche persone a cui voglio bene e quella sarebbe la sua via di fuga, la sua chiave per la liberta, da questo disastro che lo tiene intrappolato e cioe io. Un disastro. Il fatto e che fa male avere tutti questi pensieri "non mi vogliono, li annoio, non sono nessuno, me lo dimostrano, mi fanno vedere che non hanno bisogno di me" a tal punto di voler davvero sparire, di arrivare a credere davvero di essere odiata da loro cosi come mi odio io, e in fondo non li biasimo. E poi? E poi chiedo scusa, chiedo scusa a loro perche mi sono fatta del male, chiedo scusa a loro perche ho pensato che non mi volessero piu nella loro vita e prego che mi perdonino, prego che dicano "tranquilla, io ti voglio nella mia vita" e li credo per qualche giorno poi ricomincia di nuovo tutto d'accapo, tutto il dolore, le urla i tagli, solo perche vedo in loro cio che penso io di me, cio che mi hanno fatto credere loro di essere. "Ma quando viene ***** mi annoio!" Ma ci sono anche io..guardami sono qui, guardami...perche non mi parli perche hai fatto quella smorfia quando hai incrociato il mio sguardo...mi hai detto che mi volevi eppure preferisci gli altri, eppure guardi gli altri quando parli e non me, eppure te ne vai quando rimaniamo solo noi due, te ne vai dagli altri e all improvviso non sono piu nessuno, solo quella persona che fa si che ce ne siano di piu nel gruppo. "Piu siamo meglio è" dicevano, al posto mio poteva esserci anche uno spaventapasseri, non avrebbe cambiato nulla. E chiedo scusa quando penso "ecco succede di nuovo, non mi vogliono neanche loro" perche in fondo speravo che questa volta avrei potuto essere abbastanza e invece no, flashbacks su flashbacks che fanno capolino nella mia mente e lasciano segni sulla mia pelle, gonfiano le mie palpebre e lasciano il mio letto vuoto durante la notte. Che dolore lancinante avvolte, quando li sento, mi urlano nelle orecchie "vai via, non ti vogliamo, vai via non sei abbastanza" ed io ci credo, non voglio ma ci credo. Un virus allo stato mentale, una malattia che colpisce ogni parte del mio corpo, la vista l udito...ed io chiedo di nuovo scusa perche non so come esprimere tutto cio, come non sembrare una disperata e come non scomparire ma alla fine lo faccio sempre perche ho paura della verita, che sembra nascondersi nel mio passato. Non voglio dire addio a nessuno e allora scappo. Nascondetevi ora che sono lontana e la vostra occasione per sfuggire dalla bomba che e in me, o da me e basta. Non daro la colpa a voi per cio che mi accadra, la colpa e e sempre sara mia. Vi voglio bene
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Potenza del pollice (2)
Tre degli addetti dell’impresa di pompe funebri incaricata delle esequie di Maradona si sono fatti fotografare a fianco della salma nel gesto di mostrare il pollice in su, il famoso thumbs up degli americani. Le immagini hanno fatto scandalo ed hanno suscitato una diffusa indignazione, tanto da portare al licenziamento dei tre addetti e a trasformarli nelle ennesime vittime di molestia, odio e minacce in rete.
Potenza della esibizione del pollice! Che sarà mai?
Sebbene il gesto sembri possa essere vecchio di secoli (qualcuno lo fa risalire all’uso nel mondo anglosassone di pattuire un accordo commerciale leccandosi e stringendo i pollici), la sua potenza simbolica sembra un fatto relativamente recente. Ho provato a fare una ricerca in rete associando il nome dei presidenti degli Stati Uniti d’America alla esibizione del pollice: è un diluvio con Trump, un discreto uso da parte di Obama, Clinton e di Bush figlio, mentre andando ancora più a ritroso il gesto tende a scomparire. Lo spartiacque, nella esibizione del pollice da parte dei presidenti degli Stati Uniti d’America, sembra essere stato Ronald Reagan, e non stupisce, anche perché il personaggio, i tempi e le tecnologie erano maturi per veicolare su larga scala immagini a forte contenuto politico simbolico.
Bisogna peraltro prendere nota di un fatto: fino a qualche decennio fa il gesto significava genericamente tutto a posto, ma con l’avvento di Facebook ha assunto il significato ben più preciso e leggermente diverso di like this, mi piace, ed ha assunto una sua valenza, espressività e comprensione planetaria, dato che si può tranquillamente affermare che ogni giorno nel mondo si scambiano miliardi e miliardi di pollici in su, la maggior parte dei quali indica gradimento. È probabile che sia stata questa particolare accezione di like this a scatenare il putiferio per i tre malaccorti addetti alle esequie di Maradona. Ma non è ragionevole pensare che sia stato proprio questo il significato che i tre intendessero dare al loro gesto...
Bisogna passare oltre lo schiacciante valore simbolico, tutto moderno, della esibizione del pollice per potere capire il reale significato di quel gesto, quello che probabilmente gli stessi interessati gli davano nello stesso momento in cui lo facevano: quel gesto non indica gradimento, accordo o consenso di sorta, ma appartiene a tutt’altro genere di manifestazioni, quelle in cui il vivente trae motivo di autoaffermazione dalla esibizione del cadavere di una persona temuta o rispettata. I precedenti sono nobili. Si va dai cacciatori di taglie che si facevano fotografare a fianco dei cadaveri delle loro vittime (delle volte artificiosamente tenuti “in piedi” o legati ad una sedia), ai soldati dell’esercito del neonato Regno d’Italia che esibivano come trofei di caccia i cadaveri dei briganti dell’Italia meridionale, giù giù fino alla celebre esibizione del cadavere di Ernesto Guevara. E sono estremamente significativi, in quest’ultima foto, i gesti dei due militari, l’uno che sembra carezzare i capelli del cadavere, l’altro che indica con il dito indice l’oggetto della loro gloria ed affermazione, forse la ferita che ne ha causato la morte.
Maradona, nel suo (permettetemi...) goffo ergersi a campione dei diseredati che lo ha portato a farsi amico di Fidel Castro e di Hugo Chavez, s’era a suo tempo fatto tatuare sul braccio il volto del Che; ed è singolare che due miti così diversi si siano ritrovati accomunati, da morti, in un gesto di esibizione del loro cadavere dalla stessa valenza simbolica ma la cui potenza sembra essersi spostata dall’indice al pollice.
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Sono stato vegetariano per 7 anni e la cosa che più mi è mancata è anche la più (in effetti) disgustosa. Il kebab. Ricordo gli inverni gelidi, quando tornavo a casa di notte, e l’unico locale aperto era il kebabbaro giallo appena fuori dalla fermata della metro, quella che adesso è chiusa e riaprirà tra un anno. Ho l’abbonamento annuale ma mi hanno chiuso la fermata da gennaio fino a gennaio prossimo. Un classico. Voglio farmi rimborsare il costo della bici, degli Uber quando sono troppo sbronzo e delle bestemmie quando devo andare da qualche parte e non posso essere pigro. Ricordo come mi fermavo nel buio freddo della strada di casa, a respirare l’odore della carne marcia sulla griglia. Solo respirarlo mi rendeva pieno. Poi a casa mi sfondavo di schifezze anche peggiori. Forse è per questo che sono ingrassato. O forse è perché fondamentalmente non me ne frega un cazzo. Stasera sono tornato in bus, adesso quando non mangio per un giorno intero non faccio più come una volta, non mi nutro di odori. Se ho voglia di qualcosa vado e la prendo. Ho chiesto il kebab senza cipolla e non piccante, perché sono un mezzasega e il piccante non lo reggo. Un senzatetto si avvicina e chiede qualcosa ma non faccio in tempo a capire che interviene il ragazzo kebabbaro e gli chiede se vuole da mangiare. Risponde di sì, per favore. Così ne prepara due e ci mettiamo uno di fronte all’altro a mangiare ed è una scena che non ho visto spesso, questa dello spirito di iniziativa di un dipendente nell’offrire da mangiare ad un affamato. È una scena che vuoi appuntare da qualche parte perché non vuoi dimenticarla e questo posto è sempre stata la mia cassaforte di quello che non volevo dimenticare. Forse è per questo che non riesco più a scrivere. Perché ricordare così tanto è un fardello insostenibile quando si vuole andare avanti. Anche se poi mi piace tornare e rileggere qualcosa scritta anni e anni fa e confrontarmi con la persona che ero. Quella che si nutriva di odori ad esempio. Se mi rileggo riesco ancora a ricordare il tuo profumo anche se adesso è seppellito da secoli di distanza. Il tempo è un concetto, il tempo non esiste, così non dovrebbero esistere nemmeno l’inizio e la fine delle cose. È tutto un cerchio. L’essere stato vegetariano per 7 anni è solo un giro su questo cerchio, o forse è un cerchio che si somma attorno al mio addome, come quando tagli in due un albero e ci sono gli anelli che ne indicano l’età. Così non sono chili superflui questi, sono solo cerchi di tempo che si sommano. Esperienze compiute. Una dopo l’altra, lo strato diventerà sempre più spesso e non ricorderai i cerchi in profondità. Quelli che hai dovuto nascondere con la forza per non farli tornare a galla. Poi ti rendi conto di dover appuntare un cerchio, perché altrimenti va perso, e torni a scrivere. È successa una cosa nuova, strana. Mi hanno chiesto di progettare un workshop per dei ragazzi, e di lavorare con loro. Non ho mai scritto un workshop, ma l’ho fatto. Non ho mai lavorato con dei ragazzi, ma lo farò. Ho deciso di fare un lavoro di una settimana sulle paure. Mentre lo scrivevo, pensavo a quello che mi spaventa e una delle cose che più mi terrorizza ma al tempo stesso più ricerco, è il dimenticare. Svegliarmi un giorno e non sapere più che cazzo significano tutti i tatuaggi che ho sul corpo. Mi basterebbe dimenticarne solo un paio, quelli che ho fatto perché pensavo le cose non sarebbero mai finite e invece finiscono, diventano un cerchio, come il mio essere stato vegetariano, un ricordo seppellitto sotto un kebab mangiato insieme ad un senzatetto in una calda notte di agosto viennese. Mi spiace tornare e sembrare triste, non lo sono. Per niente. Ma se parlo da solo non voglio raccontarmi stronzate e quindi divento riflessivo. Stronzate ne dico dalla mattina alla sera, un cerchio infinito. Anche se ti odio per cosa sei diventato, caro Tumblr, quando torno ti becchi quello che non voglio dire al resto del mondo. D'altronde non è sempre stato così il nostro rapporto? Tu assorbi, io riverso. Sei la mia spugna preferita anche se ti preferivo quando le tette non erano reato.
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La “straordinarietà” nel girarmi male le ruote
Che abbia un brutto rapporto con la burocrazia, oramai è più che appurato, ma da quando sono diventata la “referente per i problemi altrui” questo odio viscerale si è milleplicato (boh, non ho idea se esista o meno questo termine, ma mi giran male per andarlo a cercare e poi suona abbastanza bene alle mie orecchie).
Ora io solitamente me la sono sempre sbrigata abbastanza dignitosamente con le pratiche online, c’è da dire però che quando ti trovi a dover gestire pratiche per conto di terzi e a rapportarti con portali organizzati coi piedi - e sono stata buona -, le imprecazioni iniziano a volare come palloncini gonfiati ad elio alle feste di compleanno per bimbi.
Non ho saputo far di meglio con la metafora senza dover trascendere nel volgare, vi basti però sapere che ho mandato vocali a persone fidate in cui parlavo in dialetto, ed io non parlo MAI in dialetto!
Premessa fatta, aggressività repressa a parte, passiamo ai fatti: la Regione Puglia è quell’Ente che a me piace definire “l’isola che non c’è”, in quanto son tutti bravi a far tavoli regionali con associazioni di ogni tipo, ma quando poi c’è da stanziare fondi per le “non autosufficienze”, beh si gioca all’asta, a ribasso però.
È un po’ oramai che non ci scrivo qualcosa a riguardo, un po’ perché siamo ancora in attesa della sentenza definitiva spostata a settembre - mannaggia al COVID (ndr. da leggere rigorosamente con accento francese) - e un po’ perché ne sono successe così tante di cose, che ho deciso di fare una selezione e non mettere altra legna da ardere sul fuoco.
Piccolo riassunto delle puntate precedenti: per anni la Regione Puglia mi ha fornito bimestralmente un degno contributo definito “ASSEGNO DI CURA”; nel 2017 però, dovendo far dei tagli - te’ pareva -, ha indetto un nuovo bando di concorso a cui tutte le persone con disabilità grave/gravissima, che fossero o meno già beneficiare del suddetto contributo, hanno dovuto presentare domanda. Adesso arriva il bello però: a inizio 2018 (sì, sono molto lenti nell’acquisizione delle pratiche) hanno decretato a ca...cavoletto che, non solo io non avessi la SMA ma una SM (Sclerosi Multipla per i non addetti ai lavori), ma che il suddetto contributo non mi fosse legittimo.
Insomma, ero stata miracolata, per loro rubavo soldi visto che ero autosufficiente, nonostante proprio nel 2017 la mia vita fosse stata completamente rivoluzionata.
Oh Ilà però che rompiscatole che sei, non è così gravemente invalidante doversi fare infilare tubicini ogni 5 ore e alimentarsi con passati, stai sempre a brontolare tu, eh?!?
Dissociazione a parte, questa ingiustizia e un’altra serie di giramenti brutti di ruote, hanno fatto nascere in me un moto ondoso senza eguagli, uno tsunami che ha iniziato a travolgere tutto ciò che gli si parava dinanzi, portandomi ad espormi al fianco sempre di chi la voce per urlare all’ingiustizia non ce l’ha.
