#nella doccia e nella tempesta
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Nella doccia e nella tempesta
Questi primi giorni di giugno mi sono scivolati addosso all'improvviso, mentre l'acqua tiepida della doccia avvolgeva le mie membra stanche, confondendosi con la pioggia scrosciante e i tuoni fragorosi che da qualche ora avevano preso in ostaggio la casa.
Ho pensato all'altra sera, in cui mi ero sentita leggera e spensierata, come se fossi stata la protagonista di una commedia americana ambientata in qualche paesino sperduto di campagna. C'era, infatti, la festa dell'oratorio, e mi ero unita al gruppetto solito di amici per assistere al torneo di calcio saponato, e fare il tifo sugli spalti di legno ammassati tra la gente, mentre le risate e le chiacchiere si disperdevano nella brezza leggera odorosa di fritto, fumo e cola. Non avevo mai visto una competizione sportiva di quel genere, perciò mi ero divertita, come accade ogni volta che imparo qualcosa di nuovo.
Mi sono poi tornati in mente i dieci euro che avevo trovato casualmente sotto ad un tavolo, e la gioia che avevo provato nel regalarli spontaneamente ad un'amica che era stata nell'area bimbi tutta la sera come membro dello staff di volontari.
Ho apprezzato, infine, la serenità con cui ho accettato dentro di me l'amara sorte di chi si innamora dell'impossibile e accoglie ciò che arriva, poiché soffocare le emozioni è la vera sofferenza, mentre lasciarle fluire nel proprio cuore permette di dar loro il giusto peso, liberarsi da deleterie fantasie, amare in modo puro e non precludersi nuove conoscenze.
Quanto era bello l'altra sera, l'impostore della mia quiete. Ogni volta che le nostre anime si toccano, mi sembra di vivere quella famosa descrizione di Tolstoj in "Guerra e Pace", che tanto piace alle pagine social di letteratura:
"Per alcuni istanti si guardarono negli occhi in silenzio, e ciò che era lontano, impossibile, a un tratto diventò vicino, possibile, inevitabile."
Nessun uomo, prima di lui, mi aveva mai guardato in un modo così stratificato: alla base c'è sempre la gioia, l'incanto e la paura di chi ha incontrato la donna della sua vita, ma poiché non la può avere al suo fianco come compagna, in privato si aggiungono una velata tristezza e una serena consapevolezza di poterci comunque essere per lei, mentre in pubblico prevalgono teneri sorrisi, guizzi dispettosi e occhiate fugaci, per poi concedersi di nascosto una dolcezza, un'ammirazione e un'intensità indescrivibili.
A volte vorrei mi stringesse a sé in un profondo abbraccio, nella doccia e nella tempesta. Tuttavia, non è questo il suo ruolo e la felicità di averlo tra i punti di riferimento del mio cammino di vita presente supera ogni ostacolo di natura umana.
Questi primi giorni di giugno mi sono corsi incontro pieni di gioia, come il nuovo cane della vicina, che mi aspetta ogni volta che esco dall'auto per riempirmi di coccole, ricordandomi che l'amore incondizionato è l'unica ragione per cui vale la pena vivere.
#ci tengo a precisare che la doccia è durata poco perché odio gli sprechi e l'acqua è preziosa#pensieri#amori impossibili#gioia di vivere#amore incondizionato#nella doccia e nella tempesta
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"Si verifica una rottura nella storia della famiglia, dove le età si accumulano e si sovrappongono e l'ordine naturale perde senso.
È quando il figlio diventa il padre di suo padre".
È quando il padre diventa anziano e inizia a muoversi come se fosse nella nebbia.
Lento, lento, impreciso.
È quando uno dei genitori che ti teneva saldamente per mano quando eri piccolo non vuole più stare da solo.
È quando il padre, una volta fermo e insuperabile, si indebolisce e prende fiato due volte prima di alzarsi.
È quando il padre, che in passato comandava e ordinava, oggi sospira, geme e cerca dove siano la porta e la finestra: ogni corridoio ora è lontano.
È quando uno dei genitori, una volta attivo e lavoratore, non riesce a vestirsi da solo e non ricorda di prendere le medicine.
E noi, come figli, non faremo altro che accettare che siamo responsabili di quella vita.
Quella vita che ci ha generato dipende dalla nostra vita per morire in pace.
Ogni figlio è il padre della morte di suo padre.
Forse la vecchiaia del padre e della madre è curiosamente l'ultima gravidanza.
La nostra ultima lezione. Un'opportunità per restituire le cure e l'amore che ci hanno dato per decenni.
E così come adattavamo la nostra casa per accudire i nostri bambini, bloccando le prese elettriche e mettendo i cancelli di sicurezza, ora cambieremo la disposizione dei mobili per i nostri genitori.
La prima trasformazione avviene nel bagno.
Saremo i genitori dei nostri genitori, ora metteremo un maniglione nella doccia.
Il maniglione è emblematico.
Il maniglione è simbolico. Il maniglione è inaugurare il "rimescolamento delle acque". Perché la doccia, semplice e rinfrescante, ora è una tempesta per i vecchi piedi dei nostri protettori.
Non possiamo lasciarli soli neanche per un momento.
La casa di chi si prende cura dei propri genitori avrà sostegni lungo le pareti.
E le nostre braccia si estenderanno in forma di corrimano.
Invecchiare è camminare sostenendosi agli oggetti, invecchiare è persino salire scale senza gradini.
Saremo estranei nella nostra stessa casa.
Osserveremo ogni dettaglio con paura e incertezza, con dubbio e preoccupazione.
Saremo architetti, designer, ingegneri frustrati.
Come non abbiamo previsto che i nostri genitori si sarebbero ammalati e avrebbero avuto bisogno di noi?
Ci lamenteremo dei divani, delle statue e delle scale a chiocciola. Rimpiangeremo tutti gli ostacoli e il tappeto.
Felice il figlio che è il padre di suo padre prima della sua morte, e povero il figlio che appare solo al funerale e non dice addio un po' ogni giorno.
Quel mio amico, ricordo, accompagnò suo padre fino agli ultimi minuti.
In ospedale, l'infermiera stava per spostarlo dal letto alla barella, cercando di cambiare le lenzuola, quando lui gridò dal suo posto: "Lasci che l'aiuti io.
" Raccolse le forze e per la prima volta prese suo padre tra le braccia. Appoggiò la testa di suo padre contro il suo petto.
Sistemò sulle sue spalle suo padre consumato dagli anni e dalla malattia.
Piccolo, rugoso, fragile, tremante. Rimase ad abbracciarlo per un bel po', il tempo equivalente alla sua infanzia, il tempo equivalente alla sua adolescenza, un bel po', un tempo interminabile.
Cullando suo padre da un lato all'altro.
Accarezzando suo padre. Calmandolo e dicendo a bassa voce:
"Sono qui, sono qui, papà!"
"Quello che un padre vuole sentire alla fine della sua vita è che suo figlio è lì."
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QUANDO NOSTRO PADRE COMINCIA A MORIRE
Quando il padre invecchia e comincia a trotterellare come se fosse nella nebbia. Lento, lento, impreciso.
È quando uno dei genitori che ti teneva stretta la mano quando eri piccolo non vuole più restare solo. È quando il padre, un tempo fermo e insormontabile, si indebolisce e fa due respiri prima di alzarsi dal suo posto.
È quando il padre, che un tempo aveva comandato e ordinato, oggi non fa altro che sospirare, solo gemere, e cerca dove siano la porta e la finestra: ogni corridoio è ormai lontano.
È quando un genitore precedentemente volenteroso e laborioso non riesce a indossare i propri vestiti e non ricorda i farmaci che ha preso. E noi, da bambini, non faremo altro che accettare di essere responsabili di quella vita. Quella vita che ci ha dato i natali dipende dalla nostra vita per morire in pace.
Forse la vecchiaia del padre e della madre è curiosamente l'ultima gravidanza. Il nostro ultimo insegnamento. Un'opportunità per ricambiare la cura e l'amore che ci hanno donato per decenni. E proprio come abbiamo adattato la nostra casa per prenderci cura dei nostri bambini, bloccando le prese della luce e montando dei box, ora cambieremo la distribuzione dei mobili per i nostri genitori.
La prima trasformazione avviene nel bagno.
Saremo i genitori dei nostri genitori che ora metteranno una sbarra sotto la doccia. Il bar è emblematico. Il bar è simbolico. La sbarra inaugura il ��detemperamento delle acque”. Perché la doccia, semplice e rinfrescante, è ormai una tempesta per i vecchi piedi dei nostri protettori. Non possiamo lasciarli per nessun momento.
La casa di chi si prende cura dei propri genitori avrà dei rinforzi ai muri. E le nostre braccia saranno estese sotto forma di ringhiere. Invecchiare è camminare aggrappandosi agli oggetti, invecchiare è anche salire le scale senza gradini. Saremo estranei a casa nostra. Osserveremo ogni dettaglio con paura e ignoranza, con dubbio e preoccupazione. Saremo architetti, designer, ingegneri frustrati. Come non prevedere che i nostri genitori si sarebbero ammalati e avrebbero avuto bisogno di noi?
Rimpiangeremo i divani, le statue e la scala a chiocciola. Rimpiangeremo tutti gli ostacoli e il tappeto. E a nostro padre si saluta un po' tutti i giorni...
Un uomo di nome José accompagnò suo padre fino ai suoi ultimi minuti.
In ospedale, l'infermiera stava facendo la manovra per spostarlo dal letto alla barella, cercando di cambiare le lenzuola quando José gridò dal suo posto: - Lascia che ti aiuti! - . Raccolse le forze e prese suo padre sulle ginocchia per la prima volta.
Appoggiò il volto di suo padre al petto. Ha messo sulle sue spalle il padre consumato dal cancro: piccolo, rugoso, fragile, tremante. Rimase abbracciato a lungo, il tempo equivalente alla sua infanzia, il tempo equivalente alla sua adolescenza, un tempo bello, un tempo infinito.
Dondolando suo padre da una parte all'altra.
Accarezzare suo padre.
Calmare suo padre.
E gli disse sottovoce:
- SONO QUI, PAPÀ!
Ciò che un padre vuole sentire alla fine della sua vita è che suo figlio è "lì" per dirgli... Vacci piano. Ti diamo il permesso, non preoccuparti... Andrà tutto bene! 🙏🏽
Queste meraviglioso testo lo aveva trovato anni fa. Dopo la morte del mio padre. Non ho potuto arrivare in tempo prima che lui mancase.
Grazie papà ovunque la nel spazio infinito sta te e tutti mie antenati. Mi manchi.
Xiukiauitzincheko Escandon
Nagual Sciamano dell’anima
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우리가 여전히 서로를 사랑하는 이유와 성숙한 방식으로 서로를 계속 사랑해야 하는 이유:
Quando ci conoscemmo non potetti non notare quei bei grandi occhioni verdi,avvolti da una nube di tristezza ma ch'ero sicuro nascondessero il mondo più bello tra i mondi esistenti.Ci aiutammo sempre a vicenda,ma partiamo dagli inizi.
Arrivammo nella nostra vita come un fulmine a ciel sereno,quella sera,a Etnapolis,e capimmo dal profondo del nostro cuore che saremmo stati destinati a stare insieme,magari per tutta la vita,o magari anche per tutte le altre.Ma andiamo avanti.
Cominciammo da quella sera,in cui tu studiavi ed io rimasi solo.Lì ci aprimmo l'uno all'altra,con la piena consapevolezza che quella persona fosse quella giusta.Scoprii che stessi passando il periodo peggiore della tua vita,in cui l'universo rischiava di perdere la sua stella più fragile ma al contempo più bella.Riuscii a salvarti,e tu mi dicesti che cominciasti ad assaporare finalmente le prime lacrime di gioia della tua vita.Tutto era bellissimo,sembrava una favola da raccontare ad ogni piccola anima.
Crescemmo insieme,cominciammo ad affrontare innumerevoli difficoltà.Tu sei sempre stata sicura di me,nonostante tutto.Io ti ringraziai come possibile,nonostante gli enormi ostacoli incontrati nello svolgimento della nostra storia.La nostra giovane età,la nostra eccessiva gelosia e tante altre cose,come ogni coppia,a qualunque età.
Tutte le volte in cui da casa andai alla fermata dell'autobus correndo sotto il sole cocente di giugno,le volte in cui litigammo coi nostri genitori per riuscire a realizzare i nostri comuni desideri,la volta in cui dormii su uno scivolo al tuo Paese,la volta in cui dormii nell'atrio di un condominio solo per un'ora in più nel nostro piccolo ma grande primo anniversario.
La nostra prima volta,dove con immenso amore ci aiutammo a conoscerci a vicenda i nostri ancora innocenti corpi con tanta comprensione,la volta in cui salii per il tuo sedicesimo compleanno nonostante una tempesta in atto,con i tuoi fiori preferiti e i tuoi regali più belli che potevo donarti.
Tutte le volte in cui la mattina,per una singola ora,ci alzammo presto per poter stare insieme alla Spa,quando tu invece ti improvvisasti mia eccellente estetista,dato quanto ci tenevi a vedermi con lo smalto alle unghie nonostante io agli inizi non fossi molto d'accordo.Cosa non si fa per vedere quel tuo splendido sorriso,caratterizzato da dei dentini da bimba?
La volta in cui a Centuripe ci baciammo sotto l'ombrello nel bel mezzo di una breve tempesta,ma a noi cosa importava dell'acqua?Avevamo il nostro prototipo ideale finalmente davanti,con ancora ignari i difetti a vicenda,ma che eravamo sicuri di riuscire a superare.
