#occhi di vetro
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Non il mio cervello mal funzionante che, per un banalissimo occhio gonfio, si sta convincendo che stiamo perdendo un occhio, dovrò scegliere se adottare una benda come Elle Driver o se usare un occhio di vetro come il bisnonno che non ho mai conosciuto, e da questa mia perdita inizierà la mia scalata per diventare un villain.
#esistono pure personaggi buoni con bende/occhi finti ma sappiamo tutti che questa sarebbero le mie origini da malvagia#anche perché se scopro chi fa il voodoo su di me finisce male#basta che passi in meno di venti giorni perché ho un palco da calcare e vorrei farlo senza sembrare Quasimodo#(se finissi ad usare un occhio di vetro farei come bisnonno o. che se lo toglieva a tavola davanti a baby pp e baby zio)#givemeanorigami
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porto un reso amazon in posta. la tizia allo sportello deve vedere il codice e prende il mio telefono. lei ora ha in mano il mio cellulare e tra noi c'è un vetro. non potrei toglierle di mano il telefono nemmeno se lo volessi. inavvertitamente sposta più giù la pagina col qrcode del reso. questa donna davanti ai miei occhi si mette a cercare il qrcode
basterebbe un gesto, piccolo piccolo. basterebbe toccare la freccia in alto a sinistra per due volte, per caso, e si troverebbe sulla pagina dell'ultimo acquisto fatto
guardo preoccupata le sue dita, ma subito mi trovo a sperare che lo faccia. dai, guarda cos'ho appena comprato, tocca tutto quanto, entra nella gallery, guarda le foto al segno della mia abbronzatura, guarda le chat, scopri con chi voglio usare l'ultimo acquisto
lei toglie le dita dal mio telefono come se scottasse, mi guarda, la mia bocca sorride angelica, ma ho lo sguardo da jack nicholson
lo hai sentito, vero? hai sentito il brivido, la scossa, la voragine che si apre. la mia vita nemmeno troppo nascosta, tutta lì, in un piccolo rettangolo di plastica, vetro e silicio. l'hai sentito, lo so, e tu cosa nascondi nella gallery del tuo telefono? foto di nipoti e gattini? chi vuole scopare il tuo culo burroso? a chi pensi mentre vieni, sempre se vieni, chi riesce a farti bagnare con una sola parola di sei sole lettere "manchi", per chi rischieresti tutto? di chi è il cazzo di cui vorresti essere schiava?
- signora... signora! tutto ok? tenga la ricevuta del reso.
- ah, si, grazie. arrivederci
- signora! il suo cellulare!
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- divenire -
Ho già visto tutto il mondo
nei suoi occhi
tutte le insonnie dei giorni amari,
tutta la dignità
di chi sta in ginocchio
di fronte al dolore.
Siamo divenire costante,
con un’ anima di vento
e un cuore di vetro.
©b.b.s
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Oh, se tu potessi ritornare,
ti mostrerei le sette lune che si vedono
dalla finestra della mia stanza.
E i sette soli, se ci volessi passare una notte ancora.
Niente di ciò ti rivelai prima,
perché erano segreti miei – e io, i segreti, li custodisco finché diventa troppo tardi per raccontarli.
Oh, se tu potessi ritornare, ti porterei a vedere il giardino,
dietro casa, dove c’è un nespolo che è solo mio
e alla cui ombra potremmo leggere d’estate, se l’estate venisse e tu volessi passarla solo con me.
E anche il lucernario,
sul tetto, senza un vetro da dove, a volte, cadono le stelle; e tanto piccole che si perdono negli occhi
di chi si pone così, a guardarle, senza sapere da dove vengono –
dicono che sono gli angeli che le lanciano adagio per riscaldare le notti.
Forse ti mostrerei anche gli angeli se tu ritornassi.
Maria do Rosário Pedreira
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La sposa di Pigmalione
Frigida ero, come la neve, l'avorio.
Pensai non mi toccherà,
lo fece.
Mi baciò le labbra di pietra.
Stavo immobile
come morta.
Persistè.
Passò col pollice sui miei occhi di marmo.
Pronunciò
rozze parole dolci, disse cosa avrebbe fatto e come.
Parole terribili
Le mie orecchie erano sculture.
Sorde come pietre, come conchiglie.
Sentivo il mare.
Lo feci annegare.
