#malati di solitudine
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farmaciabrunomilazzo · 1 month ago
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𝐋𝐚 𝐬𝐨𝐥𝐢𝐭𝐮𝐝𝐢𝐧𝐞 𝐩𝐮ò 𝐞𝐬𝐬𝐞𝐫𝐞 𝐮𝐧𝐚 𝐦𝐚𝐥𝐚𝐭𝐭𝐢𝐚? 🤔
📆 Oggi, in occasione della 𝐆𝐢𝐨𝐫𝐧𝐚𝐭𝐚 𝐍𝐚𝐳𝐢𝐨𝐧𝐚𝐥𝐞 𝐜𝐨𝐧𝐭𝐫𝐨 𝐥𝐚 𝐒𝐨𝐥𝐢𝐭𝐮𝐝𝐢𝐧𝐞 𝐝𝐞𝐥𝐥'𝐀𝐧𝐳𝐢𝐚𝐧𝐨, vogliamo portare l'attenzione su un tema delicato che tocca molte persone, specialmente gli anziani. Vivere un momento di solitudine è normale, ma quando questa condizione si prolunga può trasformarsi in un vero e proprio problema di salute.
☹️ Non tutti sanno che la solitudine non è solo una sensazione emotiva. Studi recenti evidenziano come l'isolamento prolungato possa influire sul benessere psicofisico, aumentando il rischio di ansia, depressione, ipertensione e persino infiammazioni croniche.
📌 𝐐𝐮𝐚𝐥𝐢 𝐬𝐨𝐧𝐨 𝐢 𝐬𝐞𝐠𝐧𝐚𝐥𝐢?
Sentirsi isolati anche in compagnia, perdita di interesse nelle attività quotidiane, calo di energia e difficoltà a dormire possono indicare uno stato di solitudine cronica, che richiede attenzione.
🌱 𝐂𝐨𝐦𝐞 𝐚𝐟𝐟𝐫𝐨𝐧𝐭𝐚𝐫𝐥𝐚?
✔️ Incoraggiare gli anziani a mantenere contatti sociali regolari
✔️ Sostenere le attività di gruppo (sport, lettura, volontariato)
✔️ Cercare l’aiuto di un professionista della salute se la situazione persiste.
🤝 La nostra farmacia è un presidio sanitario di prossimità, un punto di incontro e di socialità per tutta la comunità. Qui trovi un professionista sempre pronto ad ascoltarti, offrendo non solo consigli di salute, ma anche quel sostegno umano che può fare la differenza.
𝘍𝘢𝘳𝘮𝘢𝘤𝘪𝘢 𝘽𝙧𝙪𝙣𝙤
📍 Via Policastrelli 209 Milazzo (ME)
📞 Tel 090 9295029
📲 Whatsapp 339 464 5244
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raffaeleitlodeo · 1 year ago
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Ogni tanto quando ci si chiede Ma è cambiata la scuola da quando la facevamo noi?, è cambiata la scuola dopo la pandemia?, come sono i ragazzi d'oggi?, la prima risposta che mi viene da dire è chiaramente: tutto uguale. Scazzati, cazzoni, simpatici, rincoglioniti, una rottura di coglioni, fantastici, etc... Sì, i cellulari, i manga, ma tutto uguale. Dall'altra però c'è ci sono un mucchio di cose che sono cambiate. La cosa che per me è cambiata di più nella scuola degli adolescenti, quella che conosco meglio, le superiori, è che gli studenti vengono sottoposti a un interesse molto blando da parte degli adulti che in molti casi è solo controllo e disciplinamento, e non è cura. E non si tratta solo del voto, del registro elettronico, delle sospensioni per le occupazioni. Si parla del bisogno di accudimento che vedo richiesto da parte degli studenti, che non va confuso con una comprensione amicale, ma proprio è una necessità di cura materiale. Quando entro in una nuova classe, la prima cosa che chiedo è mangiare e dormire, come va? Un sacco di loro mi dice: male. Saltano i pasti, nessuno cucina per loro, a colazione non c'hanno il latte né un biscotto, non c'è la spesa in frigo, soffrono d'insonnia, fanno fatica a addormentarsi, sono distrutti in classe per il deficit di sonno. Chiedono a 16, 18 anni un accudimento e una cura materiale che spesso non hanno avuto nell'infanzia o nella pubertà o che non hanno semplicemente perché i genitori non c'hanno soldi, tempo, capacità. Molto spesso sono figli unici, o figli di separati di genitori in contrasto fra loro, spesso non hanno i nonni perché i genitori li hanno fatti da grandi e i nonni sono morti o sono molto malati e quindi sono incapaci di aver cura di loro, e quindi stanno a casa da soli. Moltissimi mangiano da soli la maggior parte dei pasti della loro adolescenza. Ora, non so se questo c'entri, ma una delle cose che ho notato negli ultimi anni nelle mie classi del trienno delle superiori, è la diffusione dei grattini. Molti miei studenti o studenti delle altre classi - molte - in cui faccio supplenza, si mettono a farsi i grattini l'un l'altro/a. E non c'entra se sono maschi, femmine, fidanzati, amiche amici, se c'è una complicità amorosa o di prepetting o qualcosa del genere, avviene come una roba naturale, come quando io con i miei amici ci scambiavamo i bigliettini tra un banco e l'altro. Un grooming generazionale, il desiderio di un po' di accudimento, tenerezza, etc... È un'infantilizzazione? Non lo so, a me sembra la manifestazione di un senso gigantesco di solitudine, il bisogno di qualcuno di cui fidarsi, con cui poi poter sperimentare uno spazio di conflitto e di libertà. Se prima non c'è un interesse, una cura, come può crearsi un desiderio, un percorso di autonomia?
Christian Raimo, Facebook
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salva7orearato · 1 year ago
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I corpi nudi, emaciati, lividi. Disperati di vita fin dentro la morte. Tormentati dal desiderio. Scapigliati di malinconia. Cupi d'amore. Nervosi di affetto. Ossessionati da un erotismo che è bestia infelice la qual divora per rigurgitare istanti impercettibili di sollievo senza riposo. Tutto in Egon Schiele è selvaggio e straziante: dai corpi fragili e affilati, malati di speranza alle anime spiegazzate, turbate dal vuoto e che vagano (da una solitudine all'altra) sempre in cerca di consolazione.
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canesenzafissadimora · 1 year ago
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Scrivo per la mia solitudine
che non passa mai, per la mia fuga
che non conosce muri.
Scrivo per chi è morto, scrivo
perché bisogna rispondere in qualche modo
al grande insulto del morire.
Scrivo per i malati, scrivo perché
avere un tumore non è la stessa cosa
che non averlo.
Scrivo per chi ha paura, la paura
che ti viene all’improvviso e quella
che ti sta incollata addosso tutta la vita.
Scrivo per chi ha perduto un amore
e per chi non lo ha mai trovato.
Scrivo per i vecchi e per i giovani
che già sentono le spine
del tempo che passa.
Scrivo perché ora posso farlo,
perché ho un dolore e la voglia
di sputarlo.
Scrivo perché ho tutta la mente
popolata di uomini e di donne
e di animali e di alberi.