Il nostro primo concerto insieme,dove pur di stare insieme mettemmo i soldi di tasca nostra per stare fianco a fianco.Io che ti tenni lo zaino e tutto ciò che avevi alla fine del concerto,perché stremata.
Il nostro primo concerto insieme,ma da soli,ad ascoltare tutte le canzoni che ti dedicai del mio cantante preferito,dove pur di avere la tua presenza al mio fianco ci facemmo accompagnare da mio cognato e pagai totalmente di tasca mia per te,perché alla fine,sennò per chi?
E poi quello di Elisa.Altra bellissima esperienza condivisa insieme... "Con te mi sento come una bambina la tua mano nella mia" "Io non ho mai provato niente di così profondo per nessuno mai"
Entrambi,insomma,l'uno per l'altra ci siamo sempre stati.
La mia prima volta in aereo,dove disperata ti preoccupasti come non mai per quel dettaglio delle unghie verdi e abbinate,dimenticandoti quanto basterebbe solo il tuo viso per rendere magnifico un qualunque contesto.
Tutto per andare in quella meravigliosa città di Venezia,insieme alla meravigliosa persona della mia vita.Insaziabili visitammo ogni centimetro di quella città,non curandoci per nulla dei soldi.Ancora penso a quando mi sorridesti in bagno appena usciti dalla doccia.
La volta in cui di nascosto ci vedemmo a casa tua,la volta in cui di nascosto scendesti qui a Paternò solamente per vederci,nonostante l'odiata herpes.
La volta in cui non riuscimmo a resistere dal baciarci al Belvedere,nonostante sempre l'odiosa herpes,ma ci bastava "sentire la forma delle labbra".
La prima volta che facemmo petting lì a centuripe,le sensazioni più belle della nostra vita.
La volta in cui ti stetti accanto tutta la giornata quando prendesti quella maledetta storta,e conobbi tuo meglio tuo nonno.Mi improvvisai medico per riuscire a convincere tua mamma di ciò che dicessi per riuscire a farti stare meglio e calmarti.
Il nostro primo anime insieme,la nostra fantastica intesa negli amplessi.
Mi dicesti che fossi "tipo quella finestra che desse luce alla stanza."
Al primo regalo di natale che mi facesti,mi dicesti che vedessi gli aculei di quel peluche come "quelli tuoi per proteggere attorno a questa piccola cupola le nostre piccole vite".
Mi promettesti che avremmo giocato al videogioco regalato insieme,spero che riuscirai a mantenere questa promessa.
Il bracciale che mi regalasti per poterci sentire vicini nonostante la distanza.
Il nostro primo ferragosto,la nostra prima notte in tenda.
Mia Helèna,ci sono talmente tante cose che dovrei cercare di ricordarti che non ce ne stanno più in questo foglio,è difficile scrivere la bellezza intera di due anni e due mesi e mezzo.
Non ho scritto appositamente nulla degli eventi brutti,perché sono solo quelli che al momento hai detto riesci solamente a ricordare.
Purtroppo nessuna relazione è interamente perfetta,e ogni età ha le sue problematiche.
Sono veramente pentito di tutte le volte in cui a causa della mia insicurezza data anche dalla mia età e della mia immaturità.
La tua unica colpa è stata quella di amare davvero "troppo" nel vero senso della parola,mettendoti troppo da parte e non riuscendo a preservare te stessa all'interno della relazione.
Ti chiedo per l'ultima volta,mia Helèna,perdono per tutti gli errori che ho commesso all'interno di questi splendidi anni.
Spero che nel tempo riuscirai a metterti alle spalle quelle terribili parentesi per poterti godere la versione migliore di me.Ti prometto che se un giorno torneremo insieme,che sia tra settimane o mesi,tutto ciò che hai subito non riaccadrà mai più.
Se ti sentirai di darci una seconda possibilità,vedrai con i tuoi stessi occhi le differenze che ci saranno col Simone piccolo,insicuro e immaturo di anni fa.
Adesso sto cominciando nuovamente a stare bene grazie a qualcosa di cui forse poi parlerò,ma non posso farlo in questo momento.
Dolce Helèna,al momento amo te e spero che un giorno,che sia tra settimane o mesi,riusciremo a tornare insieme con le nostre versioni migliori e amarci per quello che saremo.Rimaniamo e rimarremo per sempre i nostri prototipi ideali perfetti.
Ti amo per quello che sei e per ciò che potrai diventare nella vita crescendo,ti amerei sempre per quello che saresti.Spero mi darai modo di dimostrarlo,alla fine,non sarebbe niente di definitivo.
Spero infine di averti ricordato,seppur non aver detto tutto al 100% data l'enorme quantità di eventi belli e positivi di questi anni,perché continui ancora ad amarmi,a sperare e metterti quella fede al dito.
Spero tanto che questo amore si trasformi e ci permetta poi in futuro di viverci bene e interamente per ciò che saremo.
Ti amo,mia piccola bimba.💙
-Papi ;)
PS: If you hadn't changed,then I'd still be by your side.If I gave you one more chance,can we go back again?
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Si verifica una rottura nella storia della famiglia, dove le età si accumulano e si sovrappongono e l'ordine naturale perde senso: è quando il figlio diventa il padre di suo padre. È quando il padre diventa anziano e inizia a muoversi come se fosse nella nebbia. Lento, lento, impreciso. È quando uno dei genitori che ti teneva saldamente per mano quando eri piccolo non vuole più stare da solo. È quando il padre, una volta fermo e insuperabile, si indebolisce e prende fiato due volte prima di alzarsi. È quando il padre, che in passato comandava e ordinava, oggi sospira, geme e cerca dove siano la porta e la finestra: ogni corridoio ora è lontano. È quando uno dei genitori, una volta attivo e lavoratore, non riesce a vestirsi da solo e non ricorda di prendere le medicine. E noi, come figli, non faremo altro che accettare che siamo responsabili di quella vita. Quella vita che ci ha generato dipende dalla nostra vita per morire in pace. Ogni figlio è il padre della morte di suo padre. Forse la vecchiaia del padre e della madre è curiosamente l'ultima gravidanza. La nostra ultima lezione. Un'opportunità per restituire le cure e l'amore che ci hanno dato per decenni. E così come adattavamo la nostra casa per accudire i nostri bambini, bloccando le prese elettriche e mettendo i cancelli di sicurezza, ora cambieremo la disposizione dei mobili per i nostri genitori. La prima trasformazione avviene nel bagno. Saremo i genitori dei nostri genitori, ora metteremo un maniglione nella doccia. Il maniglione è emblematico. Il maniglione è simbolico. Il maniglione è inaugurare il "rimescolamento delle acque". Perché la doccia, semplice e rinfrescante, ora è una tempesta per i vecchi piedi dei nostri protettori. Non possiamo lasciarli soli neanche per un momento. La casa di chi si prende cura dei propri genitori avrà sostegni lungo le pareti. E le nostre braccia si estenderanno in forma di corrimano. Invecchiare è camminare sostenendosi agli oggetti, invecchiare è persino salire scale senza gradini. Saremo estranei nella nostra stessa casa. Osserveremo ogni dettaglio con paura e incertezza, con dubbio e preoccupazione. Saremo architetti, designer, ingegneri frustrati. Come non abbiamo previsto che i nostri genitori si sarebbero ammalati e avrebbero avuto bisogno di noi? Ci lamenteremo dei divani, delle statue e delle scale a chiocciola. Rimpiangeremo tutti gli ostacoli e il tappeto. Felice il figlio che è il padre di suo padre prima della sua morte, e povero il figlio che appare solo al funerale e non dice addio un po' ogni giorno. Il mio amico Joseph Klein accompagnò suo padre fino agli ultimi minuti. In ospedale, l'infermiera stava per spostarlo dal letto alla barella, cercando di cambiare le lenzuola, quando Joe gridò dal suo posto: "Lascia che ti aiuti." Raccolse le forze e per la prima volta prese suo padre tra le braccia. Appoggiò la testa di suo padre contro il suo petto. Sistemò sulle sue spalle suo padre consumato dal cancro: piccolo, rugoso, fragile, tremante. Rimase ad abbracciarlo per un bel po', il tempo equivalente alla sua infanzia, il tempo equivalente alla sua adolescenza, un bel po', un tempo interminabile. Cullando suo padre da un lato all'altro. Accarezzando suo padre. Calmandolo. E diceva a bassa voce: "Sono qui, sono qui, papà!"
(dal web)
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Sacrifice, Chapter 35
Pairing: Wanda Maximoff & James Bucky Barnes
L'acqua scorreva lentamente su tutto il suo corpo, eliminando completamente la schiuma del sapone e bagnando una seconda volta le sue braccia scoperte, si passò le mani fra i capelli e poi chiuse definitivamente la chiave dell'acqua. Aprì la vetrata a cerniera della doccia, prendendo l'asciugamano messo sul lavandino e avvolgendolo attorno al suo corpo. Poggiò le mani sul lavandino facendo un respiro profondo e chiudendo gli occhi.
Credeva che facendo così la scena di pochi giorni prima potesse scomparire da dentro la sua testa e lasciarla in pace. Ma da quando era tornata a casa quella sera, non è andata così. Ogni secondo di ciò che era successo in quel momento veniva visto e rivisto nella mente di Wanda come se fosse un disco incantato ma che al posto di ripetere le stesse frasi, della stessa canzone metteva in scena lo stesso momento.
Lui che le prende le mani e si avvicina di poco, lei che chiude gli occhi e subito dopo sente il contatto con le sue labbra. Labbra dolci, delicate, morbide ma che subito con solo quel contatto le avevano fatto toccare il cielo con un dito. L'avevano fatta sentire viva anche per solo un secondo ma quel secondo è bastato per farle capire che se era così, se doveva stare con James, sarebbe stata bene tutta la vita.
Decise di darsi una mossa prima ancora che le altre ragazze la dessero per dispersa in bagno. Si tolse l'asciugamano di dosso e iniziò a vestirsi con il suo pigiama che consisteva in un leggings nero e una felpa grigia con una stampa completamente rovinata. Poi strofinò la stessa asciugamano sui capelli bagnati e iniziò a pettinarli asciugandoli poi con il phon, finì solo alcuni minuti dopo e sbuffò alcune ciocche di capelli lunghi che le erano andate di fronte agli occhi.
Aveva bisogno di tagliarli anche se non sapeva ancora se quella era la scelta migliore da prendere. Prese l'asciugamano che aveva usato e l'avvolse mettendola nel cesto dei panni sporchi e poi aprì la porta del bagno sentendo le voci delle sue amiche fuori di essa.
"Finalmente! Pensavamo che ti fossi persa nella doccia"disse Carol da lontano.
"Beh, non sono come AntMan che si rimpicciolisce"disse lei rispondendola e prendendo la spazzola.
Spense la luce del bagno e chiuse la porta dietro di se, si diresse poi verso quello che doveva essere il suo materasso improvvisato durante la notte. Per la prima volta nella sua vita, Wanda partecipava ad un pigiama party e non era sola. C'erano Natasha, Carol, la ragazza di Thor e Valerie la sua migliore amica. Erano tutte e tre a casa di Nat e la sua camera era completamente invasa da coperte, cuscini e plaid colorati. Inoltre mille buste di patatine, coppe di gelato, altre buste di biscotti e barattoli di burro d'arachidi. Un pigiama party perfetto.
"Se non sei come AntMan che si rimpicciolisce, allora perché ci hai messo così tanto tempo in bagno?"chiese Carol curiosa prendendo un biscotto dal piatto messo al centro fra loro quattro.
"Lo so io perché Carol..."disse Natasha rivolgendosi in maniera ammiccante a Carol.
"Nat..."iniziò a dire Wanda e si colpì la fronte con una mano.
"Perché?"chiese l'altra bionda.
"Barnes"
"Cosa?"chiese Valerie mentre mangiava anche lei il suo biscotto, stava rischiando di affogarsi.
"L'ex capitano della squadra di basket?"chiese Carol.
"Anche l'ex di Sharon"disse Natasha corregendo Carol.
"Nat, andiamo! Possiamo concentrarci sul tuo secondo appuntamento con il nuovo capitano della squadra di basket?"
"No, ferma una cosa alla volta! Lui ti piace?"chiese Valerie rivolgendosi a Wanda e allargando le braccia.
Wanda ci pensò un'attimo e anche se poteva dire una bugia di fronte alle sue amiche, non poteva certamente mentire a sé stessa perché sennò non avrebbe ricambiato il bacio che ci è stato alcuni giorni prima.
"Si, ci siamo baciati"disse lei buttando fuori tutta la verità.
"Cosa?"chiese Natasha urlando mentre Carol e Val guardavano felici Wanda.
"Si, è andata così! Ora non urlare sennò mi imbarazzi ancor di più"
"Okay, okay, mi calmo..."disse Natasha e fece un respiro profondo.
"E lui lo sa?"chiese Valerie dopo che Natasha aveva smesso di urlare.
"Si, gli piaccio anche io e...beh avete capito quello che è successo dopo, no?"
"Come è stato?"chiese Carol.
"Dopo che eravamo usciti dalla palestra per le ripetizioni, lui come al solito mi ha accompagnata a casa e improvvisamente mentre stavamo parlando ha iniziato a piovere e...abbiamo iniziato a correre fin quando ci siamo fermati sotto un tendone di un negozietto. Gli avevo detto che la prossima che avrei nominato la parola tempesta avrebbe dovuto tapparmi la bocca con del nastro e lui mi ha risposto dicendo che sarebbe passata e da lì in poi abbiamo iniziato a ridere fin quando..."