Lo sentii gridare.
Mi portò regali, sassolini levigati,
campanelline.
Non battei ciglio,
Non aprii bocca.
Mi portò perle, collane e anelli
li chiamava gingilli da bimba.
Mi brancicò con mani appiccicose.
Non mi ritrassi.
Bella statuina, muta!
Mi ficcò le dita nella carne,
strizzò, pigiò.
Non mi ammaccò.
Cercava i segni,
cuoricini viola,
stelle d’inchiostro, livide spie.
Le unghie erano artigli.
Non un frego, un graffio, uno sfregio.
Mi puntellò coi cuscini,
e mi redarguì tutta la notte.
Era ghiaccio il mio cuore, era vetro.
Era ghiaia la sua voce, strideva.
Diceva nero poi bianco.
Così cambiai tattica,
mi riscaldai come cera di candela,
ricambiai i baci,
fui morbida, malleabile,
cominciai a mugolare,
mi feci calda, sfrenata,
mi dimenai, spasimai, smaniai,
implorai un figlio suo,
e nell’orgasmo
urlai come invasata -
tutta scena.
Da allora non l'ho più visto.
Semplice, no?
🌟
Carol Ann Duffy
Lara Lyah
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Stamattina, in fila al gate, osservavo una donna con i suoi genitori. Avrà avuto la mia età. Teneva la madre per mano e le sistemava i capelli, come fosse la sua bambina. La madre poneva domande e lei la tranquillizzava.
Ero ipnotizzata dalla loro interazione, li ho seguiti tutti e tre, finché non mi sono ritrovata a parlare con loro. La donna aveva uno zaino in cui teneva uno sgabellino per la madre, che ha paura di non riuscire a salire sui pullman.
Me ne cado, mi ha detto con inequivocabile accento calabrese.
Ma a salire su questa navetta, ha detto il marito indicandola oltre il vetro, ce la fai.
Mi piace tanto viaggiare, mi ha detto la madre con gli occhi sgranati, quasi fosse una dichiarazione inconfessabile. Erano chiarissimi, quegli occhi.
La figlia aveva preso i suoi genitori in Calabria, lei che vive a Milano, e li stava portando in crociera.
E la crociera parte da Genova?, ho chiesto.
No, da Atene.
Così ho capito che ero in fila al gate sbagliato e sono corsa via.
Mi è rimasta la sensazione di non averli salutati.
Ho invidiato quella figlia che può portare in viaggio i suoi genitori, perché loro hanno voglia di viaggiare: i miei non hanno fatto una vacanza in tutta la loro vita. Ho invidiato la dolcezza di quella donna, la sua pazienza. Ho invidiato quella madre che si affidava, che si faceva prendere per mano, che si lasciava rassicurare.
Ci sono cose che non ho mai fatto e che, ora lo so, non farò più. Il tempo finisce, a un certo punto.
Ma si può provare tenerezza per gli altri. Pensarli, ore dopo, mentre girano con uno sgabello nello zaino. I ruoli invertiti, com’è giusto, com’è naturale che sia.
Pensarli, in questa giornata di saluti. In questa giornata di padri che se ne vanno per sempre e di figli che dall’altare li salutano, in una chiesa piena, in una giornata di sole - che luce. C’è il mare, là dietro. Un figlio racconta un episodio dell’infanzia, buffo, intimo: riguarda suo padre. È con quel racconto che ci spacca il cuore.
