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Il ruolo della comunicazione interculturale nella diffusione della letteratura uzbeka sulla scena mondiale, Mamarizaeva Farangiz Zohidjon kizi
Questo articolo esplora il ruolo significativo della comunicazione interculturale nel promuovere la diffusione della letteratura uzbeka sulla scena globale.
Astratto Questo articolo esplora il ruolo significativo della comunicazione interculturale nel promuovere la diffusione della letteratura uzbeka sulla scena globale. Evidenzia come gli sforzi di traduzione, i media digitali e la diplomazia culturale abbiano facilitato la condivisione della ricca tradizione letteraria dell’Uzbekistan con il pubblico internazionale. Esaminando le radici storiche…
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Meriem Bennani
Artista marocchina che vive a New York, Meriem Bennani amplifica la realtà per mettere in discussione la società contemporanea e le sue identità frammentate.
Vincitrice dell’Eye Art & Film Prize 2019, rappresenta in chiave pubblica o intima, contesti sociopolitici, attraverso video, disegni, film e installazioni multimediali che utilizzano in maniera fantasiosa tecnologie digitali come l’animazione 3D, la mappatura della proiezione e la motion capture.
I suoi video sono pubblicati in serie su piattaforme web, in installazioni proiettate su superfici architettoniche attraverso l’interazione con oggetti scultorei. Sebbene gran parte della sua produzione si può annoverare nella online art la sua poetica ha molto a che fare con il mondo reale, con la gioia di vivere e il desiderio di restituire un rapporto emotivo diretto con le cose.
Nata a Rabat nel 1988, si è laureata in arte alla Cooper Union di New York e specializzata all’École Nationale Supérieure des Arts Décoratifs di Parigi.
Nelle sue opere, esamina le conseguenze della globalizzazione, come lo sradicamento dal mondo di provenienza, la rottura dei legami di continuità con le proprie origini e l’accesso a nuovi modelli che contribuiscono a plasmare identità culturali fragili provocando profonde crisi che si riversano molto spesso nelle tematiche di genere.
In Gradual Kingdom, presentato alla galleria SIGNAL di Londra nel 2015, attraverso l’utilizzo di video, disegno e scultura, affronta la relazione tra la sua città natale e le reti globali di scambio.
L’anno seguente, al MoMA ha presentato FLY una coreografia stratificata di proiezioni che evocavano l’occhio caleidoscopico di una mosca animata che attraversa Rabat, trasportandoci in mercati, feste, interviste con i parenti, fermandosi di tanto in tanto per cantare una versione distorta di Kiss It Better di Rihanna.
Nel 2017 ha prodotto, per la Stanley Picker Gallery della Kingston University di Londra Siham and Hafida, installazione video in cui, con linguaggi contaminati, racconta le complessità intergenerazionali delle forme culturali in evoluzione, incarnate da due popolari cantanti chikha marocchine di diverse età.
Fardaous Funjab è un reality show itinerante che ha per protagonista una stilista di hijab che crea modelli stravaganti e assurdi per esplorare il significato culturale del velo.
Nel 2020, con l’artista israeliano Orian Barki, ha creato 2 Lizards, serie di video, inizialmente diffusa a episodi su Instagram e poi presentata in spazi istituzionali come il Whitney Museum. Un racconto surreale dell’esplorazione degli spazi urbani newyorkesi durante la pandemia di COVID-19, dal punto di vista di due lucertole antropomorfizzate. Gli otto brevi video sono ora ospitati nella collezione del Museum of Modern Art e del Whitney Museum of American Art.
For Aicha, film d’arte diretto con Orian Barki, racconta il percorso di accettazione dell’identità sessuale della protagonista e il suo rapporto con la madre. Protagonisti sono sempre umanoidi zoomorfi che interagiscono fra loro. Sciacalli, rane, salamandre, che sostituiscono completamente la presenza umana.
Oltre a saper sfruttare al meglio la commistione di medium differenti, è un’autrice attenta a stabilire un rapporto di empatia con il suo pubblico, le sue narrazioni si muovono sfruttando vari registri emotivi, spesso creando momenti di coinvolgimento sul piano del divertimento e dello stupore.
Vicina a linguaggi come quello moda (insieme alla sorella Zahra ha fondato a Rabat il brand JNOUN), è stata tra le autrici delle Women’s Tale di Miu Miu.
For My Best Family, il suo più grande progetto, frutto di due anni di lavoro, è ospitato alla Fondazione Prada a Milano, fino a febbraio 2025.
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Quanto è diffusa la disinformazione sull’intelligenza artificiale? Cosa mostrano finora i nostri studi in India Il crescente problema della disinformazione nell’intelligenza artificiale La capacità sempre più evoluta dell’intelligenza artificiale generativa (genAI) nel creare contenuti autentici come testi, immagini, audio e video ha sollevato preoccupazioni globali. Questa tecnologia potrebbe alimentare la disinformazione e influenzare le narrazioni politiche, soprattutto in un anno di elezioni. Negli ultimi 12 mesi, diversi deepfake di alto profilo generati da genAI hanno suscitato preoccupazione, tra cui immagini falsificate del candidato presidenziale Donald Trump accanto a sostenitori afroamericani e video di un politico slovacco che ammette di aver manipolato le elezioni. Limiti negli studi sull’impatto della genAI sulla disinformazione Pur rivolgendo l’attenzione sui
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Gli sconfitti di Brexit – in prima fila i banchieri e i media della City – sono al lavoro da anni su “Bre-verse”: su iniziative politiche che nel periodo medio-lungo possano sfociare in un contro-referendum, ma che nell’immediato frenino il completamento di Brexit e mantengano una provvisorietà utile a tenere Londra ormeggiata alle coste europee.
La (...) crisi geopolitica, dopo la pandemia, ha messo ulteriormente in discussione la centralità cosmopolita della piazza finanziaria londinese, azzoppata anche dalla fuga/bando di tanti oligarchi russi e dal congelamento delle relazioni col capitalismo cinese.
Il primo traguardo della potente comunità finanziaria (...) è la cacciata da Downing Street dei tory, ininterrottamente al potere dal 2010. Le prossime elezioni sono in calendario sulla carta a fine 2024: poco dopo il voto presidenziale Usa e sei mesi dopo quello Ue. Le difficoltà crescenti del gabinetto di Rishi Sunak (...) potrebbero tuttavia anticipare il voto. E i sondaggi e alcuni voti suppletivi danno buone chance al Labour di Keir Starmer: un curioso leader “sir” e centrista per la socialdemocrazia britannica; certamente capace, negli ultimi tre anni. di disincagliare il laburismo dalle secche ideologiche dello statal-sindacalismo di Jeremy Corbyn. (...).