Sapeva che sarebbe andata a fondo in questa storia, sapeva che sarebbe uscito qualcosa fuori che non sarebbe dovuto uscire. Il suo segreto lo sapevano solo Nat, Steve, Sam e James e non sapeva se dirlo anche a Carol e Valerie. Ma Natasha la guardò e le fece un cenno, come per continuare con quello che aveva da dire.
"Fin quando?"chiese Carol senza aspettare un'altro minuto in più.
"Avendo un tumore non posso fare troppi sforzi, mangiare poco oppure prendere troppo freddo..."
"Che cosa? Un tumore?"
"Dici sul serio?"chiese Valerie dopo lo shock di Carol.
"Si...è al midollo osseo, me l'hanno diagnosticato quando avevo 12 anni..."
"E lo dici così?"chiese Carol.
"È stato difficile anche per lei farcelo scoprire, è la prima volta che Wanda lo dice apertamente"disse Natasha rassicurando le due ragazze di fianco a lei e Wanda che stava per piangere.
"Vieni qui!"disse Valerie allargando le braccia e tirandosi Wanda, poi Carol e infine Natasha.
Finalmente nella sua vita Wanda si sentiva completamente amata, dalle sue nuove amiche, dalla sua famiglia e da qualcuno che le aveva rubato il cuore. E voleva stare così per tutta la vita. Con tutto l'amore che stava ricevendo.
"E lui lo sa?"chiese poi Valerie e vedendo che lei stava ancora piangendo le passò un fazzoletto dalla scatola.
"Si, lo sa...quando ero in clinica era venuto a trovarmi e si è praticamente dichiarato a me, solo che in quel momento non avevo sentito una sola parola di ciò che aveva detto. Riempirsi di antibiotici porta parecchia sonnolenza e quella sera presi sonno velocemente, solo che tutto quello che mi aveva detto l'aveva sentito mia madre..."
"E lei cosa ha fatto? L'ha mandato via?"
"No, non l'ha fatto perché sapeva prima di me le chiare intenzioni che ha James con me. Non gli interessa del tempo che potrà passare con me, della malattia che ho e neanche del fatto che questa un giorno, forse, può portarmi via per sempre. Lui...lui mi ama, più della sua stessa vita e anche se proverò ad allontanarlo, lui starà sempre lì e non andrà mai via..."
Le due restarono scioccate e passarono alcuni secondi prima ancora che riprendessero parola.
"Wow, il ragazzo è proprio cotto"disse Carol bevendo il suo succo di frutta.
"Solo il ragazzo? Io direi che Wanda non è solo cotta ma bruciata..."e Wanda a quella affermazione di Valerie scoppiò a ridere.
"E quando ti ha baciato ti ha detto questo?"chiese invece Carol e Wanda annuì semplicemente.
"Oddio che romantico!"disse Natasha alzando la voce una seconda volta in quella serata e facendo ridere sia Carol che Valerie mentre Wanda si stava imbarazzando.
"Okay, okay...possiamo passare ad un'altro argomento?"chiese Wanda.
"Si...possiamo parlare di quanto siano buoni questi biscotti ripieni alla mela?"chiese Carol.
"Ma come l'hai finiti tutti?"chiese Natasha mentre Valerie e Wanda se la ridevano e Carol fece una faccia da finta offesa.
Natasha uscì dalla sua stanza sbuffando e ne tornò con altre confezioni di biscotti.
"Ci vuoi far ingrassare?"chiese Carol.
"Hai iniziato tu!"le rispose Natasha scoppiando a ridere insieme alle altre tre.
Il resto della serata trascorse fra risate, altri segreti e altri biscotti finiti, fin quando solo alle due di notte tutte e quattro presero sonno, anche se una di loro aveva ancora la testa e il cuore da un'altra parte.
#alternative universe#black widow#brock rumlow#captain america#falcon#james barnes#maria hill#marvel#natasha romanoff#pairing#writing#sharon carter#the winter soldier#sam wilson#stevenat#romanogers#scarlet soldier#winterwitch
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A TE.
El amor puede llegar a ser algo tan difícil de entender y comprender.. pero, cuando se trata de nosotros no es algo que se tenga que entender, se siente, se vive, se lleva dentro. Porque he visto tanto y vivido tanto que estoy seguro que lo nuestro no es nada parecido a lo común, a pesar de que la longitud terrenal y el pasar de las primaveras nos han alejado, siempre has estado en ese cofrecito de amor eterno que nos juramos, presente, palpitante y vivo, como fuego devorando un árbol viejo y seco. Ardiente y vivas. He estado viendo pasar el tiempo de la manera mas preciosa que he comprendido y más cuando se ha tratado de ti, tú que me has dado el tiempo sin medirlo, que me ha dado la luz en la tiniebla y el arcoíris después de la tormenta, hoy quiero expresarte como eres capaz de llenar de color mis días, aún mejor que el sol, el debe sentir celos de ti, sol de mis días y esperanza de mi vida. Acogedora y cálida presencia que ahuyenta las noches frías y gélidas.
Caracolito, Venezuela.
la playa soleada, tu y yo, el mejor acompañante era nuestro amor.
La ducha, Hotel tropical
Sentimos en cuerpo lo que gritaban nuestros corazones.
Limbiate, Italia
mi cumpleaños, día lluvioso y un amor hecho torta. festejado al lado de personas donde solo importabas tú.
Recuerdos plasmados en mi mente y corazón que trascienden los años, los meses, los días, las horas y los minutos. Aunque nosotros hemos querido alejarnos, la vida y el destino nos coloca en el mismo camino, esto no es coincidencia, el universo conspira a mi favor para tenerte en mi vida y espero que perdure toda la vida. El tenerte lejos de mÍ causa un dolor que ha terminado desde el primer instante en que me dijiste “estoy aquí para ti”. Palabras que me llenaron de felicidad mi corazón.
Mi amor déjame decirte que:
No te quiero por tus tetas, aunque sé que son perfectas, tampoco por tus caderas, sé muy bien que cualquiera se moriría por ellas.
Mucho menos por tus nalgas, que son el lugar cálido para mi fría noche de invierno.
Y no, aunque lo pienses, tampoco te quiero porque seas bonita, mi cariño va más allá de eso.
¿Sabes porque te quiero?
Porque desde el día en que te conocí, me dejaste ver a la chica que llora cuando todos duermen.
A la que es: Insegura, callada, tímida, rota, triste, tierna, sonriente, y feliz.
A la que siempre trata de hacer las cosas bien, a pesar de que fracase en el intento.
A la que no odia a nadie, a pesar de que todos la odien a ella.
A la que pasó de ser la chica desastre, para convertirse en la chica revolución.
Por eso, y por más razones, te quiero, te amo y.. te admiro.
FELIZ CUMPLEAÑOS MI AMOR.
“A PESAR DE LA DISTANCIA YO MIRO LA MISMA LUNA QUE TU MIRAS. NO ESTAMOS TAN LEJOS”
GRACIAS POR SER PARTE DE MI VIDA.
A TE
L'amore può essere qualcosa di così difficile da capire... ma quando si tratta di noi non è qualcosa che deve essere capito, è sentito, è vissuto, è portato dentro. Perché ho visto così tanto e vissuto così tanto che sono sicuro che il nostro non ha niente a che fare con lo normale, nonostante il fatto che la lunghezza terrena e lo scorrere delle sorgenti ci abbiano allontanati, sei sempre stato in quella piccola scatola dell'eterno l'amore che ci giuriamo, presente, palpitante e vivo, come il fuoco che divora un albero vecchio e secco. Ardente e vivo. Ho guardato il tempo passare nel modo più prezioso che ho capito e di più quando si trattava di te, tu che mi hai dato tempo senza misurarlo, che mi hai dato la luce nell'oscurità e l'arcobaleno dopo la tempesta, oggi Voglio esprimerti come riesci a riempire le mie giornate di colore, anche meglio del sole, lui deve sentirsi geloso di te, il sole dei miei giorni e speranza della mia vita. Presenza accogliente e calda che allontana le notti fredde e gelide.
Caracolito, Venezuela.
la spiaggia assolata, tu ed io, il miglior compagno era il nostro amore.
La doccia,Tropical Hotel
Abbiamo sentito nel corpo ciò che i nostri cuori gridavano.
Limbiate, Italia
il mio compleanno, un giorno di pioggia e una torta fatta d'amore. Celebrato accanto a persone in cui solo tu contavi.
Ricordi catturati nella mia mente e nel mio cuore che trascendono anni, mesi, giorni, ore e minuti. Anche se abbiamo voluto scappare, la vita e il destino ci rimettono sulla stessa strada un’altra volta, questa non è una coincidenza, l'universo cospira a mio favore per averti nella mia vita e spero che duri tutta la vita. Averti lontano da ME provoca un dolore che è finito dal primo momento in cui mi hai detto "Sono qui per te". Parole che hanno riempito il mio cuore di felicità.
Amore mío lascia che ti dica che:
Non ti amo per le tue tette, anche se so che sono perfette,
né per i tuoi fianchi, so benissimo che qualcuno morirebbe per loro.
Tanto meno per le tue chiappe , che sono il luogo caldo della mia fredda notte d'inverno.
E no, anche se ci pensi, non ti amo perché sei carina,
il mio amore va oltre. Sai perché ti amo?
Perché dal giorno in cui ti ho incontrato, mi hai fatto vedere la ragazza che piange quando tutti dormono.
Chi è: insicura, silenziosa, timida, rotta, triste, tenera, sorridente e felice.
Quella che cerca sempre di fare le cose per bene, nonostante che non riesce
Quella che non odia nessuno, anche se tutti la odiano.
Quella che è passato da essere la ragazza del disastro,a la ragazza della rivoluzione.
Per questo motivo, e per più ragioni, ti voglio bene, ti amo e ... ti ammiro.
BUON COMPLEANNO AMORE MIO.
“NONOSTANTE LA DISTANZA, GUARDO LA STESSA LUNA CHE GUARDI TU. QUINDI NON SIAMO COSÌ LONTANI "
GRAZIE PER ESSERE PARTE DELLA MIA VITA
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Era lì, seduta sulla spiaggia ad imprimersi nella mente l'ultimo tramonto con vista mare. Il cielo rosso riflesso nell'acqua cristallina. La sabbia che si confondeva con i suoi lunghi capelli. Aveva un vuoto dentro. La sua vita sarebbe cambiata l'indomani, quando si sarebbe sottoposta ad un intervento delicato agli occhi, con basse possibilità di successo. In caso di fallimento sarebbe stata cieca per il resto della sua vita. Non avrebbe più rivisto la sua adorata spiaggia, la natura e la sua città preferita. Non avrebbe più visto nessun volto. Lei che detestava il buio, sarebbe vissuta nell'oscurità. Non avrebbe mai vissuto veramente. Il suo ragazzo appena saputo della malattia, l'aveva abbandonata, come si cambia una console quando esce quella nuova. Decise di andare a gustarsi il tramonto mentre faceva il suo ultimo bagno. Quando riemerse dall'acqua vide una ragazza che camminava da sola sulla riva e delle gocce sottili le rigavano il viso candido come la neve. Il loro sguardo si incrociarono e nei loro occhi lessero un vuoto e una tristezza profonda. Veronica, senza pensarci le si avvicinò e l' abbracciò. Quel volto così triste, quella ragazza sconosciuta, doveva trasformarsi in sorriso, come il cielo ritorna sereno dopo la tempesta. La sconosciuta ricambiò il suo abbraccio, ignorando che la ragazza aveva il costume inzuppato d'acqua. Veronica iniziò a piangere all'improvviso. L'altra ragazza la fece sedere e la coccolò finché non scese la notte. <<Scusa, non volevo farti perdere tempo, non so chi sei. Tu non conosci me. Però il tuo abbraccio mi ha fatto bene >>. <<Ho notato una tristezza più profonda della mia, e pure io avevo bisogno di qualcuno che mi stesse vicino >>. <<Io sono Veronica, piacere di conoscerti>>. <<Io sono Denise, piacere mio>>. <<Per ringraziarti, spero che tu accetti l'invito di venire a casa mia a nangiare>> disse sorridendo Denise. <<Ma in realtà sono io a doverti ringraziare. Comunque accetto volentieri il tuo invito >>. <<Vieni, rivestiti che inizia a far fresco ormai>>. Durante il tragitto, Veronica scoprì che Denise era stata lasciata recentemente dalla sua ragazza, per mettersi con un ragazzo che si era trasferito per lavoro dall'estero. Veronica, raccontò invece della sua malattia e della rottura con il suo ragazzo. Giunte a casa, Denise diede dei vestiti puliti e il permesso di farsi la doccia tranquillamente. Durante la cena aprirono una bottiglia di vino, ma Veronica non poteva bere a causa dell'operazione imminente. Veronica rimase a casa di Denise anche durante la notte. La loro complicità si rafforzò, quando, Veronica in piena notte accostò le sue labbra su quelle di Denise. Le due ragazze si amarano profondamente. Alla mattina, mentre stavano facendo colazione, Veronica era preoccupata e triste. Non voleva nascondere la verità alla sua compagna. <<Non so se ti rivedrò ancora. Oggi ho l'intervento per contrastare la malattia che ti dicevo ieri. Se dovesse andare bene, ti rivedrò tra due settimane alla spiaggia. Altrimenti ti proteggerò da lassù>>. <<Non dire così, ti verrò a trovare appena sarà possibile. Ti ho appena trovata, non voglio perderti subito>>. Detto ciò si scambiarono un bacio appassionato. Mentre stavano andando in ospedale a piedi, un auto perse il controllo e le due ragazze furono investite e morirono sul colpo.
