#occhi di vetro
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givemeanorigami · 2 years ago
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Non il mio cervello mal funzionante che, per un banalissimo occhio gonfio, si sta convincendo che stiamo perdendo un occhio, dovrò scegliere se adottare una benda come Elle Driver o se usare un occhio di vetro come il bisnonno che non ho mai conosciuto, e da questa mia perdita inizierà la mia scalata per diventare un villain.
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molecoledigiorni · 5 months ago
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- divenire -
Ho già visto tutto il mondo
nei suoi occhi
tutte le insonnie dei giorni amari,
tutta la dignità
di chi sta in ginocchio
di fronte al dolore.
Siamo divenire costante,
con un’ anima di vento
e un cuore di vetro.
©b.b.s
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angela-miccioli · 3 months ago
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La sposa di Pigmalione
Frigida ero, come la neve, l'avorio.
Pensai non mi toccherà,
lo fece.
Mi baciò le labbra di pietra.
Stavo immobile
come morta.
Persistè.
Passò col pollice sui miei occhi di marmo.
Pronunciò
rozze parole dolci, disse cosa avrebbe fatto e come.
Parole terribili
Le mie orecchie erano sculture.
Sorde come pietre, come conchiglie.
Sentivo il mare.
Lo feci annegare.
Lo sentii gridare.
Mi portò regali, sassolini levigati,
campanelline.
Non battei ciglio,
Non aprii bocca.
Mi portò perle, collane e anelli
li chiamava gingilli da bimba.
Mi brancicò con mani appiccicose.
Non mi ritrassi.
Bella statuina, muta!
Mi ficcò le dita nella carne,
strizzò, pigiò.
Non mi ammaccò.
Cercava i segni,
cuoricini viola,
stelle d’inchiostro, livide spie.
Le unghie erano artigli.
Non un frego, un graffio, uno sfregio.
Mi puntellò coi cuscini,
e mi redarguì tutta la notte.
Era ghiaccio il mio cuore, era vetro.
Era ghiaia la sua voce, strideva.
Diceva nero poi bianco.
Così cambiai tattica,
mi riscaldai come cera di candela,
ricambiai i baci,
fui morbida, malleabile,
cominciai a mugolare,
mi feci calda, sfrenata,
mi dimenai, spasimai, smaniai,
implorai un figlio suo,
e nell’orgasmo
urlai come invasata -
tutta scena.
Da allora non l'ho più visto.
Semplice, no?
🌟
Carol Ann Duffy
Lara Lyah
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susieporta · 4 months ago
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Stamattina, in fila al gate, osservavo una donna con i suoi genitori. Avrà avuto la mia età. Teneva la madre per mano e le sistemava i capelli, come fosse la sua bambina. La madre poneva domande e lei la tranquillizzava.
Ero ipnotizzata dalla loro interazione, li ho seguiti tutti e tre, finché non mi sono ritrovata a parlare con loro. La donna aveva uno zaino in cui teneva uno sgabellino per la madre, che ha paura di non riuscire a salire sui pullman.
Me ne cado, mi ha detto con inequivocabile accento calabrese.
Ma a salire su questa navetta, ha detto il marito indicandola oltre il vetro, ce la fai.
Mi piace tanto viaggiare, mi ha detto la madre con gli occhi sgranati, quasi fosse una dichiarazione inconfessabile. Erano chiarissimi, quegli occhi.
La figlia aveva preso i suoi genitori in Calabria, lei che vive a Milano, e li stava portando in crociera.
E la crociera parte da Genova?, ho chiesto.
No, da Atene.
Così ho capito che ero in fila al gate sbagliato e sono corsa via.
Mi è rimasta la sensazione di non averli salutati.
Ho invidiato quella figlia che può portare in viaggio i suoi genitori, perché loro hanno voglia di viaggiare: i miei non hanno fatto una vacanza in tutta la loro vita. Ho invidiato la dolcezza di quella donna, la sua pazienza. Ho invidiato quella madre che si affidava, che si faceva prendere per mano, che si lasciava rassicurare.
Ci sono cose che non ho mai fatto e che, ora lo so, non farò più. Il tempo finisce, a un certo punto.