Senza portarla troppo per le lunghe, questa mia brutta esperienza, l’essermi trovata per la Regione Puglia miracolata per un anno e mezzo (sì, perché poi a settembre 2018 hanno rifatto il bando ed io sono stata magicamente riammessa), ha amplificato a dismisura il mio senso di giustizia, facendomi diventare nel bene o nel male quella che sono fieramente d’essere oggi.
Dunque, dopo questo lungo giro di parole, dopo 5 mesi di stop, un numero non bene identificato di tavoli regionali, la Regione Puglia - per farsi bella sulla vetrina delle imminenti elezioni - ha deliberatamente scelto di abbassare nuovamente il contributo “ASSEGNO DI CURA”, aprirlo ad una platea più estesa, chiamandolo però “CONTRIBUTO STRAORDINARIO COVID-19”.
Mo’ io non è che voglio sempre fare la difficile, puntigliosa, rompiscatoline, ma se una cosa è “straordinaria” vuol dire che si aggiunge all’ordinario, non che l’ordinario se ne va in ferie e restano le briciole, no?
No, ovviamente che no, perché se no poi come poteva farsi bella la giunta regionale, come poteva sfruttare questo periodo di crisi a proprio vantaggio? Vabbè, per questa grandissima cavolata si troverà un sit-in di protesta di tanti bei carrozzati e barellati prossimamente su questi schermi.
Tornando ai fatti, mercoledì alle ore 14 è stato aperto il portale online dove presentare la domanda (sì, anche i già beneficiari devono ripresentarla) e dovendo aiutare alcune persone che di tecnologia ne capiscono poco e niente, con un amico ci siamo divise le domande. A farla breve il sito ha crashato di brutto, ha presentato non ho la più pallida idea di quanti bug, talmente tanti da farmi perdere la pazienza e farmi impazzire per due pomeriggi di seguito.
Oggi pare che abbiano risolto - grazie al ca...cavoletto dopo che solo in due, abbiamo mandato oltre 30 richieste di assistenza e 15 pec di sollecito - eppure nessuno ancora ha ricevuto una benedettissima email sulla casella di posta elettronica certificata che confermasse l’invio della domanda, e quindi anche oggi mi toccherà mandare altre richieste di assistenza per risolvere quest’ultimo problema, si spera.
Dicono che a far del bene ci si guadagni sempre, ma temo seriamente si riferiscano a gastriti e capelli bianchi, perché io solo questo sto incassando ultimamente.
#me#vita#pensieri#diversamente ironica#ironia di un’inguaribile sciancata#disabilità#mi giran male le ruote
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Angels in the Dark
Le 3:00 di notte, la gente dorme, protagonista dei suoi sogni e dei propri incubi. Forse è così che mi piace pensarli. Inerti, con gli occhi chiusi, il respiro leggero e regolare, il viso d’angelo senza svegliare il loro lato assassino. Mi piace l’idea di non sentire le loro parole, i loro giudizi, tanto ascolterei solo bugie.
Ho un misto di rabbia, tristezza, e delusione per le persone, che ormai mi fanno solamente schifo.
In questo momento vorrei facesse davvero freddo, avere solo una felpa addosso e potermi risentire viva tramite i brividi e i tagli di gelo che lascia il vento sul mio corpo e sulle mie guance rosee; vorrei star seduta a gambe incrociate sugli scogli ed essere circondata dal nulla se non dal mare davanti a me. Vorrei aver lo sguardo fisso lontano, perso verso l’orizzonte, vorrei che il cielo fosse grigio, e di riflesso, anche l’acqua del mare. Grigio. Non c’è colore più adatto di come mi senta ora. Un’anima bianca di purezza, ingrigita dalle ceneri dell’inferno in cui si trova e vive.
E invece sono qua, immersa nel buio della mia stanza, con le gambe attorcigliate alle coperte, che con la luce della luna proveniente dalla finestra sopra il mio letto, sembrano di un colore bianco sporco e antico.
Ho appena avuto un incubo, e nonostante sia già metà dicembre, sono tutta sudata, coi capelli annodati e spettinati dai troppo giri e rigiri durante quelle ore. Un incubo: non c’è differenza tra il giorno e la notte.
È da un po’ che sono sveglia, ma non voglio sapere quanto tempo sono stata sdraiata sul letto a pensare a cose senza senso, guardando un punto non preciso del cielo attraverso i vetri della finestra; non mi interessa sapere che ore si son fatte, né pensare che domani avrei dovuto svegliarmi presto per andare a prendere quel treno vecchio e malconcio verso quella prigione di scuola. Dicono che qui ti insegnano a vivere. Io ho imparato solo a come morire.
Vorrei fermare il tempo, rimanere lì per sempre in quella buia e notturna tranquillità, eppure non vedo l’ora che questa notte passi, che tutto passi.
Ed il mio istinto è ancora quello di andarmene da un mondo in cui io non mi sento più parte.
Mi alzo dal letto e nonostante abbia solo una maglia bianca e leggera che uso per dormire, apro la maniglia di quella finestra che da sul tetto, e sento già il freddo invadermi il sangue.
Non importa.
Mi arrampico, e come ogni notte trascorsa nella mia solitudine, mi ritrovo ad osservare la vita notturna da lì sopra.
Le luci della città sono spente, così come la speranza, fiamma di una candela che resiste al gelo e alla neve, ma che si spegne per una piccola lacrima, un piccolo dettaglio che nessuno noterebbe.
Nessuno sveglio, a parte qualche rara persona innamorata, come me, delle stelle. Nessuno sveglio, se non quel groviglio di milioni di nodi, pensieri incasinati e taglienti come lame gelate. Brividi di freddo, ogni volta che uno di loro sfugge al mio controllo nella notte scura, che mi indebolisce e riemerge ogni mia paura.
Rimango sola, ancora una volta, ad osservare la notte, la parte morente del giorno, cullata dal vento che scompiglia i miei capelli, e che cerca invano di spegnere i pensieri, di far morire la mia dannata mente. Magari per un po’. Magari per sempre.
Mi sdraio sulle mattonelle rosse del tetto, per vedere le stelle. È una cosa che faccio fin da bambina, mi ha sempre rilassato, mi calmava quando piangevo, come se essere circondata da quella moltitudine di stelle mi facesse sentire meno sola. Ma quando i miei occhi si posano sul cielo, l’unica cosa che vedo è un colore cupo, velato, senza la presenza di quei piccoli fari di speranza. Si sta facendo brutto tempo, un po’ come dentro me. Passata la notte, la pioggia e il vento lasceranno spazio al sole. Ma la tempesta delle mie lacrime finirà mai?
Seguo la linea chiara e infinita che formano le nuvole col riflesso della luna, e la mia mente ne fa uno svago personale, finché non vengo strappata dalla mia quiete da delle risate, parole urlate troppo forti che stonano col dolce silenzio della notte, e poi il suono di una bottiglia di vetro che cade, che si spacca in mille pezzi. Ma qua non è l’unica cosa andata in frantumi.
C’è un ragazzo, alla fine della via. Corre, e trascina con sé una ragazza che lo segue senza smettere di ridere. Nella mano libera regge una bottiglia, di birra credo. Immagino gli occhi di lei brillare come stelle in mezzo al buio della notte. Li conosco quei pensieri, ragazza, il desiderio di essere felice, la speranza di essere amata per sempre.
Ma i desideri sono sogni che vorresti ma non puoi avere. E la speranza non è una certezza, è solamente un'illusione che pian piano si affievolisce e muore. E poi muori anche un po’ tu.
A volte mi domando perché tutto dipenda da degli stupidi pensieri, da immagini che vediamo , o parole che sentiamo. Condizioniamo il nostro umore, la nostra salute, e perfino la nostra vita, in un modo troppo semplice: gli altri causano avvenimenti che facilmente ricadono tutti su di te. Loro dettano la tua vita, e tu, come un protagonista di un libro, sei destinato ad obbedire ai loro voleri e a morire alla fine di quelle pagine. Perché chi ti vuole buttare giù inciderà parole indelebili che ti faranno affondare in acque buie e profonde, anche nel più secco dei deserti: non hai potere, loro dettano parole, e le parole dettano legge.
Sento un bruciore improvviso alle braccia: sta iniziando a piovere, come se avessi contagiato il cielo con la mia tristezza, e volesse riempire il vuoto che ho nel petto con le sue lacrime. I tagli si gonfiano e fanno male, ma sfortunatamente non troppo da poter deviare il pensiero da ciò che ho dentro. Ti avevo promesso di non farlo mai più. Perdonami.
Guardo la mia pelle, prima bianca come il latte, ora marchiata da lividi e da permanenti cicatrici, segnata per sempre da ricordi che bruciano di urla, e odorano di una vita passata a morire.
Le persone mi definiscono forte, nonostante mi diano della debole. È un controsenso, lo so, nemmeno io l'ho mai capito. Credo che ti diano aggettivi asseconda della situazione, di come viene comodo a loro.
Ma su una cosa sono tutti d'accordo: trasmetto forza alle persone, le metto un senso di tranquillità e di pace da poter affrontare ogni momento buio, assieme a me. Già, questo non lo nega nessuno, sono tutti bravi a prendere ciò che dai, senza che ti ritorni qualcosa in cambio. Amici. Questa parola contiene al suo interno la parola amore. Ma a quanto pare è uno sbaglio, non credo che amare voglia dire approfittare dell'altro per poi lasciarlo pieno di false speranze, ricordi che fanno male e cicatrici che non potrà più risanare. Amici. Questi non dovrebbero lasciarti in disparte perché han trovato qualcuno migliore di te. Amicizia non è usare e andarsene dopo averti consumato.
Eppure è ciò che lei ha fatto, ciò che fanno tutti. Avete presente quando ad un certo punto della vostra vita, vi sentite finalmente capiti da qualcuno, quando trovate qualcuno che vi fa ridere, con la quale ridere? Certo che lo avete presente. Almeno una volta nella vita ci siamo sentiti tutti amici di qualcuno. E io mi sentivo amica sua. O meglio, ho sempre pensato che lei fosse mia amica. Ma il tempo vola, le persone cambiano, i sentimenti passano. Ma chissà perché, tra due persone, tutto questo succede solo ad una, mai ad entrambi. E l’altra rimane lì, a chiedersi perché, a guardare le persone allontanarsi, a sentire crollare il tutto. Cosa fanno gli amici? Sbaglio o si aiutano? Si confortano? È davvero questo il loro compito, o è solo una stupida recita che si scrive nei libri? Le raccontavo tutto, la rendevo parte della mia vita, e lei faceva lo stesso con me. Ero felice quando lo faceva. Credevo fosse normale, ma purtroppo credo a troppe cose. Sarò strana, ma sono felice quando le persone si aprono con me: la vedo come un segno di fiducia, o semplicemente, di amicizia. Ma a quanto pare in molti lo percepiscono come un peso, ciò che vogliono è recitare la loro parte e fare finta di tenerci. In effetti è anche colpa nostra. Abbiamo sminuito troppo il termine “amico”, ormai chiamiamo così anche chi conosciamo da poco, non diamo differenza tra chi lo è davvero un amico, e chi non. Forse perché non ce ne rendiamo conto. Troppo felici a pensare di avere qualcuno al nostro fianco. E poi arriva quel momento in cui ci rendiamo conto che siamo sempre stati soli. Amicizia è sostenersi a vicenda, esserci. E allora perché lei mi ha rinfacciato di ogni cosa che le raccontavo? Ho sempre messo lei prima di tutto, nel nostro rapporto, perché per me era importante. Ogni cosa che le raccontavo la alleggerivo, perché odio far pesare i miei problemi alle persone, eppure lei era stanca di questo, stanca di me, e mentre lo diceva, non ha più pensato ai momenti in cui l’ho fatta ridere.
Non ci provo più a definire qualcuno come ‘migliore amica’. Le persone sono tutte uguali, nessuno è migliore. O almeno, non con me.
Da quel giorno non mi sono mai più aperta con nessuno. E forse questo mi sta uccidendo: ogni cosa che mi tengo dentro è una lama di un coltello, un’arma, che graffia, squarcia, uccide piano piano, ogni parte di me. Ma almeno sono io a farlo. Non voglio più dare questo potere agli altri. O forse è esattamente ciò che sto facendo?
Tutti così fanno, ogni volta che rientro a casa, felice di aver incontrato qualcuno, mi aspetto sempre il giorno in cui lasceranno un vuoto dentro di me, che felice quasi non lo sono neanche più.
E mentre a me la pelle brucia, I due ragazzi prendono la pioggia elemento di gioco, finché sotto la luce dell'unico lampione sulla strada, lui la bacia, facendo ritornare il silenzio, nonostante il rumore della pioggia che cade, nonostante i pensieri che urlano.
Chissà che sapore hanno i baci, quelli veri, quelli dove è il cuore che parla, e non uno stupido meccanismo a cui non si è mai dato il giusto valore. Chissà come è baciare senza sperare disperatamente di valere qualcosa, aggrapparsi alle labbra di qualcuno come se ti stessi aggrappano al suo cuore. Chissà come è baciare senza pensare a nulla di tutto questo. E chissà come è essere sicuri che le braccia che ti stringono ora non ti lasceranno mai, avere la mente libera dal pensiero di perdere quella persona.
E io ne ho baciate di labbra, da cui pendeva solo veleno, ne ho strette di mani, le stesse che tenevano il coltello dalla parte del manico e la lama puntata al mio cuore.