Scontata un’ennesima sconfitta (del Pd e del Pse) alle europee del 2024, Prodi sembra dunque guardare a un gran ritorno laburista a Londra come punto di svolta e riscossa geo-politica dell’intera sinistra europea (nella speranza che i “dem” resistano a Washington).
Quello che conta per ora è tenere viva una narrazione nella quale anche la presenza in Italia di un Governo Meloni costituisce una parentesi, come il trumpismo in America e il johnsonismo in Gran Bretagna. Una sorta di “errore della democrazia”, come lo sarebbero state (...) anche le tre affermazioni elettorali di Silvio Berlusconi. (...)
via https://www.ilsussidiario.net/news/sinistre-se-prodi-ritenta-il-ribaltone-dalleuropa-via-bre-verse/2577196/
Interessante.
Primo, il potere delle narrazioni: fan scappare russi, cinesi e sauditi oltre che petrolieri e minatori, ma nessuno mette soldi a Londra perché la Brexit.
Secondo, i diabbolici piani del globalismo: UK restituisca un po' di sovranità e libertà (che te ne fai quando l'attenzione ai sentimenti lgbtq+ è più che OK, dato che per "difenderli" non ci si ferma neppure dinanzi al traumatizzare un bambino autistico?). Si traccia così il solco, si dà l'esempio che i cittadini devono seguire. Ce lo chiede la finanza ... neolibberista o benecomunista? (hint: è sempre la stessa, quando va male la prima, quando va "bene" la seconda) e il mainstream media venduto globali.
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Se un qualsiasi problema viene presentato come una crisi globale, allora è una truffa.
Siamo di fronte alla presentazione di problemi inesistenti, o di piccoli problemi locali, come crisi globali generali.
Queste narrazioni sono seguite dall'affermazione che le uniche soluzioni ammissibili sono quelli globali che richiedono un’autorità globale, un controllo globale.
Questo è lo schema generale con cui ci confrontiamo. La risposta politica alla pandemia è stata l'applicazione di questo schema e la crisi del cambiamento climatico è la logica prosecuzione.
Fortunato Nardelli
La CO2 provoca l’acidificazione dei mari!! E giù a imbrattare statue e quadri per salvare gli oceani! Ma questi giovincelli hanno una vaga idea di ciò di cui parlano? Di cos’è l’acidificazione e cosa fa la CO2?
C’è circa 50 volte più CO2 in mare che nell’atmosfera, anche di più nei primi 100 metri di profondità. Noi dobbiamo essere grati per tutta quella CO2 perché è tutta quella CO2 che evita che il mare sia sostanzialmente un detergente per scarichi.
L’oceano è essenzialmente una soluzione di idrossido di sodio ed è estremamente alcalino, quasi soda caustica con un PH che, senza CO2, sarebbe circa 11,3 (invece dell'attuale PH 8)
Senza la CO2 gli oceani non conterrebbero alcuna forma di vita. Ma se questi imbrattatori studiassero un po’ di più di scienze non sarebbe meglio per tutti? Risparmierebbero anche sulla vernice.
Del resto...
forse molti hanno dimenticato che la nostra vita è fondata sulla chimica del carbonio. Quando qualcuno demonizza le cose più naturali c’è proprio da preoccuparsi.
La cosa più naturale che facciamo è respirare, producendo CO2! Trascurabile?
Un po' di matematica spicciola.
La densità della CO2 è 1,98 Kg/m3 Un corpo a riposo ne emette 0,3 m3 ogni giono Ora moltiplichiamo 1,98*0,3*365(giorni anno)*8 miliardi (persone) = 1.734.480.000 Ton. di CO2 l’anno.
Cioè il 63% della CO2 prodotta dalla UE nel 2021 dai combustibili fossili.
Detto questo sarebbe obbligo che Greta e i suoi compagni, d'ora in poi, si tappassero la bocca... ...per evitare di contribuire non poco, al cambiamento climatico, naturalmente!
Critica Climatica
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Infatti uno dei fini è diminuire le unità carbonio, cioè le persone.
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“LA SCIENZA È NOSTRA E VOGLIAMO CHE IL MONDO LO SAPPIA”: RAPPRESENTANTE DELLE NAZIONI UNITE AL “PANEL DI DISINFORMAZIONE” DEL WEF | NoGeoingegneria
Dichiarando di possedere “la scienza”, alleandosi con Big Tech per manipolare i risultati di ricerca e versando milioni nei media, i globalisti non eletti stanno mostrando a tutti il loro vero volto. La scorsa settimana, durante gli incontri sullo sviluppo sostenibile del Forum economico mondiale (WEF), i globalisti non eletti hanno tenuto una tavola rotonda sul tema “Affrontare la disinformazione”, con partecipanti dell’ONU, della CNN e della Brown University che hanno discusso su come controllare al meglio le narrazioni.
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“Sebbene l’italianità di Mario non sia la ragione ultima di esistenza del personaggio, questo resta forse un esempio di come degli sguardi globali sull’Italia e sull’italianità operino caratterizzando determinate marche linguistiche ed etniche in senso ipertrofico, all’interno di rappresentazioni e narrazioni occidentaliste e mediterraneiste storicamente più ampie e bene attestate. Mario appare infatti, nel suo complesso, una costruzione culturale che rivela come interscambi stratificati di culture al livello transnazionale abbiano plasmato nel tempo un personaggio al contempo sufficientemente neutro e vagamente etnico, familiare ed esotico. Nel corso delle sue iterazioni, Mario continua gradualmente ad accumulare elementi e cliché vagamente mediterraneisti, restando una macchietta bonaria e, pur tuttavia, rivelando una certa implicazione in diffusi stereotipi e ventriloquizzazioni della “italianità”.“
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Sabotaggi
L’imperfezione può certamente raggiungere livelli di blocco totale soprattutto se una mano maldestra decide di prendersi cura delle componenti, pur resistenti, della bicicletta. Angela era parcheggiata nella sartoria e qualcuno ha deciso di entrarci quando non c’era nessuno forzando il lucchetto per spanare la guarnitura. Fortuna che non abbiano preso altro e che non si siano accorti dei modelli per la prossima stagione. Ringraziamo quindi le divinità dei diseredati per averci concesso solo un pedale inservibile invece che qualcosa di più atroce. Purtroppo però questo ha causato il rinvio della partenza ma grazie al mio meccanico di fiducia non ho dovuto sostenere nessun costo aggiuntivo per sostituire la guarnitura inservibile. Ancora fortuna ha voluto che ne avesse una vecchia a disposizione in negozio e che facesse proprio al caso mio. L’evento, come spesso capita, permette però di entrare con un altro piccolo passo dentro una sorta di archeologia delle strutture politiche costruite dalla guerra fredda e dal suo post. Vorrei allora dilungarmi un pò di più su questi temi assecondando il desiderio di qualcuno che non voleva che iniziassi questo viaggio nelle date previste.