Ma si può provare tenerezza per gli altri. Pensarli, ore dopo, mentre girano con uno sgabello nello zaino. I ruoli invertiti, com’è giusto, com’è naturale che sia.
Pensarli, in questa giornata di saluti. In questa giornata di padri che se ne vanno per sempre e di figli che dall’altare li salutano, in una chiesa piena, in una giornata di sole - che luce. C’è il mare, là dietro. Un figlio racconta un episodio dell’infanzia, buffo, intimo: riguarda suo padre. È con quel racconto che ci spacca il cuore.
Rosella Postorino
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libriaco · 12 days ago
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Gesù Bambino non è molto buono
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Era Natale. Attraversavo la vasta pianura. La neve era come vetro. Faceva freddo. L'aria era morta. Non un movimento, non un suono. L'orizzonte era circolare. Nero il cielo. Morte le stelle. Sepolta ieri la luna. Non sorto il sole. Gridai. Non mi udii. Gridai ancora. Vidi un corpo disteso sulla neve. Era Gesù Bambino. Bianche e rigide le membra. L'aureola un giallo disco gelato. Presi il bambino in mano. Gli mossi su e giù le braccia. Gli sollevai le palpebre. Non aveva occhi. Io avevo fame. Mangiai l'aureola. Sapeva di pane stantio. Gli staccai la testa con un morso. Marzapane stantio. Proseguii.
F. Dürrenmatt, [Wienacht, 1942], Natale in Racconti, Milano, Feltrinelli, 1996 [Trad. U. Gandini]
Immagine: Bambinello, Abbazia di Monte Uliveto Maggiore, Asciano (SI)
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lunamarish · 23 days ago
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Il paradiso sui tetti
Sarà un giorno tranquillo, di luce fredda come il sole che nasce o che muore, e il vetro chiuderà l’aria sudicia fuori del cielo. Ci si sveglia un mattino, una volta per sempre, nel tepore dell’ultimo sonno: l’ombra sarà come il tepore. Empirà la stanza per la grande finestra un cielo più grande. Dalla scala salita un giorno per sempre non verranno più voci, né visi morti. Non sarà necessario lasciare il letto. Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. Basterà la finestra a vestire ogni cosa di un chiarore tranquillo, quasi una luce. Poserà un’ombra scarna sul volto supino. I ricordi saranno dei grumi d’ombra appiattati così come vecchia brace nel camino. Il ricordo sarà la vampa che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Cesare Pavese
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canesenzafissadimora · 2 months ago
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Vi è mai accaduto di ritrovare qualcuno dopo tanto tempo e tanta vita in mezzo? A me sì. A fine luglio, nei direct di Instagram, mi è apparsa una notifica. Era mezzanotte, poco oltre. Il messaggio cominciava così: "Ci siamo scritti, per la prima volta, molti anni fa...". Aveva ragione. In principio, ci eravamo scritti nel 2008 - o giù di lì - e ci eravamo piaciuti subito, ma abitare in due città diverse complicava le cose e, in fondo, nessuno tra noi si sentiva veramente pronto. A dispetto delle difficoltà oggettive, nacque comunque un legame sincero, lieve, pulito. La sensazione di avere incontrato un'anima uguale alla propria e, insieme, il rammarico di non poterla sentire completamente vicina. Poi la vita, che fa la vita, tracciò il suo corso e lentamente, senza strappi, senza battaglie, ci perdemmo di vista. Così credevo, almeno. In realtà, lui non ha mai smesso di guardarmi, sia pure da lontano. Lui mi guardava e io non lo sapevo. Non me ne accorgevo. Di quante cose non mi sono accorta? Quante cose non ho visto? "Eravamo ragazzini" continuava il messaggio. Sì, lo eravamo. "Sei diventata una donna da ammirare". Lui un uomo bellissimo, con lo stesso cuore buono e la stessa delicatezza che così bene ricordavo. "Mi piacerebbe sapere come stai, quali strade hai percorso, e riprendere da dove avevamo interrotto...". Quella notte ho dovuto leggere e rileggere le sue parole molte volte prima di rispondere. È stato come una saetta, un lampo che entra d'un tratto, sfonda il vetro, illumina tutto a giorno e ti costringe a spalancare gli occhi. Il pomeriggio seguente l'ho sentito al telefono e la vita si è fatta improvvisamente piccola, si è compressa tutta in quella telefonata, in quella voce. Gli ho raccontato dell'auto, sapeva quanto la temessi. Ho detto una cosa che mi sembrava divertente, l'ho fatto per stemperare l'imbarazzo, lui ha riso tantissimo e io ho sentito una specie di disgelo calarmi nella pancia dopo secoli.