#Compagnia#Storia mia#@pensieri-liberi-nella-mente#Spiaggia#Amore#Malattia#Tramonto#Alba#Anima#Buio#Notte
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Era diventata
il mio
chiodo fisso,
una spina
di rosa
conficcata
nel collo,
mi dava pace
e irrequietezza,
mi dava gioia
e smania,
era acqua
ed era fuoco,
sole e tempesta,
era passione
ed era calvario,
era i colori
delle mie tele,
e i versi
del mio diario.
Me la trovavo
dappertutto,
nella tazzina
del caffè,
nelle nuvolette
del fumo
delle sigarette,
nei rumori,
nei silenzi,
nell'inchiostro,
sotto la doccia,
ovunque ...
Perché lei
era lei,
era diversa
dai comuni
mortali,
era cultura,
bellezza,
era bimba
e femmina,
era speciale,
era una rarità ...
E le rarità
sono quelle
che ti entrano
nella testa,
ti passeggiano
nell'anima,
ti danzano
nel cuore,
e t'infiammano
gli abissi ...
Il suo pensiero
era una specie
di boomerang,
più lo lanciavi
lontano
aldilà
dell'orizzonte,
e più ritornava
indietro
insistente,
violento
e ribelle,
a penetrarmi
la fronte
e i pori
della pelle ...
Era gemma
dilemma
e stratagemma ...
Franco Mazzaro
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Find the anchor
Il sangue gli sgorgava dal naso, copioso, caldo, appiccicoso. Il sapore del ferro gli giunse ben presto in bocca, come una sensazione fastidiosa e vivida, che per qualche istante coprì il dolore per quello che stava succedendo. Per...Tutto. Per la sua durezza, per le sue parole. Per i suoi attacchi. Per quel dannatissimo litigio che non voleva finire...per la consapevolezza di star sbagliando, di essere nell’errore.
“Nell’errore...quanto lei...” E sei nell’errore, quando ti senti in difetto...attacchi, non subisci. Col cazzo che subisci. Col cazzo che porgi l’altra guancia, che incassi, che ti fai da parte. No. Se ti senti sbagliato...beh, è il momento di far sentire sbagliato qualcun altro...e possibilmente sbagliato tanto quanto te, se non qualcosina di più.
Cadde carponi, mani che impattarono sul cemento grezzo di quell’anonimo ed incolore tetto della South, mentre le ginocchia gli cedevano di schianto.
Gli crollò addosso tutto il peso di quello che stava accadendo, quasi d’improvviso. Una cascata immane, incontrollabile, una doccia gelata che gli spezzò il fiato, quasi annebbiandogli la vista. Doveva respirare. Staccò una mano dal cemento e la portò al volto, cercando il laccio dell’elmo, situato proprio sotto la gola. Lo slacciò, afferrando poi quel casco per gettarlo poco lontano. L’aria fredda sul volto e sulla nuca lo ravvivò un po’...mentre cercava di riprendere fiato, di gonfiare i polmoni, di...raffreddare il tutto e riprendere le redini di quella storia. La sua storia...la loro storia.
Stava andando tutto meravigliosamente bene...e ora, stava andando tutto meravigliosamente a puttane. E senza che lui sapesse come fermare quella frana, quella valanga, quei sentimenti contrastanti ed intensi che sgorgavano in lui come l’energia dei suoi fulmini.
Liu...la sua Liu. Lo aveva colpito, volontariamente...ed utilizzando la shell. Un colpo secco, brutale. Probabilmente gli aveva anche spaccato il naso.
Tutto questo...non aveva senso. Non doveva andare così. Si era immaginato tante volte quella discussione, quando lui sarebbe tornato da lei a chiederle scusa, a domandare cosa stesse succedendo, a cercare di fare pace…
< Non andartene >
Aggrottò la fronte.
“Non andartene…?”
Tra tutto quello che lei poteva dire...non andartene? Portò una mano al volto, detergendo un po’ di sangue sul bracciale in cuoio...quindi sputò un grumo scuro, a poca distanza, per aprire le vie respiratorie. Avrebbe voluto chiedere tante cose. Domandare il perché fossero arrivati a tutto questo. Perché il loro amore intenso fosse sfociato in...questo. Perché quella serata fosse così storta, senza luna né luce ove aggrapparsi, senza un briciolo di tutto quello che erano stati. Perché lei fosse così...stronza da fargli male, da non accettare le sue scuse, da respingerlo al mittente quando era stato lui...LUI, a farsi avanti, nonostante tutto. Deglutì. E deglutì anche le parole che gli erano affiorate tra le labbra ancora sporche di sangue rubino. Quelle parole di rabbia fluirono via lentamente, respiro dopo respiro, mani che si serrarono sul cemento del tetto, scrostandone la superifice.
Doveva...aggrapparsi a qualcosa. Doveva trovare da solo quel bandolo della matassa, quell’ancora di salvezza che riportasse la nave stabile e non...alla deriva di quel mare in tempesta che erano i loro sentimenti incrociati, furibondi. Un sospiro proruppe dalle sue labbra. Un soffio stanco, privo enfasi, un singulto di chi ha esaurito le energie ed è in balia del nemico. Ripensò a quello che c’era dietro di lui. A Liu, in piedi nella sua shell cromata, senza casco a proteggere il volto appuntito...Quella Shell che lui aveva visto distrutta, per la prima volta. Che aveva visto nei laboratori, appesa, con la taiwanese nei paraggi, scassata come suo solito e arrabbiata con il mondo...e gliel’aveva riparata, sotto il suo sguardo truce ed incattivito. Erano...quanto? Due mesi fa? Sembrava passata una dannata, cazzo di vita, da quel momento. O dai giorni successivi, nei quali l’aveva cercata nei corridoi, l’aveva accompagnata ad uno strano rituale della Martini...e poi? Scavò un altro po’, nella memoria che giocava scherzi, fallace e a tratti in difficoltà, come una vecchia radio che non prende bene le frequenze.
...e poi? E poi gli aveva chiesto cinque flessioni. E lui non le aveva fatte. E...beh, poi lui si era presentato a casa sua. Ferito al fianco dalla pianta maledetta, sanguinante. Lei lo aveva preso, accolto, lavato e messo a letto...e poi gli aveva dato le chiavi di casa. Non riuscì a sorridere, a quel pensiero. Le stesse chiavi di casa si trovavano ora sotto il piede della Shell, devastate e distrutte. Gliele aveva gettate davanti, quando era arrivato e aveva trovato il solito, fastidioso e glaciale muro eretto da Liu...e non aveva avuto la forza di scalarlo. Non questa volta. C’era...c’era stata anche la Borsa del Cuore, però. Quella giornata davanti al mare, a parlare di loro due, di come si vedevano...di cosa volevano. Avevano parlato di tante, tante cose. E l’aveva sentita vicina...tanto vicina. Vicina come non aveva mai veramente sentito nessuno. “Vuoi...davvero buttare tutto questo…?” disse a sé stesso. No. Aveva trovato l’ancora. L’aggancio. Il punto di forza, per non crollare. Deglutì di nuovo, mentre alzava lo sguardo sulla città ai loro piedi, immersa nelle luci della sera e nei suoi affari più loschi. Una lacrima silenziosa gli solcò il volto.
Non aveva la forza di perderla. Non poteva, perderla. Ma non avrebbe potuto...resistere ad un altro dolore così.
< Che non accada mai più...o esci per sempre dalla mia vita >
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Lettera di Nicoletta Dosio sulla situazione in carcere in questi giorni. Care Compagne e Compagni, sta per iniziare un’ordinaria settimana di coronavirus. Per chi è in carcere sono giorni più pesanti che mai. Cresce l’impressione di sentirsi in trappola, costretti ad aspettare immobili un male che, da un momento all’altro, ci può saltare addosso. La tempesta di comunicati sul virus ci cala in testa dall’alto, dalle TV accese in tutte le celle. Le statistiche dei contagiati, dei morti, la corsa affannosa per tappare i buchi di una sanità pubblica da decenni volutamente falcidiata fanno da controcanto al tamburo del cuore che tra queste sbarre batte il ritmo dell’ineluttabile. Qui dentro non c’è prevenzione reale. Anzi, le cosidette “misure preventive” non hanno avuto altro risultato che peggiorare disagio ed isolamento. Niente colloqui con i parenti; niente pacchi, nè portati nè spediti; sospese tutte le attività scolastiche e culturali; nessuna possibile attività di supplenza via internet, dal momento che in carcere non c’è accesso a strumenti informatici. Anche le cose più semplici come lavare gli indumenti personali qui dentro diventano un’impresa: da settimane la lavatrice a gettoni non è utilizzabile; l’unica alternativa è farsi il bucato nella doccia comune, dove gli scarichi funzionano male e si è costretti a lavorare con i piedi immersi nell’acqua. Se qualcosa è cambiato, lo è in peggio, come il rincaro dei prezzi dei generi di prima necessità, acquistabili soltanto allo spaccio interno. E veniamo alle presunte “misure igieniche” per prevenire il virus: per noi si limitano ad un bicchierino di sapone liquido ed una mezza bottiglietta di disinfettante per ogni cella (ci sono vietati i disinfettanti quali candeggina, alcool, ammoniaca). Quanto alle cosiddette mascherine, sono obbligatorie per gli avvocati, ma ne sono totalmente sprovvisti gli agenti (che pure vanno e vengono dall’esterno). Insomma… “io speriamo che me la cavo…”. Il dato più incontrovertibile e preoccupante è il sovraffollamento del carcere con la presenza di bambini, detenuti anziani e malati cronici: come nel resto del Paese anche alle Vallette si vive in una specie di polveriera, che deflagherarà al primo colpito dal morbo. La speranza di tutti è un qualche provvedimento che permetta la scarcerazione....L’unica cosa chiara del comunicato è che al momento sono sospesi per i detenuti tutti i permessi di uscita dal carcere…del resto il Ministro di “ingiustizia” l’ha dichiarato: niente svuotacarceri, indulti, amnistie; tranquilli “uomini d’ordine”. Inomma, l’ordinario rigore non muta, anzi peggiora in un clima di preoccupante irrazionalità: ci sentiamo più che mai espropriati di noi stessi ed in balia di chi “ci controlla”. Anche qui in carcere, ieri, una detenuta proponeva un’applauso collettivo al mondo fuori, in nome della “patria che resiste”. Ma la sua proposta non ha avuto successo. Quell’inno e quella bandiera non li sentiamo nostri: la fratellanza è una cosa seria, che non si confà all’indifferenza che dall’esterno sentiamo per il nostro destino di “figli di un dio minore”. Quanto al tricolore, è lo stesso che, insiema al vessillo UE, staziona all’ingresso del carcere e che viene esibito ogni giorno sulle divise dei nostri carcerieri. Non ci appartiene. Nicoletta.
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Lunedì o giù di li
“Si mangia, si dorme, si scopa. L’ordine non è importante e se ci viene voglia di qualcosa al massimo consegna a domicilio. Mi raccomando ci dovrà essere la vasca idromassaggio e la doccia.” I lunedì passavano così, fantasticando sul nome , cosa, città, lettera, testamento, dove , quando, come , “perchè io voglio solo te”. “Voglio un letto enorme, lo specchio e dobbiamo essere in centro. Così non perdiamo tempo per andare in giro.”. In un uragano di parole, si passava dal lunedì al martedi, e poi al mercoledi’, fino a spazzare via i giorni, le settimane, i mesi. Il tempo tornava al suo scopo essenziale ed inutile di ricordarci che un altro pezzo di vita piccolo o grande era passato e finalmente avevamo smesso di inseguire vanamente e scioccamente lancette, numeri e datari come oracoli di vita dello standard perfetto ISO 2049 d.c., ma proseguivamo su un piano esclusivamente emozionale fatto di sensazioni, sentimenti, voglie, parole stupide ed insensate, sbalzi d’umore, perturbazioni incipienti, sereno dopo la tempesta, viva la gnocca e pure lo gnocco fritto, “ma ricordati che son celiaca e quindi solo gnocco senza glutine”. Il tempo non era più uno spazio asettico di cose da fare, bollette da pagare, partite da giocare, facce da guardare ma un contenitore da riempire di sentire, vita da sniffare. Quanto tempo hai avuto voglia di lei, quanto tempo hai toccato le sue tette, le hai leccate, succhiate, morse? Quanto tempo hai desiderato sentire le sue labbra sotto le tue, l’hai baciata, ed hai sentito l’odore dei suoi capelli mentre li asciugavi sfiorandole il collo e facendola bagnare tra le cosce? Quanto tempo hai percepito i brividi della sua pelle sotto le mani, il respiro caldo dopo aver bevuto il caffè e fumato l’ennesima sigaretta della giornata? Quanto tempo hai fatto scorrere l’acqua a nella doccia quel giorno mentre si scopava in uno spazio bianco 80 x 80 che ha reso il pavimento piastrellato di ceramica blu, navigabile per le barchette di carta di marinai immaginari alla ricerca del Nuovo Mondo nascosto tra la tazza del cesso ed il bidet? Quanto tempo hai passato ad abbracciarla nel letto come fa la sfoglia dell’involtino primavera con il ripieno di verza, sedano, cipollotto e carne? Quanto tempo hai ascoltato la sua voce, hai riso alle sue risate, pianto dei suoi pianti, mangiato dal suo piatto, bevuto dal suo bicchiere.?Chissà se è stato tanto tempo o poco tempo, sicuramente è stato un tempo denso, fitto, pieno I lunedì sono così adesso, utili soltanto a fissare questo schermo al pixel blu cobalto che sta pian piano assorbendo la mia capacità visiva riducendola al minimo accettabile per non finire col naso nel monitor, partecipare a riunioni senza fine e senza senso che narcotizzerebbero anche uno strafatto di LSD al rave del 15 agosto, a ricordarmi che la lentezza non è mai stata per me. Faccio mille cose ma sono tutte senza sapore, manca l’ingrediente segreto, quello che da gusto anche al pollo bollito, all’uovo sodo, alla pasta scotta, alla verdura bio senza pesticidi, all’hamburger vegano che non ho mai capito perchè lo chiamino hamburger e non “schiacciata di verdure tritate tanto buone da cucinare come vuoi”, come se dipingendo una Fiat 500 di rosso Ferrari potessi andare a correre il GP di Monza. E poi di lunedì ascolto Calcutta, colpa tua che mi hai cantato Frosinone in diretta streaming con la tua voce stonata come la campana della Cattedrale di Santa Maria Assunta e quando ho iniziato a ridere mi hai detto con la faccia semiseria,”oh io suonavo il violino” a sottolineare che a prenderci per il culo non ci avrebbe mai battuto nessuno. Che palle. Sono come un sacchetto sottovuoto, mi hai aspirato tutto, mi andrebbe bene anche un virus, un batterio, invece mi hai reso asettico, non mi viene neanche piu’ il raffreddore o il mal di gola. Confido in una polmonite non fulminante ma dal decorso lento, ho voglia di ammalarmi di nuovo, maledetto sia tutto l’antibiotico al sapore di te che ingurgitato e non ancora vomitato.... Calcutta chi lo avrebbe mai detto.