Quanto posso essere ingenua, dare troppo con la sola speranza di essere un giorno ricambiata. E poi passano i giorni, ma di quel giorno nemmeno l’ombra. Ne arriva un altro, invece, quello in cui con le lacrime agli occhi, ti fa schifo la tua immagine riflessa, perché la dignità la hai, è che hai solo troppo cuore, e ti accorgi troppo tardi che tutto quanto ti ha tolto più di quanto avevi prima.
Non è colpa mia. Però glielo urlo sempre, alla ragazza riflessa allo specchio. A quella dagli occhi rossi per il pianto, le labbra insanguinate, le costole troppo evidenti, e la pelle segnata.
Il freddo inizia a farsi sentire più di prima, d’istinto mi riscaldo le braccia con le mani, ma non ho voglia di tornare dentro, resto a giocare coi brividi che il vento da. Mi è sempre piaciuto, convincere il mio corpo di essere più forte del freddo. Convincere me stessa di essere più forte di tutto.
Le mie mani fredde mi stringono in un abbraccio, sotto la pioggia di dicembre. Mani. Con queste puoi ricevere l’affetto migliore di cui nessuno parla: puoi far sentire una persona meno sola, soltanto afferrando e stringendo la sua; puoi ricevere abbracci e morirci dentro e rinascere allo stesso tempo, scordando tutto quello che ti tormenta. Non serve che vado avanti, sono l’ultima persona che può spiegare modi per dare e ricevere affetto. Eppure, le carezze, le mani che sfiorano dolcemente la pelle, lo trovo un gesto tanto dolce… Il problema è che le mani di certe persone, per quanto bianche di purezza siano, sono impregnate del rosso del mio sangue.
Anni dopo, la fobia non passa. Non può passare, quando fin da bambina hai imparato da sola che servono per fare del male. Ricordo ogni maledetta volta, ogni bruciore e ogni ferita. Ricordo troppo bene, come se fosse ieri, eppure ero ancora troppo piccola.
Avevo la mania di tenere un diario, da bambina, e non perché mi intrigava la cosa di tenere i miei segreti da qualche parte, ma perché quello era il mio sfogo personale, e nessuno avrebbe mai letto e giudicato. E quelle parole venivano lasciate lì, mai più rilette, ma mai più dimenticate.
Cosa può scrivere una bambina di 7 anni? Magari delle prime amicizie, delle marachelle a scuola, cose così. Non lo so, io non scrivevo queste cose. Quelle pagine non sanno più di carta, ma solo di lacrime. Su quelle pagine riportavo il disprezzo degli altri nei miei confronti, riportavo ogni rissa, ogni livido.
Scoppio a piangere, in silenzio, ricordando le lacrime di quella bambina che si rifugiava dentro i libri, e nella scrittura. La sua infantile grafia, le sue parole da matura.
E il mio pianto si unisce alla pioggia, mentre ripercorro ciò che mi ha ferito, ogni loro frase, attaccata al muro, le mani a proteggermi gli occhi, ma con nessuno a proteggere me. Nemmeno io lo facevo.
Cosa ho fatto per meritare questo già da bambina? I bambini dovrebbero crescere spensierati, avere ancora la testa fra le nuvole.
Io invece mi consideravo una nullità già a 7 anni. D’altronde, cresci con le idee che ti mettono in testa, con i discorsi e le parole che ascolti di più. E io sentivo solo quelle.
E le sento ancora ora, ogni giorno, mi ripeto che voglio essere perfetta per me, ma in testa ho ancora la perfezione che han dettato gli altri.
Non riesco a toccare cibo senza pensare i giudizi che hanno sempre avuto sul mio corpo. Prima troppo grassa, poi troppo magra.
Basta. Non voglio pensare a questo.
Voglio cancellare tutto dalla mia mente, spegnerla, azzerarla, ma non ci riesco.
Tutto ciò che riesco a fare ora, è piangere.
Eppure di piangere l’ho fatto troppe volte, ma ora non c’è più nessuno dalla mia parte. Mi avevi ripetuto, giurato, promesso, che non eri una copia degli altri, e sei perfino riuscito a farmelo credere. Eri così perfetto per essere vero, ma sei solo bravo a giocati la tua parte come giochi con le corde della tua chitarra. Ero convinta che ti interessasse davvero di me, e sono stata stupida a crederci, a chi interessa di me? A nessuno. E dovevo saperlo, non dovevo crederti, ma sei stato troppo furbo, e io ancora ingenua. Mi attiravi con l’affetto. Certo, le persone si attirano dando ciò di cui hanno bisogno. E tu l’avevi capito, che era questo il mio punto debole. Mi raccontavi un sacco di bugie, bugie che mi han fatto innamorare, finché le consideravo verità. E invece ho dovuto scoprire da sola tutto quanto, e da sola affrontarlo. Hai aperto al mio cuore ad un’altra tragedia: l’attore perfetto in una falsa commedia.
Voglio che tu trova l'amore, voglio sentirti parlarne coi tuoi amici come se fosse l'unica cosa che ai tuoi occhi sia perfezione. Voglio vedere i tuoi occhi brillare di speranza, il tuo cuore in fiamme per la ragazza con cui mi hai sostituito. Talmente in fiamme da bruciare. Voglio che lei lo alimenti quel fuoco, che ti faccia provare le fiamme dell'inferno, per poi lasciarti nella cenere. Ti auguro di provare ciò che sto provando io a causa tua, voglio vederti piangere, illuso dalle false speranze che lei ti ha dato. Voglio che ti salga la nausea a pensare ad ogni cosa che ti colleghi a lei, ad ogni cosa che hai detto, ad ogni bugia che hai creduto. Voglio che tu sappia quanto questo faccia schifo, voglio che tu prova quanto tu mi hai fatto male. Ti odio, con tutto il cuore, più di quanto ti abbia amato.
Le persone sono tutte uguali, o forse sono io troppo diversa. Mi sento sbagliata, in ogni posto: il cuore di qualcuno non avrà mai posto per me, la scuola non sarà mai il luogo dove avrò amici, e casa mia non potrò mai definirla casa. Cosa ci faccio ancora qua?
Le lacrime mi offuscano gli occhi, ma non offuscano i miei pensieri. La mia mente mi passa davanti immagini di falsi momenti in cui ero felice, come a ricordarmi cosa non ho, cosa mi è sempre stato strappato via troppo in fretta. Tutti gli amici andati, i tradimenti da parte di chi più amavo, la mia famiglia che mi ripete ogni giorno quanto io sia un fallimento, per loro è per tutti; e poi le botte a scuola, quella sera di cui non ho ancora il coraggio di spiegare davvero cosa sia successo.
Non mi è rimasto nulla. Nulla è nessuno.
Cosa ho di sbagliato? Cosa non ho che le altre hanno? Perché sono l’unica che non viene mai apprezzata, mai capita? Sono sempre la ruota di scorta, quella che viene usata. Uno strumento per far felice qualcuno. Uno strumento usato, consumato, e poi lasciato lì, quando non se ne ha più bisogno. Una bambola dei giochi di qualcuno, coi capelli un po’ spettinati, il vestito un po’ consumato, buttata in un angolo della stanza assieme a giochi vecchi, ormai passata di moda e dimenticata per sempre.
Se prima le lacrime scendevano in silenzio, ora i miei occhi si trasformano in fiumi di disperazione, e crollo, in un pianto troppo forte, troppo disperato. Perché quelle immagini fanno male, quei pensieri ammazzano.
Con le mani mi copro gli occhi, come se mi nascondessi dalle stelle, e mi sdraio del tutto sulle tegole rosse e fredde del tetto: la pioggia che mi bagna tutta la maglietta, che si mescola alle mie lacrime.
Il cuore batte forte, troppo forte, che quasi rischia di scoppiare e rompersi in mille pezzi. Non che non sia già in questo stato.
Non riesco a respirare. L’aria non mi arriva, inizio a vedere tutto più sfocato, eppure quelle immagini le ho sempre impresse nella mente. Il rumore della pioggia si fa più lontano, ma il mio pianto, le mie urla passate, quelle maledette voci, non si fermano. Non riesco a respirare.
Devo smettere di piangere o finisce male.
Mi tiro su, devo rientrare, devo prendere le medicine. Devo addormentarmi, non pensare a nulla.
Ansimo e piango allo stesso tempo, la testa mi gira, e per un momento non mi sento più dentro al corpo.
Le gambe mi cedono, ma io non me ne accorgo.
***
Sento un dolore fortissimo alla testa, ma anche alla schiena, alle gambe. A tutto il corpo, nulla escluso.
Sento la pioggia in lontananza, ma la sento lo stesso picchettare sul mio corpo, immobile e quasi inerte su un letto grigio e tagliente. I miei occhi bruciano, come la mia pelle.
Chiudo gli occhi, per poi aprirli lentamente. Non riesco a muovermi, ma riesco comunque a vedere quelle tegole rosse su cui poco fa piangevo.
Il respiro si fa sempre più pesante, mentre il cuore si fa sempre più lento. Sono stanca, stanca di lottare, stanca di sentirmi in questo modo.
Stanca di non essere mai stata apprezzata.
Ora sono felice, sono calma, come non mi sono mai sentita prima.
Ma questo raro sentimento si cancella, lascia spazio all’immagine di una bambina. Una bambina tanto forte che ha cercato di sopravvivere in mezzo a tanta amarezza. Quella bambina ha lottato per dare un futuro a me, e io ora glielo sto togliendo.
Non volevo arrivare fino a questo punto, non era mia intenzione, lo giuro. Potessi, tornerei indietro, non aprirei mai la maniglia di quella finestra.
Sono stata debole, ma io non volevo.
È stato un incidente.
Gli occhi mi si chiudono, ma voglio ricordarmi un’ultima cosa, di questo mondo.
Alzo gli occhi e vedo tanti puntini sfocati e lontani, che mi guardano, che mi accolgono: le stelle.
L’ultimo pensiero sono mamma e papà. Chissà cosa diranno. Io non volevo, lo giuro.
E poi a me stessa. Io non volevo.
Scusa.
***
Le sirene non smettono di suonare, la pioggia non smette di cadere. Anche una ragazza ha ancora le lacrime agli occhi. Solo che le sue non cadranno mai più sul suo volto e la sua anima non finirà mai di piangere.
La notte è buia, gelida. Qualche persona infreddolita, in pigiama e l’aria assonnata, si è riunirà attorno alla strada, intenta a capire cosa abbia interrotto il loro sonno. Un pianto disperato, delle urla, e poi un corpo coperto da un telo nero. E nell’aria gelida si sente l’odore aspro e metallico del sangue, della morte. Un velo di malinconia in questo scenario triste: il cielo piange la morte di un angelo.
È un suicidio. Gira la voce, chissà perché l’ha fatto. Il silenzio sparisce, e si riempie di chiacchiere inutili, come se loro sapessero e avessero il permesso di giudicare. Ma qualcuno, in quella via, non le sente quelle voci, non ne sentirà più pettegolezzi su di sé.
L’ambulanza parte, porta via quel corpo inerte dall’abbraccio disperato della madre, che ancora non capisce e lo rivuole con sé. Chiunque tenta di calmarla, di consolarla, poliziotti, vicini, ma lei in preda al panico non ascolta, come se non li vedesse. In fondo, è così, quando hai la paura negli occhi. Quando la morte ha strappato per sempre la vita di tua figlia.
Quel banco, a scuola, è vuoto, eppure la campanella è già suonata. Nessuno ci fa molto caso, in fondo non era occupato da qualcuno di speciale, qualcuno di cui si sente la mancanza. Ma Noemi si domanda il perché. Hanno litigato, qualche mese fa: l’aveva trattata male senza sapere nemmeno il perché, ma da quel giorno non è più stato lo stesso, sebbene abbiano provato entrambi a riavvicinarsi. Inizia a scrivere di nascosto un messaggio di rimprovero alla compagna, uno di quegli scherzi tra amiche. Ma quel messaggio non lo mandò mai più, intanto non c’era più nessuno a riceverli. In quella classe così disordinata e rumorosa, cala il silenzio, quando due professori dall’espressione triste, e il preside, entrano in quella stanza. E annunciano la sua morte. A Noemi cade il cellulare dalla mano, il vetro si frantuma in mille pezzi, e il suo cuore perde un battito. E la sua vita perde valore.
Tutti si accorgono forse per la prima volta di quel banco che troppe volte è stato in cattiva luce, e trattengono il respiro, ma lei non riesce a trattenere le lacrime.
Si alza e corre fuori, in corridoio, e non sente le voci di richiamo del preside e dei professori. Corre giù verso l’uscita, piangendo, incolpando se stessa per la morte dell’amica. Urla, e affonda le unghie nella carne delle sue braccia, lasciando piccoli taglietti, i primi di una miriade di insanabile cicatrici, e poi colpisce il muro con la mano, presa dalla rabbia, e le sue nocche si tingono di rosso. La mano le si gonfia, forse qualcosa di rotto, ma non fa male, nulla potrà più fare male, superare il dolore che sta provando ora. Si accascia a terra rimanendo appoggiata al muro, e si copre la testa nascondendola tra le ginocchia. Le sue dita intrecciare tra i capelli curati, ora ben pettinati, e senza accorgersene si tira qualche ciocca, come se il suo corpo stesse disperatamente cercando invano un dolore più grande. Il mascara che rifiniva le sue lunghe ciglia chiare, ora le riga il viso come le lacrime, e la pelle è ormai tagliata dalla troppa forza che mette con le unghie, come se servisse davvero a qualcosa, ormai. Qualcuno la solleva di forza, sussurrandogli un qualcosa che nemmeno ascolta, e la porta via, tra le urla incomprensibili, e la resistenza per restare sola; gli occhi colmi di dolore, di paura. La portano in infermeria, la fanno sdraiare sul lettino e provano a calmarla, ma smette di resistere, stanca di lottare per qualcosa che ha già perso. Ma le sue lacrime non smettono di essere in lutto. Tocca disperatamente la collana col ciondolo a forma di puzzle che le aveva regalato tre anni fa, come per sentire ancora il suo tocco, l’iniziale dei loro nomi che aveva scritto lei. Ma lei non c’è, non la rivedrà più.
