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Putin Apre a Trump: Possibile Collaborazione per la Crisi Ucraina?
Congratulazioni e Prime Prospettive di Dialogo tra il Presidente Russo e l’Ex Presidente Americano per Risolvere il Conflitto in Ucraina.
Congratulazioni e Prime Prospettive di Dialogo tra il Presidente Russo e l’Ex Presidente Americano per Risolvere il Conflitto in Ucraina. L’articolo de La Repubblica, a firma di Rosalba Castelletti, offre uno sguardo approfondito sul recente scambio indiretto tra Vladimir Putin e Donald Trump riguardo alla crisi ucraina. Durante il Forum del Valdai Club, Putin ha espresso apprezzamento per la…
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Trump e Putin: Prima telefonata sul conflitto Ucraino: "Invito a evitare nuove escalation". Recentemente, il presidente eletto degli Stati Uniti, Donald Trump, ha avuto un colloquio telefonico con il presidente russo Vladimir Putin per discutere della guerra in Ucraina. Questo contatto diretto, avvenuto senza la mediazione del Dipartimento di Stato, rappresenta un passo significativo nei rapporti tra i due leader dopo le elezioni americane del 5 novembre.... 🔴 Leggi articolo completo su La Milano ➡️ Read the full article
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China is building a more secure world where understanding and cooperation replace brutality and impositions of the empire
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⚠️ C'È CHI IMPONE SANZIONI E BOMBARDA, E CHI PUNTA SU COOPERAZIONE, PACE E STABILITÀ ⚠️
🤔 La differenza tra gli Stati Uniti e la Cina in Medio Oriente? Eccola qui, riassunta nell'immagine 🖼
🇺🇸 Nel mentre gli USA, sia che governi il Partito Democratico o che governi il Partito Repubblicano, portano guerre, bombardamenti, minacce di "NATO Araba" (Trump) e minacce all'Arabia Saudita qualora dovesse continuare ad avvicinarsi a Russia e Cina (Biden), la Repubblica Popolare Cinese lavora per la Pace, attraverso la Mediazione e la Diplomazia 🕊
🇺🇸 Nel mentre gli USA provocano rivoluzioni colorate in Medio Oriente, ad esempio nella Repubblica Islamica dell'Iran, la Repubblica Popolare Cinese lavora per garantire Sicurezza e Stabilità nella Regione, interfacciandosi sia con tutti i Paesi Medio-Orientali che con le Organizzazioni Regionali, come il Consiglio di Cooperazione del Golfo 🇨🇳
🇺🇸 Nel mentre gli USA impongono sanzioni unilaterali all'Iran e minacciano di sanzioni coloro che non si allineano all'imperialismo statunitense, la Repubblica Popolare Cinese punta alla Cooperazione, e ha firmato diversi accordi di Cooperazione con l'Iran, l'Arabia Saudita, l'Iraq e altri Paesi della Regione 🇨🇳
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⚠️ THERE ARE THOSE WHO IMPOSE SANCTIONS AND BOMBS, AND THOSE WHO POINT TO COOPERATION, PEACE AND STABILITY ⚠️
🤔 The difference between the US and China in the Middle East? Here it is, summed up in the picture 🖼
🇺🇸 Meanwhile the USA, whether it governs the Democratic Party or whether it governs the Republican Party, brings wars, bombings, threats of "Arab NATO" (Trump) and threats to Saudi Arabia should it continue to get closer to Russia and China ( Biden), the People's Republic of China works for Peace, through Mediation and Diplomacy 🕊
🇺🇸 While the USA is causing color revolutions in the Middle East, for example in the Islamic Republic of Iran, the People's Republic of China works to guarantee Security and Stability in the Region, interfacing both with all Middle Eastern Countries and with Regional Organizations, like the Gulf Cooperation Council 🇨🇳
🇺🇸 While the US imposes unilateral sanctions on Iran and threatens with sanctions those who do not align with US imperialism, the People's Republic of China aims at Cooperation, and has signed several Cooperation agreements with Iran, Saudi Arabia , Iraq and other countries of the Region 🇨🇳
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I migranti haitiani verranno deportati a Guantanamo Usare Guantanamo per la detenzione di oltre 14.000 migranti arrivati a Del Rio. Questa la decisione presa dal governo Biden (...) È LA RISPOSTA politica degli Stati uniti alle polemiche suscitate dalle immagini della polizia di frontiera a cavallo che frusta i migranti. (...) «È MOLTO PREOCCUPANTE che l’amministrazione possa prendere in considerazione l’utilizzo di Guantanamo per detenere richiedenti asilo, poco importa se haitiani o di altri paesi», ha detto a Nbc News Wendy Young, presidente del gruppo di difesa degli immigrati Kids in Need of Defense. E con le dimissioni di Daniel Foote, inviato speciale degli Stati uniti ad Haiti, la crisi al confine sembra destinata ad aggravarsi ulteriormente. In una lettera destinata al Presidente, e inviata anche ai quotidiani, il funzionario dichiara di non volere essere associato alla scelta, definita «disumana» e «controproducente», di deportare migliaia di rifugiati nel loro paese d’origine, vista anche la situazione interna all’isola. Dopo l’arrivo di migliaia di caraibici a Tapachula (ribattezzata da attivisti e migranti «città prigione»), nel sud del Messico, a causa del caos esploso ad Haiti con l’omicidio del presidente Moise (lo scorso 7 luglio ), il terremoto e gli uragani Eta e Lota, si è assistito ad una nuova trasformazione dei flussi migratori. Se infatti le carovane migranti avevano sostituito le partenze in solitaria, ora la repressione delle carovane ha portato uomini e donne ad organizzarsi in piccoli gruppi autonomi cambiando anche traiettoria di viaggio ... Senza il clamore della partenza collettiva, i riflettori della stampa, del dibattito politico, la mediazione dei “leader” di carovana, ma con la tutela del gruppo agile, compatto e piccolo, sono riusciti a superare i blocchi di polizia migratoria e Guardia Nazionale in Messico e arrivare a Del Rio A TAPACHULA, ormai divenuto il luogo centrale del confinamento dei migranti nel viaggio verso gli Usa, nell’ultima settimana si sono riversati nelle strade circa 800 migranti haitiani al giorno, mentre almeno 12.000 sono quelli che si sono messi in viaggio. Nella piccola città chiapaneca si contano non meno di 125.000 migranti intrappolati dalla repressione poliziesca a fronte di una popolazione locale di poco meno di 200.000 persone. Il rapporto tra Haiti e Stati uniti, in merito alle migrazioni, è certamente particolare e per capirlo occorre guardare indietro, per lo meno al primo governo Obama. Nel 2010, dopo un grave terremoto, il governo statunitense concesse ai cittadini haitiani, per diversi anni, la protezione temporanea e ciò spinse migliaia di persone a partire in cerca di fortuna. Tuttavia, nel 2016 le politiche “obamiane” si indurirono e l’ingresso negli Usa divenne più complesso. Con l’arrivo di Trump migliaia di uomini e donne di Haiti hanno dovuto fermarsi in Messico e costruire delle vere e proprie comunità, come quella di Tijuana che conta alcune migliaia di persone. I flussi migratori dalle isole caraibiche, così come dai paesi a sud del Rio Bravo, non sono certo novità così come non lo è la violenze scomposta con cui i governi Usa rispondono a chi scappa dalle macerie sociali, economiche e ambientali imposte dal neoliberismo e dalle politiche statunitensi. Andrea Cegna (Il Manifesto)
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Cinque domande al cuore della tempesta. Parte 2: Black Anarchy in the USA. Intervista ad @AfroVitalist
1. Negli Stati Uniti è stato calcolato che la polizia uccide una persona nera ogni 28 ore, un dato drammatico. Come mai ora, come mai questa volta, l'assassinio di George Floyd ha innescato un processo insurrezionale?
La sollevazione di massa in relazione all'assassinio di George Floyd ha determinato un processo insurrezionale. Ma ad essere onesti penso che il Covid abbia fornito un contesto nel quale le motivazioni per agire erano già presenti.
Negli Stati Uniti fino ad aprile, anzi direi prima del Covid, eravamo in una specie di periodo buio. Gentrificazione di massa, la classe lavoratrice nera cacciata via dalle città, spinta fuori, verso le periferie o come le chiamiamo qui le hinterland. Credo che il contesto dell'insurrezione di George Floyd e tutto il processo abbiano devastato certe legittimazioni, come quella del Partito Democratico, o come quella del mito della Black leadership in America. Siamo su un terreno libero. Ma è veramente il Covid che ha fornito il contesto per la ribellione di George Floyd, per la sua diffusione in tutti gli Stati Uniti. Ma se torniamo indietro e la osserviamo come una continuità con Ferguson, vediamo che la risposta dei fratelli e delle sorelle fu piuttosto simile: i modi in cui si sollevarono, diedero vita spazi comuni, come la gente si coordinava, come venivano usate le auto... Sono le stesse cose che vediamo oggi ad Atlanta e a Chicago, fino agli espropri di massa.
