#mettersi a nudo
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"Sai, è facile giudicar l'uomo nudo quando si è vestiti."
- Ernia, Come uccidere un usignolo.
Una persona può permettersi di giudicare in continuazione tutti gli esseri umani esistenti sulla terra soltanto se prima si è messa nei loro panni, cosa impossibile e non c'è nemmeno il bisogno di spiegare il perché. Criticherà sempre chi vorrà dare aria alla bocca, perché è l'unica cosa che si è in grado di fare quando sono presenti cattiveria ed invidia. Un genitore dovrebbe insegnare al proprio figlio, sin dall'infanzia, che fortunatamente nel mondo esiste la diversità e va risaltata. È facile lamentarsi di ragazzi più timidi per poi prenderli in giro, soprattutto se a farlo è gente estroversa che non si rende conto di quello che si cela dietro alla loro timidezza. È altrettanto semplice sfogare la frustrazione verso chi si espone, persone con il coraggio di lottare per quello in cui credono. L'invidia porta a nascondersi dietro uno schermo a causa dei social network, ad oggi un post di un personaggio pubblico è sempre più pieno di insulti piuttosto che di critiche costruttive. Gli invidiosi si sentono protetti dai vestiti che indossano e si sentono invincibili, perché solo grazie a tali capi che agiscono contro coloro che scelgono di mettersi a nudo. I vestiti di chi giudica immotivatamente non vanno mai di moda.
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[Lei s’innamorò come s’ innamorano sempre le donne intelligenti:
come un’ idiota]
La zia Daniela s’innamorò come s’innamorano sempre le donne intelligenti: come un’idiota. Lo aveva visto arrivare un mattino, le spalle erette e il passo sereno, e aveva pensato: «Quest’uomo si crede Dio». Ma dopo averlo sentito raccontare storie di mondi lontani e di passioni sconosciute, si innamorò di lui e delle sue braccia come se non parlasse latino sin da bambina, non avesse studiato logica e non avesse sorpreso mezza città imitando i giochi poetici di Góngora e di suor Juana Inés de la Cruz come chi risponde ad una filastrocca durante la ricreazione. Era tanto colta che nessun uomo voleva mettersi con lei, per quanto avesse occhi di miele e labbra di rugiada, per quanto il suo corpo solleticasse l’immaginazione risvegliando il desiderio di vederlo nudo, per quanto fosse bella come la Madonna del Rosario. Gli uomini avevano paura di amarla, perché c’era qualcosa nella sua intelligenza che suggeriva sempre un disprezzo per il sesso opposto e le sue ricchezze.
Ma quell’uomo che nulla sapeva di lei e dei suoi libri le si accostò come a chiunque altra. Allora la zia Daniela lo dotò di un’intelligenza abbagliante, una virtù angelica e un talento d’artista. Il suo cervello lo guardò in tanti modi che in capo a dodici giorni credette di conoscere cento uomini.
Lo amò convinta che Dio possa aggirarsi tra i mortali, abbandonata con tutta se stessa ai desideri e alle stramberie di un uomo che non aveva mai avuto intenzione di rimanere e non aveva mai capito neppure uno di tutti i poemi che Daniela aveva voluto leggergli per spiegare il suo amore.
Un giorno così com’era venuto, se ne andò senza neppure salutare. Non ci fu allora in tutta l’intelligenza della zia Daniela una sola scintilla in grado di spiegarle ciò che era successo.
Ipnotizzata da un dolore senza nome né destino, diventò la più stupide delle stupide. Perderlo fu un dolore lungo come l’insonnia, una vecchiaia di secoli, l’inferno.
Per pochi giorni di luce, per un indizio, per gli occhi d’acciaio e di supplica che le aveva prestato una notte, la zia Daniela sotterrò la voglia di vivere e cominciò a perdere lo splendore della pelle, la forza delle gambe, l’intensità della fronte e delle viscere.
Nel giro di tre mesi divenne quasi cieca, le crebbe una gobba sulla schiena e dovette succedere qualcosa anche al suo termostato interno, perché, nonostante indossasse anche in pieno sole calze e cappotto, batteva i denti dal freddo come se vivesse al centro stesso dell’inverno. La portavano fuori a prendere aria come un canarino. Le mettevano accanto frutta e biscotti da becchettare, ma sua madre si portava via il piatto intatto mentre Daniela rimaneva muta, nonostante gli sforzi che tutti facevano per distrarla.