Da allora abbiamo cominciato a scriverci, con calma, con lentezza, con dolcezza. Io ho alzato molti muri, le mie ferite antiche continuano a spurgare, e l'ho costretto a sbatterci contro, a pagare conti che non sono i suoi conti. Eppure resta lì. "Ne parliamo a voce, se ne hai voglia" mi ha scritto tutte le volte in cui si è scontrato con uno dei miei scudi. "Se ne hai voglia" aggiunge sempre. Se te la senti, intende dire. Se mi permetti di entrare, senza forzature, senza pressioni, decidi tu la misura.
Lui non lo sa, ma ogni volta che esordisce a questo modo io vorrei tirarlo fuori dal telefono e baciarlo. Non lo sa perché non glielo dico, non gliel'ho mai detto, però stasera glielo scrivo, e lo faccio qui, dove in questi anni ho scritto pure il resto, dove ho tenuto traccia, dove mi sono spogliata a carne viva, libera dall'infamia, libera dalla vergogna. Mi pare equo, mi suona giusto.
Non ho idea di cosa sia e non voglio immaginare cosa diventerà. Per adesso mi piace pensare che, lì fuori, esiste qualcuno a cui so sempre dire: "Sì, ho voglia di parlarne".
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Antonia Storace - "Frumento e papaveri"
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gottdeswill · 9 months ago
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"Un mondo dove nessuno era capace di amare e le persone vivevano con l'anima vuota, nude di emozioni. Ma, nascosto al mondo intero, nella sua immensa solitudine, c'era un uomo vestito d'ombre. Un artigiano solitario, pallido e curvo, che, con i suoi occhi chiari come il vetro, era capace di fabbricare lacrime di cristallo.
La gente andava alla sua casa e chiedeva di poter piangere, di poter provare un briciolo di sentimento, perché nelle lacrime si nasconde l'amore e il più compassionevole dei commiati. Sono l'estensione più intima dell'anima, ciò che, più dell'allegria o della felicità, fa sentire veramente umani.
E l'artigiano li accontentava…
Incastonava negli occhi delle persone le loro lacrime con ciò che contenevano e quello era ciò che la gente piangeva: rabbia, disperazione, dolore e angoscia.
Erano passioni laceranti, delusioni e lacrime, lacrime, lacrime. L'artigiano infettava un mondo puro, lo tingeava dei sentimenti più intimi e estenuanti.
"Ricorda: al fabbricante di lacrime non puoi mentire", ci dicevano alla fine del racconto."
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gregor-samsung · 24 days ago
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" Aprii gli occhi e mi trovai faccia a faccia con Lucia. Una statua di marmo distesa sulla bara di vetro, come Biancaneve. L’iscrizione recitava: «Santa Lucia, vergine e martire, morta a vent’anni per amore del Signore». Infilai la mia busta nella buca della posta e le soffiai un bacio. Eppure anche quell’anno non ricevetti nulla. Temevo che in fondo mia madre avesse ragione. Inaspettatamente, l’anno seguente, a Santa Lucia ricevetti qualcosa per la prima e unica volta. Quel mattino, sullo scuolabus, raccontai a Latte e ai miei compagni tutto il ben di dio che avevo ricevuto: una biro multicolore, un quaderno, un album da colorare con le principesse, una confezione di gianduiotti. Ero talmente eccitata che non vedevo l’ora di parlarne alla maestra e a tutta la classe.
