#narcisismo e masochismo
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Nella fase regressiva investo libidicamente un oggetto-fantasma frutto di idealizzazioni e, parallelamente, investo libidicamente sul soggetto-oggetto al quale faccio reincarnare in maniera quasi allucinatoria e masochistica la ferita narcisistica dell'infanzia.
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Questa tesi sta diventando un travaglio. Un travaglio per partorire una orrenda me stessa. Loro mi piacciono perché mi ci rispecchio. E quando vengono analizzati, finisco per analizzare me stessa. I tasselli sembrano avere più senso: masochismo, autolesionismo, narcisismo, sentirsi mascolina, nichilismo, suicidio. Pezzi dello stesso puzzle. Ogni volta che faccio un passo verso la mia verità, perdo la testa. Non dovrebbero essere cose da fare da soli però eccomi qua, dopo settecento tentativi falliti, a farlo da sola inconsapevolmente. L'ultimo pezzo del puzzle che manca è: perché? C'entrano i miei genitori perché loro c'entrano sempre. Ma chi è che ha più colpe? E perché queste colpe devo sobbarcarmele io? Perché non come mio fratello che non capisce un cazzo e lavora come le persone normali con un livello minimo di consapevolezza? Perché io ne devo avere COSÌ TANTA? Perché me la devo sobbarcare tutta? Non dovrei studiare più, dovrei smetterla. Dovrei fare come i giovani con un futuro e mettermi a studiare i numeri e le formule, non le persone in cui mi rivedo. Senza analisi di altri, non esiste nemmeno autoispezione. Devo smetterla.
Consapevolezza è sofferenza. Non voglio soffrire più, non voglio essere consapevole più. Stupida stupida stupida voglio essere. Più stupida. E invece no, sono già drogata. Drogata di conoscenza. Più so più voglio sapere. E più mi buco più mi fa male più mi voglio bucare. Che faccio, continuo?
Consapevolezza è sofferenza. Consapevolezza è sofferenza. Consapevolezza è sofferenza.
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NON SO UN CAZZO
Il pianto è la reazione a tutte le mie emozioni, mi sento un bimbo in fasce, ma è il prezzo che paga chi non conosce i propri stati d’animo. Già sento alle spalle la voce della mia terapeuta “Vedi ti stai dando addosso” e di nuovo mi viene da piangere, questa volta per la frustrazione che si prova a essere consapevoli di non sapere come uscire da una spirale di autocritica che si fa sempre più stretta, ormai manco me ne rendo più conto che mi odio. Ora che scrivo, so un’altra cosa, andare in analisi è impegnativo, emotivamente faticoso. Cercare di capirsi è difficile e non capisco perché, insomma alla fine sono io, cosa dovrei mai nascondermi? Eppure a nascondino sono abbastanza brava, certe cose le ho in mente, sto male, ma già se mi chiedessero di spiegare che emozioni provo, io non saprei rispondere, nel mio vocabolario c’è posto solo per tristezza, noia e fastidio. Non provo emozioni diverse, forse perché non mi do il tempo di capirle. A volte continuo a stare male, ma dimentico il perché, è un meccanismo che non ritengo possa tornarmi utile. A proposito di tempo, penso di non averne, corro sempre, ma arrivo comunque in ritardo, sbrigo faccende a velocità x2 e mi accorgo che non basta comunque. 21 anni sono passati troppo veloci e più passa il tempo più corte mi sembrano le giornate. Son stata con un ragazzo per un anno e mezzo, non ho vissuto nulla di quel rapporto, è un ricordo sbiadito e lontano, mi pare fosse un’altra vita, non la mia. É come se avessi la capacità di depersonalizzarmi, ma i momenti di merda li sento forti comunque e alla fine mi rendo conto troppo tardi che non ho capito nulla e ho perso tempo e che, di nuovo, mi sto incolpando. Sono incazzata, non so esprimere quel che provo, faccio e dico cose, ma non so perchè, non so chi sono e quel poco che penso di volere dalla vita è davvero troppo poco per soddisfarmi, a ruota libera direi che mi sono rotta il cazzo di non so che cosa, di me probabilmente, mi sento chiusa in quattro righe, tanta voglia di uscire, ma non ho i mezzi. Boh a forza di tirare testate al muro o mi spacco io o cede lui. Però cazzo che palle è come se stessi bene nello stare male, ma allo stesso tempo sto male nello star male e non voglio star male, se potessi sdoppiarmi mi prenderei a calci nel culo. Anni di video e libri sulla psiche, mesi di terapia e mi sento una merda lo stesso, non ho ancora capito nulla di nulla. E la bassa autostima e il padre castrante e il complesso di