All’inizio la invitavano in strada, per vedere se, guardando i colombi e osservando la gente che andava e veniva, qualcosa in lei cominciasse a dare segni di attaccamento alla vita. Provarono di tutto. Sua madre se la portò in Spagna e le fece girare tutti i locali sivigliani di flamenco senza ottenere da lei nulla più di una lacrima, una sera in cui il cantante era allegro. La mattina seguente inviò un telegramma a suo marito:«Comincia a migliorare, ha pianto un secondo». Era diventata come un arbusto secco, andava dove la portavano e appena poteva si lasciava cadere sul letto come se avesse lavorato ventiquattr’ore di seguito in una piantagione di cotone. Alla fine non ebbe più forze che per gettarsi su una sedia a dire a sua madre:«Ti prego, andiamocene a casa».
Quando tornarono, la zia Daniela camminava a stento, e da allora non volle più alzarsi dal letto. Non voleva neppure lavarsi, né pettinarsi, né fare pipì. Un mattino non riuscì neppure ad aprire gli occhi.
«E’ morta!», sentì esclamare intorno a sé, e non trovò la forza di negarlo.
Qualcuno suggerì a sua madre che un tale comportamento fosse un ricatto, un modo di vendicarsi degli altri, una posa da bambina viziata che, se di colpo avesse perso la tranquillità di una casa sua e la pappa pronta, si sarebbe data da fare per guarire da un giorno all’altro. Sua madre fece lo sforzo di crederci e seguì il consiglio di abbandonarla sul portone della cattedrale. La lasciarono lì una notte con la speranza di vederla tornare, affamata e furiosa, com’era stata un tempo. La terza notte la raccolsero dal portone e la portarono in ospedale tra le lacrime di tutta la famiglia.
All’ospedale andò a farle visita la sua amica Elidé, una giovane dalla pelle luminosa che parlava senza posa e che sosteneva di saper curare il mal d’amore. Chiese che le permettessero di prendersi cura dell’anima e dello stomaco di quella naufraga. Era una creatura allegra e attiva. Ascoltarono il suo parere. Secondo lei, l’errore nella cura della sua intelligente amica consisteva nel consiglio di dimenticare. Dimenticare era una cosa impossibile. Quel che bisognava fare era imbrigliare i suoi ricordi perché non la uccidessero, perché la obbligassero a continuare a vivere.
I genitori ascoltarono la ragazza con la stessa indifferenza che ormai suscitava in loro qualsiasi tentativo di curare la figlia. Davano per scontato che non sarebbe servito a nulla, ma autorizzarono il tentativo come se non avessero ancora perso la speranza, che ormai avevano perso.
Le misero a dormire nella stessa stanza. Passando davanti a quella porta, in qualsiasi momento, si udiva l’infaticabile voce di Elidé parlare dell’argomento con la stessa ostinazione con la quale un medico veglia un moribondo. Non stava zitta un minuto. Non le dava tregua. Un giorno dopo l’altro, una settimana dopo l’altra.
«Come hai detto che erano le sue mani?», chiedeva.
Se la zia Daniela non rispondeva, Elidé l’attaccava su un altro fronte.
«Aveva gli occhi verdi? Castani? Grandi?».
«Piccoli», rispose la zia Daniela, aprendo bocca per la prima volta dopo un mese.
«Piccoli e torbidi?», domandò Elidé.
«Piccoli e fieri», rispose la zia Daniela, e ricadde nel suo mutismo per un altro mese.
«Era sicuramente del Leone. Sono così, i Leoni», diceva la sua amica tirando fuori un libro sui segni zodiacali. Le leggeva tutte le nefandezze che un Leone può commettere. «E poi sono bugiardi. Ma tu non devi lasciarti andare, sei un Toro: sono forti le donne del Toro».
«Di bugie sì che ne ha dette», le rispose Daniela una sera.
«Quali? Non te ne scordare! Perché il mondo non è tanto grande da non incontrarlo mai più, e allora gli ricorderai le sue parole: una per una, quelle che ti ha detto e quelle che ha fatto dire a te».
«Non voglio umiliarmi».
«Sarai tu a umiliare lui. Sarebbe troppo facile, seminare parole e poi filarsela».
«Le sue parole mi hanno illuminata!», lo difese la zia Daniela.
«Si vede, come ti hanno illuminata!», diceva la sua amica, arrivate a questo punto.