Per farlo mi piacerebbe partire da un luogo geograficamente lontano ma intimamente legato alla cittadina in cui vivo, la Sicilia. Ma occorre ripensare il mondo attraverso un concetto preso a prestito dal buddismo, quello dell’intreccio. In questo mondo la Sicilia non è una “nazionalità” o un insieme di genti ma una bolla da cui fuoriescono fasci di linee che si allacciano a diversi centri urbani, tra cui certamente Milano, e che sono capaci di deterritorializzarsi fin dentro le bolle di queste terre lontane, generando codici e quindi linguaggi decifrabili con la giusta scatola degli attrezzi. In assenza di arnesi con cui riparare da solo il guasto di Angela, ma ripensando a due testi di base come quello di Anton Blok e di Eric Hobsbawm e Terence Ranger vorrei guardare ad alcune storie locali cercando di interpretarle insieme a quelle linee che mi è parso di intravedere e che potrebbero annodarsi in qualcosa che assomiglia ad una “cultura mafiosa” pur in un contesto sociale radicalmente distinto da dove “cosa nostra” ha reso famosa la parola mafia. Inizierò dal mettere insieme le storie per poi proporre una possibile loro interpretazione teorica.
Partiamo da quelle più recenti. Pur in assenza di archivi unanimemente riconosciuti come attendibili, è fatto noto che, dall’epoca coloniale fino all’inizio degli anni ottanta, queste terre si specializzarono nella produzione di oppio. Alcuni testi considerati “cospirazionisti” ai loro tempi ma basati sull’accesso a fonti diplomatiche di quegli anni raccontarono poi una certa normalizzazione del traffico di oppio e della sua derivata, l’eroina, in alcune zone del paese durante la guerra americana (o del Vietnam). Luang Prabang soprattutto fu luogo di incontro tra mercanti e produttori. Qui la merce grezza, l’oppio, prendeva la via di Vang Vieng che all’epoca era un semplice villagio in un canyon di rara bellezza e dove c’era uno dei più noti laboratori per il suo processamento gestito dalla CIA nell’aereoporto militare locale. Di lì arrivava poi a Bangkok. Il modo in cui le storie di Harlem, di Marsiglia, di Palermo e di Napoli si sono intrecciate a questa economia riguarda proprio quei legami commerciali e come dinamiche di potere locali, di onore e di rispetto, hanno trovato un loro svolgimento dentro più ampie valutazioni di politica economica che più recentemente sono state chiamate “Guerra alle Droghe”.
Dopo averla studiata ed osservata a lungo, sono giunto alla conclusione che questa nuova guerra sia un ampio dispositivo politico-militare per il governo del caos da cui si dipanano linee cui sono agganciati suoli, località e soggettività. E’ quindi a tutti gli effetti una macro bolla prodotta dalla fusione di molte altre bolle in cui coesistono ed operano in simultanea svariati elementi come: la corsa ad armamenti di piccolo taglio o per guerre urbane, l’istituzionalizzazione di diverse forme coercitive sia dei “costumi” sia di certi “settori popolazionali”, la nascita e il potenziamento della finanza offshore, la distribuzione e il riciclaggio di guadagni illeciti in momenti di crisi e diverse narrazioni globali sulle mafie. In studi mai pubblicati ma circolati in ristretti ambienti accademici per un dottorato per cui, a ragione, non sono risultati sufficienti, ho inoltre definito l’epoca che iniziava proprio con la dichiarazione di questa guerra da parte di Nixon nel giugno 1971 come “era narcotica”. Con questa provocazione volevo sottolineare un ulteriore aspetto della macrobolla che riguardava le abitudini di consumo e l’ingente crescita commerciale di un mercato di medicinali prima di allora abbastanza ristretto, quello degli psico-farmaci, legali e non. In altre parole, mentre si proibiva il consumo di certe sostanze e si dichiarava guerra ai suoi produttori, le si rendeva disponibili su mercati paralleli insieme a una vasta gamma di medicine per la mente legalizzate il cui scopo era fornire risposte mediche e controllate a più ampie questioni emozionali e socio-economiche.
Tra gli anni ‘70 e l’inizio degli anni ‘90 negli USA, infatti, fu osservabile un’interessante convergenza che pur non mostrando correlazioni raccontava di un fenomeno antropologico che stava prendendo forma. All’aumento dei tassi di disoccupazione e di precarizzazione della forza lavoro corrispose l’esplosione delle vendite di psicofarmaci insieme a sostanze Illegali come la cocaina e l’eroina. Nell’era narcotica è cioè avvenuta una sostituzione di alcune delle forme di controllo delle forze psichiche del corpo sociale; dal pensiero magico e rituale di sciamani e chiese che agivano su di esse nel “villaggio”, si è diffusa progressivamente una fede atea nelle cosiddette “pillole della felicità” che lo facevano, invece, “nell’urbanità”. Si è andata così affermando una particolare credenza nella scienza e nella chimica per cui è diventato possibile raggiungere condizioni emozionali ideali attraverso l’assunzione o la somministrazione all’individuo-paziente di sostanze idonee agli scopi performativi da raggiungere.