Elettra e tutte le cazzo di personalità e gli spettri annessi, le sincronicità, la quantistica, la madre remissiva e i passivo-aggressivi merda e il masochismo e il cazzo che la donna vorrebbe avere e non ha, la libido, la pulsione di vita, la pulsione di morte, il narcisismo, il covert e l’overt, la fase orale, anale, fallica, latente e genitale e tutte le cazzate che si eroticizzano in sta vita del cazzo, l’incapacità di provare piacere, l’anorgasmia, l’apatia, eiaculazioni precoci e disfunzioni sessuali e la società nevrotica e l’omosessuale che in realtà è etero e il padre che odia il bambino perchè la donna sposta il focus e le identificazioni sbagliate e tu ti trucchi troppo e tu poco e scheletri e magra e sono gialli e fottiti troia e succhiami il cazzo e stammi lontano e vattene anche tu e cazzo vuoi ancora da me e basta lasciami in pace mi fai schifo e fanculo ai porno li odio li odio li odio li odio li odio e che palle e che palle e che palle e che palle e che palle che palle che palle che palle che palle che palle che palle che palle che palle che palle che palle che palle che palle che palle l’ossessione che palle che palle che palle che palle che palle il filtro della realtà A B e C fanculo a tutte ste minchiate di cui mi riempo la testa, fanculo alle sindromi, vai via vai via vai via vai via vai via vai via vai via vai via vai via vai via vai via va via va via
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“Piacere, puoi chiamarmi Madame X. Forse in apparenza ti sembro un po’ fredda ma, guardami, non manco di sorrisi ed eleganza. Io apro il mio cuore solo a pochi e tu sei uno dei fortunati. Hai attirato la mia attenzione perché ho visto in te qualcosa che inconsapevolmente ammiro e che sento di dover possedere, ecco perché mi pare che in te ci sia qualcosa di me stessa. All’inizio avvertirò un grande trasporto nei tuoi confronti e questo ti farà sentire desiderato come poche volte ti è accaduto, però non passerà molto tempo prima che fra noi nasca una strana competizione poiché ciò che desidero, io lo invidio anche; ti accuserò di essere competitivo, tu non ti sentirai alla mia altezza. Nella mia vita c’è o c’è appena stato un altro uomo per il quale provo ancora gelosia; per superare questo sentimento posso averti scelto per creare una triangolazione inversa: io diverrò idealmente l’oggetto di contesa tra te e un uomo che non conoscerai mai. Il desiderio che provo per te si nutre della speranza di arrivare, tramite il sesso, ad appropriarmi del tuo calore affettivo per eliminare il desiderio che ho di esso, quell’affetto che mi è stato negato quando ero piccola. Grande sarà la nostra affinità chimica: tu ne sarai vinto mentre io la svaluterò non appena diverrà superiore il piacere d’averti invaso e conquistato. Le donne, sai, sono libere di fare sesso come e quando vogliono ma a me piace rappresentarmi secondo una versione distorta della sessualità maschile che io vedo come passionale ed egoistica; ecco perché ti sentirai allo stesso tempo desiderato e usato. Un consiglio: non parlare troppo, mi sfianchi! Io sbarro la porta se si tratta di conoscerti davvero per quello che sei. La preoccupazione per la tua realtà interiore non è una mia preoccupazione; ho già delle idee su di te, queste mi bastano e, comunque, presto più attenzione a prevenire i tuoi comportamenti. Ok, ciò mi rende incapace di valutarti davvero per quello che sei, ma che importa?! Mostrami stima o, peggio, innamorati di me e mi perderai: non lo ammetterò facilmente ma io temo la dipendenza da te perché implica riconoscenza per il bene ricevuto. L’amore che mi mostrerai mi porterà alternativamente a farmi sentirmi inadeguata o arrabbiata e la mia rabbia, sappilo, è contagiosa: quando avrai perso la pazienza, e succederà spesso, sarà facile per me fartelo notare e percepirti come opprimente e persecutorio. Quando mi sentirò in colpa per non riuscire a ricambiare l’affetto che mi dai, allora procederò a intercettare i tuoi difetti così che la mia incapacità d’innamorarmi di te sia giustificata; mi aiuterò con assenze e indifferenza. Ti raggirerò con una serie di autoaccuse psicologiche che stimoleranno la tua tendenza al soccorso: la mia preferita è che ho paura di amare ma ovviamente non è vero. Io, piuttosto, ho paura del tuo amore, dell’amore che tu riesci a darmi liberamente, senza fatica… Mi irrita questa cosa, tu mi irriti, ti invidio e questa invidia mi fa rabbia, così non mi resta che