Dopo tre mesi ininterrotti di parole la fece mangiare come Dio comanda. Non si rese neppure conto di come fosse successo. L’aveva portata a fare una passeggiata in giardino. Teneva sottobraccio una cesta con frutta, pane, burro, formaggio e tè. Stese una tovaglia sull’erba, tirò fuori la roba e continuò a parlare mettendosi a mangiare senza offrirle nulla.
«Gli piaceva l’uva», disse l’ammalata.
«Capisco che ti manchi».
«Sì» disse la zia Daniela, portandosi alla bocca un grappolo d’uva. «Baciava divinamente. E aveva la pelle morbida, sulla schiena e sulla pancia».
«E com’era… sai di che cosa parlo», disse l’amica, come se avesse sempre saputo che cosa la torturava.
«Non te lo dico», rispose Daniela ridendo per la prima volta dopo mesi. Mangiò poi pane e burro, formaggio e tè.
«Bello?», chiese Elidé.
«Sì», rispose l’ammalata, ricominciando a essere se stessa.
Una sera scesero a cena. La zia Daniela indossava un vestito nuovo e aveva i capelli lucidi e puliti, finalmente liberi dalla treccia polverosa che non si era pettinata per tanto tempo.
Venti giorni più tardi, le due ragazze avevano ripassato tutti i ricordi da cima a fondo, fino a renderli banali. Tutto ciò che la zia Daniela aveva cercato di dimenticare, sforzandosi di non pensarci, a furia di ripeterlo divenne per lei indegno di ricordo. Castigò il suo buon senso sentendosi raccontare una dopo l’altra le centoventimila sciocchezze che l’avevano resa felice e disgraziata.
«Ormai non desidero più neppure vendicarmi», disse un mattino a Elidé. «Sono stufa marcia di questa storia».
«Come? Non mi ridiventare intelligente, adesso», disse Elidé. «Questa è sempre stata una questione di ragione offuscata: non vorrai trasformarla in qualcosa di lucido? Non sprecarla, ci manca la parte migliore: dobbiamo ancora andare a cercare quell’uomo in Europa e in Africa, in Sudamerica e in India, dobbiamo trovarlo e fare un baccano tale da giustificare i nostri viaggi. Dobbiamo ancora visitare la Galleria Pitti, vedere Firenze, innamorarci a Venezia, gettare una moneta nella Fontana di Trevi. Non vogliamo inseguire quell’uomo che ti ha fatto innamorare come un’imbecille e poi se n’è andato?».
Avevamo progettato di girare il mondo in cerca del colpevole, e questa storia che la vendetta non fosse più imprescindibile nella cura della sua amica era stata un brutto colpo per Elidé. Dovevano perdersi per l’India e il Marocco, la Bolivia e il Congo, Vienna e soprattutto l’Italia. Non aveva mai pensato di trasformarla in un essere razionale dopo averla vista paralizzata e quasi pazza quattro mesi prima.
«Dobbiamo andare a cercarlo. Non mi diventare intelligente prima del tempo», le diceva.
«E’ arrivato ieri», le rispose la zia Daniela un giorno.
«Come lo sai?»
«L’ho visto. Ha bussato al mio balcone come una volta».
«E che cosa hai provato?»
«Niente».
«E che cosa ti ha detto?»
«Tutto».
«E che cosa gli hai risposto?»
«Ho chiuso la finestra».
«E adesso?», domandò la terapista.
«Gli assenti si sbagliano sempre».
Ángeles Mastretta
[racconto tratto dal libro “Donne dagli occhi grandi”]
*traduzione di Gina Maneri
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Dite sempre quello che provate, prima che il rimorso sia troppo grande da mangiarvi dentro. Meglio mettersi a "nudo" piuttosto che tormentarsi con i se e con i ma
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Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te, e vigile. nello stesso tempo ti rendi conto dell'abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell'immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c'è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth... e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo finché essa non perda interesse, e abbandonarla così come sei abituata a fare passando da un ruolo all'altro.
Persona
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È facile mettersi a nudo togliendosi i vestiti,
tuttavia è davvero difficile mettersi a nudo scoprendo ciò che invece si ha dentro,
ed è proprio questa la cosa più intima e importante che si possa fare con una persona,
aprirle il proprio mondo, la propria anima, la vera essenza del proprio essere.