“Mangio la pizza e sono il solo sveglio in tutta la città Bevo un bicchiere per pensare al meglio Per rivivere lo stesso sbaglio A mezzanotte ne ho commessi un paio Che ridere che fa Mangio la pizza e sono il solo sveglio in tutta la città “ Calcutta
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Il vero 007 è lui! Storia di Peter Fleming, il fratello dell’inventore di James Bond, uno scrittore di genio
Countdown nel mondo inglese per l’uscita di 007 No Time to Die. Uscirà a fine anno. BBC infioretta raccontando che Billie Eilish (sì, la tenerella di Everything I wanted) ha lanciato la canzone che sarà la sigla dell’ultimo 007. Il testo tradotto qui e là dice: Avrei dovuto sapere che me ne sarei andata. Sono caduta davanti a una bugia. Sei morte o paradiso? Ora non mi vedrai piangere. È che non c’è tempo di morire.
*
Complimenti, clap clap. Siamo riusciti a far passare Bond dalla parte degli emo: Il sangue che versi è il sangue che mi devi. Sono stato stupida ad amarti? Non avevo pensato alle conseguenze? Per BBC si tratta di romantic betrayal. Tradimento romantico. Sarà. A me pare il solito modo di sguinzagliare il marketing dietro alla società pop dei giovani per portare più gente in sala. Gli inglesi sanno farlo con garbo e senza scrupoli.
*
Eppure. Nel 2006, quando Craig esordiva con Casino Royale, la voce della canzone in sigla era Chris Cornell (You know my name): Se prendi una vita devi sapere cosa darai, sono occasioni che vanno e vengono, ecco. Quando scoppia la tempesta sarai con me, dalla parte di quelli senza pietà che ho tradito. Ho visto angeli cadere da altezze accecanti, e tu non sei nulla di così divino. Sei solo qui accanto. Armati perché nessuno ti salverà. Le occasioni ti tradiranno. E io ti rimpiazzerò… Il sangue più freddo scorre nelle mie vene. Sai il mio nome. Prova a nascondere la tua mano. Dimentica come si sentono le emozioni. Ben altro rispetto a Billie Eilish…
*
Anche nel 2008, con Quantum of Solace, la voce femminile di Alicia Keys (Another way to die) spaccava così all’inizio: Un’altra chiamata dalla regina, il dito scorre liscio sul grilletto. Un’altra chiamata da una lingua d’oro che ti avvelena la fantasia. Un altro conto da un killer ti ha fatto passare dal thriller alla tragedia… Sentire la musica in luoghi fuori contesto aiuta. Credo si chiami straniamento: che ne so, provate a sentire le canzoni di Bond in un’altra prospettiva.
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Comunque, qui da noi c’è sempre un po’ il rischio che essere fan di 007 sia roba da ispettore della guardia di finanza, un tocco da sfigati. Nel Regno Unito invece è il solito movimento di massa. Se guardi 007 capisci le loro tendenze, o almeno ne catturi un’istantanea. Lo spiega benissimo il solito Anthony Burgess in un articolo di Life del febbraio 1987. Titolo – Giubileo di Bond. A venticinque anni dal Dottor No, che era il cattivone del primo film uscito nel 1962.
*
Col consueto intuito da sciacallo onnivoro, Burgess annota che il personaggio dell’agente 007 “apparve sulla scena al momento giusto, quando CIA umiliava MI5… Bond invece era patriottico, duro, coraggioso e non veniva da un’ascesi da doccia fredda. Ricordava al lettore britannico le qualità che sembravano andate perdute. Fleming sognò uno spionaggio più ingegnoso, osò di più rispetto alla realtà e diede infine al suo uomo la licenza di uccidere”.
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Peter Fleming nel Mato Grosso, 1932
Non si fa mancare il sale: “l’eterosessualità di Bond è vigorosa e viaggia in un’altra classifica. Il suo sangue scozzese gli garantisce un integro patriottismo”. E neanche il pepe: “I professori di francese non sapranno dirci a cosa si deve il nome Bond. Non sembra un richiamo al bondage per quanto bond suggerisca che il nostro uomo sia legato a qualcosa – onore, patria, una qualche virtù astratta. Fleming scelse questo nome perché era abbastanza blando e per niente aggressivo”.
*
In realtà Burgess sa come stanno le cose, gioca a carte col lettore. Ecco da dove viene il nome in codice, l’unico che vale: “Il nome 007 si deve al carro postale notturno di una piccola ma celebre storia di Kipling, e a sua volta Kipling lo aveva preso dal codice che l’astrologo John Dee usava per i suoi dispacci spionistici alla regina Elisabetta quando era infiltrato alla corte spagnola. Mentre osa il tutto per tutto al servizio di Sua Maestà la regina, James Bond evoca nell’era di Elisabetta II il glamour e il pericolo del regno di Elisabetta I”. Se volete leggere qualcosa su John Dee, c’è L’angelo della finestra d’Occidente, di Gustav Meyrink. Stampa nientepopodimeno che Adelphi.
*
Burgess aveva lavorato alla sceneggiatura di La spia che mi amava, l’unico libro di Fleming scritto dal punto di vista femminile. Quindi sa cosa sta dicendo quando scrive che “nei libri di 007 il sesso è tenerezza, nei film è mero titillare… I libri sono deboli per psicologia umana, un poco impacciati nel dialogo, assurdi per trama e non hanno humour ma sono ben scritti e francamente affidabili per la loro informazione di background. L’agenzia di controspionaggio sovietica Smersh esiste, Spectre no”.
*
Traduco il finale del pezzo di Burgess, la chiave affilata del discorso che stavo cercando di fare all’inizio: “Vorrei porre l’accento su questo: le stravaganze di Bond rappresentano un genere speciale di intrattenimento dove la fantasia del produttore di film ha il permesso di varcare il limite e tutto è racchiuso in una macchina perfetta, in una lezione di morale. Sono film a tutto tondo allo stesso modo di quelli Disney ma, diversamente da questi, sono sofisticati e non possono esser presi senza accettare al contempo il mondo delle alte sfere con la sua genuina malevolenza e quel che si dice ‘stato dell’arte tecnologica’. Le ragazze sono sexy e Bond parte con loro con lo sguardo lascivo da giocatore di football americano. Ma non ci sono orgasmi: sono riservati alle fughe da pericoli impossibili. C’è anche qualcosa che chiamerei urbanità, buone maniere e ironia (Prenda con sé Mr Bond e lo metta in condizioni di farsi del male). C’è il senso di una civiltà ben oliata, i nemici restano fuori, in un mondo a parte maniaco e malvagio. È probabile che in futuro gli storici troveranno nei film di Bond i sogni dei suoi contemporanei, uomini e probabilmente anche donne. L’intrattenimento a volte può servire uno scopo più profondo di quel che i suoi sostenitori sono in grado di dirci”.
*
A questo punto, domanda sensata. Chi era il creatore di Bond, Ian Fleming? Era un fratello minore, tanto per cominciare. Il più grande era Peter, classe 1907, che a 29 anni affronta un viaggio in Tibet e Cina per conto dei Servizi esteri insieme a una fotografa svizzera. Da capogiro. Insomma Peter è il sostegno del fratellino, anche se poi Ian farà gavetta in guerra nel controspionaggio e si inventerà un agente fighissimo, da romanzo, per darsi un tono.
*
Ian ha solo un anno in meno del fratellone. Per Burgess “era uno scozzese godereccio toccato da un puritanesimo ancestrale, beveva martini vodka agitato non mescolato, fumava sempre le sigarette più pesanti sul mercato e, prima del suo ultimo matrimonio, faceva l’amore in modo freddo e promiscuo”. Sarà… comunque campa fino al 1964. Il fratellone, più sano e robusto, se ne va nel 1971 e fa scrivere al giornalista del NY Times “ebbe una carriera poco convenzionale nella Seconda guerra servendo nella Guardia Granatieri dopo il ritiro dalla Norvegia nel 1940, organizzando una linea di resistenza a Hitler in Inghilterra con armi ed esplosivi nel caso i tedeschi fossero sbarcati. Lo stesso in Grecia dopo l’occupazione tedesca. Poi andò in Asia per far sgomberare le truppe dalla Birmania in India e trasmise ai giapponesi dei piani di guerra. Chiaramente, erano falsificati. Sulla sua resistenza a Hitler scrisse il romanzo Invasione 1940”. In effetti anche gli altri titoli sono fantastici: Sconfitta a Pechino, Baionette fino a Ihasa, Il destino dell’ammiraglio Kolchak.
*
A breve potremo gustare qualcosa di questo scrittore. Nutrimenti aveva già dato la sua Avventura brasiliana e tra poco sarà rieditata. È la storia autoironica di Peter che va nella foresta amazzonica a 26 anni in cerca di un esploratore scomparso e torna a mani vuote. Fine dei tempi eroici dell’imperialismo: anche se erano entrambi, Peter e il suo compagno di viaggio, il bischero Percy Fawcett, figli di college e di Impero.
*
Per i fratelli Fleming, invece, qualche brivido dickensiano & massonico, ma poco di più. Quindi anche lo sguardo è a suo modo limitato, specie negli scritti-reportage di Peter sulla Rivolta del Boxer, di cui parlano ampiamente, con sapidi racconti, anche le memorie dei diplomatici italiani in loco. Il tutto passando per il Tibet. Forse c’era nei Fleming qualche interesse verso le tradizioni esoteriche che titillavano la poca cervice tedesca: vedere per credere l’introduzione di Peter a I sette anni in Tibet di Heinrich Harrer.
*
Comunque sia, va detto che la pappa verbale inglese non si presta a raccontare la geopolitica. L’inglese funziona bene però come lingua avventurosa e Peter resta scrittore migliore del fratellino Ian. Ecco ad esempio come incomincia il testo che lesse dopo il viaggio in Asia a 27 anni, nel 1936 (ora su The Geographical Journal, vol. 88 agosto 1936): “In questi giorni immagino sia piuttosto inconsueto che le forze militari adottino una procedura che le porti a impegnare il loro potere di guerra in un territorio che appartenga a un altro potere senza che un governo dica nulla all’altro prima dell’evento. Eppure i russi sono molto abili a gestirla così, principalmente soffiando tutt’intorno storie falsissime e lasciandole depositare nelle varie province, senza consentire ad altre versioni dei fatti di entrare nelle province manipolate”. Non male, dai…
Andrea Bianchi
L'articolo Il vero 007 è lui! Storia di Peter Fleming, il fratello dell’inventore di James Bond, uno scrittore di genio proviene da Pangea.
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Secoli Bui, vita di mezzo: non ci si distende sul pavimento della doccia
E’ quieta stasera Secoli Bui. Finita la pioggia, il crepuscolo si spegne in una luce velata e fumosa. Tutto gocciola, perle d’acqua che crollano da ogni foglia, da ogni petalo, da ogni singolo stelo. E dai miei occhi. Affondo lenta nell’acqua calda della vasca, annacquo le lacrime, un dolore grande nel dolore piccolo sul fondo duro della ceramica. Il soffocato rombare del sangue nelle orecchie copre per un attimo il gocciolare dei rami contro la finestra ma la mia attenzione vaga, irrequieta nella quiete della sera e si spande come olio sulla superficie delle cose, si allarga a tutto ciò che duole, tanti piccoli punti, tante grandi ferite, dentro e fuori dall’acqua e da me. Mi attira per fortuna un nuovo centro, un nuovo gocciolio e la sinfonia del rubinetto non perfettamente chiuso mi ricorda una poesia, le onomatopee, la scuola, clocchete, cloffete. Tutto torna, qui a Secoli Bui, tutto torna, nel silenzio, nella quiete che è sempre dopo la tempesta o prima della tempesta. E c’è sempre una tempesta, fuori o dentro. E un senso nelle cose, e cose che non hanno senso. Perché le vasche sono sempre quel tanto troppo corte da costringerci a decidere? Quando affondo la testa spuntano le ginocchia. Non morirei mai in una vasca, in un luogo in cui tutto è esposto, dove si è indifesi e un po’ ridicoli con i piedi all’aria e la testa sotto. Ma in fondo si è sempre un po’ ridicoli nella morte? Si è sempre indifesi ed esposti quando non si appartiene più a nulla, nemmeno a sé stessi. Morire non è difficile, vivere lo è. E tenersi aggrappati alla vita, con l’orgoglio e la testardaggine, piegati dagli anni e dagli eventi, piegati ma non domi, direbbe il poeta, che non ricordo. Guardo la vecchiaia sul mio corpo, questo anticipo che mi riserva la sorte, mentre intorno a me gli ottantenni tracollano e si lamentano di una vita più fortunata e più piena e più lunga della mia. Mi dispiace. E’ difficile la debolezza, soprattutto se non la conosci. Mi trascino dietro le mie cicatrici, la mia testa calva, la mia stanchezza, il mio cervello a volte confuso e penso: hai trentanni più di me, di che ti lamenti? La debolezza si impara sempre nel modo più duro. Clip, clop, cof, plin, ploc, tloc...