Da tempo me ne sono accorto:
ci manco solo io nel mio corpo,
La poesia è un tentativo di tornare
a casa, di farlo da vivo
e non da morto.
franco arminio
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valentina-lauricella · 2 years ago
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Conversazione tramite un vecchio libro
Ho dovuto fermarmi, respirare, bere un caffè, far finta di riposare, mangiare minestra fredda per placare l'agitazione e lo sconvolgimento di sapere
che tu avevi provato le sensazioni descritte dalle parole che avevo letto. Proprio tu, e proprio quelle crudeli sensazioni che tutti sappiamo, ma che per inettitudine non diciamo
e per viltà non esploriamo; sensazioni di cui tu, invece, avevi fatto un capolavoro per gli occhi di tutti. Ed oggi, per caso, sono stati i miei occhi ad incontrarlo, e a piangerti.
Nella solitudine ti sei fatto in due; ti sei ammalato e sei guarito, sei morto e ti sei redento; e per noi, morti e malati inconsapevoli, sei stato la salvezza.
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rassegnanotizie · 3 months ago
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Il quarto rapporto del Censis, realizzato in collaborazione con Aima e supportato da Roche S.p.a., mette in luce come la pandemia di Covid-19 abbia modificato il profilo dei pazienti affetti da Alzheimer. Oggi si riscontra una prevalenza di pazienti più giovani e recentemente diagnosticati, molti dei quali sono attivi nel mondo del lavoro. Anche i caregiver, generalmente tra i 46 e i 60 anni e per il 55,3% occupati, hanno subito ripercussioni lavorative significative. La malattia mostra un chiaro divario di genere, con il 62,2% dei pazienti e oltre il 70% dei caregiver di sesso femminile. L'indagine ha anche incluso un campione di persone con disturbo cognitivo lieve (Mci), evidenziando come il supporto familiare sia diminuito. Oggi, un caregiver su cinque non riceve alcun aiuto, e c’è una riduzione di chi può contare sul supporto di familiari. Questo porta a un incremento del carico assistenziale sui caregiver, che spesso si sentono soli (68,3%) ma continuano a percepirsi utili (84,9%). La situazione crea tensioni anche tra i familiari e, nonostante il 41,1% delle famiglie ricorra a badanti, la maggioranza dei caregiver non ha una valutazione positiva per l'assistenza pubblica che ricevono (solo il 36,2%). Particolarmente preoccupante è il divario territoriale: più della metà dei pazienti (53,3%) non ha mai consultato un Centro per i disturbi cognitivi e le demenze, con una copertura inferiore al Sud Italia. Il tempo medio per ottenere una diagnosi è aumentato leggermente, passando da 1,8 anni nel 2015 a 2,0 anni nel 2023. I pazienti con disturbo Mci, sebbene più giovani (età media 71 anni), non mostrano una prevalenza femminile come nell'Alzheimer. Il loro accesso ai servizi sanitari è limitato, ma molti segnalano una buona soddisfazione verso le cure ricevute. Tuttavia, si percepiscono difficoltà nella vita quotidiana e un forte desiderio di sostegno, che spesso è fornito dalla famiglia. In generale, le famiglie colpite dall'Alzheimer si trovano ancora in una condizione drammatica, come sottolineato dai rappresentanti di Aima e Censis, evidenziando la continua necessità di migliorare l'assistenza e il supporto per pazienti e caregiver.
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diarioquasiribelle · 7 months ago
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Brivido che mi manca .1
Non va più di moda girare per strada, la notte, da soli è conservata solo per ubriaconi, spacciatori e malati di solitudine. Eppure, che peccato perdere tutto ciò: la poesia del buio, del mare che sbatte, dei poeti che scrivono.
Una luna, una donna, una pioggia. Il buio, le stelle, il silenzio. Il fresco, la solitudine, la perdita.
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cinquecolonnemagazine · 9 months ago
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"D come Davide. Storie di plurali al singolare" di Colacrai
La silloge poetica "D come Davide. Storie di plurali al singolare" di Davide Rocco Colacrai edito da Le Mezzelane è un volume di 26 poesie con la prefazione dello scrittore leccese Mattia Zecca. I componimenti di Colacrai sono seducenti, sorprendono il lettore ad ogni pagina che scopre di volta in volta una storia diversa. Ed è proprio questa la caratteristica di "D come Davide. Storie di plurali al singolare".  Le poesie raccontano tutti gli aspetti e gli eventi che in qualche modo hanno lasciato un segno, hanno fatto vibrare la sensibilità del poeta. Ecco allora apparire Paolo Borsellino, si materializzano gli esuli d’Istria e Dalmazia, suo nonno, l’autore Vincenzo Restivo, riaffiora il suo cane Manny, Billy the Kid, lo scrittore marocchino Abdellah Taïa e Giovanni Falcone. Storia, fatti personali, ricordi ed emozioni intime creano un’osmosi, un flusso denso e pastoso tra ciò che appartiene a noi stessi e ciò di cui facciamo parte. In quanto poeta civile, Davide Rocco Colacrai ha sentito il bisogno di unirsi alle emozioni comuni ricordando la strage dell’Hotel Rigopiano, Ustica, i numerosissimi malati a causa dell’Eternit e le vittime del Ponte Morandi di Genova. Ogni poesia è per il lettore un viaggio nella propria sensibilità e in quella dell’autore, attraverso poesie dolci, a volte forti e dure, che fanno riflettere ed emozionare. Ringrazio Davide Rocco Colacrai per questa bella intervista nella quale abbiamo avuto modo di approfondire non solo il contenuto della silloge ma anche alcune sfumature del suo linguaggio espressivo "D come Davide. Storie di plurali al singolare" di Colacrai Salve Davide, lei è nuovo ai lettori di Cinque Colonne Magazine, ci racconta brevemente cosa le piace e di cosa si occupa nella vita? Innanzitutto, mi permetto di ringraziarvi per l’ospitalità. Sono un Giurista e un Criminologo che via via negli anni è rimasto sempre più deluso dal percorso intrapreso – e qui si potrebbe aprire un ampio discorso su come le cose non funzionano in Italia – fino a decidere di abbandonarlo completamente e di rispolverare altre capacità, quelle linguistiche, e scoprirne alcune che non sapevo di possedere, con le quali attualmente lavoro come impiegato presso una famosa azienda internazionale. Non è stato facile abbandonare una strada per un’altra, soprattutto perché sono un grande sognatore e molto determinato e testardo e, se non costretto, non mollo.  “D come Davide” è il suo decimo libro di poesie. Quando è nata questa passione? Più che di una passione parlerei di un’esigenza, o più genericamente di un dono. Diciamo pure che ho sempre scritto, sin da quando frequentavo le scuole materne e accompagnavo i miei disegni con delle frasi. Sicuramente a partire dal 2006/2007 ho sentito proprio la necessità di buttare fuori, di espellere, di far esplodere verso l’esterno tutto quel rumore che sentivo dentro e non potevo più trattenere, e di condividerlo. Oggi penso che alla base di tale necessità ci fosse anche la ricerca di una umanità al di là di quella solitudine nella quale pensiamo più o meno tutti di essere costretti in questo spazio che chiamiamo mondo. Partiamo dal titolo: perché storie di plurali al singolare? Ho scoperto con gli anni che le storie che viviamo e di cui siamo portatori sono da un lato storie nostre, ma dall’altro storie che altri hanno già vissuto prima o stanno vivendo parallelamente a noi. Pertanto, non esiste mai veramente una storia che sia solo nostra, una storia unica. Quindi armato di una lente e dalla mia inesauribile curiosità sono andato a studiare fatti storici che, allo stesso tempo, racchiudono l’elemento del plurale e quello del singolare: storie che io racconto da un punto di vista mio – dell’uomo, del cittadino, del poeta – e nelle quali troviamo famiglie intere. Pensiamo per esempio alla poesia nella quale si parla della Strage di Ustica. Le sue poesie abbracciano temi diversissimi. Com’è nato D come Davide? Ha ripreso vecchie poesie che aveva scritto oppure ha pensato fin da subito di creare una raccolta con tematiche slegate. Mi diverto spesso a raccontare che i miei libri nascono in maniera completamente intuitiva – e una volta mi hanno persino definito, e all’epoca lo trovavo divertente, “poeta medium”. Ad ogni modo, in pochi minuti butto nel calderone virtuale determinate poesie che già esistono e nel frattempo sono state premiate nei concorsi letterari, poi sento esattamente l’ordine nel quale devono apparire e il titolo. Ne consegue che realizzo la creazione soltanto quando ho il libro cartaceo davanti a me e ho avuto il tempo di sfogliarlo. Per quanto riguarda specificamente D come Davide, posso dire che si tratta di un’opera che raccoglie tematiche apparentemente slegate ma che hanno tutte un preciso denominatore comune: la Storia. Che dovrebbe ricordare a noi stessi chi siamo e che invece spesso viene dimenticata, o persino negata. C’è una poesia presente nel suo libro a cui è particolarmente legato? Ogni poesia è una figlia, per cui sono legato a ciascuna di esse nella misura in cui mi ricordano un certo periodo della mia vita, chi ero o una persona. Dal punto di vista storico invece, tengo molto alla poesia “Il confino (Isole Tremiti, 1939)”, che racconta un fatto storico che fino ad alcuni anni fa era completamente sconosciuto e dunque non riportato dai libri storici: il confinamento degli omosessuali siciliani sulle Isole Tremiti da parte del governo fascista. Il confino (Isole Tremiti, 1939) Agosto trascorre lento, solo, la notte a girare per le campagne e contare i pioppi sugli argini  e bere Ricordo lo stomaco vuoto com’erano vuote le onde, i giorni nella ragnatela dell’attesa,  il marchio di essere un arruso, l’odore di quell’incubo,  e tutto nell’atto di fingere una vita diversa, forse migliore. Zuppa di fagioli e pane, lo sciabordare liquido dei sogni, il gioco alla morra, il desiderio esacerbato della carne, di virgole azzurre nella notte, un orizzonte senza scorciatoie, il pensiero fisso all’isola,  nostra unica donna, madre e matrigna. Eravamo costretti in baracche, due e di legno,  prigionieri di un reticolato, pochi metri quadrati per essere uomini, quattro spiccioli per sopravvivere a noi stessi. Passavano i giorni,  lenti e lontani, come risucchiati dal Cretaccio, e sospesi, era un’isola, la nostra, che non c’era, si faceva sempre più pesante la solitudine, l’assenza quasi tangibile dell’amore, un’ora come un anno a strisciare nei solchi lasciati dalle nostre preghiere, e poi a capo. C’era chi raschiava il silenzio,  chi dipanava la matassa di un senso fatto di sole ossa, qualcuno annusava già la morte.  Non c’era pietà né perdono.  Addosso, con me, il dolore mai lavato della razza, del nostro essere tutti cani randagi, senza nomi. Read the full article
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stefanoligorio · 1 year ago
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Visita:
Riflessioni di Stefano Ligorio.
Riflessioni (immagini) di Stefano Ligorio.
Raccolta di alcune Riflessioni, di Stefano Ligorio, su: amore, intelligenza, ignoranza, sofferenza, libertà, emozioni, conoscenza, delusione, ipocrisia, felicità, solitudine…
Alcune Riflessioni, di Stefano Ligorio, in formato pdf.
Riflessioni – Mettere in pratica quel che si sa…
Riflessioni – La consapevolezza e la conoscenza delle cose…
Riflessioni – Cultura della legalità e corretta applicazione della legge.
Riflessioni – L’intelligenza emotiva…
Riflessioni – La bontà lascia teneri ricordi…
Riflessioni – La ragione, alla fine, vince sempre sulle emozioni…
Riflessioni – Il vano soccorso…
Riflessioni – Un sereno Natale a tutti…
Riflessioni – Un pregiudizio…
Riflessioni – Il ‘fato’…
Riflessioni – Imparare a limitare l’egoismo…
Riflessioni – La sofferenza interiore…
Riflessioni – L’importanza della psicologia applicata…
Riflessioni – ‘Entrare’ nel proprio inconscio emotivo.
Riflessioni – La ‘libertà…’ è anche salute.
Riflessioni – Il dovere del medico e il dovere del paziente.
Riflessioni – Evoluzione non solo tecnologica e culturale, ma anche ‘emotiva’…
Riflessioni – L’illusione e il disincanto…
Riflessioni – Accusare per ignoranza…
Riflessioni – La verità nelle cose…
Riflessioni – Il campo da coltivare…
Riflessioni – Le emozioni.
Riflessioni – Gli ostacoli limitanti l’intelligenza…
Riflessioni – Essere coerenti a ciò che si crede.
Riflessioni – L’intelligenza non va sprecata…
Riflessioni – L’importanza del ‘conoscersi’.
Riflessioni – Gli occhi ‘di fuori e di dentro’…
Riflessioni – Libertà vera è avere un ‘IO morale’ liberale e consapevole…
Riflessioni – Il giudizio, nel pregiudizio, verso i malati psichici…
Riflessioni – ‘La mamma è sempre la mamma…’.
Riflessioni – Il vigliacco…
Riflessioni – Sognare non illudersi…
Riflessioni – Follia…
Riflessioni – Vivere nell’illusione di quel che non si è…
Riflessioni – I veri ignoranti.
Riflessioni – L’importanza di una corretta applicazione della legge.
Riflessioni – Le persone non cambiano.
Riflessioni – L’immane potenza della viltà e dell’ipocrisia.
Riflessioni – Un vero augurio di serenità e felicità…
Riflessioni – L’insegnamento della solitudine.
Riflessioni – La regola da non trasgredire…
Riflessioni – La delusione.
Riflessioni – La stupidità.
Riflessioni – La malasanità.
Riflessioni – A volte si crede a ciò che si vuol credere sfuggendo la realtà delle cose…
Riflessioni – L’ignoranza…
Riflessioni – Trattare le persone come meritano.
Riflessioni – Ansia e depressione.
Riflessioni – La dipendenza dalle droghe.
Riflessioni – Gli impedimenti all’intelligenza.
Riflessioni – L’inutile dispendio di ‘energie’…
Riflessioni – Gli effetti dei giudizi della gente che ‘ignora se stessa’…
Riflessioni – Il valore di un uomo…
Riflessioni – Cos’è l’amore?