A lavoro, il padre, non riesce a distogliere lo sguardo dal giornale che riporta il nome e la foto di sua figlia. E poi guarda il vuoto, con gli occhi che minacciano di piangere, pensando a tutte le volte che l’aveva portata in ufficio con lui, e l’aveva sgridata perché faceva troppo rumore parlando a voce troppo alta, quando da bambina si portava le bambole con cui giocare. Pian piano quella voce si è fatta sempre più rara, sempre più triste, e i silenziosi libri avevano sostituto quelle bambole. Ora avrebbe dato la sua di vita, solo per sentire la voce della sua bambina che non era riuscito a salvare. Avrebbe voluto ne parlasse con lui, di ogni problema, e si morde le mani per tutte le volte che le ha detto di avere di meglio da fare. I colleghi chiedono se ha bisogno d’aiuto, ma lui ha bisogno solo di sua figlia, viva. Gli occhi non trattengono le lacrime, e piange. E lui non piange mai.
È passato un anno, ma quella notte in quella casa non passa mai. La madre ha smesso di curarsi: i suoi capelli sono sempre spettinati, e di vestiti non ne ha più comprati di nuovi, come se non le importasse. Le guance sono sempre più affossate: ha smesso di farsi da mangiare perché ogni volta, a forza dell’abitudine, preparava e apparecchiava anche per la figlia, finendo in lacrime ogni volta, guardando quella sedia vuota, quel piatto sempre pieno. Passa il giorno nella camera della sua bambina, prende in mano tutti gli oggetti per sentirla più vicina, ma nel suo intento non riesce. Piange e non si è ancora riuscita a perdonare, come se fosse l’unica ad averne colpa. La notte non dorme, la passa nel letto singolo di quella stanza, guardando le stelle come faceva la figlia, nella speranza di vederla salire da quella finestra, nella speranza di afferrarle la mano e strapparla dalla morte.
Il padre ha perso il lavoro, non riusciva a concentrarsi più sui suoi doveri, e nessuno capiva più il suo dolore. Tutti danno sempre il peso sbagliato delle cose, pensano che nulla può segnarti per sempre. Passa le giornate a vedere quelle bambole ordinate e ben pettinate, ricordando le manine della bambina che le stringevano. Quanto darebbe per stringere ancora quelle mani, per sorridere di nuovo, e invece ha sempre dato tutto per scontato, finché non lo ha perso per sempre. Poi sfoglia i suoi libri di cui tanto era affezionata, e scoppia a piangere ogni volta che prende in mano quel libro ancora da finire, appoggiato ancora sul comodino, con in mezzo un segnalibro. Interrotto come la vita della figlia. Crede che ci sia ancora il suo odore intrappolato in quelle pagine.
Entrambi non hanno più nessuno per cui vivere, e sentono di aver fallito nel loro compito più grande: hanno lasciato che la loro figlia si distruggesse proprio davanti ai loro occhi, senza nemmeno accorgersene.
A scuola quel banco è ancora vuoto, e così sarà per sempre. Adesso è ricoperto di fiori e bigliettini che mostrano così tanto amore ad una ragazza morta a cui si era mostrato solo tanto odio. Quei biglietti inutili sono solo la prova della loro falsità, durante la sua vita, e durante la sua morte: scrivono “ci manchi” con affianco il cuore, ma sanno benissimo di avere distrutto il suo. Eppure le danno dell’eccentrica per il suo gesto, eppure loro non sanno, ora è sempre al centro dei discorsi di tutti, eppure lei voleva solo sparire.
Noemi è ancora lì, la compagna di quel banco vuoto, hanno cercato di spostarla, ma lei in lacrime aveva gridato che sarebbe sempre stata lì, ad aspettarla. Ed ogni lezione non la segue, s’incanta a leggere e rileggere ciò che lei aveva scritto sul suo banco, ricordando quei momenti, pensandola ancora viva. Ora non c’è più traccia dei suoi capelli biondi, li ha tinti neri come quelli dell’amica, e come erano quelli di lei, sono sempre in disordine e sciolti, per non dover mostrare troppo il volto. Gli occhi sono ricolmi d’odio, ma nel petto ha un vuoto da tanto tempo. Ora si guarda allo specchio e capisce cosa provava l'amica, a guardare e ad odiare quel corpo troppo magro. Non mangia, ed è finita molte volte in ospedale per anoressia, e non c’era nessuno accanto a lei. La collana si è ormai consumata, a furia di sfregarla ogni secondo, prendendone forza, come se davvero ce ne fosse: le ricorda quando si davano la mano, la fossetta che aveva le volte in cui sorrideva. Quanto darebbe per vederglielo ancora, quel sorriso che giorno dopo giorno si era sempre più spento, e lei non aveva fatto nulla, se non contribuire a farla crollare…
Non è riuscita a salvarla, a dimostrarle quanto bene le voleva. E ora ogni notte siede nel tetto di casa sua, e piange, ma non ha ancora trovato la forza per andare da lei, forse perché spera ancora che sia lei a tornare, ad abbracciarla. Dio, non sapete quanto le manchi un abbraccio, un suo abbraccio: la sua pelle calda, ora è diventata fredda, un po’ come la sua anima d’altronde, fredda e nera. Sul braccio destro, il nome dell’amica scritto col suo sangue, con tagli di un coltello che nasconde sotto al letto. Le nocche ormai deboli e consumate a causa di ogni scatto d’ira.
Non ha più amici, lei era l’unica, e non glielo ha mai detto. Ma cosa che più le spezza il cuore, è che mai più lo saprà. Però continua a scriverle, ogni giorno, le racconta la sua vita, o quel che ne rimane, perché viva non si sente più nemmeno lei. E finisce ogni frase chiedendole di tornare, come se fosse una sua scelta, perché niente è più come prima, senza di lei.
Ormai non ha più nessuno con cui condividere, e sente di aver fallito nell’amicizia. Avrebbe dovuto capirla, invece l’aveva lasciata distruggere.
È passato un anno e mezzo, e il padre era distrutto. È appena tornato dal funerale di sua moglie, della madre della figlia che non ha saputo proteggere. Si è lasciata morire, non mangiava, e nemmeno le preghiere disperate del marito bastavano. Voleva andare da lei, e c’è riuscita. Si riabbracceranno, ora la ragazza saprà quanto le voleva bene, e quanto non le aveva mai dimostrato.
Ora la sua tomba è vicino a quella della figlia, sotto un albero di salice piangente.
Ora quell’uomo si è chiuso in casa, in quella casa che sa di disperazione, di morte, di sangue. E non riesce a guardare più nulla senza scoppiare a piangere, senza urlare da dolore. Non esce di casa da giorni, e nessuno ne ha più notizia. Ma forse a nessuno importa davvero, di quella famiglia distrutta. Di quel che resta di quella famiglia.
I fiori su quel banco sono diventati secchi, ormai è acqua passata, ma Noemi non smette di portarci ancora qualche nontiscordardimé, e ripete ogni volta che si rivedranno presto. Ora non ha nemmeno più la forza di piangere, il suo corpo è pieno di cicatrici insanabili e lividi. La pelle che prima tanto curava è diventata una tela dipinta del suo dolore.
Va spesso in quella casa, nella stanza di lei, a vedere i suoi libri, toccare l’inchiostro dei quaderni che scriveva. Ha trovato una lettera nel cassetto del comodino dell’amica, qualche giorno fa. Era indirizzata a lei, ma sembrava lasciata in sospeso, come se non l’avesse mai voluta inviare. L’aveva rallegrata leggere qualcosa di suo, leggere parole nuove, ma piangere le aveva mozzato il respiro e procurato un attacco di panico. O di dolore.
“Cara Noemi,
scrivo a te perché la maggior parte delle volte sei stata tu a capirmi.
Spero che capirai anche questa mia decisione. Da quello che vedo, da quello che mi hanno sempre dimostrato, ho capito che nessuno ha bisogno di me, e io non ho più voglia di sentirmi inutile. Sento che con me intorno porto solo guai, solo negatività.
Tu non meriti qualcuno da tirare su, rischio solo di trascinarti con me a fondo, e questo credimi che non lo vorrei mai. Tu meriti di essere spensierata tutto il giorno, senza doverti preoccupare di me. Meriti di essere circondata da tantissime amiche, senza dover pensare a stare solo con me e i miei complessi di inferiorità. Meriti di ridere, di non pensare a ciò che di male esiste.
Scusa Noemi, ma non riesco più a guardarti mentre mi difendi ogni volta a scuola, non sopporto più il fatto che tu riceva qualche schiaffo che doveva essere indirizzato a me. Ti sei messa in mezzo troppe volte, tra me e il male, e te ne sono grata, ma non posso più vedere farti del male per colpa mia. Per colpa mia, Noemi, perché io porto solo guai, complico la vita delle persone, rovino sempre tutto.
I miei genitori mi dicono sempre come dovrei essere, marcando e rimarcando ogni mio difetto. Sono solo un peso per loro, a quanto dicono. Mi sento inadatta anche a casa mia, faccio di tutto per cercare di renderli felici, ma non basta mai nulla.
Scusa Noemi, ma mamma dice sempre che non faccio nulla di giusto che possa farla contenta, e maledice troppe volte il giorno in cui ha avuto me, e troppe volte mi si spezza il cuore a sentirle dire quella frase. Papà si arrabbia sempre con me, per qualunque cosa, l’ha sempre fatto, ha sempre dato precedenza al lavoro, e ripenso sempre a quella volta che ha detto che preferisce mille volte più stare fuori in compagnia di altre persone, che a casa con la sua famiglia.
Rovino tutto Noemi, non c’è persona che mi è vicina che sia fiera di me, che mi dica che vado bene in qualcosa.
Che mi abbia dato un motivo per restare.
Me l’hanno sempre fatto capire, fin da piccola, che questo mondo non era il posto adatto a me. Ne ho passate tante che nessuno sa, perché non ho mai voluto essere un peso, eppure è ciò che mi dicono tutti. Troppe voci da ascoltare, troppe da sopportare: la testa mi scoppia e la mia mente mi ripete ogni cattiveria che mi è stata detta. Perfino in camera mia, da sola, quelle parole risuonano, e ci sto credendo Noemi, a tutto quello che dicono che tu del tutto non sai. Ci sto credendo, e non mi distruggono solo loro, io li sto aiutando a distruggere me stessa.
Troppe volte messa all’angolo del muro, troppi lividi che non sono mai riuscita a spiegare, mai riuscita a dire la verità. Ma infondo nessuno se ne preoccupava. Troppe volte a sentirmi sbagliata, Noemi, e gli sbagli si cancellano, prima che danneggiano tutto quanto.
Scusa Noemi, ma non riesco più a guardarmi allo specchio senza odiare il mio corpo, senza odiare me stessa. Senza voler rompere quel riflesso, e la persona che vedo riflessa. Tu non lo sai, nessuno lo ha mai saputo, il perché di tutto quanto. Nessuno ha mai sentito tutte le volte che giudicavano il mio fisico, tutte le volte che mi guardavano con disgusto. E credimi, dopo una vita passata ad assimilare ogni loro parola, arriverà a tormentati, e ogni volta che avrai qualcosa dentro al piatto ripenserai a tutto quanto. Nessuno sa, e nemmeno tu Noemi, del perché ho paura di farmi sfiorare, il sussultare ad ogni tocco. Nessuno sa il perché. Non ho mai raccontato di tutte le lotte a scuola, dove io non riuscivo a difendermi. Non ho mai raccontato di quella volta, di quella sera, e non riesco più a guardare il mio corpo senza pensare a quello che mi ha fatto, senza pensare a quelle mani sconosciute che hanno causato traumi indelebili. E quella cicatrice, sai, l’impatto col muro è stato un po’ troppo forte, e ora mi porto dietro per sempre la cicatrice di quello che è accaduto quella sera.
Spero non capirai mai, come è vivere odiandosi, trovarsi difetti ovunque. Spero che tu, Noemi, possa ricevere milioni di abbracci, possa pensare e fare l’amore senza che ti venga la nausea solo al pensiero di poter essere sfiorata.
Scusa, ma avevo voglia di scriverti come sto, come mi sento. Volevo esprimere ciò che a nessuno dicevo. Un piccolo sfogo personale condiviso con te, senza risolvere nulla. Volevo soltanto descrivere a parole il vuoto che ho dentro. Un vuoto che incasina tutto quanto. Forse è per questo che non sono mai riuscita a scriverne, a parlarne, e ora non ho nemmeno reso l’idea. Il vuoto è il nulla: zero parole, zero pensieri, ma quando incasina dentro, niente va come dovrebbe andare.
Scusa se ti lascio sola, Noemi, ma sarai felice, te lo prometto.
Grazie per tutto quanto, sei stata l’unica amica che ho avuto.
Vorrei chiederti di non dimenticarmi, ma forse è meglio così, devi lasciarmi indietro, andare avanti, pensare a te stessa e alla tua vita.
Ti voglio bene, ti ho voluto molto bene, Noemi, non dimenticarlo questo.
Per sempre tua,
Isabelle.”