Non credo che ciò sia venuto dal nulla, credo che la ribellione era già qui: questa società bianca negli USA è veramente repressiva.
C'è una sofferenza generalizzata causata dal Covid, non solo nella comunità nera ma per tutti, in tutto il mondo, e per quanto riguarda gli USA ha colpito davvero tutti: neri, bianchi, ricchi e poveri. Una spoliazione generale, un divenire nera (blackening) dell'America.
2. Parliamo delle manovre repressive. Sembra che la controinsurrezione abbia lavorato sulla narrazione degli “anarchici bianchi” e dei “provocatori venuti da fuori” e messo in atto teatrini quali i poliziotti che si inginocchiavano, attori pagati vestiti da Black Panther, ecc. Quale di queste tecniche ha funzionato maggiormente e quale ha fallito?
Per quanto riguarda la controinsurrezione credo che la tecnica più forte usata, a parte fisicamente il dispiegamento delle truppe, sia stata quella di agitare il fantoccio dei “provocatori venuti da fuori”. Si tratta della narrazione più efficace per lo stato, motherfuckers che vengono da chissà dove per fare casino, senza il “permesso della comunità”, ossia di quelli che si sono autoproclamati leader della piazza. Ma stiamo vivendo una nuova era, un tempo nuovo, questo è il tempo della black anarchy. Nessuno può controllare questa cosa, non c'è alcuna leadership nera. La leadership nera è un mito controinsurrezionale, sta solo nell'immaginazione dei liberal bianchi.
In alcune città ha funzionato in altre no, in alcune il livello della controinsurrezione coincideva essenzialmente con una ipermilitarizzazione del territorio e basta.
Se qualcuno prova a mettersi nella posizione di portavoce o leader del movimento, in quell'esatto momento viene delegittimato nella pratica, nel contesto della rivolta. Perché la rivolta non vede leader, non patrocina personalismi o individualità di sorta. Si tratta letteralmente di un'onda, un'onda nera, di rabbia e amore. I motherfuckers espropriano e cercano di capire come organizzare un mondo diverso. Perché hanno molto più tempo a disposizione adesso. Il sussidio di disoccupazione dovrebbe terminare il mese prossimo ma la gente ha ricevuto più di quello che avrebbe guadagnato con un lavoro. Queste contraddizioni sono difficili da sanare: puoi stare a casa e prendere 600 dollari a settimana, a fronte dei 400 che guadagneresti con un lavoro di merda che odi ed è sottopagato. Gli standard sono cambiati. Questa cosa va contestualizzata perché pare che Trump stia cercando di comprarsele queste elezioni.
3. Decolonizzare gli Stati Uniti. Le statue cadono. Un Paese fondato sulla guerra civile, sul genocidio e sulla schiavitù sta tremando. Nelle strade riecheggia il coro: “five hundread years” [cinquecento anni]. Questo discorso è diffuso ampiamente nella comunità nera e fuori di essa?
A un qualche livello, forse non allo stesso per tutti... Bisogna considerare che sul campo, nei primi giorni e nelle prime notti, diciamo dal 30 maggio al 5 giugno, i motherfuckers a migliaia espropriavano e non c'erano attivisti.
Da un punto di vista storico è chiaro che l'America è stata fondata sulla schiavitù e la polizia è direttamente connessa alle pattuglie schiaviste e alla colonizzazione da parte dei capitalisti europei, ai conquistadores. Tutto ciò è nella coscienza e nella memoria degli afrodiscendenti nelle strade. L'America non è una nazione, è un impero. Ed è giusto che i motherfuckers buttino tutto giù, simbolicamente il gesto di buttare giù una statua, un monumento razzista, è un modo con cui dicono: “L'America è la prossima”. Il sistema carcerario è un monumento: Mount Rushmore, o Stone Mountain ad Atlanta, Georgia [un monadnock, un rilievo montagnoso isolato, di adamellite di quarzo con il bassorilievo più grande del mondo situato sulla facciata nord, completato nel 1972, che rappresenta alcuni dei personaggi di spicco dei Confederati: Stonewall Jackson, Robert E. Lee e Jefferson Davis]. L'idolatria dell'America è il suprematismo bianco. La decolonizzazione dell'America sarà l'abolizione dei “bianchi”, delle relazioni sociali capitaliste. Penso che ad un certo livello questi discorsi, l'America come colonia, come impero, buttare giù le statue razziste, siano diffusi nella comunità nera.
4. Definanziare la polizia. Vedi in atto una nuova ondata di abolizionismo? Possiamo dire: “non si può abolire la polizia senza abolire il capitalismo” non solo come slogan ma anche come indicazione?
Abolizionismo come desiderio, un tentativo di desiderare di abolire lo stato di cose presente negli Stati Uniti. Alcuni vedono il de-finanziamento della polizia come un processo molto pacifico nei confronti delle guardie, togliere loro i soldi per le operazioni di controinsurrezione nella comunità nera volte a reprimere la rivolta. Un convergenza di vari gruppi, in cui i discendenti razzializzati si uniscano ad altri gruppi di persone per creare un mondo nuovo, per stabilire un nuovo tipo di ordine, ritmo e forma di vita.
Credo però che il definanziamento della polizia non possa accadere senza la demolizione del mantenimento dell'ordine pubblico (policing) in generale: ma credo che per cominciare il definianziamento sia una buona cosa, perché buca lo schermo immediatamente. L'abolizione cambia le carte in tavola, alcune amministrazioni cittadine hanno effettivamente tagliato i fondi. Cosa succederà dopo ciò? Questo è tutto da vedere, non credo che potrà andare peggio, per esempio sul terreno della sorveglianza... ma la polizia è in rivolta, stanno protestando, alcuni di loro hanno fatto delle dichiarazioni. La polizia in America è una forza politica a sé, con i suoi sindacati. Sarà una sfida togliere i soldi ai dipartimenti di polizia, non sarà abbastanza, non senza un movimento che la circondi.
L'abolizione del mantenimento dell'ordine pubblico, la sua demolizione, le relazioni sociali senza la mediazione degli sbirri, come succede altrove fuori dagli Stati Uniti... Penso che ci sia effettivamente un terreno fertile per l'abolizione, per il desiderio di un nuovo mondo. Questo non ha niente a che fare con la sinistra istituzionale o con l'attivismo: è un “tiriamo giù tutto” (let's tear the shit down) generale.
5. Prospettive. Un'insurrezione può durare settimane o mesi, può finire a causa della repressione, della stanchezza, della mancanza di obiettivi pratici o con delle elezioni. Cosa vedi all'orizzonte? Cos'è irreversibile?
L'economia continua a vacillare. Nel contesto del Covid e del cambiamento climatico, l'America è finita. Quella che chiamiamo America da un punto di vista territoriale subirà un processo di balcanizzazione. All'orizzonte vedo queste milizie bianche attive nella West Coast che cercano di guadagnare terreno e di prendere possesso di riserve o territori sotto tutela dello stato... Speriamo non proprio una guerra civile – ciò dipenderà anche da come andranno le elezioni e da cosa farà Donald Trump – ma senz'altro questo è solo l'inizio di una tempesta. Ciò che verrà dopo sarà addirittura più folle di quello che abbiamo visto. Perché non c'è modo in cui queste contraddizioni possano sostenersi tutte insieme. La ricerca di profitto, di ordine e di “benessere” è a discapito della vita umana, del benessere umano, della pienezza umana.
La gente ha provato con mano la propria potenza, il fatto che il denaro è un mito e che “i bianchi” sono dei demoni; e la delegittimazione del processo elettorale. Che Trump vinca o meno il Partito Democratico non ha alcuna risposta alla crisi. I giovani non cercano leadership in nessuno se non in loro stessi. Non la cercano nella Black Left o in chiunque arrivi in piazza con un cazzo di megafono.