Riflessioni – I ‘buoni’ e i ‘cattivi’ di fronte agli eventi avversi…
Riflessioni – La complessa battaglia tra il raziocinio e le emozioni.
Riflessioni – Le malattie psichiche.
Riflessioni – I ‘tubi digerenti’…
Riflessioni – ‘Potenziare’ la ‘ragione’ contro le emozioni ‘sfavorevoli’…
Riflessioni – Prevenzione non solo ‘primaria’, ma, ove ‘necessario’, anche solo ‘alternativa’…
Riflessioni – Prevenzione efficiente: praticare, con costanza, attività motoria…
Riflessioni – Dittatura e moderno Totalitarismo…
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siciliatv · 2 years ago
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Ad Agrigento nasce l’associazione "Alzheimeriani non più soli"
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Una nuova realtà del settore no profit che persegue finalità di solidarietà sociale in ambito socio-sanitario facendo leva sull’esperienza e sensibilità dei suoi promotori, tra cui la dott.ssa Lina Urso Gucciardino, il dott. Giuseppe Provenzano (nella foto) e il dott. Geraldo Alongi.   L’associazione si prefigge di fornire un sostegno concreto non solo ai malati di alzheimer, ma a tutti i sofferenti di patologia degenerativa, neuropatica, ischemica, geriatrica, disabilità mentale e anziani emarginati anche attraverso azioni di formazione e sostegno.   “Desideriamo dare avvio a un percorso che metta la malattia al centro dell’attenzione della comunità agrigentina, delle istituzioni e dei cittadini - commentano Provenzano, Alongi e Urso - e contribuire a migliorare la prevenzione, la diagnosi e la terapia, garantendo alti livelli qualitativi nell’erogazione dei servizi sanitari e socio-assistenziali. Mai più soli perché crediamo sia fondamentale affiancare le famiglie e aiutarle ad orientarsi nel difficile impegno di cura, per contrastare la solitudine e l’isolamento, per tutelare i diritti del malato, incentivarne la riabilitazione e la partecipazione alla vita sociale e lavorativa, individuare le strategie più opportune per affrontare i cambiamenti e le difficoltà”. Read the full article
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amicidomenicani · 2 years ago
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Quesito Padre, Sto attraversando un periodo terribile. Non sto bene. Ho paura di avere un cancro. Prego ogni giorno il Signore e la Madonna di liberarmi dal terrore della morte e dell'inferno. Ma la mia fede vacilla.  Raramente la preghiera riesce a sollevarmi da questo abisso oscuro. Ho la intima consapevolezza di rivolgermi a Dio in termini egoistici e utilitaristici, per ottenere una grazia senza il beneficio della vera Fede.  Provengo da una famiglia cristiana e mi reputo un cristiano sebbene, fino a quando il mio corpo e la mia anima non sono stati aggrediti dalla malattia e dalla depressione, il mio cristianesimo sia rimasto soltanto un riferimento, senza una vera e costante partecipazione. Anche se il mio pensiero molto spesso si rivolgeva a Cristo Gesù e a Sua Madre, ho condotto la mia esistenza lontano dai sacramenti. Non mi sono confessato e comunicato per moltissimi anni. Partecipavo alla Messa solo a Natale e Pasqua. Né tale mio modo di vivere procurava in me particolari sensi di colpa.  Da qualche mese tutto è mutato. Il mio precario stato di salute fisica e mentale mi ha indotto a riavvicinarmi, dopo trenta o quaranta anni, ai sacramenti, in particolare alla confessione. Qualche mese addietro un sacerdote non mi ha assolto. Convivo da molto tempo con una donna senza essere sposato e tale condizione è stata la causa prima della mancata assoluzione. Qualche settimana fa sono passato per caso davanti a una Chiesa che frequentavo durante gli anni della mia giovinezza. Sono entrato. Ho visto che un sacerdote era presente. Mi sono avvicinato e gli ho chiesto se poteva confessarmi. Ha immediatamente accolto la mia richiesta. Certo non sono riuscito a confessare tutti i miei peccati. Era troppo il tempo trascorso dalla mia ultima confessione. Ho cercato di elencare i miei peccati più gravi, o che io reputo più gravi. Ovviamente gli ho parlato della mia convivenza. Gli ho detto che ormai il legame fra me e la mia compagna non può esser più definito come quello di un marito e di una moglie ma di un fratello e una sorella.  Da anni non abbiamo più rapporti sessuali anche se dimoriamo e viviamo nella stessa casa. Il sacerdote non solo mi ha assolto ma mi ha chiesto se volevo ricevere la Santa Comunione. Mi è parso un dono del Signore che ho accolto con gioia. Questa condizione è durata poco. Pur non avendo commesso peccati gravi le mie paure mi hanno ricondotto sulla strada del dubbio e della mancanza di fede piena. Potevo davvero ritenermi libero dalle mie colpe e destinato non più alle tenebre dell'inferno ma salvo e nella grazia del Signore? In questo momento, specialmente, vivo un periodo di grande sofferenza. Prego ogni giorno, vado in Chiesa più volte. Mi rivolgo a Gesù, alla Madonna, ai santi che più amo - San Giovanni Battista, San Pio da Pietrelcina, San Leopoldo Mandic - chiedendo di guarire il mio corpo e salvare la mia anima. Chiedo loro di intercedere non solo per me ma anche per i miei cari, per gli afflitti, per i malati che conosco, per i miei morti.  Ma nonostante i miei sforzi non riesco a uscire dal baratro del dubbio, dal sospetto che le mie preghiere siano indotte soltanto dal terrore della morte e del fuoco eterno e non, invece, dalla vera Fede in Cristo. Grazie, Padre, per avermi ascoltato. Risposta del sacerdote Carissimo,  1. la tua situazione è oggettivamente irregolare trattandosi di una convivenza che a suo tempo è stata segnata dai rapporti sessuali. 2. Tuttavia il magistero della Chiesa ricorda che se si è pentiti di aver intrapreso una strada che non è secondo il progetto di Dio, se al momento e neanche per il futuro non è possibile pensare ad una separazione perché si lascerebbe una persona nella solitudine e nella necessità, se c'è l'astensione dall'intimità sessuale è possibile essere confessati e comunicati. Ed è quanto ha fatto il sacerdote che per caso provvidenziale hai incontrato entrando in