- romyy999
#frasi mie#frasi tumblr#frasi belle#frasi sull'amore#frasi per lui#frasi per lei#frasi amore#intimità#anima
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Ieri sera sono stato all'Alcatraz. Non capisco molto di questo genere di musica, ma credo che tutta la fauna milanese appassionata di Techno aspettava l'evento da un anno, come quello più importante in assoluto della stagione. È stato come andare alla prima della Scala, ma agli antipodi per quanto riguarda lo stile musicale e il genere di invitati che ti aspetteresti ad ascoltare la Tosca in religioso silenzio.
Siamo entrati al tocco della notte e subito le droghe hanno fatto la loro selezione naturale. Ragazzi e ragazze che s'aspettavano troppo dalla serata, e non hanno saputo gestire l'ansia da prestazione sono cascati come birilli dopo le prime note. Sono rimasti così gli esperti del settore, i premi nobel dell'Md e della musica selvaggia proveniente direttamente dalla consolle di questi dj, evidentemente famosissimi, che hanno mosso i loro primi passi nella lande metanfetaminichendella Berlino ovest dei primi anni Novanta (non a caso la serata si chiamava Der Techno).
Io sono rimasto sobrio come un bicchiere d'acqua distillata. Mi sono concesso solo due morettone ipa a 10 euro ciascuna. Ammetto che la seconda l'ho presa solo per rivedere il viso della barista, una delle donne più belle che ho avuto il privilegio di potere guardare.
Ma ritornando alla gente presente alla serata... gli uomini avevano spalle grosse come portaerei, ogni addominale scolpito con la precisione maniacale di un cesellatore di mosaici, tutti a petto nudo e sudati come cavalli del palio di Siena. Le donne erano un tripudio di muscoli guizzanti e abiti che potevano benissimo restare negli armadi, dato che non servivano a coprire nemmeno le pudende. A un occhio poco attento poteva sembrare che queste creature eteree e bellissime avessero impiegato dieci minuti per mettersi addosso un pietoso velo di stoffa e uscire. Ma sapevamo tutti che il loro stile era ricercato fino al minimo dettaglio, dall'acconciatura, al numero di borchie che dovevano ricoprire il seno destro, al tipo di smalto che doveva colorare l'ultima unghia del piede sinistro.
Ma nelle donne tutta questa ipersessualizzazione, sapevo, da bambino abusato, in molte di loro era una risposta agli stessi traumi subiti da me. Il dolore lo si affronta o tacendo e digrignando in silenzio i denti o urlando fino a che la gola ti diventa un'unica macchia rossa e infiammata, che come una luce al neon dice solo guardatemi.
Non tutte, spero, avevano subito abusi sessuali ( molestie sì, tutte. le ho viste reiterarsi anche ieri sera purtroppo) ma la tristezza che mi accompagnava nel guardarle, bellissime e dannate, è stata quasi catartica.
Ho rivelato ai miei due amici, dentro un mccafè, alle sei del mattino, cosa ho subito da piccolo e perché avere ricevuto un piedino sotto al tavolo la sera prima è stato per me un evento epocale (io che inizio a inculare simbolicamente il mio abusatore). E ho rivelato questo arcano del mondo femminile delle molestie, dell'abuso, del tacere e dell'urlare.
Spero che abbiano capito. Io ho solo provato a dare loro un piccolo strumento per capire meglio il dolore di alcuni esseri umani. E che come sempre l'apparenza non solo inganna, ma copre. Perché sotto c'è una ferita che a vederla farebbe fermare gli orologi del mondo.
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Spogliarsi è facile.
È mettersi a nudo che è difficile.
- Simona Ingrassia
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Mi capita spesso di osservare le persone. Molte sono farfalle che svolazzano da un fiore all'altro, senza mai posarsi davvero. Ma, purtroppo, c’è meno poesia. C'è invece un'agitazione frenetica, una reazione a catena che sembra non avere fine. Un grido che ne suscita un altro, un gesto aggressivo che ne innesca una sequenza. È come se stessero recitando una parte, senza un copione ben definito, semplicemente reagendo a uno stimolo esterno. Una strana presenza-assenza sul grande palcoscenico della vita. Una disconnessione tra l'azione e il pensiero, tra il corpo e l'anima.
Mi chiedo: perché? Qual è la molla che spinge gli individui a comportarsi in questo modo? Credo che alla base ci sia una profonda insicurezza, un bisogno spasmodico di affermare sé stessi in un mondo che ci chiede costantemente di essere qualcuno che non siamo. Un mondo che ci promette l'apice del successo, ma ci costringe a indossare maschere sempre più uguali.