irridere il tuo affetto, svalutarlo e svalutarti. Da questo mi difendo e ti giuro che renderò impossibile la nostra relazione perché se c’è una cosa che non voglio è che tu m’invada, che tu m’impoverisca, che tu venga a rubare a casa dei ladri. Tu devi essere solo ciò di cui io ho bisogno, non improvvisarti altro, non accetto altro. In questa discesa nel Maelström, finirai per credere di essere stato rifiutato perché non eri abbastanza ma, in realtà, mi hai perso per il motivo opposto. Non ti darò mai la soddisfazione di saperlo ma, lontana da te, mi sentirò vuota una volta di più e frustrata perché ciò che ti ho sottratto e che tu puoi rigenerare, in me non si mantiene integro ma viene distrutto e sporcato dalla paura che provo verso le stesse cose che desidero. Avresti dovuto credermi quando t’ho detto che il mio malessere è tale da prendere la forma di desideri distruttivi verso l’idea stessa di coppia, finendo per auto-sabotarmi in amore. La mia paura dell’intimità come abbandono, apertura completa all’altra persona mi farà scegliere una relazione di coppia non minacciosa. Sì, rinuncio a te e mi legherò a un uomo a me complementare che mi conosce e mi dà quello che voglio, così la mia anaffettività cementerà, lui diverrà rancoroso in modi più o meno manifesti e compariranno amanti a minacciare la stabilità della nostra coppia poiché grande è lo sforzo di entrambi di distruggere ogni cosa buona nell’altro, in noi stessi e nella relazione. Smetterò di percepire il mio uomo come attraente; certo, i rapporti sessuali con lui, in tali condizioni, non silenzieranno la distanza reciproca ma porteranno ulteriori attriti. In questa terminale soluzione relazionale si paleserà la strana intersezione fra il mio narcisismo e il mio masochismo, ma ci vorrebbe uno bravo per capirlo e io avrò vinto ancora una volta. O forse non ho mai vinto nulla��� Ero così obliquamente affascinante un tempo, ora… mah… nei momenti di lucido sconforto mi viene da pensare di non essere davvero in grado di amare ma questa volta sto prendendo in giro solo me stessa. Non è che io abbia amato solo me stessa e nessun altro: io ho amato male me stessa come ho amato male gli altri.”
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che poi tu non capisci. anzi, scusa, vorrei condividere con te questa impressione profonda senza giudicarti.
io e te siamo accomunati dallo stesso disordine che si traduce in maniera diversa a seconda dei nostri vissuti. ma ciò che ci ha attratto era il nostro disturbo nei confronti del mondo, della società e del comportarsi. eravamo unici perché condividevamo qualcosa “al limite” e tu hai preso la tua modalità di impazzire e l’hai portata all’estremo mentre io sono rimasto silenzioso e la solitudine mi ha divorato ancora una volta usando il silenzio supremo per dividerci.
io e te abbiamo lo stesso disordine, la stessa confusione, ci unisce l’abisso dell’indicibile, del non senso che pervade la vita stessa. io e te produciamo senso in quantità ridicola per una sola persona e insieme non abbiamo potuto gestirlo.
eppure io ti vedevo come un’estensione di me che potevo guarire. ho sbagliato nel pensarti uguale e non simile.
ora ci divide tutto, perché tu sei nuova mentre io sono vecchio. sono relegato a qualcosa che tu hai già superato, come i calcoli elementari, come il riconoscere un oggetto e indicarlo, nominarlo.
io non esisto più per te nonostante fossi parte del tuo disordine più intimo. e ciò mi uccide anche se mi dà speranza. io lo so che ogni cosa può andare oltre, avanti, essere superata. io sono l’esempio che nonostante tutto si può proseguire. io sono la prova che si può continuare a camminare e ci si fa forza, soprattutto su chi ti ama incondizionatamente.
ma ora tu ami te stessa e sono fiero. io no, io sono ancora alle prese con me stesso anche se, forse grazie a te, conosco un po’ di più il mio demone, quel misto di paura e narcisismo che fa fatica a trasformarsi in bene.
perfetto, ecco allora il mio masochismo. voglio che le cose mi disturbino per imparare ad amarle. ecco il modo in cui supererò ancora il mio male, soffrendo ancora di più, spingendomi ancora più in profondità verso la scrittura del mio sé morto e defunto, finto e trafitto.
attraverso la ferita faccio feritoia e mi apro e mi guardo
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“Tutto il mondo è in un metro quadro”. 50 anni senza Giovanni Comisso: tour nel suo “Veneto felice” (prendete appunti!)