Chiesa. 3. Va aggiunto però che la Santa Comunione può essere fatta pubblicamente solo dove non si è conosciuti come conviventi. Sebbene tra voi non ci sia intimità sessuale, tuttavia la gente potrebbe pensare che oggi si può fare la Santa Comunione anche se si è conviventi. 4. Questa cautela la Chiesa la pone anche per i divorziati risposati che non possono ormai separarsi o per la presenza di figli o per altri motivi seri. Giovanni Paolo II, nella Familiaris consortio scrive:  “La Chiesa, tuttavia, ribadisce la sua prassi, fondata sulla Sacra Scrittura, di non ammettere alla comunione eucaristica i divorziati risposati. Sono essi a non poter esservi ammessi, dal momento che il loro stato e la loro condizione di vita contraddicono oggettivamente a quell’unione di amore tra Cristo e la Chiesa, significata e attuata dall’Eucaristia. C’è inoltre un altro peculiare motivo pastorale: se si ammettessero queste persone all’Eucaristia, i fedeli rimarrebbero indotti in errore e confusione circa la dottrina della Chiesa sull’indissolubilità del matrimonio. La riconciliazione nel sacramento della penitenza – che aprirebbe la strada al sacramento eucaristico – può essere accordata solo a quelli che, pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo, sono sinceramente disposti ad una forma di vita non più in contraddizione con l’indissolubilità del matrimonio.  Ciò comporta, in concreto, che quando l’uomo e la donna, per seri motivi – quali, ad esempio, l’educazione dei figli – non possono soddisfare l’obbligo della separazione, «assumono l’impegno di vivere in piena continenza, cioè di astenersi dagli atti propri dei coniugi» (Giovanni Paolo II, 25 Ottobre 1980)” (FC 84). 5. Nel vostro caso, se sotto il profilo dello stato civile siete celibi, sarebbe opportuno pensare al sacramento del matrimonio. Il matrimonio può essere celebrato anche soltanto con la presenza di due testimoni davanti al parroco al di fuori della celebrazione della Messa. 6. Ma tornando al motivo di ansia che ti ha colpito qualche tempo dopo quella confessione, ci sono buoni motivi per dire che vivi in stato di grazia. Certo, la situazione di irregolarità permane. Ma questo non impedisce che tu possa vivere in grazia di Dio. Pertanto vai avanti serenamente fidandoti di quello che ti ha detto il sacerdote che ti ha assolto e ti ha dato la Santa Comunione. Tu vivi nella comunione dei santi: non solo perché vivi in grazia di Dio, ma anche perché vivi l’amicizia con alcuni santi in modo particolare. Sulla loro fedeltà, sulla loro intercessione e sulla loro protezione puoi sempre contare. Sono gli amici più fedeli e più potenti. 7. Allontana i pensieri dubbiosi che vorrebbero buttarti nella disperazione. Tieni sempre a mente ciò che diceva San Giovanni Bosco: “Tutto ciò che turba e porta via la pace non viene da Dio”. Pertanto non lasciar penetrare nella tua mente alcun pensiero di quella sorte. Sono pensieri di morte e non di vita. Ti benedico, ti ricordo nella preghiera e ti auguro ogni bene, soprattutto per la tua salute. Padre Angelo
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coccobellos-blog · 2 years ago
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La solitudine, si sa, non tutti se la possono permettere. Non se la possono permettere i vecchi. Non se la possono permettere i malati. Non se la può permettere il politico. Un politico solitario è un politico fottuto di solito. Però, sostanzialmente, quando si può rimanere soli con se stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante. Il circostante non è fatto soltanto di nostri simili. Direi che è fatto di tutto l’universo, dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle. E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai nostri problemi e, credo, addirittura, che si riescano a trovare delle migliori soluzioni. E, siccome, siamo simili ai nostri simili, credo che si possano trovare soluzioni anche per gli altri. Con questo, non voglio fare nessun panegirico né dell’anacoretismo né del romitaggio. Non è che si debba fare gli eremiti o gli anacoreti. È che ho constatato, attraverso la mia esperienza di vita, ed è stata una vita, non è che dimostro di avere la mia età attraverso la carta di identità. Credo di averla vissuta. Mi sono reso conto che un uomo solo non mi ha mai fatto paura. Invece, l’uomo organizzato mi ha sempre fatto molta paura.
Fabrizio De André
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canesenzafissadimora · 6 months ago
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La solitudine, si sa, non tutti se la possono permettere. Non se la possono permettere i vecchi. Non se la possono permettere i malati. Non se la può permettere il politico. Un politico solitario è un politico fottuto di solito. Però, sostanzialmente, quando si può rimanere soli con se stessi, io credo che si riesca ad avere più facilmente contatto con il circostante. Il circostante non è fatto soltanto di nostri simili. Direi che è fatto di tutto l'universo, dalla foglia che spunta di notte in un campo fino alle stelle. E ci si riesce ad accordare meglio con questo circostante, si riesce a pensare meglio ai nostri problemi e, credo, addirittura, che si riescano a trovare delle migliori soluzioni. E, siccome, siamo simili ai nostri simili, credo che si possano trovare soluzioni anche per gli altri.
Con questo, non voglio fare nessun panegirico né dell’anacoretismo né del romitaggio. Non è che si debba fare gli eremiti o gli anacoreti. È che ho constatato, attraverso la mia esperienza di vita, ed è stata una vita, non è che dimostro di avere la mia età attraverso la carta di identità. Credo di averla vissuta. Mi sono reso conto che un uomo solo non mi ha mai fatto paura. Invece, l'uomo organizzato mi ha sempre fatto molta paura.
Fabrizio De André
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luposolitario00 · 2 years ago
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La vivo un po' così, per alcune cose sono cresciuta in fretta, per altrettante non ho o ho poca esperienza, in più sento il peso di essere sempre in ritardo rispetto a chi mi è coetaneo.. faccio molti paragoni e non dovrei, ho deciso che con l'anno nuovo cercherò di migliorare questo aspetto accettando che va bene sentirsi anche così, che non devo mettermi a confronto con nessuno
Stessa cosa io. Identico come te. Poi ci sono state persone del passato che mi hanno rovinato la crescita e la vita causandomi traumi e solitudine.
Anch’io dovrei prendere il tuo esempio iniziando ad accettarmi e smettere di fare paragoni con i miei coetanei. E smettere anche di essere invidioso della vita altrui. Sto andando in terapia ma è difficile e molto impegnativo eliminare i miei traumi. Spero tanto che un giorno riesca ad eliminarli. Conoscendomi e sapendo che per anni sono stato abbandonato (in adolescenza ero totalmente abbandonato) so che eliminare i miei traumi sarà un impresa. Anche perché per anni non ho avuto un aiuto. I miei erano contro i psicologi perché dicevano che sono da malati di mente. Quindi ho iniziato a frequentarli solo dalla maggiore età. E non subito compiendo 18 anni perché è servito tempo anche a me per capire che andare dallo psicologo non è da pazzi come mi avevano messo in testa i miei e le persone in generale. E visto che non sono andato in tempo in terapia ora i traumi sono cresciuti, peggiorati di molto ed è anche molto più difficile eliminarli. Ora è cresciuta anche la mia forte ansia in cui penso “chissà se un giorno riuscirò ad essere felice senza questi traumi”.