Questo è quello che riesco a vedere all'orizzonte: la balcanizzazione dell'America, diversi gruppi e fazioni che controlleranno diversi territori. E probabilmente una sorta di secessione.
https://twitter.com/AfroVitalist?s=20
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A forza di essere pompato (dal Fatto e da Repubblica) in funzione anti Salvini, Giuseppe Conte a un certo punto si deve essere convinto di poter davvero diventare uno statista di livello internazionale. (...) si è quindi dato da fare per risolvere il garbuglio libico (..) ha mosso i nostri servizi segreti per organizzare incontri bilaterali con i protagonisti della guerra. (...)Il premier già si vedeva nei panni di Bill Clinton, quando alla Casa Bianca accolse Yasser Arafat e Shimon Peres, facendo siglare al capo palestinese e quello israeliano un accordo di pace. (...). Peccato che, appena saputa la notizia del bilaterale fra Haftar e Conte, (...) Al Serraj (...) si è sentito imbrogliato e ha disdetto l' incontro. Insomma, quella che doveva essere la grande opera di mediazione del nostro presidente del Consiglio, che consentisse all' Italia di riprendere in pugno la situazione libica e di proporsi come interlocutore unico fra le forze in campo, si è rivelata una disfatta. Anzi, un rovescio diplomatico. Già, perché fino a ieri il nostro Paese sosteneva il governo legittimamente riconosciuto dall' Onu, ossia Al Serraj. (...) Ora il capolavoro di Conte ha ribaltato i ruoli (...). Quello che doveva rivelarsi un colpo da maestro, in grado di assicurare al capo del governo un prestigio internazionale, si è rivelato un colpo da ko per le ambizioni di Conte. Da presidente mediatore a presidente mediano.
Dilettanti allo sbaraglio.
Narcisisti pressapochisti, come si (auto-)definisce un sinistro qualunque sul Tumblr (diceva di Trump ma senza saperlo descriveva la sua parte).
Bravo Belpietro su LaVerità, via https://www.dagospia.com/rubrica-3/politica/conte-mezza-sega-forza-essere-pompato-ldquo-fatto-rdquo-223658.htm
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No presidente Mattarella, davvero no. Io sono fra quelli che hanno sempre avuto per lei massima stima, ma credo che questa volta lei sia davvero in errore.Dare legittimità a Guaidò è contro ogni regola democratica, significa opporsi alla posizione assunta dalle Nazioni unite che, con tutte le sue debolezze, è però tutt’ora una delle poche istituzioni che ci garantiscono il rispetto, almeno formale, di qualche diritto internazionale.Significa rifiutare la ragionevole proposta di dialogo avanzata da papa Francesco che è uno che l’America latina la conosce molto bene.Temo ci sia, sul Venezuela e la sua crisi, una grande disinformazione.Bisognerebbe forse ricordare che quelli che oggi sostengono questo signore autoproclamatosi presidente (fra cui la notoriamente pessima rappresentanza della comunità italiana) sono stati coloro che un golpe l’hanno fatto nel 2002 contro il presidente democraticamente eletto del Venezuela, Hugo Chavez. Lo arrestarono, addirittura, e c’è un bel documentario trasmesso allora dalla Bbc, che consiglierei di proiettare al Parlamento europeo a Bruxelles, in cui si vedevano i golpisti su un palchetto, un insieme che sembrava tratto dal famoso affresco di Diego Rivera nel Palazzo del governo di Città del Messico: l’oligarchia del paese, le signore in cappellino, il vescovo, gli alti gradi dell’esercito, l’ambasciatore americano, a sigillare un’altra delle consuete operazioni «nel cortile di casa» (guarda caso, affidata in questo caso proprio allo stesso uomo cui adesso è stato rinnovato l’incarico da Trump, Abrams.). In strada una immensa folla scesa dalle poverissime favelas di Caracas a difesa del loro presidente, il primo in questo disgraziato paese che avesse collocato al primo posto del suo programma la lotta alla miseria. E che così riuscirono a liberarlo. Mentre tutte le emittenti tv del paese, da sempre in mano ai golpisti, proiettavano, per occultare l’accaduto, Tom e Jerry. Già allora l’ambasciatore spagnolo, per conto dell’Ue, si era precipitato a riconoscerli.Da allora tutte le elezioni del Venezuela sono state monitorate da commissioni internazionali, ma sui muri dei quartieri eleganti della capitale, ho avuto modo di vedere coi miei occhi le scritte insultanti contro un ex presidente degli Stati Uniti che aveva diretto una di queste missioni per conto dell’Onu e le aveva giudicate corrette: «Carter uguale Chavez, e, peggio, «Carter Kgb».LO SCONTRO di classe in America latina è asprissimo, la sfacciataggine con cui le sue élites operano dipende dalla secolare convinzione che esse nutrono di essere padrone del continente, per discendenza imperiale. Esser stati sfidati da un povero indio, figlio di maestri elementari dell’estrema Amazonia, che ha osato bloccare la privatizzazione della Pdvsa, l’azienda petrolifera, avviare la riforma agraria e distribuire i dividendi della più importante ricchezza del paese nelle favelas (dotate anche di emittenti radio gestite localmente) è stato considerato inammissibile.NESSUNO di chi oggi si schiera in favore di un decente dialogo fra le parti sottovaluta gli errori commessi da Maduro, un personaggio che non ha certo la statura di Chavez, purtroppo strappato alla vita ancora giovane da un maledetto cancro. Questo stesso giornale li aveva segnalati in dettaglio pubblicando un articolo (giugno 2017 ), scritto, l’indomani di una sua visita a Caracas, dal compianto Francois Houtar, lo straordinario sacerdote belga purtroppo ora defunto che da anni viveva in Amerca latina. Il quale, pur denunciando con forza le illegalità della opposizione e la sua violenza, rimproverava giustamente il presidente di aver sottovalutato il rischio di varare una nuova Costituzione, pur legittimata da un regolare voto popolare, e però senza la partecipazione dell’opposizione che aveva boicottato il voto astenendosi; la marginalizzazione dei critici della stessa propria parte; di rivolgersi solo ai propri sostenitori come un agitatore anziché parlare a tutto il paese, come è d’obbligo per un presidente, che deve cercare di interpretare le ragioni dei suoi pur ristretti ceti intermedi. E, soprattutto, di aver redistribuito la ricchezza petrolifera (l’80% della valuta straniera che entra nel paese) ma di non aver saputo impostare un diverso modello di sviluppo economico, meno dipendente dalle fluttuanti sorti dei barili di oro nero. Ma questo è, purtroppo, un problema generale di tutti i governi di sinistra che hanno tentato in questi anni di operare una svolta in America latina. Perché uscire dalle rigide regole imposte dai potenti al sistema mondo è difficilissimo.PROPRIO Chavez ci aveva provato avviando l’Alleanza bolivariana, il tentativo di unire i paesi che stavano cercando di spezzare le catene – l’Argentina di Kirschner, la Bolivia di Morales, l’Uruguay di Vasquez, il Brasile di Lula – per acquisire la forza necessaria a resistere. Purtroppo il sistema oppressivo si è dimostrato più forte, e quei governi di sinistra sono caduti uno a uno. Salvo in Bolivia e nell’Uruguay, dove non a caso si tiene la riunione che tenta la via della mediazione nello scontro venezuelano, impegnando nel negoziato il suo leggendario ex presidente, Pepe Mujica, ex guerrigliero e anche il solo politico invitato dal papa all’ultimo raduno dei movimenti popolari, a Roma, nel 2016. Su questa vicenda la si può naturalmente pensare come si crede, ma sarebbe d’obbligo interrogarsi su quale sarebbe l’alternativa ove vincesse Guaidó. Sono davvero sicuri i parlamentari europei che, da Bruxelles, l’hanno nominato presidente del Venezuela, che nelle favelas si vivrebbe meglio se a vincere fosse lui? Basta andare addietro nella storia per sapere cosa è stato fatto, in passato, dai governi venezuelani. Persino quelli pur ipermoderati che avevano cercato di avviare qualche misura popolare sono stati travolti; oggi i partiti che li avevano incarnati sono stati spazzati via: non sono loro dietro all’opposizione attuale.CERTO CHE c’è miseria oggi in Venezuela e che per questo parte della popolazione anche povera protesta (ma non sarebbe male se la tv italiana mostrasse anche le immagini di coloro, tutt’ora tantissimi, che manifestano a Caracas in favore di Maduro ). All’origine della crisi drammatica del paese ci sono infatti certamente gli errori di Maduro,la rozzezza della sua leadership, e anche la corruzione di troppi funzionari statali, ma il primo responsabile della crisi è proprio il boicottaggio internazionale.HO LETTO poco fa un tweet di infervorato sostegno a chi ha adottato verso il Venezuela la posizione di Trump : di Matteo Renzi. È la posizione ufficiale del Pd? Davvero non avrei mai pensato che arrivasse ad opporsi all’attuale governo da posizioni di destra .
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Un nuovo accordo sul nucleare con l'Iran sempre più vicino
Un nuovo accordo sul nucleare con l’Iran sempre più vicino
Teheran ha mandato la risposta alla bozza finale di mediazione proposta dall’Ue, ma ci sono ancora alcuni ostacoli da… Crescono le speranze di raggiungere un nuovo accordo sul nucleare con l’Iran, un accordo che possano porre fine alla situazione di tensione che va avanti da quando nel 2018 l��allora presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, si ritirò… Read MoreAttualità, MondoToday
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Ognuno tira l'acqua al suo mulino.