Rosella Postorino
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Vi è mai accaduto di ritrovare qualcuno dopo tanto tempo e tanta vita in mezzo? A me sì. A fine luglio, nei direct di Instagram, mi è apparsa una notifica. Era mezzanotte, poco oltre. Il messaggio cominciava così: "Ci siamo scritti, per la prima volta, molti anni fa...". Aveva ragione. In principio, ci eravamo scritti nel 2008 - o giù di lì - e ci eravamo piaciuti subito, ma abitare in due città diverse complicava le cose e, in fondo, nessuno tra noi si sentiva veramente pronto. A dispetto delle difficoltà oggettive, nacque comunque un legame sincero, lieve, pulito. La sensazione di avere incontrato un'anima uguale alla propria e, insieme, il rammarico di non poterla sentire completamente vicina. Poi la vita, che fa la vita, tracciò il suo corso e lentamente, senza strappi, senza battaglie, ci perdemmo di vista. Così credevo, almeno. In realtà, lui non ha mai smesso di guardarmi, sia pure da lontano. Lui mi guardava e io non lo sapevo. Non me ne accorgevo. Di quante cose non mi sono accorta? Quante cose non ho visto? "Eravamo ragazzini" continuava il messaggio. Sì, lo eravamo. "Sei diventata una donna da ammirare". Lui un uomo bellissimo, con lo stesso cuore buono e la stessa delicatezza che così bene ricordavo. "Mi piacerebbe sapere come stai, quali strade hai percorso, e riprendere da dove avevamo interrotto...". Quella notte ho dovuto leggere e rileggere le sue parole molte volte prima di rispondere. È stato come una saetta, un lampo che entra d'un tratto, sfonda il vetro, illumina tutto a giorno e ti costringe a spalancare gli occhi. Il pomeriggio seguente l'ho sentito al telefono e la vita si è fatta improvvisamente piccola, si è compressa tutta in quella telefonata, in quella voce. Gli ho raccontato dell'auto, sapeva quanto la temessi. Ho detto una cosa che mi sembrava divertente, l'ho fatto per stemperare l'imbarazzo, lui ha riso tantissimo e io ho sentito una specie di disgelo calarmi nella pancia dopo secoli.
Da allora abbiamo cominciato a scriverci, con calma, con lentezza, con dolcezza. Io ho alzato molti muri, le mie ferite antiche continuano a spurgare, e l'ho costretto a sbatterci contro, a pagare conti che non sono i suoi conti. Eppure resta lì. "Ne parliamo a voce, se ne hai voglia" mi ha scritto tutte le volte in cui si è scontrato con uno dei miei scudi. "Se ne hai voglia" aggiunge sempre. Se te la senti, intende dire. Se mi permetti di entrare, senza forzature, senza pressioni, decidi tu la misura.
Lui non lo sa, ma ogni volta che esordisce a questo modo io vorrei tirarlo fuori dal telefono e baciarlo. Non lo sa perché non glielo dico, non gliel'ho mai detto, però stasera glielo scrivo, e lo faccio qui, dove in questi anni ho scritto pure il resto, dove ho tenuto traccia, dove mi sono spogliata a carne viva, libera dall'infamia, libera dalla vergogna. Mi pare equo, mi suona giusto.
Non ho idea di cosa sia e non voglio immaginare cosa diventerà. Per adesso mi piace pensare che, lì fuori, esiste qualcuno a cui so sempre dire: "Sì, ho voglia di parlarne".
Antonia Storace - "Frumento e papaveri"
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"Un mondo dove nessuno era capace di amare e le persone vivevano con l'anima vuota, nude di emozioni. Ma, nascosto al mondo intero, nella sua immensa solitudine, c'era un uomo vestito d'ombre. Un artigiano solitario, pallido e curvo, che, con i suoi occhi chiari come il vetro, era capace di fabbricare lacrime di cristallo.
La gente andava alla sua casa e chiedeva di poter piangere, di poter provare un briciolo di sentimento, perché nelle lacrime si nasconde l'amore e il più compassionevole dei commiati. Sono l'estensione più intima dell'anima, ciò che, più dell'allegria o della felicità, fa sentire veramente umani.
E l'artigiano li accontentava…
Incastonava negli occhi delle persone le loro lacrime con ciò che contenevano e quello era ciò che la gente piangeva: rabbia, disperazione, dolore e angoscia.
Erano passioni laceranti, delusioni e lacrime, lacrime, lacrime. L'artigiano infettava un mondo puro, lo tingeava dei sentimenti più intimi e estenuanti.
"Ricorda: al fabbricante di lacrime non puoi mentire", ci dicevano alla fine del racconto."