Non c’era Bebi Mia, la bambola da centocinquantamila lire sulla mia lista; e nemmeno l’orso Trudy o la casa di Barbie. Di fatto, non c’era niente di quanto avessi chiesto. Ma ero la bambina più felice del mondo. Spiegai a tutti che ero stata talmente fortunata da vedere la santa in carne e ossa. «Davvero? Dai, dicci un po’ com’è». «È vecchia», spiegai, «e ha la testa piena di ramoscelli». «Tipo treccine?». «Pensa un po’…», disse Pastasciutta, l’autista, lanciandomi uno sguardo scettico dallo specchietto retrovisore. Latte cercò di prendere le mie difese: «Guarda che è vero!». «Seeee… però le trecce le portano solo i negri», ribatté lui. «Senti un po’, non è che la vecchia negra era anche storpia?» «Veramente… sì, zoppicava…». Tutto il pulmino scoppiò in una risata. Perfino Latte non riuscì a trattenersi. «Sei proprio scema. Ma non vedi che era tua mamma? Che non è certo una santa». E per la prima volta persi un po’ della mia fede. "
Marilena Umuhoza Delli, Negretta. Baci razzisti, Red Star Press (collana Tutte le strade), 2020. [ Libro elettronico ]
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caoticoflusso · 9 months ago
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oggi in autobus fra la calca ho posato lo sguardo su una coppia, avranno avuto trentasei anni a vicenda su per giù. due bambini, di cui uno era seduto in braccio alla mamma, aveva la mano adagiata teneramente sul vetro e con gli occhi esplorava un po’ le macchine ferme al semaforo, indicando qualche cane al loro interno. ho pensato a quanto splendore abbiano le cose se viste da una prospettiva diversa, una prospettiva temporale decisamente opposta alla nostra: quella di un bambino, o una bambina.
la voce del più piccolo esclama: ‘che bella città!!’ come se non ci fosse stato mai, come se non sapesse neanche lui dove si trovasse. l’ingenuità delle sue parole, miste a quelle del più grande che con disinvoltura, guardava il resto dei passeggeri. talvolta pensiamo che ingenuità equivalga a stupidità e che, una volta cresciuti, è un bene lasciar spazio a consapevolezze e astuzia. io la penso sempre in modo diverso, il candore e l’innocenza devono far parte di noi per mantenere quello sguardo mai perso che possedevano quei bambini/quelle bambine che non abbiamo mai smesso d’essere. (sono quasi sicura che io abbia espresso una teoria del fanciullino rivisitata da me, un po’ moderna e meno intellettuale)
i due bimbi, infine, decidono di tirare la catena della borsa che avevano fra i due sedili, ho dedotto fosse della madre. il più piccolo, sorride. e così fa anche il più grande, con tanto di: ‘continua, stiamo facendo musica’ e c’ho trovato poeticità.
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licisca-73 · 3 months ago
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Fra' devi arrivare puntuale oggi. Ho un impegno", dico al telefono al mio collega che solitamente arriva in ritardo.
"Tranquilla, sto arrivando" mi risponde, e stavolta mantiene la parola.