Arabia saudita e alleati rompono col Qatar troppo amico dell'Iran
Gli Usa accendono la miccia e dopo mediano. Putin e Erdogan col Qatar
La coalizione imperialista a guida Usa intensificava gli attacchi in Siria e Iraq su Raqqa e Mosul con l'obiettivo di chiudere in breve tempo il capitolo dell'esistenza dello Stato islamico, l'Arabia Saudita che non partecipa direttamente alle due azioni militari ne apriva un altro annunciando il 5 giugno la rottura dei rapporti diplomatici e la chiusura di spazio aereo e frontiere terrestri con il Qatar; l'emirato della penisola del Golfo Persico finiva così isolato perché accusato di finanziare il terrorismo e di essere troppo amico dell'Iran. All'isolamento del Qatar lanciato da Riad partecipavano in prima battuta gli Emirati Arabi Uniti (EAU), l'Egitto e il Bahrein, cui si aggiungevano le Maldive, il governo libico di Tobruk (quello non riconosciuto dall'Onu e sostenuto dall'Egitto) e quello dello Yemen tenuto in piedi dall'aggressione militare della coalizione a guida saudita. Si tratta della crisi più grave dal 1981, dall'istituzione in funzione anti-iraniana del Consiglio di cooperazione del Golfo, di cui fanno parte l'Arabia saudita, il Bahrein, gli Emirati arabi uniti, il Kuwait, l'Oman e il Qatar.
Il 9 giugno Arabia Saudita, Bahrain, Egitto ed Emirati Arabi Uniti pubblicavano un elenco di 59 personalità e 14 organizzazioni ospitate dal Qatar e accusate di appoggiare e finanziare il terrorismo, ovvero Hamas, gruppi legati ad Al-Qaeda e l’IS. Arabia Saudita e Emirati rilanciavano con la pubblicazione di una lista di condizioni cui il Qatar avrebbe dovuto accettare per la riapertura dei rapporti diplomatici; fra queste la chiusura definitiva dell’emittente televisiva al-Jazeera e di una serie di organi di stampa e siti finanziati dal Qatar, l'espulsione di tutti gli attivisti dei Fratelli musulmani e di Hamas dal paese con la chiusura delle loro sedi e il congelamento dei loro conti bancari, il blocco delle attività di molte “associazioni caritatevoli islamiche” attive nel Qatar e da tempo criticate anche dal Dipartimento di Stato Usa per i doni di “natura sospetta” in paesi martoriati da guerre civili e dai venti della cosiddetta “Primavera araba”.
La lista dei paesi che immediatamente appoggiavano l'embargo e l'elenco delle richieste al Qatar già indicano quale sia la linea di rottura tra Riad e Doha. Che non è di ora ma è nata diversi anni fa quando l'Arabia Saudita sembrava messa in secondo piano nella lotta per l'egemonia regionale; l'imperialismo americano sotto la gestione Obama cambiava atteggiamento verso l'Iran fino all'intesa sul nucleare, attaccata da Riad come da Tel Aviv, e si inseriva nella corrente a favore delle “rivoluzioni arabe” del 2011 che rovesciavano i vecchi regimi, sotto gli occhi delle telecamere della rete televisiva Al Jazeera che amplificava le loro azioni. Qatar e Turchia erano in campo con aiuti in Egitto, a sostegno del governo dei Fratelli musulmani e del presidente Morsi, in Libia, in appoggio del governo islamico di Tripoli che ha dovuto cedere il passo a quello di Serraj appoggiato dall'Onu; in Siria precedevano l'intervento dei paesi imperialisti con il sostegno a gruppi dell'opposizione a Assad. Appoggiavano il Movimento di Resistenza Islamica (Hamas) e la resistenza palestinese ospitando a Doha il leader in esilio Khaled Mashaal, sostituito lo scorso 6 maggio da Ismail Haniyeh di Gaza. La difesa dell'ordine “costituito” era invece il dogma di Riad con re Saud che inviava i carri armati a reprimere le proteste della maggioranza sciita in Bahrein, finanziava il golpe di al Sisi in Egitto che ripristinava la dittatura di Mumarak e proteggeva le milizie libiche del governo di Tobruk che stanno allargando il loro controllo nella Libia orientale. Nel caso del Baherein l'intervento era scattato nel nome dello scontro tra sciiti “sobillati” dall'Iran e sunniti, come successivamente nello Yemen, negli altri sembrerebbe una contraddizione interna al mondo sunnita tra gli interpreti della versione ultra-tradizionalista che segue i dettami di al-Wahhab, leader religioso musulmano del 18mo secolo, dal quale rivendicano una parentela diretta gli al-Thani, l’attuale famiglia regnante in Qatar. Altro elemento di scontro è la direzione della grande moschea di Doha, aperta nel 2011 e diretta dall'imam Yusuf Al Qaradawi, uno dei leader dei Fratelli musulmani, l'organizzazione religiosa messa al bando in Arabia Saudita e Emirati. Ma le ragioni del braccio di ferro non sono religiose, se non in linea secondaria, sono sostanzialmente politiche e economiche con in gioco l'egemonia del mondo arabo, musulmano e del Medio Oriente. La famiglia al Thani ha la colpa di non accettare la guida di Riad, di giocare per conto proprio nelle varie crisi regionali in cordata assieme alla Turchia del fascista Erdogan e di mantenere rapporti politici e economici con l'Iran, la potenza locale avversaria diretta dei sauditi.
Il Qatar è interessato a mantenere relazioni cordiali con l’Iran anche per poter sfruttate il comune giacimento di gas naturale North Dome-South Pars che si trova fra i due paesi, nelle acque del Golfo Persico.
Già nel 2014 Arabia Saudita, Emirati arabi e Bahrein avevano attaccato il Qatar che appoggiava il governo del presidente Morsi e dei Fratelli musulmani in Egitto e arrivarono il 5 marzo fino al ritiro degli ambasciatori da Doha. Altre scaramucce precedenti, fra il 2002 e il 2007, avevano visto Riad ritirare provvisoriamente il suo ambasciatore dall'emirato a causa delle dichiarazioni di alcuni dissidenti sauditi trasmesse da Al-Jazeera.
Lo scontro del 2014 fu sospeso con l'emersione dell'IS, la cui distruzione divenne elemento di unità fra paesi imperialisti e arabi. Il “nemico comune” IS sembra prossimo a perdere le basi in Siria e Iraq, anche se lo scontro coi paesi imperialisti cambierà forma ma resterà lo stesso aperto come dimostrano gli ultimi attacchi terroristici in Europa e financo per la prima volta in Iran, lo scorso 7 giugno con l'assalto al parlamento di Teheran e al mausoleo di Khomeini. Riad non ha atteso la chiusura della guerra in Siria e Iraq con l'IS e ha riavvolto il nastro della storia ripartendo da tre anni fa. Dallo scontro con Doha, anteprima di quello ben più sostanziale e pericoloso con l'Iran.
Il Qatar respingeva le accuse affermando che “non vi è alcuna prova che il governo del Qatar sostenga il fondamentalismo islamico” e rilanciava l’obiettivo della cooperazione regionale nel Golfo accettando l'intervento di mediazione del Kuwait. Il Kuwait è l'unica monarchia del Golfo ad aver istituzionalizzato la presenza dei Fratelli musulmani. Doha ritirava le sue truppe che combattevano al fianco dei sauditi al confine con lo Yemen e le dispiegava al confine tra Qatar e Arabia Saudita.
A fianco del Qatar si schierava la Turchia. Erdogan l'8 giugno firmava due decreti per il dispiegamento di truppe turche in una base vicino Doha di un contingente di 5 mila uomini che potrebbe salire a 15 mila e per l'addestramento delle unità della gendarmeria dell'emirato. Le operazioni erano previste dall'accordo stipulato tra Ankara e Doha nello scorso aprile per il dispiegamento delle truppe turche nell'emirato con l'obiettivo di rafforzare la cooperazione militare ma che sia reso operativo in questo momento ha un peso politico e militare non indifferente. Un segnale verso Riad a non forzare la mano.
L'Iran rispondeva alle accuse rilanciate da Trump e da Riad col ministero degli Esteri di Teheran che il 6 giugno rinviava al mittente le accuse di “terrorismo” sottolineando che la Repubblica islamica iraniana sostiene “la lotta legittima di nazioni che vivono in condizioni di occupazione, […] questo non può essere un esempio di terrorismo”, e ribadiva che l'appoggio di Washington a Israele e all'occupazione della Palestina fanno degli Stati Uniti “il più grande sponsor del terrorismo di Stato”.