E poi c'è la rabbia, un sentimento represso che esplode alla minima provocazione. È la rabbia di chi si sente prigioniero di un sistema che lo soffoca, di chi anela a ribellarsi senza sapere a cosa o come.
Ma la cosa più preoccupante è la perdita di un senso più profondo. Sembra che stiamo vagando alla deriva, senza una bussola, senza una meta. Viviamo in un'epoca di grande incertezza, dove i valori tradizionali sono messi in discussione e le nuove generazioni sembrano smarrite.
Eppure, nonostante questo grande caos, in ognuno di noi c’è una stanza, vuota e silenziosa, che attende solo di essere scoperta. Un luogo interiore dove, al riparo dai giudizi e dalle aspettative, possiamo finalmente guardarci dentro senza filtri. Un rifugio dove chiederci: "Chi sono io, davvero, al di là di ciò che mostro al mondo? Quali sono i miei desideri più autentici, quelli che nascondo anche a me stesso? Perché fuggo da loro invece che corrergli incontro?"
È in questa stanza che possiamo liberarci dalle maschere che indossiamo per paura di essere giudicati, o per conformarci a un'immagine che non ci appartiene. È qui che possiamo smettere di cercare un giusto o uno sbagliato, e semplicemente essere.
Io ho scoperto questa stanza grazie a un amore che mi ha messo a nudo, mostrandomi le contraddizioni e le paure che nascondevo. All'inizio ho provato terrore, ma poi ho capito che quella era la mia occasione per riconnettermi con me stessa.
Un amore che non è possesso, ma dono. Che si trasforma nella capacità di aprirsi completamente all'altro, senza riserve, e insegna che, per farlo davvero, bisogna prima conoscersi a fondo. Bisogna prima entrare nella stanza vuota, trovare il coraggio di farlo.
Sono grata di quell’amore. Quello che ho vissuto è stato un incontro unico, un regalo inaspettato che mi ha permesso di cambiare prospettiva. Non c'erano le aspettative e i desideri della passione, solo una profonda volontà di dare e di essere autentica.
Vorrei che tutti potessero provare questa esperienza: la fortuna di provare un sentimento così intenso da spingerli a mettersi a nudo. Vorrei che tutti voi riceveste lo stesso dono che ho ricevuto io. Ma se non dovesse arrivare, se fosse in ritardo, andatelo a cercare voi. Che sia un qualcuno o un qualcosa, non importa, cercatelo e non vi arrendete. Ne vale la pena. È l’accesso alla vostra stanza vuota, la soglia di quel luogo di verità e di autenticità in cui trovare finalmente le risposte che cerchiamo.
Questo blog è il mio piccolo angolo creativo. Ogni parola e ogni immagine presente in questo post è frutto della mia immaginazione. Se ti piace qualcosa, condividi il link, non copiare
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Ho cercato di spiegarti chi sono.
Ho cercato di spiegartelo in tutti i modi.
Ti ho detto cosa mi ferisce, cosa mi irrita, quali sono le mie fragilità e dove puoi colpire sapendo di farmi male.
Io lo chiamo… mettersi a nudo.
Ed è un profondo gesto di stima e fiducia.
Ho cercato anche di capire te e, a volte sbagliando, ho aggiustato il tiro per esserci senza farti del male.
Sono entrata nella tua vita - e nella tua anima - in punta di piedi, attenta a non calpestare ferite, priva di richieste, con l’unico desiderio un po’ di conoscerti e un po’ di viverti.
Se baglio con te, vorrei tu mi dicessi “stai sbagliando” perché non è sempre facile capire, capirsi…
Con te è quasi sempre complicatissimo.
Così io indosso guanti di velluto e tu… E tu sembra che, a volte, nemmeno mi veda. E fai esattamente il contrario di quello che un qualsiasi voler bene prevederebbe. Così io rimango stranita, sospesa, infastidita, triste e mi domando: “Cosa ho sbagliato?”. Seguito da: “Cosa non ha capito?”.
Stasera sono triste.
E vorrei dirti che hai sbagliato.
Con intenzione, o per errore, mi hai ferito.
Non te lo dico, e te lo scrivo qui, perché non so nemmeno se t’importi davvero.
Aspetto scuse che ignorano la mia attesa.
E sono triste.