Esiste un volume intitolato Veneto felice, di Giovanni Comisso. Esiste una prefazione intitolata Vita felice di Giovanni Comisso. Esiste di certo un Veneto felice. E l’Italia invece, esiste, e felice? Chissà… Troppo sfuggente forse l’idea di felicità, così come quella d’Italia, che di certo, almeno in Veneto, come se Metternich ci avesse preso eccome, esiste solo come entità geografica. O meglio, come entità burocratica ed espressione vampiresca. Ebbene, se sicure non sono, se non in negativo, la felicità e l’esistenza della nazione italiana, fede che non ha sostituto quella vera, tale è invece il piacere di sfogliare Comisso… Specie le parole che, scrittore sanguigno e seminale, come l’ha definito Andrea Zanzotto, “di un sangue-semen splendido e insieme polluente”, ha dedicato alla loro regione.
Comisso l’anarcoide, il disimpegnato, almeno dopo l’impresa di Fiume, come pochi altri scrittori italofoni lo sono stati (tra gli altri, e non è forse un caso, proprio Zanzotto e un altro conterraneo, il vicentino Goffredo Parise), poco incline alle teorizzazioni, alle formule ideologiche, alle mitologie politiche e alle frequentazioni borghesi, da sempre profondamente e schiettamente radicato nella sua terra, in parte reale, in parte frutto del sogno, “pagana, mediterranea, vulcanica” (vulcanica di sicuro; mediterranea forse; pagana per lo meno nel senso di pagus, di radicata in villaggi), e per questo, secondo Pasolini, autore “né veneto né cattolico”, questione riguardo la quale Parise resta incerto mentre l’altro vicentino Piovene risponde più nettamente affermando che le parole del poeta di Saluto e augurio sono vere solo “se per scrittore veneto s’intende uno scrittore d’affanni psichici, un misto di narcisismo e di masochismo, che si arrovella a sciogliere razionalmente i suoi grovigli”, come scrive l’autore della detta prefazione, Nico Naldini, curatore che ha tra gli altri il merito di aver conservato le originali coniugazioni comissiane del verbo “avere” (à per ha, ànno per hanno, ecc.).
Comisso il radicato nel pagus (e in questo senso sì “pagano”), ma anche eternamente inquieto, pronto al viaggio, che non di rado, specie in gioventù, assumeva le tinte della fuga alla Rimbaud e che dalla guerra alle corrispondenze lo portò ovunque, da Fiume (dove fu con D’Annunzio nel “sublime” anno, ma dal poeta non fu mai sedotto, e accolse la guerra come occasione per liberare non tanto Trento e Trieste quanto se stesso, sentendosi soffocare della famiglia borghese, nella città d’origine, Treviso, e contemplando allora le cime del Grappa come l’approdo inatteso di una “giovinezza tumultuante di attesa, ansiosa d’avventure, generosa”), ai tanti porti del mare Adriatico e della Grecia e poi l’Africa, la Russia (per arrivare perfino in Siberia), l’India, la Cina, il Vietnam, mentre nel Circeo, dove pensò di trasferirsi, si fece costruire una casa, salvo abitarvi solo pochi giorni (troppi romani, evidentemente), e l’Italia, in cui a più riprese girovagò (L’Italiano errante per l’Italia), e che gli ispirò più di un libro (le sue Satire, i suoi Capricci), ma che più che conquistarlo “fu conquistata dal [suo] sguardo attraverso il paesaggio da regione a regione, componendo in [lui] un solo paesaggio”.
“Io vivo di paesaggio, riconosco in esso la fonte del mio sangue. Penetra per i miei occhi e mi incrementa di forza. Forse la ragione dei miei viaggi per il mondo non è stata altro che una ricerca di paesaggi”, afferma in quelle stesse pagine per descrivere la sete che mosse la razza di emigranti verso nuove terre, verso altri paesaggi, diversi ma in molti casi altrettanto meravigliosi quanto quello natale, certo più che verso delle conquiste (vale qui il No vao a combatar), perché lo spirito veneto che egli stesso incarna è innanzitutto contemplativo, aduso alla bellezza, della natura e delle opere, cosciente del fatto che nel paesaggio si trova il “segno delle mani di Dio”, e a un tempo la traccia di quelle umane che si formano sempre “in rapporto al paesaggio”, sicché l’uomo stesso ne è “uno specchio”…
Il suo mondo d’infanzia, che si prolungherà negli intrecci tra vita rurale e viaggio, scrittura e amori che costituiranno quello chiamerà il suo “gioco d’infanzia”, è sul Piave, in un lembo di terra che sempre sarà il luogo delle sue radici, anche nelle sue numerose assenze dal Veneto, in giro per l’Italia e per il globo.