#Il fabbricante di lacrime#Andrea Farri#The Tearsmith#Erin Doom#grave#Rigel Wilde#Nica Dover#Caterina Ferioli#Simone Baldasseroni#el fabricante de lágrimas#netflix
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oggi in autobus fra la calca ho posato lo sguardo su una coppia, avranno avuto trentasei anni a vicenda su per giù. due bambini, di cui uno era seduto in braccio alla mamma, aveva la mano adagiata teneramente sul vetro e con gli occhi esplorava un po’ le macchine ferme al semaforo, indicando qualche cane al loro interno. ho pensato a quanto splendore abbiano le cose se viste da una prospettiva diversa, una prospettiva temporale decisamente opposta alla nostra: quella di un bambino, o una bambina.
la voce del più piccolo esclama: ‘che bella città!!’ come se non ci fosse stato mai, come se non sapesse neanche lui dove si trovasse. l’ingenuità delle sue parole, miste a quelle del più grande che con disinvoltura, guardava il resto dei passeggeri. talvolta pensiamo che ingenuità equivalga a stupidità e che, una volta cresciuti, è un bene lasciar spazio a consapevolezze e astuzia. io la penso sempre in modo diverso, il candore e l’innocenza devono far parte di noi per mantenere quello sguardo mai perso che possedevano quei bambini/quelle bambine che non abbiamo mai smesso d’essere. (sono quasi sicura che io abbia espresso una teoria del fanciullino rivisitata da me, un po’ moderna e meno intellettuale)
i due bimbi, infine, decidono di tirare la catena della borsa che avevano fra i due sedili, ho dedotto fosse della madre. il più piccolo, sorride. e così fa anche il più grande, con tanto di: ‘continua, stiamo facendo musica’ e c’ho trovato poeticità.
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Eravamo insieme davanti alla televisione mentre sullo schermo scorrevano le immagini della ritirata degli americani dall’Afghanistan, anno di grazia 2021, e l’arrivo dei talebani in varie città del paese. Le ragazze di Kabul fuoriuscivano dallo schermo, con i loro quaderni, i loro zaini, le loro matite, la loro voglia di non perdere l’istruzione e la vita che in quei decenni di relativa calma avevano ottenuto a suon di sacrifici. Quelle ragazze di un’altra latitudine le sono scoppiate letteralmente nel cuore. E ho visto hooyo [=mamma] tremare di rancore. Più volte si è alzata in piedi e si è avvicinata alla televisione. Più volte, con un gesto tanto meraviglioso quanto inutile, ha cercato di sorreggere quelle ragazze stanche e affamate di un altro continente con le sue mani minute che accarezzavano il vetro dello schermo. La vedevo mentre cercava di tendere loro il braccio per teletrasportarle sulla pista dove aerei dalla pancia grossa si dirigevano verso una salvezza qualsiasi. Le facevano troppo pena quelle ragazze giovani e intraprendenti, immerse come grumi di merda nel canale di scolo che costeggiava l’aeroporto internazionale Hamid Karzai.
“Dovrebbero stare in un’aula, davanti a una maestra o a un maestro,” mi ha detto con voce sconvolta, adirata. “Davanti a una lavagna, con in mano un gesso, una penna, una possibilità. Accidenti, devono stare in classe con una maestra o un maestro che gli apre una finestra sul mondo.” “Invece, hooyo,” sussurro io, “sono grumi di merda in un canale di scolo.” Grumi di merda destinati a diventare grumi di sangue. Sì, sangue e materia cerebrale. Quando il telegiornale ha dato la notizia di persone assiepate all’aeroporto di Kabul, ho visto la rabbia di hooyo trasformarsi prima in furia e poi in lacrime. Per giorni ha camminato nervosa dentro casa, per strada, nelle terre della sua fantasia, alla ricerca di qualcosa che riuscisse a calmare le raffiche del suo cuore ferito. Era arrabbiata per la triste sorte che stavano subendo le ragazze di Kabul, ma era arrabbiata anche per se stessa. Si era rispecchiata in quelle giovani dagli occhi da cerbiatto, ragazze con quaderni e penne in mano, e si era chiesta perché a molte persone, più donne che uomini, sia ancora proibito sognare.
Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio, Bompiani (collana Narratori Italiani), 2023¹; pp. 148-149.
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Fra' devi arrivare puntuale oggi. Ho un impegno", dico al telefono al mio collega che solitamente arriva in ritardo.
"Tranquilla, sto arrivando" mi risponde, e stavolta mantiene la parola.