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paneliquido · 4 years ago
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VIETATO VIVERE
Un mattino ti svegli e scopri che è vietato vivere, perché è così, è vero: «L’uomo moderno, in cambio di un po’ di sicurezza, ha rinunciato alla possibilità di essere felice» (Sigmund Freud) perché ormai ogni divieto sembra sacrosanto, ma poi diventa un insieme che diventa una galera, la nostra galera. Lo sembra questa nostra vita in cui, appunto, un mattino ti svegli e scopri che a Roma e a Torino, siccome eravamo a corto di divieti, hanno deciso di bloccare le auto per via dello smog (sacrosanto, certo) e pazienza se salire su tram e metro diventerà una follia, fa niente se in pratica già non possiamo più uscire di casa e dobbiamo stare attenti pure a come ci stiamo, in casa, e a che cosa mangiamo, beviamo, fumiamo, diciamo, ascoltiamo, clicchiamo; fa niente se la capacità di imporre divieti è diventata la misura dell’amministrazione pubblica, fa niente. Tanto ormai è tardi, viviamo come se vivere corrispondesse solo al rischio di morire, non ci siamo accorti che il bisogno di sicurezza genera sempre – sempre - anche delle forme di un autoritarismo e la tendenza a regolamentare ogni cosa. Mentre un professorino di Foggia, ieri, spiegava che un Natale in solitudine è più spirituale (ma lo colpisse un fulmine, a Giuseppe Conte) abbiamo smesso di accettare che la prima causa di morte è la vita, che basta nascere per avere una probabilità su tre di avere un tumore (purtroppo è vero) mentre c’è una parte del mondo che non riesce a mangiare e c’è un’altra che non riesce a non farlo: e, in mezzo a tutto questo, non c’è nessuno che ammette che la prima causa di morte, nel Pianeta, sono l’alimentazione e la respirazione. Si muore perché si vive. Così leggiamo libri e guardiamo programmi che parlano di cucina (che servono a ingrassare) e poi passiamo dal dietologo (perché dobbiamo dimagrire) e non passa giorno senza che un’alterata percezione del rischio venga trasformata in causa di morte da una politica medicalizzata (o sanità politicizzata, fate vobis) che ormai spadroneggia, e che tende a inglobare anche le dimensioni comportamentali dell'esistenza. Ormai il libero arbitrio viene visto come una minaccia da ridurre a malattia: ecco perché l'Organizzazione mondiale della sanità e cento altri organismi fanno campagne mediatiche e «scientifiche» su tutto, e decidono i prossimi nemici della nostra salute. Ora c’è il coronavirus, certo. Ma sappiamo tutti che presto o tardi, per dire, negheranno la mutua agli obesi, metteranno etichette terrorizzanti per cibi e vini come per le sigarette, il peso dei bambini diverrà un voto sulla pagella (accade negli Usa) e ci saranno le chiese senza incenso passivo (accade in Canada) e saremo sempre più invasi da continue «valutazioni dei rischi» mentre pubblicheremo, sui nostri giornali, qualsiasi studio: anche se il giorno prima ce n'era un altro che diceva il contrario. Ascolteremo qualsiasi medico o virologo o camice bianco come se l’idiozia non fosse equamente distribuita in tutte le categorie, e il nozionismo rendesse davvero più intelligenti. Il terrore di ammalarsi impera in una civiltà che tende a interpretare la natura umana solo in chiave biologica, e che ti spiega, persino, che i grandi uomini erano soprattutto dei grandi malati: depressi erano Ippocrate e Churchill e Montanelli, Leopardi aveva un problema di neurotrasmettitori, la sensibilità di Tchaikovskij era una somma di fobie omosessuali, Van Gogh del resto era epilettico, Paganini aveva la sindrome di Ehiers-Danlos, Rachmaninov quella di Marfan, e, peggio, la vicina di casa ha il coronavirus. E allora bisogna vietare. Giustamente. Ma, a poco a poco, vietano tutto. La vera minaccia alla nostra proviene da una declinazione distorta della libertà stessa: non abbiamo più margine individuale a fronte della proliferazione proprio dei diritti individuali: il diritto alla salute su tutto, ma questo dopo che un insieme di minoranze ha oppresso sempre nuove maggioranze per via dei diritti del cittadino, del consumatore, del bambino, dell’alunno, dell’anziano, del pedone, dell’automobilista, del ciclista, del turista, dello sportivo, del disabile, del militare, del teleutente, dell’ascoltatore, del lettore, dell’ambientalista, del cacciatore, di chi vuole essere armato e di chi esige che la gente sia disarmata, di chi vuole fumare e di chi non vuole il fumo altrui: sinché a un certo punto tutti i diritti hanno finito per elidersi a vicenda e il lockdown (mondiale?) da Coronavirus ci ha dato la mazzata finale. Così resteremo a casa. Distanziati, se possibile. Senza troppi abbracci e smancerie contagiose. Anaffettivi. Naturalmente senza fumare (perché il fumo passivo ammazza il figlio dell’inquilina del palazzo di fronte, e di recente hanno scritto che fa male anche ai cani) e bevendo acqua senza sodio (ma occhio all’arsenico e al cloro e ai solfati, oltre al celebre stronzio) ma senza prosciutto, salame, mortadella e bacon che sono pieni di grassi malsani e nitrati e nitriti (di cavallo?) e niente birra perché il luppolo fa male alla prostata, lo zucchero bianco è veleno al pari di burro, strutto, olio di palma e olio di colza, i sostituti dello zucchero fanno peggio, i biscotti contengono mediamente più grassi dei salumi, sul caffè e sui carboidrati si è letta ogni cosa, nel 2015 l'Organizzazione mondiale della sanità ha deciso che «la carne è cancerogena» (le salsicce sono accanto all'amianto nel gruppo 1, dove sono racchiusi gli agenti più pericolosi) come la Coca Cola e le bibite di ogni tipo, e i succhi, anche in versione dietetica, mentre la frutta alla fine contiene sempre tracce di pesticidi anche se hai lavato e sbucciato, e comunque fa ingrassare come quella secca, il gelato contiene additivi e coloranti e conservanti, in generale tutti i grassi causano malattie cardiache, il generale tutto il grano (non solo il glutine) contiene bromato di potassio, le merendine per bambini fanno ingrassare e danno squilibri ormonali, dei fritti neanche parliamo, il pesce assorbe le sostanze tossiche dei nostri mari, la pizza ha la farina 00 che ha troppo amido e amido e zuccheri e i bordi bruciati o carbonizzati che fanno venire i tumori, niente è peggio del sale che alza la pressione, forse solo il vino, almeno secondo il Chief Medical officer (2016) che ha stabilito che faccia male sempre, anche poco, e che ti abbassa l’aspettativa di vita. Ma chi la vuole, questa vita. Chi la vuole, questa sanità che ingloba anche le dimensioni sociali e comportamentali, e dove qualsiasi coglione ti spiega che se ti ammali pesi economicamente sulla società. Ridateci il compianto (davvero) e libertario Antonio Martino, ex ministro ed economista: «L’impiego di argomentazioni scientifiche volte a distogliere la percezione del rischio, terrorizzare l’opinione pubblica e indurre le autorità politiche all’adozione di misure restrittive delle libertà individuali... rappresenta nient’altro, nella quasi totalità dei casi, che uno strumento nella lotta che gli statalisti di ultima generazione conducono ai danni delle nostre libertà». Ridateci il Michele Ainis del 2004 col suo libro «Le libertà negate. Come gli italiani stanno perdendo i loro diritti», dove raccontava di uno Stato che, in fondo, ti chiede solo di rispettare delle regole: e fa niente se queste regole, lentamente, nel loro insieme, finiscono per imbrigliarci come le cordicelle che bloccavano Gulliver. Ormai è vietato tutto. Fioccano le commissioni culturali e giornalistiche per edulcorare i testi che rischiano di offendere qualche sensibilità, fioccano le purghe del linguaggio, già vent’anni fa scrittori come Michel Houellebecq e Oriana Fallaci furono denunciati per aver istigato all’odio razziale, libri e film sono stati accusati a vario titolo di razzismo o pedofilia, parlare è diventata un’impresa (ne abbiamo scritto più volte) e attendiamo chiusi in casa, sfiduciosi, le prossime novità sul lockdown, sui nuovi divieti: non abbiamo mai avuto (mai, mai, neppure lontanamente) una classe politica così scandalosamente imbecille, proprio tarata mentale: ma c’è qualcosa che va oltre e, come si dice, ha piovuto sul bagnato. Un diluvio. E ci sono tante persone normali, perbene, che sono diventate inconsapevoli fiancheggiatrici di un neosalutismo che ha i toni isterici e salvifici di chi non si limita a lottare contro un virus, come tanti che ce ne sono stati nella Storia: è anche piccolo traffico, piccolo commercio, sondaggino di opinione, esondazione ideologica, pubblicità progresso, fanatismo di chi stabilisce dall’alto il benessere di un popolo e rivitalizza il primato del collettivo sull’individuo, glorifica l’intervento statale, annuncia nuove ondate e nuovi lockdown, e intanto ci chiude in casa. Ma ne usciremo. Ne usciremo comunque.