Dopo pochi minuti arriva tutto trafelato. Mi squadra dalla testa ai piedi e, sorridendo maliziosamente, mi dice: " Immagino che oggi non pranzeremo insieme". Sorrido, il bacio di congedo e scappo. In strada mi chiedo se si capisca che oggi vedrò il mio Padrone. Mi rispondo: sì. Sempre molto attenta al mio aspetto, indubbiamente quando devo incontrare il mio uomo ho una luce particolare negli occhi, difficile da non cogliere. Raggiungo rapidamente il ristorante cinese dove pranzeremo. Inaspettatamente sono in anticipo e quindi rimango qualche minuto fuori dal locale ad aspettare. Quando lo vedo arrivare mi dico che l' effetto che mi fa è sempre lo stesso: lo ammiro nella sua eleganza e compostezza e mi eccito pensando a come cambierà totalmente in poco tempo. Entriamo nel ristorante e scegliamo, non a caso, un tavolo lontano da occhi indiscreti. Tolgo il cappotto mostrandogli un abitino nero che subito nota e apprezza. "Non hai visto ancora niente, amore" mi dico sorridendogli maliziosa mentre lo ringrazio per i primi complimenti. Non passa molto tempo e lui tira fuori dalla sua elegante giacca un plug blu, fiero delle dimensioni del giocattolo, e mi ordina di andare in bagno e indossarlo. Accetto ben volentieri, lo indosso e tengo in mano il perizoma appena sfilato. Si sa che un regalo deve essere sempre contraccambiato. Torno al tavolo tenendomi il culo: le dimensioni di quel Toy sono infatti modeste per il mio culo e ridendo glielo faccio presente. Sorpreso, mi dice che la prossima volta indosserò quello cattivissimo e subito mi pento della mia spavalderia: il plug in vetro di cui parla, infatti, è una vera e propria arma bianca. Ci raggiunge la titolare del locale che ci domanda in un italiano molto approssimato cosa vogliamo mangiare: lascio decidere a lui, adoro farlo. Rimasti soli, in attesa dei ravioli al vapore, mi bacia. Mi rendo conto che ormai quello che era un azzardo oggi è un bisogno. Gli consegno il perizoma. Il mio messaggio è chiaro e lui lo coglie al volo: inizia a frugare nella mia fica fradicia apprezzandone lo stato. Allungo anch'io le mani: il suo cazzo è meravigliosamente duro e vorrei scivolare sotto il tavolo per succhiarlo ma sono una signora e devo rimanere composta, seppur a gambe aperte e col culo pieno.
"Ma ti sembra una posizione da signora?" mi chiede eccitatissimo mentre gioca con il mio clitoride.
"No, ma io sono la tua Troia e adoro stare a gambe aperte quando sono con te" rispondo io. Ci baciamo ancora una volta, dopo di che assaggia quanto raccolto in mezzo alle mie gambe. Il pranzo è servito, iniziamo a mangiare i ravioli, parliamo tantissimo, ridiamo, ci provochiamo, programmiamo il nostro ormai prossimo incontro in albergo e lui continua a scoparmi la fica con la mano. Dopo un' ora devo andare in bagno per togliere il plug e indossare nuovamente il perizoma. Lo lascio seduto al tavolo in attesa, un' attesa che dura più del previsto, giusto il tempo di un orgasmo: giunta in bagno, infatti, devo assolutamente esplodere, attendo qualche istante un suo eventuale arrivo ma lui, si sa, è in pubblico un uomo tutto d'un pezzo, e allora sfilo il plug dal culo, lo appoggio sul wc e mi impalo fino all' esplosione. Tornata al tavolo mi scuso immediatamente per la prolungata attesa spiegando quello che mi ha trattenuta nel cesso. Mi guarda sorpreso.
"Lo hai fatto davvero?" Mi chiede con tono fermo.
"Ecco, ti sei beccata una bella punizione" mi dico tra me e me mentre annuisco fiera.
Sorride, è eccitato, molto eccitato e promette di devastarmi lunedì prossimo. Ci avviciniamo alla cassa per pagare il conto. La signora ci ringrazia e ci chiede se siamo stati bene.