Basterebbe così poco..
web
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Era da un po' che avevo in mente di scrivere qualcosa, ma non l'avevo ancora fatto ed adesso sento che è arrivato il momento. Ho sempre amato scrivere, ma farlo in un posto dove forse qualcuno leggerà i miei pensieri mi ha sempre frenato un po'. Argh! il giudizio degli altri, il mettersi a nudo davanti a qualcun altro, l'essere giudicati, sono sempre state cose che mi hanno in qualche modo fatto desistere in molte cose. Mi sono sempre vergognato di voler mostrare quello che mi piace e molte cose sono sicuro che non le ho mai portate a termine, forse non le ho proprio mai iniziate, per colpa di questa sensazione di inadeguatezza che mi accompagna da tanto, forse troppo tempo. Oggi se scrivo queste cose, sono sicuro che è per merito della corsa. Non sono tra quelli che pensa che allacciarsi un paio di scarpe e uscire a correre sia un atto rivoluzionario che salverà il mondo, NO! In qualche modo però, per me, in questi tre anni e mezzo dove quasi ogni giorno metto su un paio di shorts e mi butto a correre in strada o sui sentieri, mi ha aiutato tanto a farmi tornare in quel mondo dove qualcosa forse si era rotto riuscendo piano piano a ricucire quello strappo. Se faccio due conti sono passati esattamente venti anni dalla mia ultima partita di basket. La ricordo come fosse ieri. Ero bravino, sempre nel primo quintetto, il play della squadra, mi allenavo tanto sia con quelli della mia età che con i più grandi, 3/4 ore al giorno, e non mi stancavo mai. Poi all'improvviso ho cominciato a soffrire la competizione, avevo paura di sbagliare i canestri facili. Ricordo che non prendevo i contropiedi, anche se me li sentivo nelle gambe, per paura di ritrovarmi da solo sotto il canestro e sbagliare. Piano piano questa cosa mi ha distrutto. Non ne ho mai parlato con nessuno e l'epilogo è stato quello di lasciare il basket e non fare più sport per quasi tutti i successivi venti anni.
Non so che cosa fosse successo o quale fosse stato l'evento scatenante, ma comunque sono contento adesso di poter tirare fuori questa cosa e per questo ringrazio la corsa. Si, perchè correre da solo per i boschi, scavare dentro in piena crisi, essere confortati dal proprio respiro in piena notte, vedere sorgere l'alba per incastrare l'ennesimo allenamento bruciagambe, mi ha fatto conoscere meglio me stesso o comunque quella parte di me che forse aveva bisogno di essere confortata.
Sicuramente è solo una mia suggestione, me la faccio andar bene comunque e anzi gliene sono grato.
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L'importanza di lavorare su se stessi
Lavorate su voi stessi
Non fermatevi mai su questo
e non prendete o perdete tempo..
Se avete situazioni irrisolte
(e fidatevi che ve ne accorgete se le avete..
ed è inutile che vi raccontate o raccontate storie per trovare scusanti.. è sbagliato
a prescindere..)
Fare introspezione è la migliore cura,
anche se è scomodo, pesante e faticoso,
(lo so bene, ma il risultato vi salva la vita
e di conseguenza quella delle persone
che vi sono vicine, dei vostri affetti)
e solo voi potete farlo, deve partire da voi,
è un dovere verso voi stessi, prima di tutto,
e poi verso gli altri, perché ciò che siete
e riflettete, rifiutandovi di affrontare le cose,
si ripercuote sul vostro comportamento
e di conseguenza sugli altri,
e questo è deleterio in qualsiasi rapporto
che state vivendo.
Non risolvere, non mettersi in discussione,
non riconoscere di avere bisogno di cambiare,
significa vivere, vedere ed affrontare
la quotidianità e i rapporti umani in modo distorto, inconsapevole, offuscato e stupido.
Ci vuole responsabilità, verso noi stessi
e verso gli altri, la vita non è un gioco,
come non sono un gioco i rapporti umani
che avete costruito e che pensate di costruire.
Non esiste consapevolezza
senza un sano anche se doloroso e duro
lavoro d'introspezione..
Non ci sono scuse, ci vuole forza, determinazione, il coraggio di guardarsi
allo specchio e mettersi a nudo..
E conviene farlo, fidatevi,
perché se continuate ad ostinarvi
di permanere in uno stato tossico
per voi stessi e per gli altri..creando dinamiche tossiche e negative fuori e dentro di voi,
la vita prima o poi vi presenterà il conto..
E non sarà piacevole..