Dopo pochi minuti arriva tutto trafelato. Mi squadra dalla testa ai piedi e, sorridendo maliziosamente, mi dice: " Immagino che oggi non pranzeremo insieme". Sorrido, il bacio di congedo e scappo. In strada mi chiedo se si capisca che oggi vedrò il mio Padrone. Mi rispondo: sì. Sempre molto attenta al mio aspetto, indubbiamente quando devo incontrare il mio uomo ho una luce particolare negli occhi, difficile da non cogliere. Raggiungo rapidamente il ristorante cinese dove pranzeremo. Inaspettatamente sono in anticipo e quindi rimango qualche minuto fuori dal locale ad aspettare. Quando lo vedo arrivare mi dico che l' effetto che mi fa è sempre lo stesso: lo ammiro nella sua eleganza e compostezza e mi eccito pensando a come cambierà totalmente in poco tempo. Entriamo nel ristorante e scegliamo, non a caso, un tavolo lontano da occhi indiscreti. Tolgo il cappotto mostrandogli un abitino nero che subito nota e apprezza. "Non hai visto ancora niente, amore" mi dico sorridendogli maliziosa mentre lo ringrazio per i primi complimenti. Non passa molto tempo e lui tira fuori dalla sua elegante giacca un plug blu, fiero delle dimensioni del giocattolo, e mi ordina di andare in bagno e indossarlo. Accetto ben volentieri, lo indosso e tengo in mano il perizoma appena sfilato. Si sa che un regalo deve essere sempre contraccambiato. Torno al tavolo tenendomi il culo: le dimensioni di quel Toy sono infatti modeste per il mio culo e ridendo glielo faccio presente. Sorpreso, mi dice che la prossima volta indosserò quello cattivissimo e subito mi pento della mia spavalderia: il plug in vetro di cui parla, infatti, è una vera e propria arma bianca. Ci raggiunge la titolare del locale che ci domanda in un italiano molto approssimato cosa vogliamo mangiare: lascio decidere a lui, adoro farlo. Rimasti soli, in attesa dei ravioli al vapore, mi bacia. Mi rendo conto che ormai quello che era un azzardo oggi è un bisogno. Gli consegno il perizoma. Il mio messaggio è chiaro e lui lo coglie al volo: inizia a frugare nella mia fica fradicia apprezzandone lo stato. Allungo anch'io le mani: il suo cazzo è meravigliosamente duro e vorrei scivolare sotto il tavolo per succhiarlo ma sono una signora e devo rimanere composta, seppur a gambe aperte e col culo pieno.
"Ma ti sembra una posizione da signora?" mi chiede eccitatissimo mentre gioca con il mio clitoride.
"No, ma io sono la tua Troia e adoro stare a gambe aperte quando sono con te" rispondo io. Ci baciamo ancora una volta, dopo di che assaggia quanto raccolto in mezzo alle mie gambe. Il pranzo è servito, iniziamo a mangiare i ravioli, parliamo tantissimo, ridiamo, ci provochiamo, programmiamo il nostro ormai prossimo incontro in albergo e lui continua a scoparmi la fica con la mano. Dopo un' ora devo andare in bagno per togliere il plug e indossare nuovamente il perizoma. Lo lascio seduto al tavolo in attesa, un' attesa che dura più del previsto, giusto il tempo di un orgasmo: giunta in bagno, infatti, devo assolutamente esplodere, attendo qualche istante un suo eventuale arrivo ma lui, si sa, è in pubblico un uomo tutto d'un pezzo, e allora sfilo il plug dal culo, lo appoggio sul wc e mi impalo fino all' esplosione. Tornata al tavolo mi scuso immediatamente per la prolungata attesa spiegando quello che mi ha trattenuta nel cesso. Mi guarda sorpreso.
"Lo hai fatto davvero?" Mi chiede con tono fermo.
"Ecco, ti sei beccata una bella punizione" mi dico tra me e me mentre annuisco fiera.
Sorride, è eccitato, molto eccitato e promette di devastarmi lunedì prossimo. Ci avviciniamo alla cassa per pagare il conto. La signora ci ringrazia e ci chiede se siamo stati bene.
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Con gli occhi celati dal buio ed in equilibrio instabile, cammino sui cocci di vetro taglienti ed aguzzi della mia vita. Ad ogni passo incerto che avanzo, un taglio squarcia profonda la carne. Ad ogni ferita un tormento, per ogni segno, che porto, una lotta ed una conquista. Posso contare le mie cicatrici e quante ne indossa fiera e con vanto la mia pelle, e gridare al mondo intero, quante volte c'è l ho fatta.
OscuroIo
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Hanno preso i biglietti
È che gli vorrei dire: “Guardate, è che sono di vetro! Non è una colpa, non c’è nulla che possa fare - questo è già quello che posso fare”.