Turchia e Iran aprivano un ponte aereo per rifornire l'isolata Doha di cibo fresco e l'agenzia iraniana Tasnim rivelava il 12 giugno che sarebbero pronte tre navi a salpare alla volta del Qatar, con a bordo 350 tonnellate di cibo.
Donald Trump a Riad il 21 maggio aveva dato fuoco alle polveri; la Dichiarazione del vertice straordinario del Consiglio di cooperazione per gli Stati arabi del Golfo (GCC) e gli Stati Uniti d'America tenuto a Riad, sottolineava la volontà delle due parti di consolidare la partnership strategica sulla guerra al terrorismo, leggi Stato islamico, e in particolare nel mettere in pratica le misure per prosciugarne le fonti di finanziamento. Il secondo bersaglio indicato dai paesi arabi e dall'imperialismo americano era l'Iran accusato di “attività destabilizzanti” nella regione. D'altra parte lo stesso presidente americano Trump negli incontri di Riad, in coda ai suoi interventi centrati sulla guerra all'IS, ha diverse volte attaccato l'Iran che “dal Libano all’Iraq allo Yemen sostiene, arma e addestra terroristi, milizie e altri gruppi estremisti che diffondono distruzione e caos attraverso la regione”. “Fino a che il regime iraniano non vorrà essere partner di pace, tutte le nazioni con coscienza devono lavorare insieme per isolarlo”, affermava Trump rispondendo alle sollecitazioni del padrone di casa, il re Salman Bin Abdulaziz Al-Saud, che aveva definito l’Iran “la punta avanzata del terrorismo globale”.
Il presidente americano esultava non appena Riad mirava sul Qatar per sparare verso l'Iran. Trump e il segretario di Stato Rex Tillerson per alcuni giorni impersonavano il classico gioco delle due parti col presidente che sparava a zero su Doha e il ministro che smorzava i toni. Alla notizia della rottura delle relazioni Trump sosteneva che la decisione di Riad di isolare il Qatar “è l’inizio della fine dell’orrore del terrorismo” e si dichiarava felice di vedere che la sua visita ufficiale “sta ripagando”. In un secondo momento correggeva il tiro e invitava re Salman dell’Arabia Saudita a agire per l'unità fra le varie potenze del Golfo mentre il Dipartimento della Difesa statunitense emetteva una nota in cui ringraziava il Qatar per il “sostegno alla presenza militare” Usa sul proprio territorio, dalla sede del quartier generale di Stati Uniti CENTCOM alla Al Udeid Air Base, fra le più grandi basi nel mondo dell'aviazione americana. Ma il 9 giugno Trump tornava sull'argomento nella conferenza stampa dopo l'incontro a Washington col presidente romeno Klaus Iohannis e raccontava che “sono appena tornato da un viaggio storico in Europa e Medio Oriente, dove ho lavorato per rafforzare le nostre alleanze, forgiare nuove amicizie e unire tutti i popoli civilizzati nella lotta contro il terrorismo. (…). Ho affrontato un vertice di più di 50 leader arabi e musulmani dove i principali attori della regione hanno accettato di smettere di sostenere il terrorismo, siano essi finanziari, militari o addirittura morali. La nazione del Qatar, purtroppo, è stata storicamente un finanziatore del terrorismo ad un livello molto elevato e, alla luce di quella conferenza, le nazioni si sono riunite e mi hanno parlato di affrontare il Qatar per il suo comportamento. Così abbiamo deciso di fare una azione dura ma necessaria, perché dobbiamo fermare il finanziamento del terrorismo. Ho deciso, insieme con il Segretario di Stato Rex Tillerson e i nostri vertici militari, che è arrivato il momento di invitare il Qatar a porre fine ai suoi finanziamenti al terrorismo”.
La politica di Riad trovava il sostegno dei sionisti di Tel Aviv che ritengono possa indebolire la resistenza palestinese. La Russia di Putin puntava al dialogo tra le parti preoccupata di non aprire una nuova crisi con protagonsita il suo alleato iraniano quando ancora non tutti i giochi si sono sistemati in Siria e dintorni. Anche i paesi europei singolarmente e la Ue si tenevano fuori non seguendo l'Arabia Saudita negli embarghi a Doha. La Ue ha "buone relazioni con tutti i Paesi del Golfo e le manterrà", noi sosteniamo il lavoro di mediazione del Kuwait affermava la Mogherini il 10 giugno dopo l'incontro a Bruxelles col ministro degli esteri del Qatar.
Il premier iracheno Haider al-Abadi dichiarava che “non siamo interessati da queste controversie” ma “manteniamo buone relazioni con tutti i Paesi” della regione e aggiungeva che l’obiettivo del suo esecutivo è quello di rendere sicure le frontiere con la Siria in coordinamento con le forze fedeli al presidente siriano Bashar al-Assad, alleato di Teheran. Realizzando un collegamento diretto tra le forze della cosiddetta “mezzaluna sciita” dalla resistenza libanese di Hezbollah a Teheran. Un collegamento che accende il fuoco negli occhi dei regimi di Tel Aviv e Riad; coi sauditi che aprono lo scontro con Doha, col via libera degli Usa, in nome della guerra al terrorismo ma puntando all'Iran di Rohani, la diretta concorrente per l'egemonia locale dei paesi arabi reazionari e dei sionisti.
14 giugno 2017
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Questa sera alle 20.30 su www.contro.tv le news di TGSole24: AAA Offresi lavoro ai robot - Sarkozy finanziato da Gheddafi prima della distruzione della Libia - Quando i tagliagole vanno in gita - Washington e quell'embargo infinito all’Iran - Il monito della Cina: no chip, no terre rare - Trump apre un varco nella fortezza di Facebook e Twitter? - USA - Russia: rinviato l’accordo sul disarmo nucleare - Pechino alleggerisce il debito dei Paesi africani - Scandalosa mediazione tra Serbia e Kosovo - Bolivia: vince il partito di Morales
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Dopo questo non ho più parole, i cervelli in questo pianeta si stanno decomponendo......"Un riconoscimento per i tentativi di mediazione per la pace tra Israele e gli Emirati Arabi Uniti" cosi il deputato del Parlamento norvegese Christian Tybring-Gjedde ha motivato la sua scelta di candidare il presidente americano Donald Trump al Premio Nobel per la pace 2021.
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Siria: mentre Erdogan massacra i curdi, Ue e Trump stanno a guardare di Giulio Cavalli Il capolavoro fallimentare dell’Occidente nelle zone curde siriane continua a galoppare veloce: dopo essere stati abbandonati dalle truppe Usa (ieri Trump ha annunciato anche il ritiro dell’ultimo contingente per evitare che i suoi uomini rimangano stretti nella morsa dell’esercito turco che avanza) e dopo essere stati lasciati soli dalla macchinosa burocrazia europea, ora i curdi provano a tessere rapporti con il regime di Assad, con la mediazione della Russia di Putin, per provare a resistere alla carneficina che Erdogan continua a rovesciare con attacchi via cielo e via terra. In pochi giorni si sta avverando lo scenario peggiore possibile, con un migliaio di guerriglieri dell’Isis fuggiti dal campo di Ain Issa, non lontano da Kobane, dove erano stati rinchiusi dal 2014 al 2019. C’è l’agguato che ha ucciso Hevrin Khalaf, la trentacinquenne leader del “Partito Siriano del Futuro” che professava la convivenza pacifica tra i diversi popoli della Siria. Ci sono i giornalisti bombardati e costretti a fuggir. Ci sono i civili che continuano a morire, ci sono centinaia di migliaia di persone in fuga per cercare di mettersi in salvo. La riabilitazione di Assad e di Putin è solo l’ultimo tassello di una serie di eventi che solo un inetto poteva non immaginare. Trump insiste nel minimizzare il conflitto come se fosse qualcosa che non possa interessare agli Usa, andando perfino a parare sulla guerra in Normandia mentre l’Europa si limita, per ora, a promettere segnali forti e sono parole che si sbriciolano con il vento di fronte a un massacro annunciato che non si ferma certamente di fronte ai rimproveri in carta bollata. Ciò che avviene nei territori curdi, del resto, pone anche il problema (evidente ben prima di questa sanguinoso attacco militare travestito come al solito da azione di pace) dell’appartenenza alla Nato di quella Turchia che è molto lontana da quello che è stata prima di Erdogan e che non ha i requisiti minimi di decenza democratica per potere essere considerata affidabile. In tutto questo (triste) scenario l’Italia non riesce nemmeno ad applicare la legge (185/1990) che permetterebbe un blocco immediato della vendita di armi alla Turchia. Il momento, però, ci dice qualcosa di chiaro: l’Occidente, sempre fin troppo pronto a esportare democrazia quando si tratta di vigilare su territori economicamente interessanti, abdica al proprio ruolo di paciere nel mondo (con Trump in prima linea) quando il massacro di persone sembra non intaccare gli equilibri finanziari. Lasciare mano libera a Erdogan e, solo dopo, dichiarare di volere “monitorare la situazione” è una delle bugie più grosse sentite in giro. E sta costando tantissimo.