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The one with the fight and the “I love you”
Quando Ermal aveva saputo che Fabrizio sarebbe stato a Milano per ultimare la produzione dell'album, avrebbe voluto come minimo riempirlo di insulti.
Perché proprio non era possibile che Fabrizio non trovasse mai il tempo di andare a Milano, che pur di stare un po' insieme dovesse sempre essere lui quello che si spostava, e che l'unica volta in cui Fabrizio muoveva il culo da casa sua - certo, per lavoro e non per piacere ma questo era un insignificante dettaglio - lo faceva proprio mentre lui era in tour.
La fortuna, però, sembrava girare almeno leggermente dalla sua parte visto che proprio quella sera avrebbe suonato a Cremona. Non era esattamente dietro l'angolo, ma avrebbe potuto raggiungere Milano in meno di due ore.
Così alla fine, nonostante fosse problematico per entrambi, avevano deciso di vedersi a casa di Ermal. Vedersi nell'albergo in cui alloggiava Fabrizio sarebbe stato troppo rischioso, chiunque avrebbe potuto vederli.
L'appartamento di Ermal - facilmente raggiungibile ma abbastanza lontano dal centro per garantire la giusta privacy - era la scelta migliore.
Quando Ermal arrivò a casa sua - ormai a notte inoltrata - le luci della camera da letto erano accese, segno che Fabrizio era arrivato prima di lui.
Mai come in quel momento, la scelta di dare a Fabrizio una copia delle chiavi di casa sua - che mesi prima gli era sembrata avventata e l'aveva fatto restare in pensiero per giorni, a domandarsi se fosse la cosa giusta da fare o no - gli sembrò così sensata.
Entrò nell'appartamento senza preoccuparsi di non fare rumore, consapevole che Fabrizio lo stesse aspettando sveglio, e abbandonò in un angolo la giacca e la valigia. Avrebbe dovuto usare quel poco tempo che aveva per farsi una doccia, riposarsi, magari svuotare la valigia e mettere qualcosa in lavatrice prima della partenza per Tirana il giorno seguente, ma l'unica cosa che voleva fare era vedere Fabrizio e stare con lui.
"Bizio?" lo chiamò mentre si sfilava le scarpe e le abbandonava accanto alla porta.
"In camera!" rispose Fabrizio.
Ermal sorrise sentendo la risposta.
Adorava il fatto che, almeno in quelle poche occasioni in cui Fabrizio stava a Milano, si comportasse come se quella fosse casa sua. Si era ritagliato i suoi spazi con calma, senza risultare invadente. Ermal gliene era grato perché dopo la rottura con Silvia era stato difficile vivere in quella città, ma la presenza di Fabrizio glielo rendeva molto più facile.
Percorse il corridoio lentamente, sentendo improvvisamente tutta la stanchezza accumulata.
Avrebbe semplicemente voluto dormire per un giorno intero, ma sapeva che non sarebbe stato possibile.
"Ciao" disse entrando in camera e vedendo Fabrizio, con addosso semplicemente i boxer e una maglietta, seduto sul lato del letto che occupava ogni volta che stava a casa sua.
Fabrizio sorrise e, indicando il lato del letto vuoto, disse: "Ehi. Vieni subito qui vicino a me."
Ermal non se lo fece ripetere. Si tolse velocemente la camicia e i pantaloni, restando con addosso solo i boxer, e si buttò a peso morto sul letto, a pancia in giù e con la faccia affondata nel cuscino.
Fabrizio si mise a ridere. "Stanco?"
"Cosa te lo fa pensare?" disse Ermal ironico sollevando leggermente la testa.
Fabrizio gli passò una mano tra i capelli, massaggiandogli dolcemente la testa come era abituato a fare ogni volta che cercava di farlo rilassare. "Il concerto è andato bene?"
"Sì, ma qui sto molto meglio" disse Ermal sospirando e godendosi quelle piccole attenzioni.
"Forse non è stata una grande idea venire qui. Hai bisogno di riposarti" disse Fabrizio.
"Posso riposarmi anche se ci sei tu" borbottò Ermal, affondando di nuovo la faccia nel cuscino.
Fabrizio fece un sorriso malizioso e disse: "Sicuro?"
"Sicuro. Non ho le forze per fare qualcosa di diverso dal restare sdraiato qui e dormire" rispose Ermal.
Era ovviamente dispiaciuto di non avere più le forze per stare un po' con il suo compagno, soprattutto visto che non si vedevano da un po', ma nel momento in cui il suo corpo aveva toccato il materasso si era sentito come se la stanchezza avesse preso il sopravvento, portandogli via la voglia di fare qualsiasi altra cosa.
Fabrizio sorrise comprensivo. Conosceva bene quella sensazione di stanchezza post-concerto, che si insinua in ogni muscolo appena l'adrenalina se ne va.
"Allora dormi. Ne hai bisogno" disse accarezzandogli la schiena.
Ermal sospirò sotto la sua carezza, sentendo improvvisamente un po' di quella stanchezza scivolare via.
Fabrizio si sistemò meglio accanto a lui, continuando ad accarezzargli lentamente la schiena e soffermandosi poi sulle spalle, stringendole leggermente tra le dita.
"Ti prego, non smettere" mormorò Ermal con gli occhi chiusi.
"Hai la schiena rigida. Ti sei riposato un po' in questi giorni?" disse Fabrizio mettendosi seduto a cavalcioni su di lui e cercando di massaggiarlo meglio.
Ermal non rispose ma gemette appena sentì le dita di Fabrizio premere sulle sue spalle.
"Male?" chiese Fabrizio preoccupato. In fondo, non aveva la minima idea di come si facesse un massaggio e aveva il terrore di peggiorare la situazione.
"No, continua."
Fabrizio continuò a massaggiargli le spalle per qualche minuto, poi fece scorrere lentamente le mani lungo la schiena. Lo massaggiò per un po', come se con le sue mani potesse portare via tutta quella stanchezza, fino a quando Ermal disse: "È meglio che ti fermi, Bizio."
Fabrizio sollevò le mani di scatto, allarmato. "Ho fatto qualcosa che non va?"
"No, tutt'altro" si lamentò Ermal.
Era esausto, voleva solo dormire. Non era proprio il momento adatto per farsi venire un'erezione.
E per cosa poi? Solo perché il suo fidanzato gli aveva massaggiato la schiena per qualche minuto.
Si sentiva come un adolescente in piena tempesta ormonale.
Fabrizio sorrise rendendosi conto dell'effetto che le sue carezze avevano avuto su Ermal.
Si chinò su di lui, spalmandosi sulla sua schiena, e gli baciò il collo mentre con le mani gli stringeva leggermente i fianchi.
Ermal si lasciò sfuggire un verso a metà tra un gemito e un lamento e Fabrizio - comprendendo la sua frustrazione, il suo voler semplicemente riposare - disse: "Non ti preoccupare, faccio tutto io."
A quel punto, Ermal non ebbe più la forza - né la voglia - di dire di no.
Quasi non si accorse che Fabrizio gli aveva sfilato i boxer.
Ciò di cui invece, nonostante la stanchezza, si era accorto fin troppo bene erano le mani di Fabrizio che erano passate dal massaggiargli innocentemente la schiena a palpeggiargli le natiche.
Sospirò sentendo le mani di Fabrizio su di sé e strinse il bordo del cuscino tra le dita, mentre sentiva la sua erezione premere contro il materasso.
Fabrizio tornò a sdraiarsi su di lui - facendo leva sulle braccia per non pesargli troppo addosso - e iniziò a lasciare una scia di baci dalle sue spalle, seguendo poi la linea della spina dorsale da cima a fondo.
Ermal sotto di lui continuava a sospirare - complice anche il fatto che, quando Fabrizio si era sdraiato su di lui, aveva sentito chiaramente la sua erezione premere contro di lui - e a desiderare un contatto maggiore.
Non ebbe nemmeno il tempo di finire di pensarlo, che Fabrizio si era cosparso le dita di lubrificante - Ermal era talmente stanco che non si era nemmeno accorto che Fabrizio si fosse allontanato da lui per recuperare la boccetta nel cassetto del comodino - e aveva iniziato a massaggiare lentamente la sua apertura.
Un gemito scappò dalle sue labbra sentendo Fabrizio penetrarlo lentamente con un dito e poi aggiungerne un altro poco dopo.
Superato il breve fastidio iniziale, Ermal si ritrovò ad andare incontro alle sue dita, sollevandosi leggermente e tenendosi appoggiato sugli avambracci.
"Calmo. Ho detto che avrei fatto tutto io, cerca di avere pazienza" disse Fabrizio divertito.
In realtà, anche lui avrebbe voluto di più. Anche Fabrizio non vedeva l'ora di fare l'amore con Ermal, ma vederlo così succube delle sue attenzioni lo stava divertendo - e anche un po' eccitando - più di quanto avrebbe creduto possibile.
"Bizio, ti prego" mormorò Ermal.
"Addirittura mi stai pregando?" disse Fabrizio, allontanandosi da lui giusto il tempo di sfilarsi la maglietta e i boxer che aveva ancora addosso.
Ermal affondò la faccia nel cuscino, evitando di rispondere.
Lo metteva in imbarazzo quella situazione, il fatto di essere ridotto a supplicare il suo fidanzato di fare l'amore con lui perché non riusciva più ad aspettare. Lui non era così, non lo era mai stato.
Eppure con Fabrizio forse un po' era cambiato. Fabrizio era diventato una dipendenza, un qualcosa di cui proprio non poteva fare a meno, ed Ermal non poteva negare di essere spaventato da tutto ciò che provava per lui, al punto da non averglielo mai detto chiaramente.
Gli aveva fatto capire di tenere a lui, di provare qualcosa di forte, ma non glielo aveva mai detto perché nel momento in cui avrebbe deciso di dirlo ad alta voce sarebbe diventato reale e le cose reali fanno molta più paura di quelle che rimangono confinate nella testa e nel cuore.
Risollevò la testa, rendendosi conto che Fabrizio si era allontanato da lui da molto più tempo di quanto gliene servisse effettivamente per spogliarsi, e quando puntò lo sguardo su di lui rischiò di venire all'istante.
Fabrizio se ne stava in piedi davanti al letto e lo fissava con gli occhi liquidi di eccitazione, masturbandosi lentamente mentre cospargeva la sua erezione di lubrificante.
"Cazzo, Fabri" si lasciò sfuggire Ermal.
"Tu non hai la minima idea dell'effetto che mi fai" disse Fabrizio, ritornando a letto e posizionandosi dietro di lui.
Ermal sospirò sentendo la punta già umida dell'erezione di Fabrizio appoggiarsi alla sua apertura e trattenne il respiro quando lo sentì scivolare facilmente dentro di sé.
Fabrizio rimase immobile per un attimo, aspettando che Ermal si abituasse, poi appena sentì Ermal muoversi contro di lui, affondò maggiormente strappandogli un gemito sorpreso.
"Scusa" disse, mentre però continuava a spingersi in lui allo stesso modo.
"No, continua" sussurrò Ermal tra i gemiti.
Fabrizio gli strinse un fianco, mentre portava l'altra mano tra le sue cosce e iniziava a toccarlo al ritmo delle sue spinte.
Ermal si morse il labbro inferiore trattenendo un gemito, mentre Fabrizio affondava dentro di lui sempre più velocemente e con più forza, fino a quando Ermal venne nella sua mano.
Sentendolo stringersi attorno alla sua erezione, Fabrizio non riuscì a trattenersi e poco dopo venne dentro di lui.
Quando la sua schiena toccò il materasso, un attimo più tardi, un sospiro rilassato uscì dalle sue labbra. Poi si voltò verso Ermal e disse: "Sei ancora stanco?"
Il più giovane si girò su un fianco per guardarlo meglio e rispose: "Più di prima, in realtà. Ma non importa."
Fabrizio sorrise e lo attirò a sé, facendogli appoggiare la testa sul suo petto e stringendolo in un abbraccio.
No, non importava.
Nulla era importante quando erano insieme.
La mattina seguente, Fabrizio fu il primo a svegliarsi.
La sveglia che aveva impostato sul cellulare suonava già da almeno mezzo minuto, ma Ermal accanto a lui non dava segno di averla sentita.
Allungò una mano sul comodino per prendere il cellulare e spegnere la sveglia, poi si alzò dal letto cercando di non fare troppo rumore.
Ermal era esausto e poteva permettersi di dormire ancora qualche minuto.
Si trascinò fino alla cucina sbadigliando e stropicciandosi gli occhi ancora assonnati. Aveva dormito non più di tre ore e non si sentiva minimamente pronto ad affrontare la giornata. Probabilmente, appena tornato in albergo, si sarebbe rimesso a dormire.
Stava riempiendo la caffettiera, quando sentì Ermal entrare in cucina.