La data era di agosto, quattro mesi prima del suo suicidio reale: a quel tempo non ha mai avuto il coraggio di farlo. O forse non era quello che davvero voleva. Nel cuore di Noemi si accende una piccola speranza, spenta da due semplici pensieri. Lei stava male, e lei è comunque morta.
Ora Noemi la legge ogni notte, quella lettera, accarezzando la carta e ogni parole scritta dalla sua amica. Si chiede come ha fatto a non capirlo prima. Come ha fatto ad essere così cieca in cose così evidenti. Stava gridando aiuto, e lei era incapace di ascoltare.
Una notte sente i suoi genitori litigare, al piano di sotto, mentre con una mano stringeva quella lettera, e nell’altra il coltello preso poco prima da sotto al letto. Litigavano per lei, e non sopportava quelle urla, quelle parole, ormai ripetute troppo spesso già da troppo tempo.
E forse lei sbagliò, perché lei più di tutti sapeva cosa si provava a perdere qualcuno. A quanto le persone sbagliano a pensare di non valere nulla.
Ma quando le lacrime velano gli occhi, e le urla di disperazione abitano la mente, non si vede più giusto, e non si sente ragione.
Su un foglio a righe scrisse a caratteri grandi “Scusa”, con le lettere un po’ disordinate e una grafia tremolante, scritte col suo sangue. E poi, da ciò che colava da un altro taglio appena fatto, scrisse dietro al foglio il nome dell'amica morta, come se questo le facesse ritrovare, come se fosse una sorta di invito. Da un lato c’è un addio per chi lascia, dall’altro un messaggio per chi andrà a trovare.
Piegò il biglietto, lo baciò, anche se non sa esattamente il perché, e lo tenne stretto in mano. Aprì la finestra anche lei, quella notte. Piove. È dicembre. È tutto così dannatamente uguale. Prova e capisce cosa aveva provato la sua amica. Guardò per l’ultima volta la sua stanza, come per salutarla, e il cielo, e nonostante le lacrime, sorrise.
Ora, dopo due anni da quel primo dicembre, c’è un altro cadavere in strada, e un’altra madre che urla, un altro padre a pezzi.
Ho sempre pensato che gli angeli avessero le ali. A quanto pare le cose non stanno così. Dovremmo iniziare a dire ai bambini di rappresentarli con un’aureola di sangue attorno alla testa, le lacrime agli occhi, il corpo pieno di lividi e i tagli indelebili sui polsi e sul cuore.
Dobbiamo iniziare a pensare agli angeli come anime pure, bianche e solitarie. E disperate.
Isabelle pensava che col suo suicidio avrebbe messo fine per sempre al suo dolore. Ma inconsciamente l’ha trasmesso a tutte le persone che le volevano davvero bene, anche se non glielo hanno mai dimostrato. Pensava di fare un favore a tutti, togliendosi la vita, ma è stata la bomba che ha ferito e ucciso chi più aveva vicino.
Sarebbe bastato poco, per salvare quelle vite distrutte.
Qualche attenzione in più. Qualche messaggio in più. Qualche abbraccio dato più spesso. Qualche bugia in meno. Meno falsità in ciò che facevano.
Prima di agire pensa, prima di parlare pensa. Non puoi sapere come la prenderanno le altre persone.
Ogni tua parola è un coltello, ogni tuo gesto uccide.
E se amate, se vi mancate, ditelo. Perché sarebbe bastato anche un misero e sincero “ti voglio bene” per salvare tutte quelle vite."
- Lucia G. S. ( @guerrieradeimieisogni), "Angels in the Dark"
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Un’orca assassina in mezzo alle sardine
Ciao piccole zollette di zucchero,
Oggi voglio parlarvi di una cosa che mi affligge da ormai 23 anni...
Il pessimo rapporto che ho con lo specchio o almeno con ciò che riflette solitamente lo specchio: il mio corpo.
Premessa: avrei messo pure una fotografia di me davanti allo specchio, ho anche la foto perfetta per testimoniare la mia fisicità, ma sapete com'è, l’ho scattata, l’ho trovata stupenda e poi dopo pochi secondi ho iniziato a vederci difetti su difetti. Quindi nada, dovrete credermi sulla parola.
Sono sempre stata una bimba grande, fin dalla nascita, infatti sono nata per parto cesareo, se no probabilmente avrei aperto in due come una noce mia madre. (Ero 3.8 kg, per 52 cm).
I pannolini per i neonati non mi andavano, ho iniziato la mia vita indossando quelli per i bimbi di un mese. Ed era solo l’inizio del mio problema con le taglie.
La mia struttura ossea, il castello come dice mia zia Marina, è massiccio e ben messo. In realtà non sono mai stata grassa, solo massiccia. Ma per capire questo ci ho messo anni di odio per me stessa e per le superfici riflettenti. Ho sempre avuto problemi nella percezione del mio corpo, sono 1.65 ma io li percepisco come 1.80. Nella mia testa ho costantemente l’idea di un elefante in una cristalleria, ed effettivamente sono così. Sono estremamente goffa nel mio cervello, quando per gli altri cammino come in un mix di camminata militare e da pin up.
Ammettiamolo che la società e le persone che mi hanno circondato nella vita (oltre agli specchi) non mi hanno aiutato molto nell'accettarmi.
Prima di tutto la famiglia di mia madre, in particolare una mia zia, rinnega il fatto che io possa aver ereditato il mio fisico da altri geni che non sono i suoi.
Io ho un fisico a clessidra, quello che tutte e tutti vogliono al momento, e l’ho ereditato centrifugando i geni di una bisnonna materna che era un armadio (anche la mia faccia da stronza per essere precisi è la sua) e quelli della mia famiglia paterna dove siamo TUTTE con i fianchi larghi.
Sono 23 anni che sento mia zia giudicarmi per il mio bacino, dice che dovrei perdere peso e fare più sport. Ha indetto una campagna diffamatoria su di me.
Seriamente? Ho fatto 11 anni di nuoto agonistico, uniti a 10 anni di vela e di snowboard. Vado a fare trekking in montagna con enorme piacere e al momento mi alleno 5 volte a settimana in palestra con cardio e pesi. Fidati. Non è lo sport che mi manca.
Settimana scorsa per esempio mi ha detto che mi avrebbe aiutato a perdere il “sederone”, alla mia risposta del fatto che non avessi nulla contro la mia metà inferiore mi ha detto che tutti in famiglia hanno i fianchi larghi, che anche un’altra mia zia aveva i miei stessi fianchi, peccato che lei ha avuto 3 figli. IO NO.
Quando le ho fatto notare la cosa lei mi ha risposto che anche lei aveva partorito, ma comunque è bella snella.
Peccato che i miei cugini da parte di madre alla nascita arrivavano neanche a 2 kg. Il mio bacino è stato creato da Odino per sfornare vitelli jugoslavi, non docili pargoli rosso-crociati.
Ma veniamo al titolo del post, nei 11 anni di nuoto mi è successo spesso di essere fotografata con le mie compagne di squadra e di finire a confrontarsi.
C’è una fotografia che è stampata nel mio cervello, siamo tutte con un costume nero, belle in fila come soldatini.
Loro sembravano delle longilinee sardine nella loro scatolina, io un’orca assassina pronta a mangiarle. Ero 3 volte loro.
Dovuto al nuoto sono sempre stata sotto osservazione medica dal punto di vista del peso, e anche questo è un tema che mi spaventa affrontare.
Sono fuori stazza, ormai lo avete capito, ma sono così in ansia sul mio corpo che se scendo di una taglia non mi dico “Oh, avrò perso peso...”. No, il mio primo pensiero è il fatto che i pantaloni si siano allargati magicamente la notte (i topolini di Cenerentola sono sempre in agguato) oppure, addirittura, che H&M ha deciso di fare una riforma sulle taglie.
Sono così convinta che io non posso scendere di peso che ora che magicamente sta succedendo (”magicamente”) non ci voglio credere. Non è possibile. I topolini di Ceneretola me stanno a prendere per il culo.
In quello che vedo nello specchio non sono i progressi che sto facendo, sono sempre io, quella enorme massa di corpo che per il mondo sarà attraente, ma per la proprietaria non tantissimo.
E questo poi si traduce in razzi di SUPER autostima del proprio corpo, quando in realtà te fai schifo alle tube quando di guardi nelle vetrine.
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Sono morti 1800 anziani, facendo una media recupereremo 26 milioni a l'anno. Speriamo me muoiano ancora. Bisognerebbe lasciargli morire tutti quanti, un piccolo sacrificio per un grande futuro
"Bisognerebbe lasciarGLI"...
Già qui si vedono i tagli all'istruzione che danni fanno. Poi leggendo il resto del tuo delirante pensiero è ancora più evidente quanto poco tu abbia studiato.
I soldi che si risparmiano, dove andrebbero a finire? Fammi capire. Cosa vorresti farci?
I tuoi nonni, come tutti gli altri nonni, sono il motivo per cui questi paese è diventata una nazione fra le 7 più industrializzate al mondo.
Spiegami, secondo te senza i vecchi che tanto disprezzi si starebbe meglio? Sai quanti nonni riescono a mantenere i giovani che non trovano lavoro perché il darwinismo sociale che tu propugni ha distrutto buona parte del welfare di questo paese? Sai che se non ci fossero stati i tuoi nonni e i nonni di qualcun altro te col cazzo che saresti potuto andare in pronto soccorso dopo essere caduto dalla bicicletta senza pagare una lira? Lo sai che se non avessi avuto i tuoi nonni magari non avresti una casa di proprietà? Oppure davvero i tuoi nonni non hanno fatto nulla di tutto questo e allora si comprenderebbe il tuo odio, chi lo sa. Di sicuro danni te ne hanno fatti visto il modo che hai di ragionare.
Fa una cosa: se credi tanto alle tue teorie macroeconomiche va ad ammazzare i tuoi nonni e i tuoi genitori, già che ci sei. Sai quanti soldi risparmi e quanti te ne rientrano con l'eredità? Vai.
Tanto sono soldi in meno per la collettività, no?
Oppure ammazzati così risparmiamo l'ossigeno e il welfare necessario per mantenerti.
Senza palle, come sempre.
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4 mesi e 6 giorni dopo la fine
[Cabriolet-Salmo ft Sfera]
Nonostante tutti i miei sforzi mi sento costantemente fuori posto, sbagliata, come il ft di Sfera Ebbasta nella canzone di Salmo.
Sono confusa. Più cerco di prendere una decisione chiara e portarla avanti e più sento di star prendendo la scelta sbagliata.
Ti amo e per stare meglio mento a me stessa dicendomi che in realtà io ti odio per tutto il male che mi hai fatto. Oh se riuscissi ad odiarti e ad amarmi almeno la metà di come amo te! Eppure la notte per riuscire ad addormentarmi ho bisogno di pensarti e di saperti accanto a me.
So che l’importante è che tu sia felice e la nostra era tutt altro che una relazione tranquilla ma so anche che non potrai mai amare nessuna come hai amato me: così passionale, irruente.
Acqua e fuoco, eruzioni vulcaniche e maremoti, sole e luna, preda e predatore.
Siamo così uguali e così opposti allo stesso tempo ma quando chiudiamo gli occhi e ci perdiamo l’una nelle braccia dell’altro tutto quello che è al di fuori perde di significato e diventa uno sfondo astratto.
[Castle of Glass-Linkin Park]
Non ho mai avuto una vera famiglia, dei veri amici, un vero posto da chiamare casa, non ho mai capito il significato dei “Ti amo” e dei “Ti voglio bene” perchè tutti quelli che mi hanno riservato quelle parole mi hanno sempre tradita, buttata via, ferita.
Ho sofferto di bullismo per cinque fottutissimi anni. Ho avuto il mio primo attacco di panico a tredici anni. Ho iniziato a cambiare vari psicologi a quattordici anni. Sono diventata autolesionista a quindici anni.
Mi sono sempre sentita inadatta, indegna, insufficiente, imbranata, goffa, insicura, brutta, scontata, stupida, di troppo, inutile, sostituibile, di poco conto, invisibile.
Tu mi hai trovata, mi hai amata, hai fasciato le mie ferite, hai curato i miei tagli, hai azzittito le voci nella mia testa che urlavano a squarciagola, hai fatto amicizia con i mostri nel mio armadio, hai conosciuto e coltivato i miei sogni nel cassetto, mi hai teso la mano per farmi rialzare, mi hai insegnato di nuovo come camminare sulle mie gambe, mi hai regalato la speranza, l’amore, l’amicizia, un futuro, la stabilità, tutte parole che prima per me erano vuote, senza alcun significato.
Ho iniziato a sentirmi bella, importante, interessante, superiore, intelligente, all’altezza, sicura, forte, indistruttibile.
Non mi portavi in braccio, non avanzavi al mio posto ed io non ricalcavo le tue orme. Ti limitavi a guardarmi e tenermi la mano, aspettavi i miei tempi, le mie stagioni.
Mi hai sempre salvato da tutto e tutti.
Ho imparato ad essere stronza e menefreghista, a considerarmi più di quello che dicevano gli altri, a capire che io potevo essere chi volevo, che non dovevo essere vittima di pregiudizi e stereotipi ed inscatolarmici da sola.
Mi hai insegnato come mantenerei i rapporti, come scegliere le persone da avere accanto, come comportarmi con chi non mi meritava.
Mi hai fatta rifiorire.
Ho conosciuto la mia migliore amica grazie al processo che tu hai innescato in me. Mi sei stato accanto quando il suo fidanzato si è suicidato ed io sono stata accanto a lei.
L’accaduto ci ha colpiti entrambi molto ma in maniera diversa: io rischiavo di ricadere in depressione, tu non ci sei caduto ma ci sei sprofondato, come nelle sabbie mobili.