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Tesi sulla ribellione di George Floyd
Di Shemon e Arturo da https://illwilleditions.com/theses-on-the-george-floyd-rebellion/
1. La rivolta di George Floyd è stata una ribellione multirazziale guidata dai neri. Essa non può essere categorizzata sociologicamente come una ribellione esclusivamente nera. Ribelli provenienti da gruppi di tutte le discendenze hanno combattuto la polizia, espropriato e bruciato proprietà. Inclusi nativi, ispanici, asiatici, e bianchi.
2. Questa sollevazione non è stata fatta da provocatori venuti da fuori. I dati dei primi arresti mostrano che si trattava di gente proveniente dalle zone limitrofe alla ribellione. Se c'era chi si era messo in viaggio dalle periferie, ciò non fa altro che rivelare la geografia scomposta della metropoli americana.
3. Sebbene vi abbiano partecipato molti attivisti ed organizzatori, questa ribellione non è stata organizzata dalla sinistra rivoluzionaria minoritaria e neanche dalle cosiddette ONG progressiste. È stata una ribellione informale ed organica, originata direttamente dall'esasperazione della classe lavoratrice nera nei confronti della società borghese e in particolare della polizia.
4. Lo stato di polizia non solo è stato colto alla sprovvista dalla portata e dall'intensità della ribellione, ma la società civile ha anche esitato e vacillato di fronte a questa rivolta popolare che si è diffusa in ogni angolo del paese e ha creato paura e scompiglio nella polizia.
5. La polizia ha mostrato molte debolezze durante la ribellione. Di fronte ad appena qualche centinaio di manifestanti, i dipartimenti sono stati facilmente sopraffatti e costretti a concentrare le loro forze in alcune zone nevralgiche. Appena la polizia arrivava in una zona di conflitto la gente si ritirava e si muoveva verso un altro posto per fare più danno. L'assetto di guerra tradizionale, con enfasi sulla superiorità di equipaggiamento e di tecnologie, ha fallito nel contrastare una serie di manovre flessibili, decentralizzate e rapide, focalizzate sulla distruzione di proprietà.
6. Dal 26 maggio al primo giugno c'è stata la fase militante della ribellione. Dopo il primo giugno la ribellione è stata non solo repressa militarmente, ma anche politicamente. Oltre alla repressione di polizia, militari e vigilantes, la sollevazione è stata attaccata da elementi della sinistra che hanno reagito ai riot condannandoli a causa dei provocatori venuti da fuori. In alcuni posti, i “buoni manifestanti” sono arrivati a bloccare i “cattivi manifestanti” e a consegnarli alla polizia.
7. Le ONG nere, compresa la fondazione Black Lives Matter, non hanno avuto alcuna relazione con la fase militante della ribellione. Queste organizzazioni, infatti, tendono a recitare un ruolo reazionario, spesso impedendo che riot, espropri ed attacchi alla polizia si diffondano. Le ONG nere sono state la punta di diamante delle forze che dividevano il movimento in buoni e cattivi manifestanti. La base sociale delle ONG nere non è il proletariato nero ma la classe media nera e, soprattutto segmenti della classe media bianca in via di radicalizzazione.
8. Questa ribellione ha riguardato la violenza razzista della polizia e l'ineguaglianza razziale, ma anche l'ineguaglianza di classe, il capitalismo, il COVID-19, Trump e altro ancora.
9. Questa ribellione apre una nuova fase nella storia dell'Isola Tartaruga [termine che designa Il Nord America nella cosmogonìa geografica dei nativi e in particolare dei Lenape, NdT] . Una nuova generazione ha fatto esperienza di un movimento potente e di fronte al perpetuarsi delle ineguaglianze e della crisi ha trovato improbabile starsene
seduti e accettare tutto ciò. La ribellione ha prodotto una nuova soggettività politica - il ribelle George Floyd - dando inizio a una serie di processi dagli esiti molteplici che saranno determinati dalla lotta di classe nel presente. Il proletariato americano è finalmente emerso ed è entrato nella storia.
10. Questa ribellione è la punta dell'iceberg della lotta alla pandemia. La ribellione mostra al mondo che la lotta rivoluzionaria può avvenire anche durante una pandemia. La pandemia peggiorerà solamente le condizioni di vita in tutto il mondo; come risultato possiamo aspettarci altre ribellioni in giro per il globo.
11. Ad oggi la ribellione di George Floyd è stata soppressa. In molti delle ONG e della classe media racimoleranno le briciole degli sforzi coraggiosi dei ribelli che hanno combattuto in quella settimana. Ma queste ribellioni torneranno. Sono parte della lotta di classe in corso negli Stati Uniti e a livello globale dall'ultima recessione mondiale (2008-2013). Ora l'economia mondiale è di nuovo in recessione.
12. Le attuali proteste diurne sono un prodotto contraddittorio della ribellione, caratterizzate da grandi folle, più classe media e più bianca. Questa composizione sicuramente aiuta a creare una atmosfera di tipo non violento e del “manifestante buono”, ma ciò è imprescindibile dai leader neri che sostengono questo tipo di politica. Allo stesso tempo, l'espansione delle proteste diurne consente una partecipazione più ampia, che è importante.
13. Gli scontri notturni hanno un limite nel senso che non trascinano larghi settori della società. Scontri, saccheggi, e attacchi alla polizia sono forme di azione di giovani e poveri. Molti lavoratori provano simpatia, ma stanno a casa. Questo mostra che gli scontri da soli non bastano.
14. Molte lotti importanti si sono mescolate con questo movimento, compresi i lavoratori dei trasporti che si sono rifiutati di collaborare con la polizia. Tuttavia, non è chiaro come questa ribellione si connette con le lotte che ribollono nei posti di lavori, con le lotte nelle carceri, e con le lotte per la casa che sono emerse nel contesto della pandemia. Qui sembra ci siano storiche e future connessioni da stabilire. In quale misura sono stati coinvolti negli scontri coloro che erano stati coinvolti nelle precedenti lotte nei posti di lavoro? E in quale misura i ruoterà torneranno al lavoro e sul lavoro continueranno la lotta?
15. I sindacati spesso considerano la polizia e le guardie penitenziarie come lavoratori bisognosi di protezione, invece di vederli come i mazzieri armati della borghesia che sono. A dispetto di una lunga storia di poliziotti repressori di scioperi, resta ancora molto da fare sul fronte del lavoro quando approccia alla questione dell’abolizione della polizia e del carcere. Senza lavoratori dei trasporti, lavoratori della logistica, lavoratori delle pulizia, lavoratori della sanità e altri, la lotta abolizionista è bloccata.
16. Considerando i bassi tassi di sindacalizzazione, molte lotte nei posti di lavoro saranno caotiche, esplosive, e senza mediazione dei sindacati o di qualsiasi altra organizzazione ufficiale. I sindacati cercheranno di stabilire un controllo su di esse e di cooptarle. Possono le lotte nei posti di lavoro corrispondere alle lotte nelle strade? Se sì, entreremo in una nuova fase di conflitto.
17. Nel tentativo di riconsolidare il suo potere e prevenire la rivoluzione, la borghesia corre a garantire riforme e concessioni. Alcuni poliziotti vengono licenziati e incriminati; i fondi di qualche dipartimento di polizia vengono tagliati; varie scuole e università cancellano i loro contratti con la polizia; diverse statute di razzisti sono rimosse; Trump firma un ordine esecutivo che stanzia maggiori risorse per la responsabilità penale della polizia; il Consiglio comunale di Minneapolis vota lo smantellamento del suo dipartimento di polizia. Questa sequenza segue un canovaccio comune nella storia capitalista - la classe dominante risponde alle crisi rivoluzionarie riorganizzandosi e ristrutturandosi in una forma che le garantisca di restare al potere.
18. Ciò che deve essere conseguito attraverso l’azione autonoma del proletariato, altri elementi della società cercano di agirlo con petizioni, leggi e cambiamenti nella polizia. Le riforme sono un obiettivo lodevole in un sistema capitalista razziale che dà in modo chiaro priorità alla polizia piuttosto che alla vita. Tuttavia, dobbiamo tenere a mente che la società borghese vuole mantenere questa ribellione più circoscritta possibile: perimetrandola solo su George Floyd, sulla diminuzione dei fondi della polizia e sulla redistribuzione delle risorse su altri settori sociali. Ma questa ribellione ha a che fare con molto di più. Ha a che fare con la profonda ingiustizia che un popolo percepisce e che nessun grado di riforma può estinguere.