“Tutto il mondo è in un metro quadrato”, è infatti il ritornello comissiano che esplicita in poche, semplici parole il richiamo della sua terra, e il luogo sarà una piccola proprietà agricola in quel di Zeno Branco, nei pressi di Treviso, acquistata con i soldi guadagnati con gli articoli scritti nel suo viaggio in Oriente.
Sarà il luogo (perché ognuno ha il proprio) dove tenterà una definitiva metamorfosi vitale, una volta finita la giovinezza, scoprendosi agronomo, esperto di semine, innesti, raccolti e concimazioni, con le mani nella materia originaria (e la Genesi non può mentire) in cui trova sostanza il suo spirito d’indipendenza.
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“Io sono profondo nella terra, mi sembra di essere un verme che s’addentra. Presto risalirò farfalla”. Si tratta di parole che, al di là del poeticismo che l’immagine può suggerire, Comisso recava nella sua carne e nella sua anima. Dalla metafora letteraria alla metamorfosi reale, il movimento è nella morfologia del suo essere ben più che non nel suo scrivere. È la realtà in cui vede e trova la garanzia della sua libertà vitale e, in seconda battuta, pure in veste di scrittore davvero anarchico. Una liberà da sempre anelata, come scrive Naldini, “personale, sociale, letteraria e soprattutto politica, vivendo sotto il fascismo”.
Il secondo conflitto mondiale non vede Comisso in azione come a Fiume e quindi nel primo. Chiuso nella casa di campagna assieme alla madre cerca semplicemente di salvarsi la pelle. E allo stesso modo per tutta la vita cercherà di salvare l’essenziale, e vale a dire la sua terra. Che sempre per Comisso verrà prima dell’arte, dei libri, della letteratura e della sua scrittura. “L’arte mi importa e non mi importa. Mi premono i miei campi, per quel poco che rendono, ma che giova, tutto il mondo è in un metro quadrato, basta saperlo godere. E io godo profondamente tutto quanto è attorno a me. Mi basta e ringrazio il Signore”. Ecco il suo ritornello… Ma allo stesso tempo… “Se la vita […] fosse abbandonata a se stessa senza essere sorretta dall’arte, risulterebbe soltanto un movimento senza nome. I fatti […] non diventerebbero storia, e per storia si deve intendere: tutte le forme d’arte in quanto rendono memorabili quei fatti”. Da qui l’amore di Comisso nei confronti dei memorialisti e ambasciatori veneti, testimoniato anche dal suo fiorfiore di brani del Galateo del Castiglione, dalla sua versione de La mia vita del Casanova, da cui Tre amori di Casanova, edito da Longanesi nel 1966.
Nella sua scrittura, impressionisticamente memoriale, paradossalmente radicata e itinerante (una vita che nonostante le due guerre fu certo più felice di quella del grande veneziano), l’autore trevigiano si farà a sua volta ambasciatore del venetismo, con la terra d’origine che, come sempre volle la tradizione, territoriale sì ma anche cosmopolita, della sua regione, non sarà mai chiusura bensì, come ha scritto Piovene ed è vero pure per Parise, una realtà di partenza e di esistenza, ovunque ci si venga trovare, “un fatto di natura”, che è dentro di sé, “visceralmente”, osmoticamente assorbita e mai intellettualizzata.
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Chioggia fu per Comisso il luogo della prima “liberazione artistica narrativa” e in certo qual modo anche, almeno per un attimo, dalle game con la terra, trovandosi proiettato d’incanto in uno stato di sospensione a lui ancora del tutto sconosciuto e che significò, allora, la felicità (“Il cielo sembra vastissimo. Qui ci si sente come sospesi”, si legge tra le pagine di Veneto felice, e fu uno dei motivi per cui lo scrittore vi percepì “una felice libertà umana fuori del tempo. Sembra di avere vissuto e di non essere morti, di essere fermi in un’eternità certa che imprime al passo la cadenza degli dei”), sperimentando in modo immediato, come nella pittura di Tiepolo, il nesso col più puro desiderio della sua regione e della sua gente, quello di vivere libera.
Venezia, arrivando da Padova, navigando sul Brenta, gli apparirà “simile a una perla nel guscio rilucente di un’ostrica”… Venezia città-palazzo, Venezia palazzo-corpo, Venezia città-corpo, femminile, d’estate, “stupenda donna dal corpo opulento, distesa in ozio olimpico”, mentre “il volto […] rimane immoto mezzo in ombra e mezzo in luce”, un vero sogno d’Oriente.