C'è una bella differenza tra decidere
di seguire una lezione per tua volontà
e subirla perché non hai avuto amore
per te stesso.
Il prezzo di quest'ultima sarà alto,
la vita non fa sconti.
E non dimentica.
La vita è un dono, ed è una,
non ne abbiamo un'altra,
dobbiamo averne rispetto.
Lucia Pelosi
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Un conto è mettersi a nudo con il corpo e l'altro è con l'anima
Per me sarebbe molto più facile girare a cazzo di fuori in parlamento che farti vedere cos'ho dentro
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"Credi che non ti capisca? Tu insegui un sogno disperato, questo è il tuo tormento. Tu vuoi essere, non sembrare di essere. Essere in ogni istante cosciente di te, e vigile. Nello stesso tempo ti rendi conto dell’abisso che separa ciò che sei per gli altri da ciò che sei per te stessa e provoca quasi un senso di vertigine, un timore di essere scoperta, di vederti messa a nudo, smascherata, riportata ai tuoi giusti limiti. Perché ogni parola è menzogna, ogni gesto falsità, ogni sorriso una smorfia. Qual è il ruolo più difficile? Togliersi la vita? Ma no, sarebbe poco dignitoso. Meglio rifugiarsi nell’immobilità, nel mutismo, così si evita di dover mentire, oppure mettersi al riparo dalla vita, così non c’è bisogno di recitare, di mostrare un volto finto o fare gesti non voluti. Non ti pare? Questo è ciò che si crede ma non basta celarsi perché, vedi, la vita si manifesta in mille modi diversi ed è impossibile non reagire. A nessuno importa sapere se le tue reazioni siano vere o false. Solo a teatro il problema si rivela importante e forse neanche lì. Io ti capisco, Elisabeth… e quasi ti ammiro. Secondo me devi continuare a recitare la tua parte fino in fondo finché essa non perda interesse, e abbandonarla così come sei abituata a fare passando da un ruolo all’altro."
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Se una persona decide di mettersi a nudo con te non giudicare, non discutere su cosa può essere giusto o sbagliato ma soprattutto non dare lezioni sul valore della vita. Ogni persona ha un proprio vissuto quindi impara a non GIUDICARE.
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Storia Di Musica #275 - AA.VV. - The Indian Runner (O.s.t.), 1991
La colonna sonora di oggi ha una storia davvero particolare. Sean Penn, al suo primo film da regista, ha una folgorazione ascoltando un disco, tanto che decide di scrivere una sceneggiatura basandosi sulla storia raccontata da un brano in particolare: Highway Patrolman di Bruce Springsteen, da quel capolavoro che è Nebraska (1982). Il film, The Indian Runner (1991, in italiano intitolato Lupo Solitario) racconta di Joe e Frank Roberts. Joe è lo sceriffo di una piccola cittadina agricola del Nebraska, Plattsmouth, Frank è un soldato dell'esercito degli Stati Uniti. La vita dei due fratelli separati è scossa dalla morte della madre prima e poi dal suicidio del padre. Frank incontra il fratello dopo essere tornato dalla guerra in Vietnam. È diventato un uomo scontroso e cupo, incapace di starsene fuori dai guai. Joe cerca di ricostruire una vita per lui e per suo fratello, Frank ha una relazione con una ragazza del posto, Dorothy, con cui avrà un figlio. Quando tutto sembra mettersi per il meglio, Frank dopo un diverbio uccide il gestore del bar della piccola cittadina, Caesar, e scappa, inseguito dal fratello, che combattuto tra il dovere e l’affetto al confine della contea decide... (beh conviene vederlo il film no?). Interpretato tra gli altri da David Morse (Joe Roberts), Viggo Mortensen (Frank Roberts), Valeria Golino (Maria, moglie di Frank), Patricia Arquette (Dorothy, la compagna di Frank), Charles Bronson e Sandy Dennis (i coniugi Roberts) e Dennis Hopper (Caesar, il gestore del bar ucciso da Frank) fu poco distribuito, nonostante sia molto apprezzato dalla critica e abbia una regia particolare, con scelte registiche non canoniche (tra rimandi ai film di John Cassevetes, e scene inusuali cui un parto ripreso quasi in prima persona e scene di nudo maschili). La colonna sonora è divisa in due parti: una su brani classici e l’altra con il contributo di due grandi musicisti, Jack Nitzsche e David Lindley. Nitzsche è stato uno dei grandi produttori, arrangiatori e sessionisti