19. L’abolizione comporta la distruzione materiale della gamma di infrastrutture costruite nell’era del capitalismo razziale. L’abolizione è avvenuta dal 26 maggio al primo giugno. Come conseguenza della rivolta dilagante, in una settimane è avvenuto molto di più in termini di discredito e limitazione della polizia che in tanti decenni di attivismo. Qui vediamo il potenziale dell’abolizione nel suo senso pieno, nell’apertura di un veloce momento di solidarietà tra differenti settori razzializzati del proletariato, nella genesi di una crisi nazionale, e nello spalancare la porta a un nuovo mondo, in un istante.
20. Non tutto quello che ha avuto luogo durante l’insurrezione ha rafforzato e liberato. Gli stessi problemi che esistevano prima hanno continuato ad esistere durante la ribellione - razzismo, transfobia, omofobia, competizione per procacciarsi risorse. Tutto questo non scompare improvvisamente in una ribellione. Il cruciale lavoro di costruzione di un mondo nuovo resta da fare.
21. Dobbiamo chiederci quale sia il significato ultimo di questa rivolta. Il tema è Black Lives Matter solo riguardo a coloro che sono razzializzati come neri o la lotta dei neri assume un contenuto più esteso?
22. I paragoni tra questa rivolta e il 1968 sono errati. Questa rivolta è differente su molti piani. Ci sono sindaci neri e dirigenti neri della polizia che governano in molte città. A ribellarsi è stato un proletariato multirazziale.
23. Può il proletariato nero guidare gli altri settori razzializzati del proletariato negli anni a venire’ Questa è una domanda vecchia di un secolo, con Du Bois, Haywood, James, Jones e Hampton che hanno tutti cercato di individuare differenti coalizioni con gli altri settori in questo paese e fuori nel tentativo di battere il capitalismo razziale e l’impero. Tutti loro sapevano che il proletariato nero può far esplodere una vasta ribellione, ma non può battere i suoi nemici da solo.
24. L’unificazione del proletariato in una lotta comune per eliminare il capitalismo è la sola speranza che ha l’umanità di salvare sé stessa e il pianeta. Il suo contropotere è fondato su tutte le persone che concorrono a combattere contro il razzismo, il patriarcato e tutto ciò che il capitalismo porta con sé.
25. Il desiderio di una solidarietà multirazziale è sempre pregno, come le storie del razzismo hanno mostrato. Lo sviluppo della solidarietà sarà teso difficile e dipenderà dalle circostanze oggettive e dalle scelte strategiche. Tra le maggiori preoccupazioni ci deve essere che di questa solidarietà non finisca per fare le spese la liberazione dei neri. Per prevenire ciò, ogni sforzo deve essere fatto per rispettare e sostenere l’autonomia della lotta rivoluzionaria dei neri.
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In politica estera Trump ha stracciato Obama La mediazione tra Israele ed Emirati Arabi cade a fagiolo per le presidenziali però è un successo diplomatico incontestabile.
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Gli americani, si sa, sono molto legati alla loro Costituzione. La Carta del 1789, firmata proprio da quel Washington che ha dato nome alla sede della Casa Bianca, trasuda delle parole che, nella mente della cultura statunitense, significano libertà e eguaglianza. Sarebbe dunque impensabile non adempiere a quell’articolo II della terza sessione in cui si richiede che «il Presidente dia al Congresso informazioni sullo stato dell’Unione». E Trump, da buon patriota, non è stato da meno. Il 30 gennaio – un martedì, come vuole la tradizione – nei suoi ottanta minuti di intervento il quarantacinquesimo Presidente degli Stati Uniti ha voluto dipingere quella che, a parer suo, è la fotografia del suo Paese, dagli affari di economia fino alla situazione geopolitica. Una sorta di bilancio degli Stati Uniti infiocchettato dai soliti speechwriter, che non hanno mancato di infarcire degli arcinoti avverbi e aggettivi come «big league», «massive», «tremendous» e «deadly» il discorso del tycoon. Ma, al di là dei commenti della stampa liberale e delle parole dello stesso Trump, ciò che è interessante è tutto il contorno in cui è stato pronunciato il discorso. È forse riflettendo su questo, cercando di dar conto della razionalità dei discorsi di Trump, che possiamo fare anche noi un bilancio a poco più di un anno dal suo insediamento. L’ultimo mese non è stato affatto facile per il Presidente. Preso dal turbine degli scandali, la stampa liberal-progressista di mezzo mondo e i Democratici hanno cercato in tutti i modi di far tremare il Governo Trump. In primo luogo, la continuazione del Russiagate, l’inchiesta lanciata dall’ex agente dell’intelligence inglese Steele il quale, temendo inizialmente che vi fossero pressioni politiche contro la candidatura di Trump nel 2016, ha passato tutti i dossier raccolti riguardanti i rapporti tra Trump e personalità russe all’FBI. Di qui si è dato tutto un gioco di pressioni, di insabbiamenti, di licenziamenti dei vertici dell’FBI, come l’ex capo James Comey, da parte dello stesso Trump. Sembra che le ultime inchieste stiano rivelando diversi contatti avuti tra i membri dell’entourage del tycoon e personaggi politici russi subito prima delle elezioni, da cui alcune interpretazioni farebbero procedere il tempestivo attacco hacker alla casella di posta elettronica di Hillary Clinton durante la campagna elettorale, uno dei cavalli di battaglia Repubblicani usati contro i Democratici. L’architettura che regge la dinamica del dibattito pubblico sul Russiagate è estremamente semplice: Trump sarebbe riuscito a guadagnarsi la presidenza grazie all’intervento della nemica storica degli americani, della Russia. Allontanandoci dalla guerra tra organi politici e esecutivi, che pure sta occupando gran parte del dibattito pubblico, l’altra scossa che le opposizioni hanno cercato di infliggere al multimilionario ha trovato fondamenta nel libro Fire and Fury del giornalista Michael Wolff. L’inchiesta, condotta in quasi un anno di frequentazione della Casa Bianca da parte del giornalista, ha raccolto le testimonianze di più di duecento persone coinvolte nel lavoro quotidiano dello staff del Presidente. L’immagine che ne esce è quella di un uomo anziano, bisbetico, presuntuoso, irascibile e piuttosto recalcitrante nei confronti delle mansioni da capo di Stato. Un assist ben lanciato agli opinionisti e commentatori dell’opposizione, i quali hanno immediatamente aperto un dibattito circa l’adeguatezza psicologico-culturale di Trump ad occupare la sua posizione. Il topos letterario impiegato è quello del «folle», del «crazy man» che non ha assolutamente alcuna idea sul futuro del Paese e che non è guidato da nient’altro che dal suo ego irrazionale e estraneo al buon senso. Una constatazione ulteriormente comprovata dall’aspro diverbio avuto con il suo ex Chief Strategist e responsabile della campagna elettorale, Steve Bannon, alias uno degli esponenti più di spicco dell’alt-right americana – una versione «del terzo millennio» dell’estrema destra suprematista, razzista e sessista. Nel libro di Wolff sono infatti riportate le frasi con le quali Bannon additava molti membri della famiglia Trump, tra cui il cognato Jared Kushner, accusato di non essere patriottico per aver intrattenuti rapporti sospetti con i russi nell’ormai famoso periodo della competizione elettorale. L’ex Chief Strategist, del resto, è stato liquidato dalla Casa Bianca come sacrificio necessario a seguito dell’attacco terroristico di Charlottesville ai danni di una manifestazione antirazzista durante la quale perse la vita l’attivista Heather Heyer. Il responsabile dell’attacco è un nazista afferente all’area politica dell’alt-right, un dato che non ha potuto far nascondere l’imbarazzo a Trump nelle sue dichiarazioni successive all’accaduto. La distanza tra Bannon e il Presidente è stata interpretata da molti come un’ulteriore giravolta del trumpismo, una sorta di abbandono della base dell’estrema destra a favore di una politica della mediazione. Difatti, nonostante le decine di ordini esecutivi firmati che più o meno corrispondono al discorso nazional-populista della campagna elettorale, molti punti sono rimasti tuttora allo scoperto: la costruzione del famosissimo muro a spese del Messico, l’abrogazione dell’Obamacare sulle assicurazioni sanitarie, la politica economica più aggressiva con la Cina, il ritorno della Great America nelle relazioni internazionali contro la Russia e, soprattutto, la Corea del Nord, una sorta di isolazionismo dalle guerre. Senza tralasciare che, nei primissimi mesi di Presidenza, i tagli al settore agricolo, sociale e sanitario sono aumentati vertiginosamente. Eppure, le accuse che gli vengono rivolte di mancato compimento delle promesse elettorali e la natura degli scandali – dalRussiagate alla sua presunta “follia” – peccano dello