Tuttavia questo processo molecolare, capace di agire sulla singola connessione neuronale, mediato dalla guerra alla droghe, si è, per così dire, innestato su di un più ampio passaggio evolutivo nei regimi di accumulazione di capitale. La rivisitazione del magico in chiave farmaceutica e la ridefinizione dei regimi proprietari della finanza offshore hanno infatti partecipato in maniera considerevole ad accelerazioni sempre più incontrollate di moneta che a loro volta si è assemblata a vecchie e nuove forme di capitalismo predatorio. In alcuni casi specifici e localizzabili, questo intreccio tra produzione e consumo di sostanze psicoattive e diffusione dei proventi generati hanno delineato veri e propri progetti di politica-economica e di ingegneria sociale. Senza scomodare gli esempi della storia come quello della Birmania coloniale in cui le autorità inglesi somministravano coscientemente quantità di oppio alle diverse popolazioni etniche per controllarle o per aumentarne la produttività, dentro la “guerra alla droghe” diversi governi o autorità diversamente legittimate hanno rilasciato licenze informali per la vendita di sostanze illegali e registrato diritti di proprietà su terre rubate. Hanno messo in moto processi per le espulsioni e i ricollocamenti di intere popolazioni. Hanno rafforzato relazioni neocoloniali e creato le condizioni per le ricostruzioni di interi settori delle città. Luang Prabang, vista la sua storia recente, è certamente tra esse.
Ma si tratta sempre di un pedale rotto, mica di una testa di maiale o di quella della gattina incinta. A risultare interessante è invece la molecolarità del gesto e soprattutto l’attenzione al dettaglio, non solo della bicicletta ma di quanto scritto su questo blog. Per riassumere, il linguaggio nascosto nel pedale rotto può essere iscritto dentro la produzione paranoide della “guerra alle droghe” e quindi appartenere a un codice omertoso da “cultura mafiosa” oppure è un semplice gesto di goliardia, magari dubbia, con cui qualcuno ha pensato di far ridere qualcun’altro? Per rispondere occorre qualche informazione in più sul contesto. Prima di tutto c’è uno storico di azioni che prese singolarmente possono apparire cose che capitano, ma tutte insieme, nel corso di questi 3 anni, potrebbero configurare qualcosa in più, come un’intenzionalità di installare un germe paranoide nelle personali relazioni con la città. Sono assimilate dalla facilità della loro realizzazione. L’attenzione per il dettaglio lascia invece pensare all’esistenza di una mente, diciamo, più raffinata che le “manda a realizzare”. Nel campionario ci sono il furto delle scarpe il giorno della prima notte a casa della mia attuale compagna, oppure la scomparsa del vecchio gattino nero dalla sua casa il giorno della mia partenza per un viaggio in bicicletta o il furto dei manghi dal giardino la notte del mio ritorno da quel viaggio. Si tratta di piccoli gesti “rurali” come potrebbero essere il furto di un gallo da un pollaio: questioni all’apparenza futili ad un occhio non avvezzo ma che in certi contesti sociali rappresentano a volte veri e propri spartiacque su cui si definiscono un prima e un dopo nelle relazioni sociali tra villaggi, famiglie e vicini.
Nel campionario posso annoverare anche casi più spettacolari ed ugualmente simbolici come l’improvviso cedimento del tetto della prima casa in cui ho vissuto che causò diversi allagamenti della sua unica stanza e poi l’esplosione della fossa biologica su cui sorgeva e che la inondò, letteralmente, di merda. Osservandoli oggi tutti insieme, dopo questo sabotaggio di Angela, potrei senza dubbio scovarci un elemento omertoso volto a generare un’irredimibile aura di sfiga esistenziale. Ma in sotto fondo, c’è anche un che di goliardico che mostra si una capacità di colpire con estrema precisione ma anche la decisione di non farlo. Sono cioè un insieme di azioni che ricordano una presenza “sovrana” piuttosto che produrrre un reale effetto di vita e di morte. A questo proposito vi è un caso forse superiore agli altri perchè fatto alla luce del sole, da una persona che si è mostrata in viso senza temere eventuali reazioni o possibili persecuzioni successive. Pur nella gravità del suo gesto che con la moto tentò di fratturarmi un piede mentre mi preparavo a correre la maratona di Vientiane, la sua apparizione improvvisa ha senza dubbio avuto un effetto benefico sulla mia mente permettendomi di materializzare un problema reale invece di inseguire ogni possibile connessione tra gli eventi. Lungo queste traiettorie mi pare comunque plausibile interpretare il pedale rotto di Angela dentro una forma di “cultura mafiosa”, certamente importata ed inventata ma altrettanto presente nelle dinamiche sociali di Luang Prabang. Non resta allora che definirne le ragioni.
In poche parole a chi sto esistenzialmente sul cazzo? A chi devo l’onore di tanta attenzione sulle inutili faccende della mia vita? La ricerca del nemico è proprio la fase successiva cui aspirano questo tipo di azioni. Per poter impostare una difesa, occorre definire una serie di possibili personaggi che potrebbero trarre del godimento dalla loro capacità di intervenire direttamente nel mio vivere e di quello della mia compagna. Dopo averli trovati, dovrei ristabilire l’onore perduto attraverso i meccanismi della vendetta localmente codificati. Questa necessità di “pareggiare” i conti tipica di società cosiddette tradizionali o dove esistono relazioni sociali più strette, rischia poi di generare la classica escalation di ritorsioni che è la più amata nelle narrazioni sulle mafie. Uno dei maggiori problemi che trovo in questa prospettiva resa famosa dalle diverse serie di Netflix e Sky, è proprio l’eccesso di attenzione sull’azione violenta che fomenta sia un certo machismo mafioso e anti-mafioso sia un paradossale desiderio vouyeristico di vedere esattamente “quello che fanno i cattivi”. Nella quotidianità di certi territori quei momenti però non riguardano la stragande maggioranza degli abitanti. Come nelle storie qui raccontante, in molti casi, si assiste ad una costellazione di microabusi che le persone volenti o nolenti devono accettare. Seguendo un vecchio adagio messicano secondo il quale “no pasa nada pero si pasa...!” (non succede niente ma se succede...!) trovo altri racconti documentali molto più realistici ed interessanti perchè non osservano i momenti culmine.