Vorrei chiedergli in anticipo di non sbattere mai più una porta o gli occhi contro il mio sorriso esagerato e i miei tentativi stupidi di essere una persona completa, una con una vita ancora, tutta intera, invece che un’anima a fior di pelle (senza pelle) esposta al sole e a tutto il freddo, tutto insieme. Vorrei chiedere la pietà o forse anche la pena di uno sguardo isolato, vorrei che vedessero la forza che rappresento, e tutto il cuore che resta quando non hai più il cuore, più niente da perdere. Vorrei che guardandomi potessero vedere le notti di Valerio e le mie notti senza di lui, con lui, la morfina che l’ha ammazzato e nel frattempo tutto quello che noi non avevamo in sospeso, perché siamo stati perfettamente giusti a darci il senso di amarci e quello più complicato di perdonare tutti i luoghi in cui non siamo riusciti ad arrivare. Nessuno lo saprà mai, però, perché non lo so dire, e resto solo io a conoscere la lista ed il colore e la qualità di quelle ore, tutte le parole giuste e gli errori e la magia cui a volte ci siamo trovati increduli a soccombere. Abbiamo creduto increduli e non ci siamo illusi mai, non ci siamo mai traditi. Poi lui è morto e quindi resto io, complice della morfina e della rassegnazione e anche della vergogna soltanto lieve con cui a volte, quasi sempre di sera, nel silenzio delle mie stanze mi trovo ad usare la voce per chiamarlo come se ci fosse, chiamarlo come se potesse, chiamarlo a raccolta dentro di me e un po’ anche fuori, nei brandelli di mondo in cui si sta disgregando - in cui si è disgregato - e se lui mi sente o meno importa meno dell’idea che ho io su cosa ne penserebbe. Mi vuole bene. A lui piaccio così: ci piace così.
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“skater at sunset” photo by Fabrizio Pece (tumblr | 500px | instagram)
Il sole stava già iniziando la sua lenta discesa dietro gli edifici di mattoni rossi e intonaco che costellavano il centro della città. Una luce dorata tingeva il cielo, facendo brillare le finestre dei grattacieli come pezzi di vetro spezzato. Jack, un uomo di mezza età dalle spalle curve e dallo sguardo stanco, si trascinava lungo le strade trafficate, cercando di raggiungere casa dopo una giornata di lavoro che sembrava non avere mai fine.
Mentre si avvicinava al suo appartamento, passò davanti a un negozio di dischi di seconda mano che aveva sempre ignorato. Qualcosa, quella sera, attirò la sua attenzione. Una copertina sgargiante spiccava tra gli svariati album impolverati esposti nella vetrina. Era un disco di qualche band indie locale, ma ciò che catturò l'occhio di Jack fu l'immagine sulla copertina.
Al tramonto, su una pista da skate, in quella che sembra una città europea, uno skater si muoveva fluido con la sua tavola sotto i piedi. La silhouette nera del ragazzo si stagliava contro il cielo dai colori invecchiati dal passaggio del tempo. Il movimento della tavola da skate e del ragazzo disegnavano un'ombra allungata sulle piastrelle di cemento. Era un momento intrappolato nel tempo, un istante di pura grazia e abilità, catturato in una frazione di secondo.
Senza pensarci due volte, Jack varcò la soglia del negozio e chiese al commesso dietro al bancone di vendergli quel disco. Il giovane commesso, con una pettinatura alla moda e un paio di occhiali da sole sul naso, gli sorrise e accettò di buon grado la sua richiesta.
Tornato a casa, Jack mise il vinile sul giradischi polveroso che aveva ereditato da suo padre. Il suono scricchiolante della puntina che si posava delicatamente sulla traccia iniziò a riempire la stanza. Le note di chitarra si diffusero nell'aria, e Jack si ritrovò avvolto dalla melodia malinconica.
Chiuse gli occhi e si immaginò sul bordo di quella pista, al tramonto, mentre uno skater sconosciuto danzava con il pavimento in un perfetto equilibrio tra gravità e libertà. Sentì la brezza tiepida sulla pelle, assaporò la sensazione di libertà che solo uno skate e una strada deserta possono offrire.