"Buongiorno. Potevi dormire ancora un po', ti avrei svegliato più tardi" disse Fabrizio voltandosi per un attimo verso di lui.
Ermal scosse la testa e si sedette a tavola. "No, ho troppe cose da fare. Devo svuotare la valigia, rifarla buttandoci dentro qualche vestito pulito... Ammesso che sia rimasto qualcosa nell'armadio. Ah, e poi devo assolutamente fare la lavatrice. Tutto prima di andare in aeroporto."
"Adesso la devi fare la lavatrice? Poi te ne stai lontano da casa per almeno altre tre settimane, non mi pare che sia così urgente" disse Fabrizio mettendo la caffettiera sul fornello.
"Bizio, dopo quello che è successo stanotte non esiste proprio che lascio quelle lenzuola dove stanno" rispose Ermal sbuffando.
Fabrizio si voltò verso di lui con un sorrisetto malizioso dipinto in faccia, poi disse: "Ti stai lamentando di quello che è successo?"
Ermal sorrise e abbassò lo sguardo imbarazzato. "No. Ovviamente non mi sto lamentando, anzi..."
"Sai, abbiamo ancora un po’ di tempo..." disse Fabrizio spegnendo il fornello - consapevole che di quel passo il caffè non lo avrebbero bevuto - e avvicinandosi pericolosamente a Ermal.
Come previsto, non era passato molto prima di ritrovarsi di nuovo nudi e aggrovigliati tra le lenzuola.
"Sei ancora in tempo per l'aereo, vero? Non ti sto facendo fare troppo tardi?" chiese Fabrizio, mentre Ermal se ne stava ancora sdraiato addosso a lui dopo l'amplesso.
Ermal scosse la testa. "No, tranquillo. Ho ancora qualche minuto. Dovrò saltare la colazione e probabilmente dovrò infilare in valigia le prime cose che capitano, senza nemmeno guardare cosa pesco dall'armadio, ma è per un buon motivo."
Fabrizio sorrise e si sporse verso di lui per baciarlo ma, proprio quando le loro labbra stavano per toccarsi, il cellulare di Ermal iniziò a squillare.
Il più giovane allungò una mano verso il comodino e, dopo aver gettato una rapida occhiata al display, sorrise e rispose dicendo: "Ciao, mamma!"
Colpito dall'improvvisa voglia di comportarsi come un ragazzino - cosa per altro gli capitava spesso da quando frequentava Ermal, e allo stesso modo anche Ermal aveva iniziato a comportarsi più come un adolescente che come un uomo di quasi quarant'anni - Fabrizio si sporse verso Ermal e, rivolto al telefono, disse: "Salve, signora!"
Ermal gli lanciò un'occhiataccia, mentre posava una mano sulla sua bocca nel tentativo di zittirlo.
"Scusa, ma sono un po' impegnato ora. Ti richiamo più tardi" disse continuando a tenere la mano ferma sulla bocca di Fabrizio.
Solo quando fu certo che sua madre avesse riattaccato, spostò la mano sospirando.
Fabrizio lo fissò in silenzio per un attimo, mentre Ermal ne approfittava per controllare un paio di messaggi che gli erano arrivati. Poi disse: "Mi hai zittito."
Ermal sollevò lo sguardo, abbandonando il telefono sul letto accanto a lui.
Fabrizio lo stava fissando con la fronte aggrottata e uno sguardo che gli aveva visto raramente, forse solo quando sgridava i suoi figli per qualcosa di veramente grave.
Così si affrettò a dire: "No. Cioè sì, l'ho fatto. Ma non perché mi vergogno di te. È che non voglio che mia madre lo venga a sapere così."
"Pensi che non le piacerò? O che magari non approverà perché sono un uomo?" chiese Fabrizio.
"No, niente di tutto questo. Solo che non voglio che venga a sapere di te mentre sei nudo nel mio letto" rispose Ermal con un sorriso, cercando di alleggerire la situazione.
Fabrizio sospirò, poi si alzò dal letto e, dopo aver recuperato i suoi vestiti, disse: "Tranquillo. Ora non sono più nudo nel tuo letto."
Non diede nemmeno il tempo ad Ermal di rispondere.
Si chiuse in bagno e quando uscì qualche minuto più tardi - perfettamente vestito e pronto per iniziare la giornata - si limitò a gettare un'occhiata veloce ad Ermal mentre recuperava il portafoglio e il cellulare dal comodino.
"Vai via?" chiese Ermal con un filo di voce, preoccupato che Fabrizio se ne stesse andando per colpa sua.
Aveva capito che Fabrizio non aveva preso bene il fatto che sua madre ancora non sapesse di loro, ed Ermal lo capiva.
Ma non era semplice per lui dire a sua madre che stava uscendo con qualcuno, soprattutto perché in quel caso avrebbe dovuto ammettere i suoi sentimenti per Fabrizio e non sapeva se si sentiva pronto a farlo.
"Sì. Torno in albergo, magari riesco a riposare qualche ora. Tanto tu tra poco devi andare in aeroporto" rispose Fabrizio.
Ermal annuì e lo seguì fino alla porta. Poi, mentre Fabrizio usciva, disse: "Allora ti chiamo quando arrivo a Tirana."
"Ok, ciao" rispose Fabrizio, iniziando a scendere le scale del palazzo di corsa.
Non lo aveva nemmeno baciato prima di andarsene, e quello per Ermal era un campanello d'allarme sufficiente.
Nei giorni seguenti, le cose tra Fabrizio ed Ermal sembravano essere cambiate radicalmente e allo stesso tempo non essere cambiate affatto.
Ermal l'aveva chiamato appena arrivato a Tirana, ma Fabrizio aveva rifiutato la chiamata e gli aveva mandato un messaggio dicendo che proprio non poteva rispondere. E così si erano solo scambiati qualche messaggio in cui Fabrizio sembrava sempre il solito, ma allo stesso tempo Ermal capiva che c'era qualcosa che non andava.
Tornato in Italia - per il concerto a Bari - Ermal aveva pensato che sarebbe stato più semplice mettersi in contatto con Fabrizio, che forse la sua mancanza di tempo per stare al telefono con lui era una cosa limitata ai giorni passati. Ma ovviamente dovette ricredersi.
Fabrizio non rispondeva alle sue chiamate, si limitava a mandargli messaggi veloci con qualche frase banale e non gli aveva chiesto nemmeno una volta come stesse.
Quel giorno, mentre se ne stava sul balcone a casa di sua madre a fumare l'ennesima sigaretta, Ermal per un attimo ebbe paura che qualunque cosa ci fosse tra lui e Fabrizio stesse volgendo al termine.
"Tutto bene?"
Ermal si voltò sentendo la voce di sua madre. Abbozzò un sorriso e disse: "Sì, tutto bene."
"Sicuro?"
Ermal abbassò lo sguardo. Non poteva mentire a sua madre, e non solo perché probabilmente si sarebbe sentito in colpa fino al giorno della sua morte. Non poteva farlo perché lei riusciva a capire quando mentiva.
"Ho un po' di pensieri per la testa. Niente di grave" disse buttando il mozzicone nel posacenere e appoggiando gli avambracci sulla ringhiera.
Sua madre rimase in silenzio, ma non se ne andò.
Ermal aveva bisogno di parlare, di sfogarsi su qualcosa, era chiaro. E lei non aveva intenzione di forzarlo, ma allo stesso tempo voleva essere lì quando finalmente lui avrebbe deciso di aprirsi.
"Sto frequentando una persona" disse Ermal, continuando a guardare fisso davanti a sé.
"In effetti, mi sei sembrato più sereno ultimamente. A parte oggi" disse sua madre sorridendo.
"Abbiamo avuto una piccola discussione, qualche giorno fa. Cioè, in realtà non so nemmeno se definirla discussione. Lui continua a dire che va tutto bene, ma a me non sembra."
Alla madre di Ermal ovviamente non era sfuggito il fatto che suo figlio si fosse riferito a un uomo, e in realtà non era nemmeno stupita.
Aveva notato un attaccamento sempre maggiore tra suo figlio e Fabrizio ed era certa che prima o poi tra loro ci sarebbe stato qualcosa.
A conti fatti, sarebbe stata molto più sorpresa se avesse scoperto che quel lui nominato da Ermal non era Fabrizio che il contrario.
"Lui, eh?" disse giusto per provocarlo un po', con il tono di chi in realtà ha già capito tutto.
Ermal si voltò di scatto, gli occhi spalancati e un po' di ansia nello sguardo.
Sua madre sorrise ancora, cercando di rassicurarlo, e disse: "Fabrizio?"
Ermal annuì senza parlare.
"Credo che sia una brava persona. E ti fa stare bene, lo ha sempre fatto" disse lei.
Ermal sospirò, sentendosi un po' più tranquillo. Poi disse: "E se fossi io quello che sbaglia? Lui fa stare bene me, ma non è detto che io faccia stare bene lui."
"Te l'ha detto lui questo?"
Ermal scosse la testa. "No. Solo che a volte mi sembra che lui sia un passo più avanti di me in questa relazione e io non riesco a raggiungerlo, rimango sempre bloccato un po' più indietro. Prima che partissi per Tirana, abbiamo discusso perché io non ti avevo ancora parlato di lui e della nostra relazione. Non lo so, mami, mi sembra che lui si sia buttato in questa storia senza nemmeno pensarci, ma io non sono così."
"Hai solo paura di ammettere che ti sei innamorato di nuovo. Sei stato talmente male l'ultima volta che hai amato qualcuno, che ora hai paura che succeda ancora" disse sua madre, capendo in un attimo ciò che Ermal provava.
Ermal abbassò lo sguardo, mentre sua madre aggiunse: "Però non devi farti fermare dalla paura. Tu non sei così, non ti fai sconfiggere così facilmente. Quindi digli semplicemente quello che provi e vedrai che si risolverà tutto."
Ermal sapeva che sua madre aveva ragione, che l'unico modo per risolvere le cose con Fabrizio era parlare chiaro.
Doveva dirgli cosa provava e doveva dirgli per quale motivo non glielo aveva detto prima, per quale motivo era così spaventato all'idea di amare di nuovo e per quale motivo non aveva parlato a sua madre della loro relazione.
Fabrizio meritava di saperlo.
Le settimane seguenti furono un inferno per entrambi.
Un inferno piacevole - pieno di concerti per Ermal e di riprese del nuovo videoclip e l'uscita della nuova canzone per Fabrizio - ma pur sempre un inferno.
Se prima di quel momento telefonarsi era stato praticamente impossibile, durante quelle settimane era diventato difficile anche solo sentirsi per messaggio.
In realtà, Ermal credeva che fosse un bene. Entrambi avevano bisogno di pensare a fare al meglio il proprio lavoro, senza distrazioni.
Ma non poteva negare che Fabrizio gli mancasse e che un misero messaggio al giorno non fosse sufficiente a fargli sopportare quella mancanza.
Forse era per quello che quando Fabrizio aveva annunciato l'uscita del suo nuovo singolo, Ermal aveva commentato il post con un: "Daje Fabri!" seguito da un cuore. Le interazioni tra loro erano talmente poche che Ermal cercava di trovare un pretesto qualsiasi per parlargli.
Eppure, nonostante quello, avevano continuato a sentirsi poco.
Certo, Fabrizio aveva risposto al commento scrivendo: "Bello compare mio" e aggiungendoci a sua volta un cuore rosso, facendo notare a tutti quanto ancora lui ed Ermal fossero uniti. Ma la realtà era ben diversa, e questo Ermal lo sapeva bene.
L'ultima data del tour era arrivata velocemente e allo stesso tempo con una lentezza estenuante, perché sembravano passati secoli da quando Ermal aveva visto Fabrizio nel suo appartamento a Milano.
Sentiva la mancanza di Fabrizio farsi sempre più forte, al punto che gli sembrava di avere un buco nello stomaco. Non riusciva a mangiare, a volte gli sembrava di non riuscire nemmeno a respirare.
Cantare era l'unica cosa che ancora, nonostante tutto, gli riusciva bene.
Ed era proprio per quel motivo, proprio perché ormai si sentiva come se non fosse in grado di fare niente se non cantare, che in quel momento si trovava davanti a casa di Fabrizio.
Era mattina presto, il sole era appena sorto e lui non aveva dormito. Si era messo in macchina appena finito l'instore a Torino e aveva guidato per tutta la notte, facendo una sosta ogni tanto giusto per non addormentarsi.
Marco lo aveva sgridato come una mamma premurosa quando aveva saputo le sue intenzioni, dicendo che avrebbe dovuto almeno dormire qualche ora prima di partire. Ma Ermal non poteva più aspettare.
Doveva parlare con Fabrizio e doveva farlo al più presto.
Suonò il campanello, fregandosene del fatto che fosse presto e che forse Fabrizio stava ancora dormendo, e attese pazientemente.
Quando la porta si aprì poco dopo e il suo sguardo incrociò quello di Fabrizio, Ermal sospirò.
Gli era mancato così tanto che ora che lo aveva di fronte a sé gli sembrava di non riuscire più a respirare.
Fabrizio si stropicciò gli occhi, convinto che non fosse ancora del tutto sveglio, ma quando spostò la mano dalla faccia Ermal era ancora lì.
Non stava sognando. Era davvero davanti a lui.
Senza dargli il tempo di parlare, Ermal fece un passo in avanti costringendo Fabrizio a spostarsi per farlo passare e farlo entrare in casa.
Fabrizio sospirò chiudendo la porta. Non aveva idea di cosa aspettarsi da quella visita improvvisa.