Filippo Facci
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kon-igi · 4 years ago
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Ciao Kon, mi interesserebbe conoscere un tuo parere su questo "articolo", se avrai tempo e voglia di leggerlo: https://www.facebook.com/107912280949252/posts/197957735278039/
Grazie!
La pagina FB Pillole di Ottimismo è un ottimo aggregatore di punti di vista professionali scevri da protagonismi, complottismi e pessimismi cosmici e con grande piacere (o forse dispiacere) credo che questo post fotografi la maggioranza delle persone con una pugnalata dritta e precisa al cuore, che quasi fa soffrire anche me di riflesso empatico.
Riporto il post in link per chi non avesse Facebook: 
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E TU DI CHE COVID SEI?
Di Emilio Mordini, medico psicoanalista Foto di Greg Rosenke/Unsplash
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Classificazione empirica di come diversi tipi psicopatologici affrontano la pandemia, liberamente ispirata a tre casi letterari.
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Sin dai primi mesi di questa epidemia si è parlato dei suoi possibili effetti sulla salute mentale, sia diretti (dovuti ad un’azione del virus sul sistema nervoso centrale) sia indiretti (dovuti alle misure di distanziamento sociale e all’isolamento, al clima generalizzato di paura, al mancato o insufficiente trattamento di disturbi preesistenti, e così via).
Già nel maggio scorso il Royal College of Psychiatrists avvertiva dell’arrivo di uno “tsunami di disturbi mentali”, comprendendo sia nuovi disturbi provocati dalla condizione di stress, sia l’aggravarsi dei disturbi esistenti (1). Numerose indagini si sono succedute da allora, confermando quest’allarme (2). La maggior parte dei lavori ha ricercato la comparsa o l’aggravamento di sintomi psicologici e psichiatrici nella popolazione generale o in specifiche sottopopolazioni.
Come psicoanalista debbo confessare che raramente trovo simili studi interessanti. Tra l’altro, per lunga esperienza clinica, so che le persone tendono ad ingannare e ingannarsi rispetto alle proprie condizioni mentali e che i meccanismi di rovesciamento, diniego e spostamento sono così ubiquitari da rendere del tutto improbabili i risultati di questionari pur sofisticati. Lascio, quindi, ad altri il compito di discutere la validità di queste ricerche.
Vorrei invece proporre una mia classificazione empirica di come diversi tipi psicopatologici affrontano la pandemia. Naturalmente esiste anche un modo “sano” di gestire psicologicamente questa emergenza ma la salute mentale, come quella fisica, è un ideale che nessuno riesce davvero a raggiungere: così molti anche tra i “sani” potranno, almeno in alcuni aspetti, riconoscersi nei quadri che descriverò.
Questa classificazione è stata costruita su una casistica relativamente vasta di pazienti, composta sia da coloro che seguo in psicoterapia e sia da persone che si sono rivolte a me per semplici consultazioni, nonché sull’osservazione quotidiana delle persone che incontro. Non è, tuttavia, un esercizio rigoroso, piuttosto è uno stimolo a ragionare insieme, sperando che il lettore possa divertirsi a ritrovare sé stesso, o qualche proprio conoscente, nell’uno o nell’altro tipo. Se poi questo gioco lo farà anche a riflettere su alcune dinamiche psicologiche innescate dall’epidemia, avrò raggiunto il mio scopo.
Il primo tipo di reazione a questa epidemia è la “sindrome della casa degli Usher”.
“Il crollo della casa Usher” è una famosa novella di E.A.Poe che racconta come il protagonista e voce narrante si rechi a far visita a un vecchio amico d’infanzia, Roderick Usher, che vive isolato nella casa di famiglia con la sorella Madaline. Fratello e sorella sono entrambi affetti da bizzarre malattie: l’uomo vive in una situazione di eretismo nervoso perenne mentre la donna vaga in uno stato crepuscolare tra la vita e la morte. Il racconto si svolge in un’atmosfera di crescente tensione, densa di sinistri presagi, che genera via via una situazione da incubo che esploderà nell’orrore finale. L’attesa di una catastrofe terribile ed inevitabile - ma di cui non si riescono a prevedere i contorni - è la chiave di questo racconto così come della reazione psicologica di coloro affetti da questa sindrome.
Chi fa parte di questo tipo psicologico avverte nell’epidemia una minaccia oscura la cui presenza non riesce a tollerare né intellettualmente né emotivamente. Incertezza, segni inquietanti ed ambigui, impossibilità di fuga: tutto ciò risulta intollerabile a queste persone. Esse non temono tanto il rischio reale quanto la sensazione di attesa catastrofica, claustrofobica e inevitabile. Le persone che appartengono a questo gruppo sono anche quelle che risentono di più del clima di terrore creato dai media.
Un modo fondamentale per gestire psicologicamente questa condizione è costruire una narrazione che colmi l’attesa, che allenti la tensione incombente (“Io leggerò ed voi ascolterete: così passeremo insieme questa terribile notte” dice ad un certo punto il protagonista della novella di Poe all’amico Roderick). Si tratta di narrazioni che, a seconda della formazione e della cultura della persona, possono presentarsi in forme scientifiche, pseudoscientifiche o decisamente fantastiche: lo scienziato, ad esempio, costruirà modelli matematici mentre l’ingenuo complottista sognerà del Gruppo Bilderberg ma – al di là del contenuto di verità dei rispettivi racconti – l’obiettivo di entrambi è anestetizzarsi dall’angoscia dell’attesa. Segno inconfondibile che una narrazione assolve questa funzione è la tenacia, tetragona ad ogni critica razionale, con cui una persona la difende. Assistiamo così a seri studiosi che non riescono ad abbandonare le proprie teorie sull’epidemia nemmeno davanti a evidenze lampanti della loro fallacia oppure a pacifiche casalinghe che sarebbero disposte a farsi bruciare sul rogo pur di non ammettere che una qualche malattia pur esiste. In tutti questi casi, sotto l’apparente caparbietà intellettuale, agisce in effetti un potente condizionamento emotivo: la narrazione a cui queste persone sono così affezionate è diventato un feticcio che le protegge dall’ansia, questa è la ragione per cui è spesso impossibile far cambiare loro idea. Questo estremo tentativo di autocura, però, non sempre riesce a reggere l’urto con la realtà esterna o ad arginare efficacemente l’angoscia che preme dall’interno, in tal caso possono emergere sintomi più specifici: stati di agitazione, pensieri paurosi sul futuro, disturbi del sonno, vere e proprie crisi di panico. Infine, le persone che appartengono a questo gruppo rischiano di precipitare in gravi stati depressivi.