Mi chiesi di sposarti.
Era l’inizio della fine.
Ma nemmeno lo immaginavo.
Pensavo fosse l’inizio di un lieto fine.
I tuoi genitori, che per te erano la coppia perfetta e il simbolo del vero amore, hanno divorziato dall’oggi al domani. Hai scoperto che erano anni che tuo padre tradiva tua madre con varie donne. Parecchi tuoi amici morirono, uno dopo l’altro, come foglie secche che si staccano dai rami in autunno, tutti giovanissimi. Hai scoperto di avere un tumore. I medici ti hanno dato prima quattro mesi e quando li hai superati ti hanno detto che ti rimangono pochi anni da vivere, che potresti andartene in qualunque momento.
Sei scivolato nella più nera disperazione. Abbiamo superato insieme tanti brutti momenti ma la situazione mi stressava molto. Cercavo di essere forte per te, di calmarti durante le tue crisi suicide. Sembrava che le cose andassero meglio ma poi hai smesso di dormire la notte. Le tue crisi sono diventate sempre più frequenti.
Sono crollata.
I problemi che avevo prima di incontrarti sono tornati a bussare alla mia porta.
Uno alla volta.
Gridavo “Non ora! Devo essere forte per lui!”.
Sono crollata.
Tu te ne sei accorto.
Ti sei dato la colpa di tutto, di aver distrutto l’equilibrio che avevi tanto faticato a creare in me.
Mi hai sempre salvata da tutto e tutti.
Hai deciso di salvarmi anche da te stesso.
Sei andato via.
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ESATTAMENTE NEL 2014 SCRIVEVO QUESTO.
Ciao,
io non so tu chi sia e il perché tu stia guardando la mia foto ma spero che tu ti fermi un attimo a leggere tutto questo. Premetto che se sto per scrivere la mia storia non è per vantarmente, non ne vado fiera ma provo ad aiutare chi ne ha bisogno tramite quello che ho passato io. Quindi ricomincio.
Ciao, sono Noemi ma chiamami Amy. Sono qui per mettermi a nudo davanti al popolo di Tumblr e sono qui per dare forza a chi crede di non averne.
Non vado fiera del mio 2014 ma sono qui a parlarvene. Pochi sanno dell’esistenza del mio Tumblr e magari ora lo saprà messo mondo chi sono ma non m’importa. Mi sentivo di fare questo post e l’ho fatto.
Vivo in una situazione familiare poco bella; mio padre c’è sempre ma non mi sono mai aperta con lui al completo, mia madre ha sempre lavorato in bar diversi e non è mai stata partecipe nella mia vita. Mia madre non è mai stata un punto fermo nella mia vita, anzi. Mi ha fatto crescere con il modello di “donna perfetta” ispirandosi a una Barbie e io, beh io… io non ero una Barbie. L’anno scorso, precisamente il 25 luglio 2013, sono diventata autolesionista. Dopo l’apertura del bar di mia madre ho cominciato a sentirmi sola, lontana da tutti e priva di importanza. Sentivo di non essere Abbastanza per merita l’attenzione dei miei genitori; sentivo che quello non era il mio posto, nessuno e niente era il mio posto. Cominciai con un solo taglio poco profondo sull’avambraccio, per poi continuare con quattro, cinque, sei… nessuno ha mai scostato le maniche della mia felpa o della mia maglietta. Nessuno ha mai visto il mio malessere a fondo. Tutti si basavano sul fatto che non ero fidanzata e che per questo stavo male; mamma continuava a basare il tutto al mio peso. Ma non era affatto colpa del mio peso, anzi lo era in parte.
Cominciai, poco dopo, a non mangiare. Ogni giorno mi svegliavo e dicevo “Prima o poi questo finirà”, mi trascinavo giù dal letto, mi vestivo e uscivo per andare a scuola. Ridevo, si. Non sorridevo mai davvero. Ogni giorno era un giorno per morire, un giorno per annegare nelle proprie lacrime, un giorno per far finta che stesse andando tutto bene. Ogni giorno poteva essere l’ultimo. Arrivai al punto di non riuscir più ad alzarmi dal mio letto, a dormire continuamente senza mangiare nulla. Speravo che quella fosse stata la mia fine, non sapevo ciò che mi aspettava dopo.
Mio padre mi costrinse ad alzarmi e a mangiare ma ogni cosa che ingerivo era destinato al WC. Il mio corpo non accettava più il cibo tanto da non permettermi di mangiare nulla senza vomitare tutto dopo. Senza rendermene conto ero diventata bulimica. Intanto perdevo peso ma non riuscivo a guardarmi allo specchio senza pensare “Piccola Balenottera cresce” oppure ” Resterai sola” ; “L’unico ballo che potresti fare è la salsa perché hai il fisico della costa del maiale” .
Mi odiavo profondamente e ogni giorno il mio odio cresceva. Anche se non ero sola, mi sembrava di esserlo. Qualsiasi cosa provassero a fare gli altri per avvicinarmi, io riuscivo sempre ad allontanarmi.
Cosa più importante, non cantavo più. Io, legata a “Glee” come se non ci fosse un domani, non cantavo più. Lì cominciai a chiedere scusa ad ognuno dei protagonisti di “Glee” e soprattutto a Cory Monteith. Ogni sera, dopo la sua morte, ho acceso una candela in sua memoria. Lui è morto di Overdose ma ricordo bene ciò che diceva a tutti e cioè che ognuno di noi era perfetto così com’era.
A settembre cominciai il liceo. Non volevo farlo ma lo scelse mia madre per me. Lì conobbi le mie amiche, quelle che ho ora nella foto del portafogli, quelle che mi hanno salvata.
Da ottobre in poi casa mia fu un inferno. I miei genitori cominciarono a litigare.
A Marzo 2014 mia madre è andata via di casa lasciandomi con mio padre, non sapendo dove fosse per mesi e soprattutto mi lasciò da sola. Ma sola davvero stavolta. Questo era un incubo davvero.
Continuavo a non mangiare, scendevo di peso, mi sentivo meglio, continuavo ad avere dei tagli sul polso sinistro.
Un giorno andai a scuola ed Elvira mi spostò le maniche della felpa lasciando i miei tagli in bella vista. La riabbassai subito e tutte e tre mi guardarono. “Non farlo mai più” mi disse Elvira. “Non pensavo fosse così grave” aggiunse Anna. Rossella preferì il silenzio.
Dovetti spiegar loro ogni cosa, sin dall’inizio, lottando con le lacrime. Mai come prima d’ora mi ero sentita così amata e… importante.
Loro mi aiutarono ad accettarmi, loro mi aiutarono a ricominciare a mangiare e loro non mi hanno mai abbandonata.
“Tu sei speciale, diversa, con un sorriso stupendo, con una forza che anche se non credi di avere io ti invidio anche se a volte una mazzata in testa non te la toglierebbe nessuno”.
“Se stai facendo una cazzata giuro ti prendo a pugni"
"Tu mi hai aiutato a crescere”.
Elvira, Anna e Rossella mi hanno dato la forza di alzarmi.
Dopo qualche mese, a dicembre, conobbi un ragazzo che mi faceva sentire bene con me stessa e con gli altri. Sembrava tutto perfetto solo che il mondo si diverte a distruggere le cose perfette. Il 22 gennaio ci lasciammo e io caddi, ancora.
Appoggiarsi a una persona “Precaria” non è sempre la cosa giusta da fare. Io lo avevo fatto ed ora stavo peggio di prima. Non ricomincia a tagliarmi ma ricominciai a non mangiare. Non solo perché lui non c’era più e volevo che tornasse ma anche perché vedevo mio padre star male, senza rendermi conto che così aggravavo solo la situazione.
Cominciai a fumare di nascosto. Prima come sfogo, poi per esigenza. Per quei cinque minuti eri fuori dal mondo e sembrava che i tuoi problemi sparissero. Ma non sparivano affatto, anzi, si moltiplicavano.
Le mie amiche poi capirono che fumavo e per loro smisi.
Ad Aprile mi rassegnai che quel ragazzo potesse ancora tornare da me e cominciai a star meglio.
OGGI, DOPO UN ANNO E MEZZO NON SONO PIU’ AUTOLESIONISTA, MI ACCETTO COSI’ COME SONO SENZA FARE NESSUNISSIMA DIETA E SOPRATTUTTO IO E MIO PADRE STIAMO BENE.
OGGI, DOPO UN ANNO E MEZZO, HO DECISO DI RICORDARE LA FIGURA DI CORY MONTEITH CON UN TATUAGGIO CHE FARO’ A DICEMBRE DIETRO AL COLLO RAFFIGURANTE LA CHIAVE DI VIOLINO CON LE BACCHETTE DELLA BATTERIA E LE SUE INIZIALI PER A FORZA CHE MI HA DATO ANCHE DOPO LA SUA MORTE;
OGGI, DOPO UN ANNO E MEZZO, NON SONO SOLA.
TU CHE STAI LEGGENDO, NON SEI SOLA E NON HAI BISOGNO DI NESSUNO CHE TI URLI CHE SEI IMPORTANTE PER SENTIRTI TALE. NON DIPENDERE DA PERSONE CHE NON SE LO MERITANO E TANTO MENO STARE MALE PER PERSONE CHE NON HANNO ACCETTATO LA TUA PRESENZA. ACCETTATI COSI’ COME SEI PERCHE’ SEI MALEDETTAMENTE MERAVIGLIOSA/O,CARO MIO ANGELO CADUTO. TU SEI FORTE, TU DEVI ESSERE FORTE.
LASCIO QUI IL MIO NUMERO DI CELLULARE, PER QUALSIASI COSA IO CI SONO.
3248162720
VOI NON SIETE SOLI.
Siamo finalmente nel 2018.
E volevo aggiornarvi.
Finalmente la mia vita procede a vele spiegate.
Ho un fidanzato, con cui convivo a Parigi.
Mio padre ha una fidanzata.
Ho aiutato così tante persone con la mia storia che adesso sembra impossibile anche contarle. Ma, prima di tutti, ho aiutato me stessa.
Ho perso più di 20chili, per scelta e non per sbaglio.
Faccio sport, alzo pesi. Lavoro addirittura sempre col sorriso.
La vita è bella, basta riuscire a condividerla con qualcuno.
La mia missione nel salvare qualcuno in più, continua ancora.
Non mi fermo mai. Il numero è sempre lo stesso. La persona ormai è un po’ diversa.
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Il cuore e la fiducia di una persona possono essere fragili come il più piccolo degli insetti...
Già... Come una coccinella...
Tu la guardi e rimani incantato da quel rosso vivo e da qui puntini così neri e perfetti...
Basta un niente per schiacciarla, basta un soffio per spazzarla via...
E così porresti fine a una delle creature più belle del mondo...
Per questo ti dico:
"Pesa bene le parole, pesa bene ciò che fai. Basta un niente per distruggere la vita delle persone, specialmente quelle fragili, che sono fragili solo perché più dolci e più sensibili di te. E piantala con il tuo egoismo e la tua ipocrisia, perché un giorno capirai di aver sbagliato e ti ritroverai solo/a senza nessuno accanto, rimpiangendo amaramente di essere stata una persona così meschina ed egoista. E non ci sarà nessuno a riempire quel cazzo di vuoto che sentirai dentro, non ci sarà nessuno a riempire i tuoi silenzi, ad asciugare le tue lacrime e a credere in te. Sarai solo tu, in un angolo, le tue dita tra i capelli, con la voglia di strapparli. Gli occhi gonfi, il cuore pesante e i tagli che porterai dentro saranno più grandi di quelli che ti sei fatto/a sulle braccia. Saranno più grandi delle cicatrici che ti hanno accompagnato lungo tutta la vita...
Impara a fidarti di qualcuno, impara che il mondo non è solo odio, ma anche amore.
Impara che la vita non è solo rancore.
Impara che dietro ad uno schermo, c'è sempre un cuore.
Impara a cancellare il passato e a non vivere nell'errore.
Non rimpiangere nulla, non rimpiangere ciò che è stato.
Ricorda che ogni fine è un nuovo inizio...
E tutti meritano di ricominciare..."
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Un giorno incontro un tipo che mi fa: dovresti stare sereno. Ma cosa è in fondo la serenità? È mostrare un sorriso e dire che va tutto a posto, ma a chi va tutto a posto? Forse ai morti, o ai ricchi, che un po’ è uguale.
Sul sentiero che mi porta verso luoghi sconosciuti ho preso tante pietre, tanti sassi, ho cercato di spremerli, ma non danno olio. In me hanno cercato di trovarci del buono, e hanno trovato soltanto odio, belle parole ma piene di vuoto, un album di fotografie ma senza le foto.
Queste notti in bianco mi hanno detto che non so amare, che non conosco valori, e che a vivere così allora è meglio morire: quando le lacrime sul viso di chi ami hanno il tuo volto allora è meglio se scappi per non fare altri danni.
Quale vuoto, quale dolore può lasciare l’assenza del male? Chi ci soffre in fondo in sua assenza? Chi del male ama farsi, chi si taglia e conta i tagli fatti, perché è dal dolore che prova piacere e ne trae gioia e godimento.
Ma quanto è vigliacco rimanere intruppato in una marea di pensieri ed emozioni negative sapendo di non sentirsi a proprio agio? Vigliacco per noi stessi, vigliacco per chi quel dolore lo prova, e anche per chi lo provoca.
Apri gli occhi sul mondo e ti accorgi che fuori c’è l’infinito, ma la tua vista è limitata a ciò che hai ad un passo da te. Di guardare oltre non se ne parla, perché tutto ciò che non conosci ti dà insicurezza, e allora perché rischiare così tanto, e per cosa poi?