della musica americana: braccio destro di Phil Spector, co autore di numerose hit con Sonny Bono, suonò il piano in alcuni dei più bei dischi dei Rolling Stones (Paint It Black, Let’s Spend The Night Together e le orchestrazioni di You Can’t Always Get What You Want), fido collaboratore di Neil Young, e autore, per limitarci alle colonne sonore, di quelle mitiche di Qualcuno Volò Sul Nido Del Cuculo e de L’Esorcista. David Lindley è un altro pezzo da novanta, definito una volta dalla rivista Acoustic Guitar un maxi-strumentista per la quantità di strumenti che sapeva perfettamente suonare. Produttore di, tra gli altri, Linda Ronstadt, Curtis Mayfield, James Taylor, David Crosby, Graham Nash, Terry Reid, Bob Dylan, Rod Stewart, Joe Walsh, Leonard Cohen, Ry Cooder, Ben Harper e soprattutto Dolly Parton. Suonò anche con un interessantissimo gruppo sperimentale, i Kaleidoscope, ed è uno dei maggiori collezionisti di strumenti al corda del pianeta. I due scrivono le musiche, per lo più strumentali, che accompagnano le immagini del film, tra meraviglie come Flop House, Brothers, Indian Summer e My Brother Frank che termina con i titoli di coda. La prima parte invece racchiude alcuni gioielli della stagione d’oro del rock, che sebbene non legati filologicamente con il periodo della nostra storia, sono scelte azzeccatissime. Si inizia con Feelin’ Alright, nella versione originale dei Traffic (e portato al successo da Joe Cocker), che sfuma poi nella dolcezza di Comin’ Back To Me dei Jefferson Airplane, da quel manifesto della psichedelia che fu Surrealistic Pillow (1967, che inizia con Marty Balin che canta così “The summer had inhaled and held its breath too long\The winter looked the same, as if it never had gone\And through an open window where no curtain hung\I saw you\I saw you\Comin' back to me). Poi arriva la forza di Fresh Air, dei Quicksilver Messenger Service, altra meraviglia della San Francisco rock, da Just For Love (1970), primo disco con il ritorno in formazione di Chester William "Chet" Powers Jr., meglio conosciuto con i suoi nomi d’arte di Dino Valenti e Jesse Oris Farrow (il primo usato prima del suo arresto per possesso di droga, il secondo dal 1970 in poi). Arriva poi Green River, grande classico dei Creedence Clearwater Revival, dall’omonimo album del 1969 (anno in cui registrarono tre dischi capolavoro), e ispirato ad un ricordo d’infanzia di John Fogerty (il Green River era anche il gusto di una famosa bevanda zuccherina per adolescenti). Penn chiama due sue amici, Eric e Brett Haller, a suonare una dolce Brothers For Good, e tra l’altro dopo questa esperienza i due non hanno più suonato in maniera ufficiale in nessun disco che io sia capace di rintracciare. Chiudono poi due capolavori: la Summertime di Janis Joplin, dal capolavoro di George Gershwin per l’opera Porgy And Bess del 1935,e qui lacerata dalla voce unica e inimitabile di Joplin, segnando un’epoca; I Shall Be Released è una canzone di Bob Dylan del 1967, ripresa in Music From The Big Pink (1968) dal grandioso gruppo canadese della The Band, con Richard Manuel alla voce solista, e Rick Danko e Levon Helm alle armonie vocali, uno dei primi brani di Dylan profondamente religiosi, giocato sul simbolismo della redenzione mistica con il rilascio di un detenuto. La canzone, che era presenta nei leggendari Basement Tapes, è una delle più utilizzate di sempre come cover, con centinaia di rivisitazioni. E la canzone di Springsteen da cui tutto parte? Non si è mai capito perchè non compaia, tutta via Springsteen è accreditato come co-sceneggiatore originale. La canzone, ridotta all’osso e malinconica come tutto quel leggendario album, sembra un racconto, ed inizia così:
My name is Joe Roberts, I work for the state I'm a sergeant out of Perrineville, barracks number eight I always done an honest job, as honest as I could I got a brother named Franky, and Franky ain't no good.
P.S. La storia anticipa ad oggi perchè domani vi farò vedere dove sono per un lieto evento.
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Alcune cose che tengo scritte nelle note devono rimanere lì, anche se vorrei esternarle, ma a volte sembra davvero inutile mettersi ancora una volta a nudo 💭
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