Questa metodologia di osservazione delle relazioni sociali è particolarmente utile nel sud-est asiatico dove il ricorso alla violenza armata è estremamente ridotto. Qui si preferisce una lenta ma costante uccisione dei possibili competitor. Si assiste a vere e proprie lotte fra clan in cui si sommano dispetti più o meno grandi il cui scopo principale è la creazione di disconnessione dal resto del corpo sociale dei soggetti colpiti. Si fa in modo soprattutto che le vittime non possano attivare reti protettive rendendole non credibili proprio a causa della relativa insignificanza degli eventi che capitano loro. Non potendo mettersi in moto una vera e propria macchina del fango mediatica, si costruisce intorno a loro “la sfortuna” che renderà difficoltosa la loro partecipazione produttiva e tutta una serie di ruoli sociali. In maniera analoga, le azioni di disturbo aumentano quando la vittima tenta di difendersi affiliandosi ad altri potentati o clan. Come accade in tutte le “terre mafiose” in Italia o in India, in Colombia, in Francia, in UK, in USA o Sud Korea, anche a Luang Prabang si fa in modo che la richiesta di protezione (o di sanificazione spirituale) sia fatta agli stessi perpetratori che in cambio di un pagamento, un dono o un trasferimento di capitale sociale o politico cessano di eseguire le azioni di disturbo.
Dentro queste forme di controllo culturale “al dettaglio” che ho descritto, ci trovo però qualcosa di più complesso che riguarda la generale creazione di impossibilità; una condizione fondativa della natura preventiva di molti dei rapporti di potere costruiti dalla guerra alle droghe (o dal suo alterego, l’antiterrorismo). Queste pratiche poliziesche e\o paramilitari che operano molecolarmente e senza sosta in territori definiti o su soggetti “segnalati” posizionano la vittima dentro una pentola che brucia di un fuoco lento, quasi impercettibile, ma inesorabile. In alcuni casi infatti l’obiettivo non è ristabilire un potere definitivo di qualcuno su qualcun’altro o sancire un ordine sovrano di qualcosa, ma piuttosto di sezionare il corpo sociale individuando soggetti simbolici, quasi capri espiatori, da spingere in forma permanente in un fuori, in un esilio che può anche farsi un gesto estremo, la radicalizzazione di un pensiero o una fuga compulsiva. La possibile produzione di questi gesti clamorosi e la follia cui potrebbero essere poi associati, in fine, dimostrerebbero la necessità stessa delle misure di controllo preventive adottate a difesa del corpo sociale. Il controllo e il disturbo cioè possono risultare talmente pervasivi da fare del soggetto ciò che il perpetratore o il controllore hanno inteso prevenire: un individuo pericoloso o antisociale. In molti casi si tratta quindi di una verità ex-post, non di una post-verità e questa è una delle dinamiche più tipiche della guerra alle droghe.
Non resta che rispondere alla domanda di partenza di questo lungo post. A Luang Prabang c’è o non c’è una mafia che gestisce certe dinamiche di potere cittadine inventando una “cultura mafiosa”? E se la risposta fosse affermativa, come a me personalmente sembra, forse influenzato dagli eventi e da un certo bias cognitivo, potrebbe darsi allora che come tutte le mafie di questo mondo, anche quella locale non corrisponda esattamente al governo o allo Stato ma faccia parte di strani intrecci locali e globali di paramilitari e gruppi di interesse economici multinazionali capaci di entrare ed uscire a loro piacimento dalle istituzioni pubbliche e private della città? Oppure invece di chiamarla mafia con il rischio di rendere tutti uguali e non riuscire più a distinguere importanti specificità e forme di resistenza, non sarebbe meglio riportare le osservazioni dentro le dinamiche di potere, i rapporti di forza che celano e le divisioni di classe? Per farla breve allora, quanto mi sta capitando fa parte del campionario di armi a disposizione dei “deboli” per la loro emancipazione socio-economica e di classe oppure trattasi di forme di favori ed estorsioni indirette perpetrate da alcuni potentati multinazionali presenti in città nei miei confronti? Per me è la seconda che ho detto.
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– VISIONI – Interview with Simone Monsi by Mauro Zanchi on ATPdiary
☞ This is the transcript of – VISIONI – Conversazione con Simone Monsi, an interview by Mauro Zanchi published on ATPdiary on May 30th, 2020 (in Italian and English). Translated in English with the help of Andrea Williamson.
Mauro Zanchi: Quali rischi corriamo mentre il mondo si sta sempre più trasformando in un ambiente dominato dalle ITC (tecnologie dell'informazione e della comunicazione)? Simone Monsi: Il rischio principale che avverto è di essere perennemente distratti dal sovraffollamento di informazioni. Tuttavia, penso anche che i processi di trasformazione siano ciclici e inevitabili, e li interpreto positivamente. Oltre all’analisi dei rischi, cerco di avanzare proposte per migliorare il presente. Uno dei temi che sto approfondendo è la trasformazione degli stati nazionali in fattorie fiscali, sostituendo alla loro funzione primaria di fornire servizi quella di riscossione dei tributi. In Italia il livello di tassazione dei redditi è molto alto e allo stesso tempo lo stato fornisce solo una rendicontazione sommaria per macro-settori della spesa pubblica. Mi interessa l’idea di sostituire l’agenzia delle entrate con l’agenzia delle uscite, che si occuperà di rendicontare attraverso l’obbligo di fatturazione elettronica come vengono spesi gli oltre 800 miliardi di euro che lo stato incassa ogni anno dalle tasse dei contribuenti.
MZ: Quali conseguenze agiranno sugli individui avvolti nell'iconosfera? Quale direzione deve seguire una nuova filosofia dell'informazione in un mondo sempre più tecnologizzato? SM: La conseguenza di essere distratti dall’ascolto continuo di narrazioni esterne è di trovarsi a vivere in una dimensione immaginaria sfasata dalla realtà. La direzione da seguire è fare nostra la grammatica della sfasatura e utilizzarla per verificare la prospettiva di interpretazione degli avvenimenti. Creare narrazioni personali originali attraverso la riconfigurazione dei collegamenti tra i fatti che si osservano può riportare alla dimensione reale, percorrendo a ritroso il processo di sfasatura. Bisogna guardare meglio e sentire attraverso la luce, cioè focalizzare l’attenzione su ciò che si vede e interpretare le immagini attraverso la carica positiva o negativa delle emozioni che suscitano dentro di noi.
MZ: Le ITC ci costringeranno a vivere in spazi più limitanti o ci aiuteranno a risolvere problemi sociali e ambientali o innescheranno ulteriori problematiche ? SM: Dipende dalle intenzioni. Supponiamo che i padroni del mondo abbiano immaginato un futuro dove le persone debbano essere sempre controllabili; questi potrebbero sostenere l’esistenza di falsi problemi di carattere globale per poi proporne la soluzione attraverso l’implementazione di tecnologie invasive della privacy dell’individuo ma necessarie per il supposto bene comune. Allo stesso tempo però, la presenza capillare delle ITC apre a potenzialità di diffusione delle informazioni di strabilianti proporzioni.