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muffa21 · 2 months ago
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Mondo, mi inginocchio davanti ai tuoi piedi d’erbe. Sono qui per piangere. Ai maschi della mia specie insegnano fin da cuccioli come mantenere il volto sereno, la fronte ben spianata di fronte alle bufere. Siamo bravi a nascondere le bestemmie e il pianto. Siamo bravi a mentire, fino a provare disgusto di noi stessi. Ma oggi no. Davanti ai tuoi occhi muti, alle tue orecchie cieche, voglio piangere fino a che il petto non rassomigli ad uno dei tuoi deserti scosso da una violenta pioggia a lungo taciuta dal cielo. È l’idea di scomparire a turbarmi, Mondo. L’idea di perderti dopo avere amato ogni sporco gingillo che pende dalla tua schiena spossata dai secoli. Un torrente di immagini mi attraversa - ma non voglio impietrarne nessuna; potrei – e un solo lungo conato d’amore e di rabbia provo e cerco di farti comprendere. È una tortura sapere che nel giro di giostra di un secolo tutte le bocche sorridenti e ubriache che vedo muoversi come nuvoli di storni sopra i banchi di nebbia e di vetro dei sabato sera saranno prima un ghigno senza labbra e poi molecole che capriolano dentro ai venti morti delle sere invernali nelle spianate nude dei tuoi rocciosi tubercoli. È una tortura sapere quanta preoccupazione possa stipare nel ventre un essere umano prima di mollare le briglie, rilasciare gli sfinteri e arrendersi all’inutile comprensione dell’inutilità del lavoro, dei treni in ritardo, delle borse di Vuitton troppo care, dei parcheggi in doppia fila davanti alle sale scommesse, dei figli che non vogliono studiare, del fumo di sigaretta, del colesterolo alto, dei troppi caffè che fanno alzare la pressione; della sacra vita divorata dal nulla assoluto delle conversazioni di facciata e dall’ansia di arrivare fino in cima. In cima… Non si arriva mai alla cima. Il mio capolinea si chiama Nadir. Allo Zenit abbiamo posto una Lampada che ci indica la strada per arrivare al bagno, a scaricare i nostri pensieri rigonfi di tarme, e ad avere meno paura del buio. Piangere voglio, Mondo. Perché, come scriveva Majakovskij, passerò anch’io, trascinando il mio enorme amore e quando lo lascerò andare - perché a Nadir non accettano i fardelli di questo manicomio, che siano amore, spicci, bestiame o semplice polvere di cipria, cosa ne farai? - Come potrai digerirlo senza che la sua enormità ti strozzi?
Ti prego, dammi almeno questo: la forza di scrivere un verso, un verso solo, prima di sparire; un verso che abbia il vigore di nutrire l’illusione nutrita dalla Lampada. Che non illumini questo mio verso. Ma, come la lucetta rossastra nella camera dei nostri cuccioli, sia in grado solo di far provare meno paura… meno paura di te, Mondo.
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oscuroio · 3 months ago
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Con gli occhi celati dal buio ed in equilibrio instabile, cammino sui cocci di vetro taglienti ed aguzzi della mia vita. Ad ogni passo incerto che avanzo, un taglio squarcia profonda la carne. Ad ogni ferita un tormento, per ogni segno, che porto, una lotta ed una conquista. Posso contare le mie cicatrici e quante ne indossa fiera e con vanto la mia pelle, e gridare al mondo intero, quante volte c'è l ho fatta.
OscuroIo
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allecram-me · 3 months ago
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Hanno preso i biglietti
È che gli vorrei dire: “Guardate, è che sono di vetro! Non è una colpa, non c’è nulla che possa fare - questo è già quello che posso fare”.
Vorrei chiedergli in anticipo di non sbattere mai più una porta o gli occhi contro il mio sorriso esagerato e i miei tentativi stupidi di essere una persona completa, una con una vita ancora, tutta intera, invece che un’anima a fior di pelle (senza pelle) esposta al sole e a tutto il freddo, tutto insieme. Vorrei chiedere la pietà o forse anche la pena di uno sguardo isolato, vorrei che vedessero la forza che rappresento, e tutto il cuore che resta quando non hai più il cuore, più niente da perdere. Vorrei che guardandomi potessero vedere le notti di Valerio e le mie notti senza di lui, con lui, la morfina che l’ha ammazzato e nel frattempo tutto quello che noi non avevamo in sospeso, perché siamo stati perfettamente giusti a darci il senso di amarci e quello più complicato di perdonare tutti i luoghi in cui non siamo riusciti ad arrivare. Nessuno lo saprà mai, però, perché non lo so dire, e resto solo io a conoscere la lista ed il colore e la qualità di quelle ore, tutte le parole giuste e gli errori e la magia cui a volte ci siamo trovati increduli a soccombere. Abbiamo creduto increduli e non ci siamo illusi mai, non ci siamo mai traditi. Poi lui è morto e quindi resto io, complice della morfina e della rassegnazione e anche della vergogna soltanto lieve con cui a volte, quasi sempre di sera, nel silenzio delle mie stanze mi trovo ad usare la voce per chiamarlo come se ci fosse, chiamarlo come se potesse, chiamarlo a raccolta dentro di me e un po’ anche fuori, nei brandelli di mondo in cui si sta disgregando - in cui si è disgregato - e se lui mi sente o meno importa meno dell’idea che ho io su cosa ne penserebbe. Mi vuole bene. A lui piaccio così: ci piace così.