La musica continuava a suonare, e Jack si lasciò trasportare in quel mondo di movimenti eleganti e sfide audaci. Quella copertina diventò per lui un portale, un ricordo che sfuggiva alle mani ma che, grazie alla musica, poteva rivivere ogni volta che lo desiderava. E così, nella sua solitudine quotidiana, trovò un rifugio in un tramonto urbano immortalato su una copertina di vinile.
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Federico Garcia Lorca
Pioggia
La pioggia ha un vago segreto di tenerezza
una sonnolenza rassegnata e amabile,
una musica umile si sveglia con lei
e fa vibrare l'anima addormentata del paesaggio.
È un bacio azzurro che riceve la Terra,
il mito primitivo che si rinnova.
Il freddo contatto di cielo e terra vecchi
con una pace da lunghe sere.
È l'aurora del frutto. Quella che ci porta i fiori
e ci unge con lo spirito santo dei mari.
Quella che sparge la vita sui seminati
e nell'anima tristezza di ciò che non sappiamo.
La nostalgia terribile di una vita perduta,
il fatale sentimento di esser nati tardi,
o l'illusione inquieta di un domani impossibile
con l'inquietudine vicina del color della carne.
L'amore si sveglia nel grigio del suo ritmo,
il nostro cielo interiore ha un trionfo di sangue,
ma il nostro ottimismo si muta in tristezza
nel contemplare le gocce morte sui vetri.
E son le gocce: occhi d'infinito che guardano
il bianco infinito che le generò.
Ogni goccia di pioggia trema sul vetro sporco
e vi lascia divine ferite di diamante.
Sono poeti dell'acqua che hanno visto e meditano
ciò che la folla dei fiumi ignora.
O pioggia silenziosa; senza burrasca, senza vento,
pioggia tranquilla e serena di campani e di dolce luce,
pioggia buona e pacifica, vera pioggia,
quando amorosa e triste cadi sopra le cose!
O pioggia francescana che porti in ogni goccia
anime di fonti chiare e di umili sorgenti!
Quando scendi sui campi lentamente
le rose del mio petto apri con i tuoi suoni.
Il canto primitivo che dici al silenzio
e la storia sonora che racconti ai rami
il mio cuore deserto li commenta
in un nero e profondo pentagramma senza chiave.
La mia anima ha la tristezza della pioggia serena,
tristezza rassegnata di cosa irrealizzabile,
ho all'orizzonte una stella accesa
e il cuore mi impedisce di contemplarla.
O pioggia silenziosa che gli alberi amano
e sei al piano dolcezza emozionante:
da' all'anima le stesse nebbie e risonanze
che lasci nell'anima addormentata del paesaggio!
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IL PESO DEL MONDO
Ho sofferto a lungo di dolori al collo. Ho cambiato sedia, ho comprato un collare ortopedico, ho fatto yoga, pilates, sono andata da un chiropratico e da medici di ogni genere, ma il dolore è continuato; un peso, un disagio che non mi faceva nemmeno dormire più. A volte era anche difficile per me respirare.
Poi, incontrai una saggia ed anziana donna.
Solo guardando la mia colonna vertebrale tesa e compressa,
solo tastando la mia pelle nuda con il suo tocco di mani vecchie e consumate.
Mi disse: "Hai portato così tante pressioni negli anni, così tanto dolore, da perderne il conto; porti il peso del tuo mondo e di quello degli altri."
- Sospirai...
Prese le mie mani, tra le sue mani nodose, di vecchia signora; mi fece abbassare le mani, sciogliere le spalle, sollevare il mento e si mise dietro di me. Le sue labbra sfiorano il mio orecchio e sussurrarono dolcemente:
- "Non tutto è colpa tua. "
- "Non tutto è tua responsabilità. "
- "Non puoi fare tutto. "
- "Non puoi sistemare tutto. "
- "Non devi farti carico di tutto. "
I miei occhi all'improvviso, iniziarono a versare lacrime spesse come vetro rotto...
C'è stato un momento in cui ho pensato che avrei pianto sangue, per quanto dolore stavo provando.
Piano piano le mie spalle sono tornate al loro posto, il mio collo è diventato morbido e si è rialzato, la mia schiena si è raddrizzata come non accadeva da anni e ho sentito le mie ossa come rinsaldarsi.
Il peso del mondo era sceso dalle mie spalle ed il peso del dolore del passato,
era finalmente caduto a terra.
Il peso del mondo.
Flora Azevedo
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