MZ: Che ruolo ha l'indagine artistica della metafotografia nell'attuale realtà iper-storica, pervasa dalla cyber cultura, dal postumanesimo e dall'iconosfera? SM: Penso che dovrebbe astenersi dal semplice commento del momento presente per proiettarsi invece nella lettura trasversale dell’iperstoria, facendo riemergere archetipi universali ora sommersi, i quali potrebbero facilitare una comprensione più piena di una realtà che soffre dell’occultamento della sfera spirituale dell’individuo e della collettività.
MZ: Le ITC registrano e trasmettono attraverso l'evoluta capacità di processare. Hanno però anche prodotto un notevole deficit concettuale rispetto ai risvolti etici che le nuove tecnologie hanno prodotto su di noi e sull'ambiente. Come può la ricerca artistica aiutare l'antropologia filosofica che analizza l'informazione, l'iperstoria e l'infosfera? SM: Dovrebbe avere il ruolo di proporre prospettive alternative di interpretazione del reale. Comportarsi come il prisma fa con la luce. Approcciare il fascio di informazioni che viene proposto come narrazione della realtà e dividerlo nelle sue parti costituenti, verificando l’autenticità di queste e svelandone altre occulte.
MZ: Dopo le rivoluzioni messe in azione da Copernico, Darwin e Freud, la quarta rivoluzione che nuove sfide globali sta innescando? SM: La sfida della verità, verso la decodificazione delle spinte propulsive che hanno determinato questa e le precedenti rivoluzioni, nella ricerca di comprenderne gli scopi attraverso i risultati a cui hanno portato. Dopodiché, immagino di sfruttare il fatto di essere connessi globalmente attraverso una rete di comunicazione digitale per traslare la stessa struttura di trasmissione di informazioni su di un piano non materiale, per considerare la fattibilità di un’internet spirituale che possa supportare la partecipazione a una memoria universale condivisa.
MZ: Che azione si instaura tra il medium oltrefotografico e gli ambienti artificiale, digitale, sintetico e della naturcultura? SM: Immagino il medium oltrefotografico come un corpo in ascesa che attraversa questi ambienti di cui ne fa la sua pelle esterna, mentre i sistemi di funzionamento degli stessi si configurano come il suo sistema nervoso.
MZ: Come possiamo rinnovare e ridisegnare il nostro vocabolario concettuale e immaginale attraverso un oltremedium per ottenere una rappresentazione più chiare ed evoluta del nostro tempo e delle proiezioni sul tempo che verrà? SM: Penso a due modi: il primo è di svelare tramite la carica iconica delle immagini gli equilibri di potere che restano solitamente nell’ombra ma le cui intenzioni producono effetti che possono essere documentati visualmente. In secondo luogo, attraverso questo processo di svelamento, si potrà idealmente accedere a un registro alt(r)o, verso una comprensione dell’esistente evoluta, espansa, approfondita.
MZ: In passato il passaggio da un linguaggio a un metalinguaggio ha innescato nuove possibilità di senso e inedite letture della realtà. Nel panorama attuale della fotografia contemporanea, lo spostamento concettuale dalla scrittura di luce alla metascrittura di luce verso quali interrogazioni metalinguistiche si dirige? Siamo veramente indotti a svolgere un metadiscorso sul senso? SM: Sì, l’intento è quello di rendere visibili significati che di solito si intuiscono solo vagamente e spostare il discorso su un piano che possiamo chiamare “metavisivo”: rappresentare la realtà come evidenza materialmente visibile di forze e intenzioni che si muovono su livelli altri, spirituali.
MZ: Ammettiamo che il parlare metalinguistico dell'uomo sia soltanto una serie di menzogne e che la comunicazione sia soltanto una successione di malintesi. Anche la scrittura e la scrittura di luce sono, o sono stati, tradimenti rispetto al vero senso presente nel reale? SM: Più di un tradimento lo definirei se non altro un appiattimento. Forse la traduzione in scrittura e le rappresentazioni visuali del reale sono forme limitate per interpretarlo pienamente. Immagino che per comprendere appieno l’esistente, inclusa la sua parte spirituale, ci si debba rivolgere a metodi di lettura oltrelinguistici. Il silenzio è uno di questi.
MZ: Un modo fondamentale per descrivere un sistema complesso è quello di misurare la sua "rete": il modo in cui le singole parti si collegano e comunicano tra loro. I biologi studiano le reti geniche, gli scienziati sociali studiano i social network e anche i motori di ricerca si basano, in parte, sull'analisi del modo in cui le pagine web formano una rete. Nelle neuroscienze, un'ipotesi di lunga data è che la connettività tra le cellule cerebrali giochi un ruolo importante nella funzione del cervello. Nell'ambito dell'arte contemporanea, e nel nostro caso nella metafotografia (che porta dentro di sé altre discipline e tecnologie), come possiamo far evolvere il medium fotografico attraverso un sistema più complesso, ovvero non più solo individuale ma più espanso? SM: Una possibile evoluzione del medium potrebbe seguire la direzione che, parafrasando la teorica dei media McKenzie Wark, porterebbe verso uno spostamento dell’attenzione dell’artista dall’esperienza estetica della quotidianità a una ricostruzione della quotidianità, cioè passare da una rappresentazione mimetica della realtà a una descrizione figurata di una relazione tra cose che già esiste ma non è visibile. Inoltre, mi piace immaginare di poter espandere questo tipo di approccio anche alla nostra sfera interiore e allo spazio della coscienza in generale. Questa direzione di indagine potrebbe essere la forma-pensiero che accomuna gli elementi costitutivi (gli artisti e le loro ricerche) della rete di collegamenti alla base di un possibile sistema metafotografico.