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jadarnr · 10 days ago
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TRINITY BLOOD
RAGE AGAINST THE MOONS
(Storia: Sunao Yoshida // Illustrazioni: Thores Shibamoto)
Vol. 1 - From the Empire
WITCH HUNT - CAPITOLO 4
Traduzione italiana di jadarnr dai volumi inglesi editi da Tokyopop.
Sentitevi liberi di condividere, ma fatelo per piacere mantenendo i credits e il link al post originale 🙏
Grazie a @trinitybloodbr per il suo prezioso contributo alla revisione sul testo originale giapponese ✨
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“Va tutto bene.” Si stava dicendo per farsi forza. Le luci del passaggio sotterraneo tremolarono. Durante il giorno lì c’erano degli operai al lavoro, ma dopo il tramonto era deserto. Per lo scopo di Eris, quella era la strada migliore per uscire dalla stazione dei treni.
“Va tutto bene.” Ripetè. Era abituata a scappare. Fosse da un bunker, da una casa sontuosa o da un vicolo buio… aveva avuto molte residenze temporanee.
Era sempre stata sola. Occasionalmente qualcuno era stato gentile con lei— finché non scoprivano i suoi poteri. Allora la abbandonavano. A dir la verità, spesso erano proprio quelle persone a diventare i suoi persecutori.
“Io sono dalla tua parte.” Ricordò le parole del prete. L’aveva detto sinceramente, ma non sapeva dei suoi poteri. Appena l’avesse scoperto, si sarebbe di certo rivoltato contro di lei, proprio come gli altri. Non poteva fidarsi di lui.
“Ah!”
Aveva udito un rumore dietro di lei. Era il piccolo peluche di gatto che le aveva regalato Abel, che si era staccato ed era caduto a terra. Il pupazzetto la guardava con i suoi occhi di vetro che riflettevano le luci tremolanti. Eris rimase per un attimo a fissarlo, incapace di provare rimorso o rimpianto.
“Inutile paccottiglia.” Disse in tono sprezzante. È davvero un oggetto senza alcun valore. Non potrei nemmeno farci dei soldi rivendendolo…
“Mmph.” Sbuffò, e si piegò per recuperare il pupazzo. Ma in quell’istante udì un forte botto e diverse ciocche dei suoi capelli dorati si dispersero in aria.
“Eh?!” Eris non capiva cosa stesse succedendo.
La parete dietro di lei era stata colpita da qualcosa che ora emetteva scintille bluastre. Un secondo dopo tutto intorno a lei si oscurò. Solo allora si rese conto che il proiettile che le aveva sfiorato la testa pochi istanti prima, era andato a conficcarsi nel quadro elettrico sul muro.
Vide un puntatore laser dalla luce rosso sangue che si faceva strada verso il suo obiettivo. Istintivamente si acquattò ed un attimo dopo sentì un secondo proiettile sfiorarle la punta del naso.
“Ehi!” Gridò, rendendosi conto di essere in reale pericolo.
Chi è che mi sta sparando contro?! E perché?
Terrorizzata, Eris si voltò per scappare ed il piccolo punto rosso del puntatore laser apparve sulla sua schiena. Aspettò che il terzo proiettile la colpisse andando a trafiggerle il cuore, quando si sentì chiamare da una voce familiare.
“Eris, attenta!”
Una figura indistinta apparve all’improvviso spingendola via.
In mezzo all’oscurità, al terrore ed all’eco degli spari, i due rotolarono insieme al riparo dietro ad una colonna.
Lei gridò di nuovo.
“È tutto ok, sei al sicuro ora.” Le sussurrò la voce in tono calmo. “È tutto a posto, per cui per piacere cerca di calmarti.”
“Padre?” Esclamò sorpresa.