Ma no. Non è questa la giusta chiave. Non è questo il mood, non è questo il modo. Potresti arricchire te stesso e non lo fai: un giorno poi mi spiegherai il perché. Ma adesso dovresti andare, s’è fatto orario che tu vada e che faccia da parte l’insicurezza.
È bella e rassicurante la zona di comfort, ma non espandere un confine equivale a non vivere: questo lo sai, vero? Dovresti ripetertelo ogni giorno più o meno, fino a che non ti entra in testa per bene.
Ma l’unica cosa che ti è rimasta ben piantata in testa è la lamentela, la paura costante di non farcela. Nessuno te la toglie quella, nessuno te la allevia. Al più ti distrai, ma poi torna indietro dolorosa come un boomerang.
La paura di non farcela da solo, la paura di non farcela in compagnia, la paura di rimanere solo con te stesso, coi tuoi pensieri, dai quali fuggi, senza sapere che han radici ben piantate sulle quali nella corsa inciampi.
La paura, quella di non essere interessante, quella di cacciare vongole quando apri bocca. La paura del confronto con l’altro, la paura di non essere all’altezza.
Così cerchi di esporti il meno possibile alla critica. Meno ti criticano e meglio stai. Ma non è che stia poi tanto meglio se ben ci pensi. Tanto che verrebbe da chiedersi: a cosa ti è valso tutto cio?
Ti sei fatto i cazzi tuoi perché ti hanno detto che si campa cento anni, ma a dirla tutta, a cento anni nemmeno ci vuoi arrivare. Quindi? Ripeto la domanda: a cosa ti è valso tutto ciò?
Semplice: a nulla.
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CAPITOLO 10
"Cazzo marcio! La mia non vuol saperne di accendersi!" Imprecò Schizzo, tenendo in una mano la sigaretta e nell'altra il fiammifero acceso.
"Sfido io che non ci riesci, coglione che non sei altro!" Lo rimbrottò, sghignazzando, Tonino, "Mica è un ramo secco! La devi metter in bocca e tirare, tonto!" Concluse, dando il buon esempio e assumendo quell'aria da scafato che io odiavo. Quella di chi crede di saperla sempre più lunga di tutti. Cercammo comunque di imitarlo. Titubanti e maldestri come un branco di elefanti in una cristalleria.
"Come ti senti?" Chiese sottovoce Bomba, seduto al mio fianco.
"Cosa hai detto?" risposi. Ero concentrato sull'operazione e sulle possibili trasformazioni del mio corpo, a seguito di quella prima, clandestina, fumata.
"Ti ho chiesto: come ti senti?" Domandò di nuovo. Stavolta a voce più alta. Talmente alta che tutti si voltarono a guardarlo e scoppiarono in una rombante risata.
"Che c'è, Bomba? Hai fifa? Guarda che mica devi mangiartela!" Lo provocò Sergetto. Ma si vedeva che pure lui era impaurito. Ce lo aveva scritto in faccia.
"Se era da mangiare, un sol boccone e sarebbe sparita! Anzi, si sarebbe pappato anche le nostre sigarette!" Rincarò la dose il Tasso.
Bomba lasciò scivolare a terra le provocazioni. Era turbato, preoccupato, si, insomma, aveva una fifa della Madonna. Tanto che mi chiese, per la terza volta:"Allora, Pietro, me lo dici come ti senti?"
"Che vuoi che ti dica: secondo me non fa un cazzo! A parte la puzza e la bocca cattiva, sto esattamente come prima. Niente di niente." Era vero. Non riuscivo proprio a capacitarmi del perché si dovesse fumare. Che gusto ci provavano?
"Ma tu, lo mandi giù il fumo?" Chiese l'insegnante Tonino.
"Giù dove? Dove cazzo devo mandarlo?"
"Nei polmoni, tonto! Dove se no? Nel buco del culo? Davi aspirare, mandare giù, trattenere un po' il respiro e buttarlo fuori così!" Disse, soffiando fuori il fumo dalle narici. Lo guardammo ammirati ed anche invidiosi. Lui si che ci sapeva fare. Si vedeva che non era la prima volta.
"Come cazzo hai fatto?" Gli chiese il Tasso, fissandolo come a carpirne il segreto.
"E' facile, butti dentro il fumo e respiri col naso. Puoi farcela anche tu!"
"Se sei capace tu, che sei nato stupido e, crescendo sei pure peggiorato, sicuro che ne sono capace anch'io! State a vedere!" Il Tasso si concentrò sulla parte, diede una gran tirata, ma la parte finale non fu mai partorita. Gli si riempirono gli occhi di lacrime, il viso si accese di un rosso violento e iniziò a tossire come il motore della macchina di mio padre quando è ingolfata e di partire proprio non ne vuol sapere. Quello si che era un bell'effetto! Si alzò in piedi e iniziò a girare in tondo piegato su se stesso. Tossiva e sputava, quasi volesse liberarsi pure dei polmoni in fiamme. Alla fine si vomitò pure l'anima.
"Che schifo!" Esclamò Schizzo, inorridito alla vista di quella scena.
"Che succede, Schizzo? Non dirmi ora che ti fa schifo il vomito!" Chiesi.
"Il vomito no, ma questa bestia ha mangiato i piselli. Guardali lì, sono ancora interi! Io i piselli li odio!"
La prima esperienza con le sigarette fu molto istruttiva. Ci insegnò che...facevano vomitare. Ma non mollammo. Da lì a non molto, saremmo diventati, tutti e sei, dei fumatori incalliti. Avremmo scoperto, sempre a posteriori, che anche il vino poteva far vomitare, e la marjuana e le donne, in qualche caso, tuttavia cercammo sempre, con tutta la nostra volontà, di non farci mancare niente di quanto sopra elencato. C'era quasi da credere che vomito e piacere fossero due facce della stessa medaglia.
"Senti, Tonino, dove le hai sgraffignate le sigarette? Dalla giacca di tuo padre?" Domandò Sergetto.
"Mica voglio morire da giovane! Le ho fregate a mio fratello, Francesco."
"Cosa?" Intervenne preoccupato il Tasso, che ancora sussultava per la tosse, "Ecco perché ho vomitato! Erano drogate!"
"Che cazzo vai dicendo, idiota?"
"Mio padre dice che tuo fratello è un drogato. E che, prima o poi, si metterà nei guai."
"Certo che sei proprio uno stronzo, Tasso! E pure tuo padre! Anzi no, forse tuo padre non è stronzo, ma un drogato vero!"
"Drogato si, ma di pippe!" confermò sorridendo Bomba.
"Pipparolo! Pipparolo!" Gridammo in coro. In parte per stemperare la situazione, ma molto di più perché niente era così divertente come prendere per il culo qualcuno.
"Fatela finita! Mio padre non è un pipparolo!" Si difese il Tasso, assumendo la tipica posizione da combattimento del suo spirito guida.
"Se è come dici tu, allora perché tutti lo chiamano Pippo?" Chiese Sergetto. Non mollare mai. Era una delle regole fondamentali del gioco.
"Perché è il diminutivo di Filippo, deficiente che non sei altro!"
"Si, ma perché hanno scelto la parte finale del nome? Ci sarà un motivo! Lo avrebbero potuto chiamare Fili!"
"Fili? Hai mai sentito nessuno con quel nome?"
"Sarà pure come dici tu, Tasso, però la faccia da pipparolo ce l'ha davvero. Eccome se ce l'ha!" Sentenziò Schizzo. E l'ilarità toccò di nuovo il suo picco massimo.
"Non prendertela, Tonino," Dissi, non appena ebbi riacquistato l'uso della parola. "Lo sai come sono fatti i genitori, no? Si preoccupano di tutto, non va mai bene niente e nessuno. Solo loro sono perfetti. Non sbagliano mai, fanno sempre la cosa giusta. Il Tasso non voleva offenderti."
"Certo che non volevo offenderti! E non volevo offendere nemmeno tuo fratello. Mi sta pure simpatico. Ride sempre e mi saluta, ogni volta che mi incontra. Ho solo detto cosa ne pensa mio padre. Non volevo farti incazzare!"
"Mi dispiace, Tonino, ma anche mio padre dice che tuo fratello si droga. Ma che vuol dire? Io non lo dico! E neanche lo penso!" Disse Sergetto, avvampando di vergogna,
Tonino lo guardò di traverso, ma non replicò. Era diventato improvvisamente triste. Non aveva più voglia di combattere quella battaglia. Poi sapeva che non era con noi che doveva combattere, Noi eravamo i suoi amici. Stavamo dalla sua parte, perdio!
"Non volevo dirtelo, pure a me dispiace, ma mia madre dice esattamente le stesse identiche cose." Aggiunse timidamente Bomba.
"E tu, Pietro? Che mi dici?" Mi chiese direttamente, Tonino, ma senza guardarmi in faccia. Conosceva già la risposta. Da qualche minuto era impegnato a gettare pietre nell'acqua, cercando di colpire le foglie dei cerri che viaggiavano in balia della corrente. Dava l'impressione che tutto il suo mondo si esaurisse lì. Mi schiarii la voce, avrei voluto indorare la pillola, ma non potevo. Eravamo amici, meritava la verità, per quanto cruda fosse: "Che vuoi che ti dica? Lo conosci mio padre, lo sai come è fatto. Quando ci si mette è il peggio di tutti. Per lui non solo tuo fratello è un drogato, ma lo sono anche tutti i suoi amici. Drogati e scansafatiche. E quelle tre ragazze che stanno sempre insieme a loro sono tre troiette che te le raccomando!" Avevo vuotato il sacco.
Ci fu un attimo di silenzio lungo una settimana. Tonino lanciò l'ultimo sasso, si voltò verso di noi con gli occhi arrossati dallo sforzo di trattenere le lacrime e disse: " Lo sapete qual è la cosa che mi fa più incazzare? Che anche mio padre, che poi dovrebbe essere anche il padre di mio fratello, la pensa come i vostri genitori. E, ogni tanto, glielo dice pure! si fanno certe litigate che sembrano non finire mai. Prima o poi, andrà a finire che si ammazzeranno di botte. Anzi, andrà a finire che mio fratello ammazzerà di botte mio padre. E io sarò felice! Perché mio padre è uno stronzo, ma mio fratello è un grande! Ecco cosa penso!"
"Magari ce lo avessi io un fratello come il tuo! Che desse una bella ripassata a mio padre quando mi carica di legnate!" Fantasticò il Tasso, che, come credo di aver già detto, era quello che le buscava più spesso e più sonore.
In quanto a Francesco, il fratello maggiore di Tonino, era proprio simpatico. fosse stato pur vero che si drogava, me ne strafregavo, lui e i suoi amici erano troppo forti. Mai una volta che avessero fatto i prepotenti, o che ci avessero malmenato, cosa che, solitamente, ti dovevi aspettare da quelli più grandi. Loro no, loro ci trattavano da pari, da amici. si fermavano spesso a giocare al calcio con noi, su alla Rocca. Lasciavano le loro ragazze sedute sugli scalini della fontana a bere e fare il tifo e giù a battersi con noi, a prenderle e a darle pur di vincere la partita. Terminata la gara, si beveva insieme. Birra per loro e gassose e chinotti per noi. Sempre a loro spese. Li adoravamo. Certo, strani erano strani. Diversi da tutti gli altri, questo lo vedevamo anche noi, mica eravamo ciechi. Con quei camicioni enormi, di mille colori, quelle giacche sdrucite di due o tre taglie più grandi e i pantaloni rattoppati e sfrangiati alle caviglie. Erano più belle le ragazze però, molto più belle. Non c'era partita. Indossavano certe minigonne da infarto e vestitini a fiori trasparenti che... insomma, che non c'era bisogno di immaginare. Non nego, ma un po' me ne vergogno, che alcune gare di seghe furono interamente dedicate a loro.
Poi c'erano i capelli. Era questo l'aspetto che, in paese, detestavano di più. Sarebbe bastato solo quello per farli additare come delinquenti. Erano tutti dei gran capelloni. E, come se non bastasse, alcuni erano anche barboni. Capelli che scendevano incolti fin sopra le spalle e barbe come capelli. Uguali a certi cantanti, o a certi attori che si vedevano alla televisione. Noi, dieci anni più tardi, li avremmo portati molto più lunghi e saremmo stati molto più sporchi e cattivi. Ma allora correva l'anno millenovecentosettantadue, il sessantotto non aveva fatto fermate nei piccoli centri, tanto meno in quelli del viterbese. Si pascolava beatamente nel medioevo della ragione. "Ma guarda cosa mi tocca vedere!" Sbraitava mio padre ogni volta che, alla tele, passavano quei nuovi complessi beat, o rock, tipo: Beatles, Rolling Stones, o i nostrani Rocks, o i Ribelli. "Di questo passo chissà dove andremo a finire. A lavorare dovrebbero andare! Tutti i giorni pala e piccone! Altro che fracassarci i timpani e i coglioni con questa caciara. Saprei io come fargliela passare la voglia!"