MZ: Alla luce di certe notizie apparse sui giornali in queste settimane, mentre stanno cercando di capire se il covid-19 sta in sospensione nell'aria e per quanto tempo - soprattutto nella pianura padana, che è la zona più inquinata in Italia - tu che hai studiato le questioni del particolato metallico e realizzato lavori su questo argomento hai trovato informazioni relative a un probabile collegamento tra inquinamento e trasmissione dei virus? SM: Anch’io ho letto dell’ipotesi che il virus SARS-coV-2 possa essere trasportato nell’aria dal particolato inquinante ma finora non ho trovato risposte che mi abbiano convinto. Mi pare strano però che tale informazione non fosse già nota alla scienza. Infatti, ci viene detto che il SARS-CoV-2 è una nuova mutazione di coronavirus, famiglia di virus conosciuta e presente sui libri di testo da diversi decenni. Se tale evenienza fosse realistica, non capisco come non si sia riusciti a dimostrarla già in passato. Quel che il buon senso mi spinge a pensare è invece che se l’inquinamento da particolato colpisce principalmente l’apparato respiratorio si può dunque immaginare come la popolazione che abita la pianura padana possa essere più vulnerabile a patologie che attaccano quello stesso apparato. Nondimeno, mi è parso di capire dai dati sulla mortalità diffusi dall’ISS che l’età media dei deceduti avesse un’età media superiore ai 70 anni e che più del 90% di questi soffrisse di una o più patologie pregresse. Quindi, indipendentemente dal fatto che il virus possa viaggiare nell’aria trasportato dal particolato inquinante, possiamo dedurre che questo si possa diffondere maggiormente fra una popolazione anziana, già malata di altre patologie e con un sistema respiratorio affaticato da una cattiva qualità dell’aria.
MZ: Cosa cambierà nel campo dell’arte contemporanea, dopo le conseguenze causate dalla pandemia da covid-19? SM: Il mio augurio è che l’operato degli artisti possa contribuire ad arginare la pandemia della perdita di senso critico da parte delle persone, le quali potrebbero ingenuamente credere che dietro le varie narrazioni provenienti da uno schieramento piuttosto che un altro non si celino interessi di parte. Per far questo, penso che l’arte non possa essere limitata a mero intrattenimento visivo, bensì debba essere stimolo di dibattiti intellettuali e contribuire a prese di coscienza, confermandosi presidio stabile di libertà di pensiero. Inoltre, sento necessario ribadire che, a mio avviso, l’artista debba trovare il coraggio di esprimere un’opinione sul presente! – che comprendo essere attività più faticosa di esprimersi su dibattiti del passato già archiviati nei libri di storia, ma che ritengo essere imprescindibile. L’arte contemporanea deve riconfermarsi avanguardia, di forma e soprattutto di pensiero, al fine di delineare i contorni del futuro attraverso un’oltre-lettura del presente.
__ English version
Mauro Zanchi: What risks do we face as the world is increasingly transforming into an environment dominated by ICT (Information and Communications Technology)? Simone Monsi: The main risk that I see is that we are perpetually distracted by the overcrowding of information. However, I also think that the transformation processes are cyclical and inevitable, and I interpret them positively. In addition to performing risk analysis, I try to make proposals to improve the present. One of the topics that I am investigating is the transformation of national states into tax farms, where the nation state’s primary function of providing services is replaced with that of collecting taxes. In Italy, the level of income taxation is very high and at the same time the state provides only a summary reporting of public expenditure by macro-sectors. I'm interested in the idea of replacing the revenue agency with the “agency of the outputs”, which will take care of reporting, through an electronic invoicing system, how more than 800 billion euros of taxes collected each year are spent.
MZ: What consequences will individuals wrapped up in the iconosphere face? What direction should a new philosophy of information follow, in an increasingly technologized world? SM: The consequence of being distracted by continually listening to external narratives is to find oneself living in an imaginary dimension out of phase with reality. The direction to follow is to make the out-of-phase grammar our own and use it to verify perspectives and interpretations of events. Creating original personal narratives through the reconfiguration of connections between facts that can be observed can bring us back to the real dimension, going backwards through the out-of-phase shifting process. We need to look better and feel through the light, meaning to focus our attention on what we see and to interpret images through the positive or negative charge of the emotions they arouse within us.
MZ: Will ICT force us to live in more limiting spaces and trigger further problems or will they help us solve social and environmental problems? SM: It depends on the intentions. Let’s suppose that the masters of the world imagined a future where people should always be controllable – they could claim the existence of false global problems in order to propose their solution through the implementation of technologies that invade individual privacy but supposedly help the common good. At the same time, however, the widespread presence of ICT opens up the potential for disseminating information with amazing proportions.
MZ: As we project ourselves towards the future, we negotiate a balance and try to adapt to the unprecedented conditions of life, where new technologies are always put on the market, each time redesigning our relationships with machines before the last ones have settled and matured. What role does the artistic investigation of metaphotography play in today's hyper-historical reality, a reality pervaded by cyber-culture, post-humanism and the iconosphere? SM: I think artistic investigation should avoid simply becoming a comment on the present moment. Instead it could project itself into a transversal reading of hyper-history, recovering forgotten universal archetypes, which could facilitate a fuller understanding of our reality. At the moment I believe our reality suffers from the concealment of the individual’s spiritual sphere as well as a communal one.
MZ: ICT records and transmits through the advanced ability of processing. However, they also produce a significant conceptual deficit with respect to ethical implications for us and the environment. How can artistic research help philosophical anthropology that analyzes information, hyper-history and the infosphere? SM: Artistic research should have the role of proposing alternative perspectives for interpreting reality, behaving like a prism does with light. It would approach the stream of information that is proposed as the official narrative of reality and divide it into its constituent parts, verifying the authenticity of those and revealing other hidden ones.
MZ: After the revolutions put into action by Copernicus, Darwin and Freud, what new global challenges is the fourth revolution triggering? SM: The challenge is one of obtaining truth, by which I mean working towards an understanding of the driving forces that led to the present and previous revolutions, decoding their actual aims from within their outcomes. After that, I imagine the next challenge would be to exploit the fact of being globally connected through a digital communication network in order to transmit information on a non-material level; to consider the feasibility of a spiritual internet that can support the participation in a shared universal memory.
MZ: What action takes place between the beyond-photographic medium and the artificial, digital, synthetic and naturcultural environments? SM: I imagine the beyond-photographic medium as an ascending body that passes through these environments of which it makes its external skin, while the functioning systems of the same environments are configured as its nervous system.
MZ: The new metaphotographic research should master the difficult art of swimming and thinking against the current to identify additional intellectual possibilities and to tackle other issues beyond the ebb and flow of more deeply rooted ideas. How can we renew and redesign our conceptual and imaginal vocabulary through a beyond-medium to obtain a clearer and more advanced representation of our time and projections of the time to come? SM: I think of two ways: the first is to reveal, through the iconic charge of images, the balances of power that usually remain in the shadows but whose intentions produce effects that can be documented visually. Secondly, through this unveiling process, it will be possible to access a different (upper) register, towards an evolved, expanded, in-depth understanding of the existing.