Greche non solo le origini delle città lagunari ma anche quelle di Padova i cui coloni, approdati pochi chilometri dalla città, risalirono il Brenta “vincendo la corrente impigrita” e scoprendo “una pianura feconda tutelata da un ceppo di monticelli acuminati come picche” sulla quale sorgerà una città cui i romani aggiunsero ben poco ma molto sant’Antonio, che la fece infine cristiana, poi insanguinata da Ezzelino, prosperante sotto i Carraresi, universitaria, goliardica, intellettuale e sensuale, clericale e commedica, contadina e industriale, radicata e cosmopolita, arcaica e moderna, sempre vitale e fiorita con la Serenissima, con Giotto e Mantegna, con Tiepolo e Tiziano, con l’Oriente della chiesa del suo santo.
Guido Ceronetti vi vedrà “un fantastico, quasi gangetico Oriente”, ma l’Oriente è in realtà un Oriente elleno-cristiano, elleno-cattolico, orientamento della città che, come ha scritto un altro Guido, Piovene, è il luogo della più grande concentrazione dei vertici pittorici del Trecento: “Più di Roma. Più di Assisi. Più di Firenze. Contrariamente a ciò che si può pensare, per la quantità e la varietà delle esperienze del Trecento, la vera Firenze è Padova”. Passi che non lo sappiano gli inglesi, gli americani, i giapponesi, ma che non lo sappiano i cosiddetti italiani, grandi provinciali (naturalmente e nel senso più deteriore e non più nobile del termine) la dice tutta, mentre lo sanno molto bene i veneti (tacciati a torto di provincialismo da chi non sa nulla del venetismo) e dunque Piovene, il quale lapidariamente chiosa: “Giotto a Firenze è tradizione regionale. A Padova è arte nazionale e internazionale”. Come nella stessa Venezia, a Treviso, a Vicenza, a Udine, a Trieste… Padova, scrive Piovene, “grazie al santo, è un luogo […] di tregua tra i credenti ed i miscredenti”: clericale e commerciale, colta e conservatrice, campestre e creativa, Padova è pietra e alberi – come il corniolo miracoloso, come il giardino bembiano, come il platano papafaviano, e come nel Prato della Valle – alberi e pietra…
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L’altra Venezia è Vicenza… Vicenza mai Dominante ma ugualmente ricca, circondata di terre fertilissime, e dedita, nei confronti della sua capitale, alla sola competizione estetica e mai bellica, e infatti eccola ancora trasognata, elegante, capricciosa, sfuggente, e “incoronata” dalle ville del Palladio e dai marmi delle cave di Chiampo che come sulle Apuane imbiancano in ogni stagione i rilievi verdeggianti con una pietra nella quale le conchiglie fossili si sono impastate con altri detriti marini, facile da scolpire ma che invece d’indebolirsi diventa sempre più dura nell’aria e nelle intemperie, e pare una metafora della città che, priva del mare, volle eguagliare la bellezza della laguna. Scrive Comisso che “trovarsi in una Venezia a cui siano stati interrati i canali per farne strade” di notte “scatena la fantasia, coprendola di veli come la bella addormentata nel bosco” in tutta “una giocondità creativa che la città stessa suscita dal suo grembo inesauribile”. Scrive Comisso che “i palazzi diventano vascelli naviganti nella notte” e nella nebbia, come il ponte di Bassano che pare “un tempio, un grande salone, un galeone navigante” mentre nel plenilunio Vicenza è puro sogno, tra pieni e vuoti, tra ombre decise e bianche statue. A Vicenza, “il Palladio à costruito per gli occhi dei suoi abitanti. La sua architettura è tutta di una razionalità oculare”: un parossismo di fantasia e piacere, ma a misura umana.
Così è per la meravigliosa torre comunale (“rosea e altissima, come fosse un obelisco eretto fantasticamente in una terrazza sopra qualche casa”). Così per gli edifici gotici e rinascimentali (“eterni come per raffigurare la visuale di quella che per l’uomo saggio dovrebbe essere la città ideale”). Così anche per i colonnati, le gradinate, le logge, gli archi, le nicchie, le altane, le sculture, i giardini, i ponti, i mulini, le cascate, gli isolotti…
E poi Treviso – la sua Treviso. Meno chimerica ma a sua volta semiorientale. Meno trasognata ma ugualmente compiaciuta. Città che sorge anch’essa in una “terra variata di acqua e colli” e a sua volta dotata di grazia greca in forma tutta veneta, e capace di rinascere dalle sue ceneri (“è stata massacrata da due guerre eppure à sempre mantenuto salvo il suo ceppo vitale di ingenua freschezza” – la sua vita – “intrecciata alla mobile e cangiante filigrana d’acqua, con smeraldi interposti ovunque d’alberi e di giardini” – la sua vita – “che emergeva come bianche ninfee da un’acqua paludosa durante gli spettacoli teatrali di autunno e di carnevale”) per tornare a esser ciò che è sempre stata, vale a dire un “parco d’incantesimi” fatto di labirinti, vicoli, sorprese d’acqua, mulini, archi costituiti da case, salici piangenti, ninfee, scorci fiabeschi, case quasi galleggianti, facendo propria la lezione della Dominante. Treviso liberale. Treviso cattolica. Treviso sensuale. Treviso crollata. Ma mai crollata.