Le cose con Ermal erano diventate strane dopo la discussione di qualche settimana prima, e in realtà Fabrizio non sapeva nemmeno perché.
Ovviamente non poteva negare di essersi sentito un po' ferito sapendo che Ermal non aveva parlato di lui a sua madre, nonostante si frequentassero da mesi. Dall'altra parte però, dopo un po' di fastidio iniziale, aveva dovuto riconoscere che non era un motivo valido per allontanarsi così tanto.
Il problema era che se n'era reso conto quando ormai sembrava essere troppo tardi. Ed ora non sapeva come comportarsi e, come se non fosse abbastanza, aveva paura che Ermal si fosse presentato a casa sua per dirgli che era finita.
"Ti amo."
Fabrizio si votò lentamente verso Ermal, convinto di aver sentito male.
Non glielo aveva mai detto. Anche se si frequentavano da mesi, anche se entrambi avevano dimostrato di provare quei sentimenti.
Ermal chiuse gli occhi per un attimo, poi sospirò e disse: "Non ho parlato di te a mia madre perché lei è la persona più importante della mia vita e prima di dirle una cosa del genere dovevo essere sicuro."
"Sicuro di cosa?"
"Del fatto che tu sei importante almeno quanto lei. Ho sempre saputo che saresti stato una persona importante per me, fin da quando ci siamo conosciuti, ma non riuscivo ad ammettere che lo fossi così tanto. L'ultima volta che mi sono innamorato di qualcuno, che ho fatto progetti con qualcuno, non è andata bene. Avevo paura che potesse succedere di nuovo" disse Ermal.
Aveva parlato velocemente, quasi senza prendere fiato tra una frase e l'altra, e aveva lasciato Fabrizio senza parole.
Era troppo, tutto insieme. Sapere che Ermal lo amava, che non glielo aveva mai detto perché aveva paura di soffrire di nuovo, lo aveva lasciato a bocca aperta, senza sapere cosa dire.
E così, Fabrizio non disse niente.
Percorse la stanza velocemente, fino a raggiungere Ermal, e lo baciò.
Ermal sorrise contro le sue labbra, felice che le cose tra loro si fossero rimesse a posto.
Non aveva dubbi che Fabrizio lo amasse tanto quanto lo amava lui, ma non era mai stato del tutto convinto che l'amore vincesse su tutto e aveva avuto paura che la discussione di qualche settimana prima avesse incrinato il loro rapporto.
"Mi ami davvero?" chiese Fabrizio allontanandosi leggermente da lui ma continuando a circondargli il viso con le mani, quasi avesse paura che altrimenti sarebbe svanito nel nulla.
Ermal annuì sorridendo e Fabrizio lo baciò di nuovo, questa volta più appassionatamente spingendolo contro il muro del salotto e premendo il corpo contro il suo.
"E tu non me lo dici?" disse Ermal scostandosi improvvisamente.
Voleva sentirselo dire, non poteva negarlo.
Fabrizio sorrise e disse: "Tra un po'. Preferisco lasciarti un po' in sospeso."
Poi riprese a baciarlo ed Ermal non protestò.
In fondo, avevano una vita intera per dirsi ti amo.
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Storm. - italian version -
1.
Non che la colazione sia mai stata il mio pasto preferito, ma quella mattina mi sentivo particolarmente d'appetito...il che significa che avevo mangiato un pancake prima del mio solito succo di pompelmo. Qualcun altro, invece, si sarebbe divorato pancakes, pane e marmellata e una tazza di caffè. Quel qualcun altro, ora, ce l'avevo davanti, a tavola, ma invece di masticare rumorosamente e raccontarmi idiozie per farmi sorridere,...se ne stava seduto in silenzio, pensieroso, lo sguardo da un'altra parte come se io fossi diventato trasparente e potesse guardare attraverso.
L'azzurro dei suoi occhi cupo come il cielo a Yule. La mascella tesa, un nodo di rabbia dura che faceva guizzarne il muscolo.
'Quale demone appesantisce i tuoi pensieri tanto da spegnere il tuo sole, Odinson?' pensai, scrutandolo da sopra l'orlo del bicchiere mentre finivo di bere il mio succo.
"Il caffè si sta raffreddando..." dissi piano, accennando col mento alla tazza con la quale Thor giochicchiava nervosamente. "...ti fa schifo il caffè freddo, e io non ho intenzione di riscaldarlo." aggrottai le sopracciglia "Di nuovo.".
Lui trasalì, come se non si aspettasse di udire la mia voce. Poi rise, teso...facendo finta di niente.
"Non sei un granché a preparare la colazione, fratellino! Questo caffè fa schifo sia freddo che caldo."
Lo fissai per un attimo.
"Lo hai preparato tu. Thor, cosa...?"
Ma lui si alzò in fretta, prima che potessi finire di parlare, come se non volesse sentirmi, come se non ci fosse nulla da affrontare.
Gettò il caffè nel lavandino e lasciò la tazza lì.
"Forse c'è bisogno di cambiarlo..." mugugnò a mezza voce, e io non capii se si stesse riferendo al caffè,... o a qualcos'altro del quale era restìo a parlare.
"Vado a farmi una corsa, fratellino. Pensaci tu al pranzo, vuoi?" mi battè una pacca sulla spalla e infilò la porta.
Solo una persona, in tutta la mia vita, ha avuto, ed ha, la capacità di farmi restare senza parole,...ed è proprio lui. Mio fratello.
"Pensaci tu al pranzo..." ripetei a me stesso, fissando incredulo là dove un secondo prima, Thor sembrava digrignare i denti al nulla.
"Pensaci tu al pranzo...più assurdo del Vecchio che mi dice 'ti voglio bene, figlio'."
Non pensai a un bel nulla in quella mattina, perché Thor rincasò sudato fradicio, il fiatone come se avesse rincorso Surtur in carne e fiamme, e un vassoio avvolto in carta unta.
Anche io ero tornato da poco, con qualche provvista, rassegnato a sprecare cibo che sarebbe finito dritto nel secchio della spazzatura.
Thor passò di fretta accanto a me, buttò distrattamente il vassoio sul tavolo, ed evitò di nuovo il mio sguardo.
"Ho bisogno di una doccia. Mangia, se vuoi, Loki."
Sparì di nuovo, lasciandomi solo.
"Certo, Thor. Se vuoi ti aspetto, Thor. La mia giornata è andata bene, grazie, Thor."
Ma facevo ironia al nulla, mio fratello era già corso via a rincorrere chissà quali fantasmi, senza volersi confidare.
Era dannatamente frustrante. Ero io che di solito mi comportavo così, e Thor era abituato ai miei improvvisi silenzi, ai miei spigoli, ai miei cambi d'umore.
Io non lo avevo mai visto in quel modo. Sfuggente, taciturno,...strano.
Guardai il vassoio sul tavolo.
"Grazie per aver pensato al pranzo anche oggi,...grazie per aver portato..." scostai un angolo di quella carta unta e tiepida per sbirciare "...Oh, pizza al formaggio, fantastico! Mi hai letto nel pensiero, non desideravo altro!"
2.
Thor si aggirò per casa tutto il giorno, tetro e con poca voglia di parlare.
Sembrava che tutto lo annoiasse, che non ci fosse nulla in grado di alleviare quel peso che chiaramente gli gravava addosso, e al quale non sapevo dare un nome. Avrei potuto saperlo. Avrei potuto strisciare nella sua mente e scrutare nei suoi pensieri...ma non volevo farlo. So per esperienza quanto sia fastidioso, se non doloroso, sentirsi violare tanto profondamente. Non volevo farlo, non con Thor. Non a tradimento.
Venne a chiedermi aiuto con quello che lui chiamava 'infernali trappole sullo schermo luminoso'. Nient'altro che un file di partiture per batteria di un pezzo che si era messo in testa di imparare. Accettai volentieri, cercando di scherzare, ridendo della sua goffaggine...ma mi accorsi che le sue labbra ridevano, mentre il suo sguardo rimaneva muto. Spento. Lontano. Gli occhi di un'altra persona.
Iniziai a stancarmi di quell'estraneo ombroso e scostante che aveva preso il posto di Thor Odinson. Che era allegro, chiassoso, rompipalle,...e col cuore grande come i Nove Regni. Lo rivolevo indietro, e lo avrei affrontato, a quell'estraneo dalla mascella serrata, se ciò serviva a riavere mio fratello.
Fuori dalla finestra, un tuono ruggì tra nubi viola: non un buon segno, fin da quando eravamo bambini.
Thor era sparito nella sua stanza da ore. Lasciandomi solo, a spaccarmi il cervello su cosa potesse essere successo. Ero certo che non fosse colpa mia, stavolta.
Non mi sembrava di essere stato particolarmente intrattabile, né di averlo fatto innervosire con una delle mie giornate storte,...per cui non capivo da dove venisse tanta rabbia. Perché era rabbia quella che gli vedevo lampeggiare nello sguardo. Rabbia che non sapeva come esprimere, che non voleva o non capiva come affrontare.
Una sottile, dolorosa emicrania iniziò a strisciare e pungermi dentro l'orbita. Addentai un pezzo di pizza, fredda e rinsecchita, per poi ingoiare un antidolorifico.
"Il conto si allunga, Odinson." mormorai con un sogghigno.
3.
Appoggiato allo stipite della porta, guardavo in silenzio Thor distruggere sé stesso, da non so quanto tempo. Avevo preparato un tè, e volevo che mi tenesse compagnia. Volevo affrontare quell'estraneo scontroso perché mi raccontasse la verità.
Ma quando ero arrivato lì, mi morì tutto in gola. Nella penombra della lampada da tavolo, Thor era seduto sul letto, e fissava Mjolnir, piantato a testa in giù sul pavimento. C'era una sorta di buco, laddove la sua enorme testa impattava a terra, dal quale si diramavano sottili crepe a raggiera.
Cupo e minaccioso, il Martello dei Nani, sembrava un segugio dall'aria feroce, pronto a morire per il suo padrone. Ma ora era lì, muto, e Thor lo guardava. Sembrava volerlo toccare, ma poi ritirava sempre la mano. Come una sorta di dialogo tra lui e quella che era l'estensione letale del suo braccio.
Lo vedevo serrare i pugni fino a sbiancare le nocche; lo vedevo battere il pugno sul palmo della mano; lo vedevo passarsi le mani tra i lunghi capelli biondi,...vedevo quella ciocca di capelli neri ancora intrecciata ai suoi.
Fratelli...
Sentii il cuore spaccarsi quando mi accorsi degli occhi lucidi di lacrime. Lo vedevo stare male, e un'altra immagine mi assalì la memoria...quella che...
'VA BENE, ORA BASTA!!"'
...un eco nel tempo.
Vedere Thor piangere era come vedere il sole morire...
Mio fratello...
Iniziò a prendere a pugni l'aria davanti a sé, ma mi guardò senza capire, gli occhi sgranati quando si accorse che ero comparso lì, in ginocchio davanti a lui ancora seduto.
Mi aveva colpito a una spalla, ma io ignorai il dolore...e lo afferrai.
"Ascoltami bene, bestione, io non so cosa diavolo ti faccia male dentro,...ma so cosa,...so cosa vuol dire. Ehi, Golden Boy, guardami."
Lo abbracciai. Come forse avrei dovuto fare molto prima. Prima di Thanos, prima dei suoi amici midgardiani, prima di Midgard. Prima di tutto. Lo tenni stretto.
"Non so cosa fare, Thor, okay? Non so cosa altro fare se non questo. E dirti che qualsiasi cosa stia divorando il tuo cuore adesso, la scacceremo insieme, tu ed io, mi hai sentito, bestione?"
Poche volte era successo che dovessi essere io a esserci per lui.
Quello rotto ero io. Sono sempre stato io. Era lui quello che doveva sempre rincorrermi, comprendermi, vedere oltre.
A volte riuscendoci. Altre volte rifiutandosi di abbandonare la sua posizione privilegiata. Ora mi trovavo ad avere Thor Odinson tra le braccia, dopo una giornata orribile, che mi stringeva, forte,...tanto quanto io stringevo lui.
Come se temessimo di perderci di nuovo. Come se dovessimo affrontare chissà che tempesta, e per questo ognuno voleva proteggere l'altro.
"So fare solo questo, bestione. Tenerti stretto. Sono il peggiore dei fratelli, lo so...ma che Surtur mi divori l'anima se indietreggerò...qualunque cosa sia successa."
Lo sentivo stringere, come se anche lui non sapesse fare altro. Aggrapparsi. Ancora e ancora. E piangere, singhiozzare come un bambino. Tremava come una foglia.
"CI rimetteremo in sesto, Golden Boy. Torneremo splendenti e gloriosi come una volta, okay? E tu dovrai ancora implorare perché le ragazze guardino te, e non sempre e solo me, dannato idiota."
Iniziai a cullarlo avanti e indietro.
"Dannato idiota,...tu e il tuo orgoglio da supereroe. Andrà tutto bene, Thor. Andrà tutto bene, si sistemerà tutto."
Appoggiai il mento sulla sommità della sua testa, sui suoi capelli.
"Lo so che sono l'ultimo miserabile che può dirti questo,...e non osare ridere, bestione. Non osare ridere, dannato Golden Boy."
Sembrava calmarsi lentamente.
"Stai andando bene, fratello...il mio bravo ragazzo...mio fratello."
Rimanemmo in silenzio, Mjolnir che vigilava, muto e attento.
"Ricordi le parole di nostra madre?...natten er ikke mørk, men bare solen som lukker øynene*...il sole riaprirà presto gli occhi, bestione, e la tempesta sarà passata."
* la notte non è buio, ma solo il sole che chiude gli occhi.
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