Al buio non riusciva a distinguerne il volto, ma quella voce apparteneva sicuramente a quel prete.
“Come hai fatto a trovarmi?” Chiese.
“Ne parliamo dopo, ora corri!” Urlò Abel.
Una pioggia di pallottole si abbatté implacabilmente su di loro, trasformando la parete dietro di loro in una forma di groviera.
Corsero verso la colonna successiva, ma non riuscirono a raggiungerla.
Abel inciampò in una tubatura e cadde a terra, ma per fortuna riuscì a rotolare dietro ad un pilastro. L’abilità del cecchino, che riusciva a sparare con precisione tra quegli ostacoli nella completa oscurità era incredibile.
“Padre!”
Eris si aggrappò disperatamente al corpo di Abel, scuotendolo, ma non ci fu risposta. Tutto quello che sentiva era un respiro ansimante ed affannoso, e l’odore del sangue che le riempiva le narici.
E poi dei passi che si avvicinavano dal profondo dell’ oscurità, con un andamento quasi meccanico.
Le luci di emergenza si accesero improvvisamente; anche se in ritardo, il generatore di emergenza doveva aver iniziato a funzionare. Nella fioca luce gialla Eris intravide la canna di un’enorme pistola, puntata contro i due, e l’uomo che la stava impugnando.
“Non é possibile, cosa ci fai qui…?” Chiese Abel alzandosi a sedere afferrandosi la gamba colpita dalla pallottola e riconoscendo il volto del cecchino.
“Tres? Che ci fai qui?”
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gregor-samsung · 5 months ago
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Eravamo insieme davanti alla televisione mentre sullo schermo scorrevano le immagini della ritirata degli americani dall’Afghanistan, anno di grazia 2021, e l’arrivo dei talebani in varie città del paese. Le ragazze di Kabul fuoriuscivano dallo schermo, con i loro quaderni, i loro zaini, le loro matite, la loro voglia di non perdere l’istruzione e la vita che in quei decenni di relativa calma avevano ottenuto a suon di sacrifici. Quelle ragazze di un’altra latitudine le sono scoppiate letteralmente nel cuore. E ho visto hooyo [=mamma] tremare di rancore. Più volte si è alzata in piedi e si è avvicinata alla televisione. Più volte, con un gesto tanto meraviglioso quanto inutile, ha cercato di sorreggere quelle ragazze stanche e affamate di un altro continente con le sue mani minute che accarezzavano il vetro dello schermo. La vedevo mentre cercava di tendere loro il braccio per teletrasportarle sulla pista dove aerei dalla pancia grossa si dirigevano verso una salvezza qualsiasi. Le facevano troppo pena quelle ragazze giovani e intraprendenti, immerse come grumi di merda nel canale di scolo che costeggiava l’aeroporto internazionale Hamid Karzai.
“Dovrebbero stare in un’aula, davanti a una maestra o a un maestro,” mi ha detto con voce sconvolta, adirata. “Davanti a una lavagna, con in mano un gesso, una penna, una possibilità. Accidenti, devono stare in classe con una maestra o un maestro che gli apre una finestra sul mondo.” “Invece, hooyo,” sussurro io, “sono grumi di merda in un canale di scolo.” Grumi di merda destinati a diventare grumi di sangue. Sì, sangue e materia cerebrale. Quando il telegiornale ha dato la notizia di persone assiepate all’aeroporto di Kabul, ho visto la rabbia di hooyo trasformarsi prima in furia e poi in lacrime. Per giorni ha camminato nervosa dentro casa, per strada, nelle terre della sua fantasia, alla ricerca di qualcosa che riuscisse a calmare le raffiche del suo cuore ferito. Era arrabbiata per la triste sorte che stavano subendo le ragazze di Kabul, ma era arrabbiata anche per se stessa. Si era rispecchiata in quelle giovani dagli occhi da cerbiatto, ragazze con quaderni e penne in mano, e si era chiesta perché a molte persone, più donne che uomini, sia ancora proibito sognare.
Igiaba Scego, Cassandra a Mogadiscio, Bompiani (collana Narratori Italiani), 2023¹; pp. 148-149.
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