stesso vizio di forma: giudicano Trump come una peripezia del sistema elettorale statunitense, come se fosse il semplice risultato del consenso del «basket of deplorable» [1], della massa incolta e analfabeta caduta nella trappola populista. La verità è che la ragione populista dietro al momento elettorale statunitense non è mai stata solo e soltanto vaga, ma anche politicamente significata. Certo, il populismo, come ogni discorso politico che promette redenzione degli ultimi attraverso un capo [2], quando prende le redini del comando non può che disattendere la carica emotiva e psicologica che ciascuno attribuisce alla figura del capo, tanto simbolo universale per tutti e tutte quanto astratto e in sé privo di un contenuto preciso. Ma ciò non vuol dire che il discorso elettorale non si sia basato su di una specifica razionalità, che non abbia poggiato su un insieme di idee e di valori pre-esistenti che sono stati poi rimodellati e montati assieme dalla figura di Trump. Da questo punto di vista, è evidente la coerenza dimostrata da alcune delle sue recenti decisioni o prese di parola. America first non rimanda necessariamente ad una chiusura in se stessi, bensì alla difesa dei propri confini e delle proprie frontiere. E qual è la miglior difesa, se non l’attacco? Una postura sempre pronta all’offesa per rimarcare la potenza dello Stato-nazione e, allo stesso tempo, proteggere il territorio che si vuole colonizzare: tanto vale per il Pacifico, da cui le inquietanti scaramucce con Pyongyang, quanto per il Medio-Oriente. Soprattutto se i territori nascondono risorse e materie prime che fanno schizzare alle stelle i derivati dei mercati finanziari (altro che nemico dei banchieri!) e permettono agli Stati Uniti di giocare sul mercato del petrolio. Perché, altrimenti, Trump avrebbe stretto accordi milionari con l’Arabia Saudita e starebbe conducendo una battaglia contro l’Iran? Da dove verrebbe la decisione di riconoscere repentinamente Gerusalemme come capitale di Israele? L’America non corrisponde solo alle farm del Winsconsin o alle fabbriche della Rustbelt, ma a tutto ciò che contribuisce alla ricchezza americana – in qualsiasi parte del mondo si trovi. Allo stesso modo, possiamo vedere una razionalità profondamente americana nel suo approccio al DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals), il programma con la quale centinaia di migliaia di figli minorenni di immigrati entrati illegalmente negli Stati Uniti possono ottenere un permesso di soggiorno. Dopo aver minacciato di stralciarlo, Trump ha invertito la rotta sostenendo che avrebbe trovato delle strade per garantire la cittadinanza a più di un milione di bambini. Nella cultura americana la naturalizzazione dello straniero è piuttosto accettata, a patto che la sua individualità sia compatibile con i valori americani e che nel corso dell’ottenimento della cittadinanza ci sia una completa assimilazione degli stessi. Evidentemente, i minorenni vengono giudicati idonei per questi criteri essendo magari nati e cresciuti negli Stati Uniti; non per niente sono chiamati Dreamers, perché anche loro possono ambire ai privilegi del sogno americano. Dall’altra parte, Trump tende la mano per poi lanciare il sasso: l’implementazione del DACA sarà possibile solo a patto che i Democratici avallino il finanziamento del muro con il Messico. In poche parole, se sei nato e cresciuto negli Stati Uniti, sei assimilabile ai valori della patria, quindi puoi restare; altrimenti rappresenti un membro delle forze del Male che entra per turbare l’ordine politico e sociale. Qui sì che l’America first fortifica le frontiere e tenta in ogni modo di isolarsi dall’esterno. In ultimo, non possiamo scordarci l’immaginario mobilitato dallo stesso Trump i cui effetti continuano a riesumare le radici della società “profonda”. L’impiego di concetti e parole, di misure e decisioni politiche appartenenti al mondo (neo)fondamentalista, di un’aggressione continua a tutto ciò che non è americano, ha fatto risorgere nazionalismi, il Ku Klux Klan, diversi gruppi apertamente contrari a tutte le conquiste civili, politiche e sociali ottenute dai movimenti di liberazione. Le aggressioni poliziesche ai cittadini afro-americani non sono di certo calate nell’epoca Trump, essendo il colore della pelle ancora una delle cause più determinanti delle disuguaglianze economiche e sociali. Lo si può notare proprio dal recente discorso sullo State of the Union. Trump ha rievocato quei lemmi e slogan che hanno martellato l’elettorato per quasi due anni nel tentativo di spingere sulla giusta leva. L’immaginario su cui più ha trovato il meccanismo vincente durante la campagna elettorale è stato quello dell’American Dream, del ritorno del glorioso passato in cui tutti (ossia: i maschi bianchi tax payer) potevano avere l’ambizione di salire sulla scala sociale – come ha fatto lo stesso magnate del mercato immobiliare con al sua Trump Company. Non è un caso che il sogno americano sia stato al centro del suo intervento di martedì. Se ancora ha azzardato un tentativo di universalità parlando di unità della nazione, l’ha fatto come gesto retorico. Adesso, al contrario del periodo della corsa alla Casa Bianca, può benissimo usare delle parole molto più parziali, più posizionate, indirizzate in forma esplicita e spudorata soltanto ad alcuni elettori – insomma, ha abbandonato qualsiasi «significante fluttuante», direbbe Ernesto Laclau [3]. Difatti, come scrive Kashana Cauley sul New York Times, nel suo discorso non ha mancato di lodare la working class bianca del Midwest, ha preso le parti della polizia rispetto agli attacchi subiti dalle persone afroamericane, ha sostenuto l’apertura di Guantanamo, ha parlato di armi nucleari e ha usato un linguaggio militare per descrivere l’intraprendenza americana nella competizione economica con gli altri Paesi. Tutto questo rimanda al soggetto cardine della sua vittoria elettorale che vede nelle altre etnie e nella diversità dalla propria identità un nemico da cui bisogna difendersi, davanti al quale è opportuno serrare le fila. L’America da sogno è fatta su misura di questo soggetto maschio, bianco, eterosessuale e proprietario: non per gli altri. È finito il tempo dell’elemosina dei voti trasversali per cui bisognava convincere anche chi apertamente osteggiato dalla ragione populista di Trump, che indubbiamente ha avuto il merito di raccogliere molto consenso elettorale tra le donne bianche, alcuni ambienti LGBT e di una parte della popolazione latina. Se, tuttavia, non si capiscono il senso dei suoi discorsi, le persone a cui si dirige, la vita quotidiana che incarna la politica trumpiana e l’insieme di idee profondamente radicate in America, si continuerà a pensare che Trump ha vinto per un complotto russo oppure che il sistema elettorale ha favorito gli incolti – a fronte delle statistiche che parlano di una sfaccettatura di classe istruita e di media estrazione come sua sostenitrice. Dopo un anno di Trump, forse il suo populismo è svanito, ma ancora ben saldo rimane l’orientamento della sua agenda. Magari tra quattro anni anche lui sarà diventato un sogno, ma fintantoché non si individuano le cause specifiche che lo hanno reso possibile, gli americani non abbandoneranno il loro Dream intriso di frontiere interne ed esterne, costi quel che costi. [1] Espressione con cui Clinton ha additato l’elettorato di Trump in uno dei suoi ultimi interventi prima dell’Election Day. Per molti analisti, Trump ha potuto vincere grazie al rigurgito anti-classista che Clinton ha suscitato nell’elettorato; [2] Cfr. M. Canovan, Trust the People! Populism and the Two Faces of Democracy, in «Political Studies», Volume 45, Numero I, Marzo 1999, pp. 2 -16; [3] Laclau E., La razòn populista, Fondo de Cultura Economica, Mexico, 2006;
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Putin:
Oggi si tiene l'incontro storico tra il dittatore della Corea del Nord, Kim Jong-un e Vladimir Putin, in Russia, dove il leader nordcoreano è arrivato nei giorni scorsi con un treno blindato. Le tematiche dell'incontro riguardano accordi bilaterali tra i due paesi, come ha dichiarato lo stesso Putin: "Sono convinto che la Russia darà un netto supporto alla risoluzione delle problematiche della penisola coreana. Vediamo cosa si può fare assieme, la situazione della Corea del Nord è di grande interesse per la comunità internazionale", queste le parole del presidente russo. Il summit tra i due leader arriva pochi mesi dopo il tentativo di mediazione di Donald Trump, che nell'ultimo incontro con Kim Jong-un ha abbandonato il tavolo per delle divergenze sul disarmo nucleare della Corea del Nord e sulle sanzioni. Secondo alcune fonti, Kim Jong-un vuole dimostrare agli USA che il suo paese non è isolato. Read the full article
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