E non crolla l’Endimione, il colle dal nome che più bello non si potrebbe, e bucolico, “veramente l’immagine del pastore mansueto, disteso nel sonno eterno concessogli dalla Luna innamorata, per conservargli per sempre la bellezza”…
*
Veneto felice, I miei paesaggi, Il grande ozio, Attraverso il tempo, La mia casa di campagna… I titoli delle opere sono come sempre significativi e forte emerge la nostalgia, il rimpianto per il mondo contadino che sta scomparendo o forse è anzi già scomparso (“Immutabile era la loro vita nel giro dei lavori, delle stagioni e delle feste, nello scorrere del tempo sempre rinnovato uguale”) e che l’autore si esprime per esempio nel disturbo che prova di fronte agli apporti di una certa modernità tecnica, dalla motorizzazione di massa ai neon nelle trattorie in cui era solito vivere la sua vita conviviale, e simbolico è il suo morire proprio nel fatale Sessantotto che altrettanto fatalmente era l’antitesi dello spirito che sta dietro e dentro i santuari e i castelli, i vigneti e i frutteti, i cipressi e i castagni, i fiumi e le grave, le pianure e le colline, i monti e le città, i teatri e le ville, ogni pietra e ogni pianta di questa terra, in cui trova materia lo spirito del pagus cattolico, del Cristianesimo che mitiga e non annulla il dionisiaco terragno concentrato nelle trattorie ancora quasi greche tanto amate da un pur moderno Ulisse, Comisso, viaggiatore nostalgico in eterno quotidiano ritorno a quella terra, nel suo profondo, in quel mondo nel quale le donne sapevano “unire all’amore l’arte di fare bene da mangiare”…
“Infine in una trattoria senza nome, quasi clandestina, la padrona sembrava attendere con la stessa gioia usata per l’amante e tutto era a disposizione, incominciando dal fuoco subito acceso vampante sul focolare, in modo da avere presto una bella brace per arrostire le bistecche. E quando queste vennero deposte sulla graticola la cucina fu come attraversata dall’incenso, ma in vero quella legna era pregna di resina così che la carne ebbe lo stesso sapore di quella mangiata da Ulisse e dai suoi compagni lungo il sonante mare, scottata alla brace di ginepro e di cipresso”.
Comisso muore il 21 gennaio del 1969 e dunque forse alla fine di quel mondo che pure il Veneto tenta sempre e non invano di conservare, nella sua Treviso di cui ha raccontato lo splendore e anche una certa decadenza dopo la cacciata degli amati gli Asburgo e dopo il “vento tempestoso” della Prima Guerra mondiale, della Seconda Guerra mondiale, insomma dopo che scomparvero sui volti degli uomini i baffi arricciati e: “Strade piazze, prospettive crollarono e disparvero. Locali e negozi abituali cambiarono nome e aspetto. I vecchi amici non si ritrovarono più. La città parve snaturata, ma rimasero le sue acque a ridarle quella linfa di ingenua e viva freschezza che è come la cadenza temperata del suo dialetto”.
Nel marzo del 2000 una scultura in metallo opera di Mario Martinelli in ricordo del naufragio della Bronsa viene apposta in omaggio allo scrittore lungo l’incantevole canale dei Buranelli. Il pomeriggio del 1° aprile 2005 un uomo originario del Burkina Faso, vent’ottanni, maomettano, si spoglia e attraversa il canale, stacca l’opera dal muro e fa a pezzi la figura del marinaio. Due mesi dopo l’opera torna su quel muro.
Marco Settimini
L'articolo “Tutto il mondo è in un metro quadro”. 50 anni senza Giovanni Comisso: tour nel suo “Veneto felice” (prendete appunti!) proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2U8xjS5
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Ho trovato questo stralcio in rete; lo condivido sperando possa fornire un punto di vista lucido a quanti trovino riscontri della propria vicenda nella situazione descritta.
«Vivere con un sociopatico narcisista può essere esilarante; spesso è straziante ma è gravoso sempre e comunque. Sopravvivere a una relazione con lui, quindi, è indice dei parametri della personalità di chi si salva. Lei (o più raramente lui) è plasmata dalla relazione nel modello stereotipato di fidanzata/compagna/moglie del personaggio disturbato.