MZ: In the current panorama of contemporary photography, in which both the producers of works and the public live in a meaningful world (at least if we follow Algirdas Julien Greimas’ definition of meaning1), every question becomes metalinguistic. We are induced to carry out a metadiscussion about meaning, and, in the case of the medium in question, meaning becomes a transposition of one language level onto another (which in this specific case can be "metaphotographic"). SM: Yes, the intent is to make visible meanings that are usually only vaguely perceivable and move the discussion to a level that we could call “metavisual" – to represent reality as materially visible evidence of forces and intentions that operate on other levels, spiritual levels.
MZ: Let’s suppose that humans’ metalinguistic speaking is only a series of lies and that communication is only a succession of misunderstandings. Are writing and the writing of light also lies- or have they been, betrayals with respect to the true sense of reality? SM: More than a betrayal I would call it a flattening. Perhaps, the translation into writing and the visual representations of reality are limited forms to fully interpret it. I imagine that to fully understand the existing, including its spiritual part, one must turn to beyond-linguistic reading methods. Silence is one of them.
MZ: A fundamental way to describe a complex system is to measure its network: the way in which the individual parts connect and communicate with each other. Biologists study gene networks, social scientists study social networks, and search engines also rely, in part, on analyzing how webpages form a network. In neuroscience, a longstanding hypothesis is that connectivity between brain cells plays an important role in brain functioning. In the context of contemporary art, and in our case in metaphotography (which carries within it other disciplines and technologies), how can we make the photographic medium evolve through a more complex system – not just individual but more expanded? SM: A possible evolution of the medium could follow the direction that, paraphrasing the media theorist McKenzie Wark, would lead to a shift in the artist's attention from the aesthetic experience of everyday life to a reconstruction of everyday life. This entails at shift from a mimetic representation of reality to a figurative description of a relationship between things that already exists but are not visible. Furthermore, I like to imagine being able to expand this type of approach to our inner selves and to the space of consciousness in general. This direction of investigation could be the thought-form that unites the constituent elements (artists and their practices) within the network of connections forming the basis of a possible metaphotographic system.
1 Greimas, A.J. On Meaning: Selected Writings in Semiotic Theory. Minneapolis: University of Minnesota Press, 1987.
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Bob Iger lascia la posizione di CEO Disney
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/bob-iger-lascia-la-posizione-di-ceo-disney/
Bob Iger lascia la posizione di CEO Disney
Bob Iger lascia la posizione di CEO Disney
Bob Iger lascia la posizione di CEO Disney
Bob Chapek, veterano della Disney che lavora da 27 anni per l’azienda e dirige la divisione parchi dell’azienda, è stato nominato CEO di Disney, come successore di Bob Iger. Il passo indietro di Iger è stato accolto con grande stupore, tuttavia sarà lui a continuare a guidare gli sforzi creativi dell’azienda fino al 31 dicembre 2021, quando scadrà il suo contratto, mentre Chapek è CEO effettivo da oggi.
“Con il successo del lancio delle attività dirette al consumatore Disney e l’integrazione della Twenty-First Century Fox ben avviata, credo che questo sia il momento ottimale per passare a un nuovo CEO – ha affermato Iger – Ho la massima fiducia in Bob e non vedo l’ora di lavorare a stretto contatto con lui nei prossimi 22 mesi mentre assume questo nuovo ruolo e approfondisce le sfaccettate attività globali della Disney, mentre io continuo a concentrarmi sugli sforzi creativi della Società.”
“Sono incredibilmente onorato di assumere il ruolo di CEO di quella che credo veramente sia la più grande azienda del mondo e di guidare i nostri membri e dipendenti di eccezionale talento e dedizione – ha detto Chapek – Bob Iger ha trasformato Disney nella società di intrattenimento e media più ammirata e di successo del mondo, e sono stato fortunato a godermi un posto in prima fila come membro del suo team di leadership. Condivido il suo impegno per l’eccellenza creativa, l’innovazione tecnologica e l’espansione internazionale e continuerò ad abbracciare questi stessi pilastri strategici. Tutto ciò che abbiamo raggiunto finora serve da solida base per ulteriori narrazioni creative, innovazioni audaci e assunzione di rischi ponderati.”
Chapek è a capo della divisione dei parchi a tema Disney dal 2015. Nel 2018 è stato nominato presidente di Parks, Experiences and Products. In precedenza, Chapek ha ricoperto diverse posizioni dirigenziali, gestendo prodotti di consumo, distribuzione di film e intrattenimento home video in varie occasioni.
Durante i suoi 15 anni da CEO Disney, Bob Iger ha notevolmente ampliato le dimensioni dell’azienda, in particolare con l’acquisizione, lo scorso anno, di 21st Century Fox. Il lancio del servizio di streaming Disney+ ha cementato l’eredità di Iger come leader audace e innovativo.
Fonte: Variety
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Bob Iger lascia la posizione di CEO Disney
Bob Chapek, veterano della Disney che lavora da 27 anni per l’azienda e dirige la divisione parchi dell’azienda, è stato nominato CEO di Disney, come successore di Bob Iger. Il passo indietro di Iger è stato accolto con grande stupore, tuttavia sarà lui a continuare a guidare gli sforzi creativi dell’azienda fino al 31 dicembre […]
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Chiara Guida
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La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale
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La fiction italiana. Narrazioni televisive e identità nazionale
La fiction televisiva italiana ha dispiegato fin dalle sue origini, negli anni Cinquanta, caratteristiche distintive che hanno costituito il marchio della sua identità e della sua differenza e che rimandano, nella loro stretta relazione con la cultura e la storia nazionale, ad aspetti significativi della società italiana passata e presente. Milly Buonanno, da anni impegnata sul “television drama”, mostra come la formazione di questa identità “tipicamente nazionale” è stata spesso il frutto di processi di commistione fra elementi culturali domestici e stranieri, nativi e di importazione, locali e globali. Per questo, il volume ricostruisce la storia e le fasi cruciali dell’evoluzione del dramma televisivo italiano, soprattutto per quel che riguarda l’ultimo ventennio.
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Sostituire un fallimento - 24 luglio 2017
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