E potevo benissimo immaginare che, nelle altre case, i toni e i commenti erano identici. Nonostante ciò e, forse, anche a causa di ciò, noi ragazzini stavamo tutti dalla parte di Francesco e della sua banda. Ci piacevano e ci piacevano anche le loro auto. Non che fossero più belle, o più nuove delle altre che circolavano, anzi, per dirla tutta, erano le auto più vecchie e malandate del paese. Ma erano interamente ricoperte di strani simboli e disegni variopinti. "Sono disegni psichedelici." Ci disse una volta Alex, il figlio di Paolo il fabbro, fabbro lui stesso e amico fraterno di Francesco. Sa il cazzo cosa significasse, ma ne fummo ugualmente colpiti. Tant'è che, per dire di una cosa fica e strana, dicevamo che era psichedelica. Lo dicevamo anche delle persone. Naturalmente Schizzo era il più psichedelico del mondo. Anche la musica che ascoltavano era psichedelica, stavolta per davvero, ce lo dissero loro. Arrivavano in piazza, parcheggiavano alla meglio e lasciavano sempre le portiere aperte, per ascoltare meglio quella valanga di note che ne usciva. E loro lì, a ballare come dei matti e a fumare. Noi li fissavamo incantati, come davanti alla vetrina di un negozio di dolciumi, giurandoci che un giorno saremmo diventati come loro.
"Che lavoro fa tuo fratello?" Domandò il Tasso a bruciapelo.
"Non lavora, ancora studia." Rispose Tonino, che, nel frattempo, aveva ritrovato la calma.
"Come ancora studia? Quanti anni ha?"
"Ventuno...No, ventidue! Ne ha ventidue."
"Ventidue? E ancora va a scuola? Cos'ha in testa, la segatura? E' peggio di Schizzo! Quanti anni ha ripetuto?" Il Tasso cercò di fare i conti con le dita delle mani, non riusciva a capacitarsi.
"Sarai tu ad avere la segatura in testa! Studia ancora perché va all'università. Coglione! Mica fa le medie!"
"Aspetta un attimo, Toni', fammi capire bene..." Si intromise Schizzo, che, improvvisamente parve interessarsi all'argomento.
"Si, buonasera! Per far capire te, ci vorrebbe un miracolo!" Gracchiò sghignazzando, Sergetto.
Schizzo lo guardò freddamente, raccolse la forchetta da terra e gliela mostrò. questo piccolo gesto fu sufficiente a farlo tacere. "Dicevo, " riprese Schizzo, ma senza togliere gli occhi di dosso a Sergetto, "Come è possibile che ancora studia? L'obbligo di andare a scuola non è fino a quattordici anni?"
"E allora?"
"Francesco quanti anni ha?"
Ventidue, stupido! Ho appena detto che ne ha ventidue! Ma che cazzo c'entra? Lui mica è obbligato ad andare a scuola. Lo ha scelto, gli piace." Stava di nuovo perdendo la pazienza.
"Eccome se c'entra! Anzi, è proprio qui che casca l'asino! Mi dispiace, Tonino, ma è la prova che davvero tuo fratello si droga. A chi può piacere di andare a scuola, se no? Solo a un drogato!"
"Ma vaffanculo va!" Fu la risposta del coro.
"Sentite, perché non ce ne torniamo in paese? C'ho una fame che non ci vedo!" Disse Bomba, massaggiandosi l'abbondante ventre, come se volesse calmare una bestia feroce.
"Tu hai sempre fame, Bomba! Dovresti farti visitare. Là dentro c'è una tana di vermi solitari. Tanti vermi, quindi non sono poi così solitari!" dissi, alzandomi in piedi e infilandomi i sandali e la canottiera.
"Dai, andiamo. Mi mangio qualche fetta di pane e pomodoro e riesco subito da casa."
"Ma si, andiamo. Anch'io mi sono rotto di star qui a non fare un cazzo. ho voglia di giocare al calcio. Vado a casa, prendo il pallone di cuoio e ci vediamo su in piazza."
Imboccammo mesti la via del ritorno, senza scambiarci parole. Ognuno perso nelle proprie scarpe e nei propri piccoli pensieri, ingigantiti, a tratti, dalla stanchezza e dai sogni a buon mercato. Decidemmo all'unanimità che saremmo passati a casa, per ricaricare le batterie e per cambiare le calzature. Col pallone di cuoio, era meglio indossare le scarpe più malandate che possedevamo, meglio per la nostra salute, naturalmente. I nostri ci avrebbero scuoiati vivi se avessimo rovinato quelle buone.
Era tutto apparecchiato per il calcio d'inizio. Le porte disegnate a terra con il gesso fregato anzitempo a scuola, le squadre già disposte nella propria metà campo e avevamo reclutato anche altri quattro ragazzini per la classica di tutte le classiche: il cinque contro cinque. Le regole erano semplici, molto più semplici di quelle del calcio vero, quello giocato negli stadi, intendo, e ci venivano tramandate dalla notte dei tempi. Mai toccare la palla con le mani, per nessun motivo, non esisteva il volontario e l'involontario, creava solo discussioni e, talvolta, cazzotti. Non lo dovevi fare e basta, altrimenti era fallo contro. Anche le trattenute erano fallo. In compenso, i calci negli stinchi erano ammessi. Ed anche gli spintoni. Ma non dovevi mai far cadere a terra l'avversario. Quello era il fallo peggio di tutti. Rigore contro! Non c'erano santi!
"Allora, Schizzo? Iniziamo o aspettiamo che faccia notte?" Era Schizzo a dover dare il calcio d'inizio. E il Tasso fremeva come un toro in attesa di essere liberato dal recinto. Ma Schizzo continuava a tenere la palla sotto al piede sinistro e a guardare la via che si immetteva nella piazza. Sembrava imbalsamato.
"Si è incantato un'altra volta. E' peggio di quel cesso di giradischi di mia sorella. bisogna sempre prenderlo a manate per poter ascoltare una canzone fino alla fine." Dissi a Tonino, vicino a me e in squadra con me. Lui evitò i commenti, limitandosi a scuotere la testa.
"Guardate un po' chi sta arrivando?" Urlò improvvisamente Schizzo, puntando il dito verso due figure che stavano risalendo la via.
"Ma che cazzo ti vai inventando? Che vuoi che me ne freghi? tira la palla, piuttosto!" Il Tasso scalpitava.
"Non li riconoscete?"
"Ascolta, Schizzo, certe volte è complicato sopportarti. Prima di tutto: sono in due, non uno solo. Chi dei due dovremmo riconoscere? Poi mi spieghi come hai fatto tu a riconoscerlo, che sei cecato come una talpa cieca?"
"Aspettate un secondo," Si intromise Bomba, aguzzando la vista, "Ha ragione Schizzo! Ora ho capito anch'io chi è."
A quel punto, avevamo capito tutti. Erano a non più di trenta passi. Due, uno grande e uno piccolo. Il grande, con ogni probabilità doveva essere il padre del piccolo, visto che gli teneva un braccio intorno alle spalle. Ma di lui non ce ne fregava niente. Era al piccolo che avevamo incollato i nostri sguardi.
"E' quello stronzetto che abbiamo incontrato giù al fiume!" Esclamò, stupefatto, il Tasso.
"E' quello stronzetto che te le ha suonate giù al fiume! Forse è questo quello che volevi dire." Lo canzonò Schizzo, senza neanche guardarlo.
"Che sarà venuto a fare quassù? Chi cazzo glielo ha dato il permesso di entrare in paese?"
"Il permesso? Ma chi ti credi di essere? Il sindaco?" Lo zittì, Tonino.
" Sarà venuto a trovare qualche parente."
"Se avesse avuto qualche parente in paese, lo avremmo già visto prima. O lo avremmo saputo. Di turisti, da noi, neanche l'ombra. Io dico che si è appena trasferito. E' venuto ad abitare qua." C'era della logica nell'osservazione di Bomba.
"Io dico..."
"Io dico che ora lo chiediamo a lui. Personalmente." Dissi, troncando sul nascere il pensiero di Tonino, che era rimasto con le parole a penzolare fuori dalla bocca. Mi guardarono increduli, dopo quello che era successo, era impensabile. Ma quando videro che mi ero avviato, a passo deciso, verso il nuovo arrivato, non ebbero esitazioni a seguirmi.
"Ciao! Finalmente ci incontriamo di nuovo. Come mai sei venuto in paese?" Fu il mio discorso di benvenuto. Nessuna risposta. Continuava a guardarmi fisso, ma nessuna risposta. E non cambiò neppure espressione. Sembrava quella statua che si trovava in Egitto. Quella vicino alle piramidi...Credo si chiamasse Sfinge. Ecco, appunto, sembrava una cazzo di Sfinge! Non mi persi d'animo, ci voleva ben altro per scoraggiarmi. Abbassai la testa e ripresi l'assedio:" Io sono Pietro. Tu? Come ti chiami?" Un'altro buco nell'acqua. Stavolta però sorrise. Sorrise muto come un pesce. Pensai che non avrebbe mai parlato, se non fosse stato il padre a costringerlo.
"Non essere maleducato, figliolo, di loro come ti chiami." Fece l'omone coi baffi che l'accompagnava, mollandogli un leggero scappellotto sulla testa, con quella sua mano grande come un badile da muratore.
"Mi chiamo Pietro." rispose infine in un sussurro.
"Anche tu? Ci mancava pure questa! Come se uno non fosse stato sufficiente." Si intromise Tonino.
"Questa si che è una gran bella notizia, figlio mio. Siamo qui da appena una settimana e già ti sei fatto dei nuovi amici." Disse il gigante, evidentemente soddisfatto. Più lo guardavo e più mi sembrava immenso. Pareva...pareva...parevano due! Uno sull'altro.
"Proprio amici, non direi." Borbottò sottovoce il Tasso. L'uomo lo scrutò con aria interrogativa e Schizzo ne approfittò per inchiodarlo alla sua responsabilità di padre.
"Non lo stia a sentire, signore. Parla così perché, suo figlio, giù al fiume, gliele ha suonate per bene" Il pover'uomo parve vacillare, aveva accusato il colpo. Schizzo decise che era il momento di affondare: "Veramente non le ha suonate soltanto a lui, pure il povero Bomba ha buscato la sua razione." Concluse, indicando con un dito la seconda vittima.
L'orco divenne tutto rosso in viso, la collera gli tracimava dagli occhi, fissò il sangue del sue sangue e disse: "E' vero quello che dice questo ragazzo?" Pietro non rispose. Continuava a fissarmi, ma niente. "Se non hai nulla da dire, significa che sei colpevole. Ora chiedi scusa e, stasera a casa, faremo i conti. Vedrai se non te lo tolgo questo vizio di menar le mani."
Adesso, però, era costretto ad aprir bocca, doveva difendersi, far valere le proprie ragioni. Non era stata colpa sua, lo avevamo provocato, era colpa nostra. Gli sarebbe bastato raccontare come realmente erano andate le cose e l'avrebbe scampata. Invece niente. Neanche una sillaba. Quel ragazzino era davvero tosto. duro come la pietra delle cave. No, non lo avrei permesso. Non poteva andarci di mezzo lui. dovevo salvargli il culo. Se lo meritava. Se lo meritava e, tutto a mio vantaggio, mi avrebbe, poi, dovuto un favore.
"Lo lasci stare, signore, non è stata colpa sua." Dissi con una voce timida e tremolante.
"Come dici, piccino?" Chiese l'omone, chinandosi verso di me, come per udire meglio.
Mi faceva incazzare quando mi chiamavano piccino, o piccolo, o bambino, ma cosa avrei potuto farci? Quello era una montagna e doveva essere forte come un toro. Per me, poteva pure chiamarmi come cazzo gli pareva, non avrei di certo protestato! "Dico che è stata colpa nostra. Non avremmo dovuto prendere a sassate le sue mucche. Se qualcuno le ha prese è perché se le è cercate. Al posto di suo figlio, anch'io mi sarei incazzato come una biscia."
"Se le cose stanno così, come dici, metteteci una pietra sopra e fate la pace. Festeggeremo con una bella bevuta al bar." Entrammo nel locale ed ordinò una birra per se e una gassosa per il figlio, poi ci chiese cosa desiderassimo. "Gassosa!" fu la nostra decisa risposta. "Bene allora: Cinque bottigliette di gassosa e un secchio per lui!" Ordinò al barista, ma strizzando l'occhio a Bomba, che fece finta di sorridere. Era abituato alle prese per il culo, per via della sua mole. Ma che a farlo fosse uno grosso il triplo di lui, era paradossale. Troppo comico.
"Ora un bel brindisi!" Ci invitò il padre di Pietro.
"A cosa brindiamo?"
"All'amicizia!" Tuonò, con un vocione che fece tremare le pareti e concentrò su di se tutti gli sguardi dei presenti. Brindammo con gioia. Il nuovo amico mi si parò davanti e. "Grazie." Disse con una voce talmente fioca che fu un'impresa capirlo.
"Per cosa?"
"Per prima"
"Quello che ho detto era la verità. Era davvero colpa nostra. E non capisco perché tu non ti sia difeso. Eri dalla parte della ragione!"
Fece spallucce, ma non rispose.
"Certo che devi avere una bella capa tosta!"
"Non c'è male." Rispose, ma, per la prima volta, sorridendo apertamente.
"Senti, ti va di giocare con noi a pallone?"
"Non posso. Devo accompagnare mio padre non ho capito bene dove."
"Eccome se puoi!" Lo corresse il padre, "Se non hai capito dove, significa che la tua presenza non è del tutto necessaria. E' necessario invece che resti a giocare con i tuoi amici. Quando avrò finito con le faccende che devo sbrigare, tornerò a riprenderti."
"Perfetto!" Esultai, poi rivolgendomi agli altri: "Andiamo, si riprende la partita, gioca anche Pietro. Sai giocare vero?"
"Me la cavo."
"Si, ma come facciamo? Ora siamo dispari. bisogna chiamare un altro giocatore." Disse il contabile Bomba.
"E perché? Lui si mette in squadra con voi e noi giochiamo con il portiere volante. Anche se siamo uno in meno, vi rompiamo il culo lo stesso!" Sentenziai con la certezza di uno sbruffone.
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