Per prima cosa, la vittima deve avere una scarsa padronanza di sé e della realtà. Altrimenti abbandona la nave quando finisce la fase della luna di miele. La distorsione cognitiva presumibilmente comporta lo sminuimento e l’umiliazione si sé e, allo stesso tempo , l’esaltazione e l’adorazione della figura del narcisista. La posizione assunta è quella dell’eterna vittima: biasimevole, meritevole di punizione, un capro espiatorio. Alcune volte è importante per lei sembrare onesta, disposta al sacrificio e sottomessa. Altre, non è neanche consapevole della situazione. Il sociopatico narcisista è visto nella posizione di poter pretendere questi sacrifici, essendo superiore alla propria compagna da tutti i punti di vista (intellettuale, emotivo, morale ed economico).
Lo status di vittima “professionista” ben si accoppia con la tendenza all’autopunizione, ossia a una certa vena masochista. La vita tormentata con lui è, fino a prova contraria, solo una misura punitiva.
In questo senso, la vittima è l’immagine riflessa del sociopatico narcisista. Mantenendo un rapporto simbioticoo ed essendo completamente dipendente dalla fonte di energia masochista (che lui è così bravo a fornire), sarà lei a incoraggiare e rinforzare tratti e comportamenti che sono la vera essenza del narcisismo.
Il narcisista non si sente mai completo senza una compagna sottomessa, che lo veneri, che sia disponibile e che si mortifichi da sola. Il suo forte senso di superiorità, cioè il suo Falso Sé, dipende in gran parte da questo. Il superego sadico sposta le attenzioni da sé alla compagna, ottenendo una fonte alternativa di gratificazione perversa.
E’ attraverso la propria abnegazione che la vittima sopravvive : annullando i propri desideri, le proprie speranze, i sogni, le aspirazioni, i bisogni sessuali, psicologici e materiali e molto altro. Percepisce le proprie necessità come pericolose in quanto suscettibili di generare collera nella figura suprema e divina del narcisista che, ai suoi occhi, sembrerà ancora più grande. L’abnegazione intrapresa per agevolare e alleggerire la vita di un “grand’uomo” è più accettabile. Più lui è visto come perfetto, più facile sarà per lei ignorare il proprio sé, perdere importanza, decadere, trasformarsi in un’appendice del narcisista e, alla fine, diventare niente più che una sua estensione, fondersi con lui fino al punto di oblio e di offuscamento dei ricordi della propria, autonoma esistenza.
I due collaborano in questa macabra danza. Il sociopatico narcisista prende forma dalla sua compagna nella misura in cui lei prende forma da lui. La sottomissione alimenta la superiorità come il masochismo stimola il sadismo. Le relazioni sono contraddistinte da un emergentismo dilagante: i ruoli sono assegnati quasi dalla partenza e qualsiasi deviazione provoca una reazione aggressiva, se non violenta.
Lo stato mentale predominante nella vittima è la più totale confusione. Anche la relazione più basica – con marito, figli o genitori- è oscurata in modo inquietante dal gigantesco cono d’ombra generato dal rapporto con il narcisista. La sospensione di giudizio è parte integrante della sospensione dell’individualità, che è contemporaneamente prerequisito e conseguenza della relazione con lui. La vittima non sa più è cosa vero e giusto e cosa, invece, sbagliato e non permesso.
Il narcisista riproduce con la compagna l’ambiente emotivo della propria crescita: capricciosità, instabilità, arbitrarietà, abbandono emotivo, fisico e sessuale fanno da padroni. Il mondo diventa incerto e spaventoso e lei ha solo lui a cui aggrapparsi.
E si aggrappa. Se c’è una cosa che può essere detta con certezza di coloro che fanno squadra con i narcisisti è che sono apertamente dipendenti.
La vittima non sa cosa fare – sin troppo naturale nel caos di una relazione del genere – ma non sa nemmeno cosa vuole e, in larga misura, chi è e chi vorrebbe diventare.
Queste domande senza risposta rendono ancora più difficile, per lei, riuscire a valutare la realtà, considerarla e apprezzarla per quello che è. Il peccato originale è essersi innamorata di un’immagine e non di una persona reale. E’ per lo svuotamento di questa immagine che, quando la relazione finisce, si addolora.
La rottura della relazione è, quindi, molto pesante dal punto di vista emotivo. E’ il culmine di una lunga catena di umiliazioni e assoggettamenti. E’ la ribellione della parte sana e funzionante della personalità lesa contro la tirannia del narcisista.
La vittima è responsabile di aver erroneamente interpretato tutta l’interazione (esito, infatti, a chiamarla relazione). La mancanza di connessione con la realtà potrebbe essere etichettata “patologica”.»
Sam Vaknin
Traduzione Astra
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