Il secondo tipo psicopatologico è quello del “demone meschino”.
“Il demone meschino” è uno straordinario romanzo che lo scrittore russo Fëdor Sologub scrisse agli inizi del secolo scorso e che narra il progressivo sprofondare nella follia e nella cattiveria di Peredònov, un oscuro professore di provincia. La storia è un allucinato apologo sull’avarizia e la misantropia e sul loro trasformarsi prima in solitudine, poi in delirio persecutorio, infine in morte. Coloro che sviluppano questa sindrome sono spesso persone affette da una certa rigidità emotiva, con una personalità caratterizzata da tratti ossessivi, a volte paranoici. Questi soggetti sono spontaneamente poco propensi ai contatti fisici, con una estrema attenzione all’igiene personale, però anche ambiguamente affascinati da tutti i prodotti di decadimento del corpo (ad esempio, nonostante tutto il loro igienismo, possono avere l’abitudine di annusare i propri indumenti intimi sporchi o osservare con scrupolosa attenzione il muco rappreso delle proprie narici).
Altri tratti caratteristici sono una tendenza all’avarizia, ad attenersi scrupolosamente alle regole e un atteggiamento sospettoso, più o meno marcato, nei confronti del prossimo. Si comprende facilmente come il clima generato dalla pandemia e dalle misure di prevenzione trovi un terreno fertile nella personalità di questi soggetti, che vedono tutte le loro fantasie inconsce realizzarsi nella realtà. Per queste persone distanziamento fisico, grande attenzione alle deiezioni corporee e all’igiene personale, senso di pericolosità legato agli altri esseri umani, obbedienza all’autorità e persino ridotta possibilità di spendere per ristoranti, cinema, teatri, palestre, cure estetiche, vestiario e così via, rappresentano altrettante occasioni per soddisfare le proprie pulsioni senza dover entrare in conflitto con il prossimo ma, anzi, potendo vantarsi di essere buoni e responsabili cittadini. Tuttavia, nulla è più pericoloso per la mente umana che realizzare le proprie fantasie poiché esse, facilmente, si rivelano incubi.
Coloro che sono affetti dalla sindrome del demone meschino possono sembrare soddisfatti dall’epidemia (infatti spesso sposano le previsioni più catastrofiche e disprezzano ogni forma di ottimismo) ma, in realtà, progressivamente precipitano in una misantropia crescente e in un profondo dispetto nei confronti dell’intero genere umano. Leggono con avidità le descrizioni delle condizioni in cui versano i malati intubati e le sofferenze che patiscono, immaginano morti orrende per i giovani che hanno frequentato la movida, sono ossessionati dai macabri cortei di bare della primavera scorsa: in una parola si trovano immersi in un’opprimente atmosfera di morte. L’unico momento di relativa gioia resta per loro il parlare male degli “irresponsabili” (se sono medici, dei colleghi meno pessimisti di loro) e il commentare con sadica soddisfazione “ve lo avevamo detto” ad ogni peggioramento dell’infezione.
La sindrome del demone meschino non risparmia nemmeno i cosiddetti “negazionisti” che, quando appartengono a questa tipologia, non negano l’esistenza di rischi alla salute ma li attribuiscono ad entità malvagie e misteriose (Big Pharma, vaccini, onde elettromagnetiche, 5G, medici rianimatori e così via) fantasticando malattie devastanti e morti orribili per i “covidioti”.
Il terzo tipo di reazioni all’epidemia è quello che, in onore al protagonista della commedia di Molière, chiamerò la “sindrome di Argante”.
“Il malato immaginario” racconta appunto la storia di un ricco ed ignorante borghese, Argante, spaventato ed affascinato dalle malattie e dalla medicina, che, dopo averne patite di tutti i colori per opera di una schiera di medici ciarlatani e avidi, si farà lui stesso medico al termine di una burlesca cerimonia di intronazione.
La sindrome di Argante colpisce coloro che già erano di per loro patofobi e che, con questa epidemia, riescono finalmente a dar libero sfogo a tutte le paure (in fondo, anche se non lo ammetterebbero mai né con gli altri né con sé stessi, questa epidemia è per loro una grande occasione di divertimento). Molti di loro affollano il web ed i social, dove sono sempre alla ricerca di nuovi sintomi e nuovi trattamenti (vitamina D, lattoferrina, clorochina, melatonina e così via).
Costoro ne sanno sempre una più dei medici e non è raro che dispensino consigli, discutano modelli epidemiologici, valutino con preoccupazione le conseguenze long-term della malattia, sempre pronti, beninteso, a pendere dalle labbra di un nuovo luminare o virologo televisivo che li affascini (del resto già Manzoni notava che “non si può spiegare quanto sia grande l'autorità d'un dotto di professione, allorché vuol dimostrare agli altri le cose di cui sono già persuasi”).
Da un punto di vista clinico è importante differenziare questa categoria dal più piccolo gruppo degli ipocondriaci. Mentre i patofobi temono di contrarre il COVID e passano il tempo a studiarlo, gli ipocondriaci sono coloro che, in modo delirante, sono sicuri di averlo già contratto e si sentono andare in disfacimento sotto gli effetti del morbo. Gli ipocondriaci soffrono di una vera e propria psicosi delirante che riguarda il proprio corpo e dovrebbero essere sempre distinti dai patofobi perché, a differenza di questi ultimi, rappresentano un’urgenza psichiatrica. Non c’è dubbio che il trattamento di patofobi e ipocondriaci sia, però, reso oggi quasi impossibile dall’aver noi in buona parte sostituito la diagnosi clinica con quella laboratoristica. Un patofobo o un ipocondriaco asintomatici, che siano però risultati positivi alla ricerca del RNA virale, troveranno nel dato di laboratorio una conferma oggettiva alle proprie fantasie e sarà molto difficile – se non impossibile – convincerli del contrario. Molti dei pazienti che, pur in assenza di sintomi di rilievo, affollano ed intasano gli ospedali in questi giorni fanno probabilmente parte di questo gruppo.
Angosciati, misantropi, patofobi e ipocondriaci esauriscono la psicopatologia connessa all’epidemia di COVID? Certamente no, ci sono altri tipi di cui varrebbe la pena di parlare e, sicuramente, bisognerà perlomeno accennare in futuro a bambini ed anziani. Tuttavia, prima di concludere, vorrei richiamare l’attenzione su una categoria particolarissima, quella di coloro che non sono affetti, da un punto di vista psicologico, dalla pandemia. Si tratta di persone che, in cuor loro, vivono come non esistesse alcuna emergenza; quando, superficialmente, mostrano interesse, lo fanno più per conformismo sociale che per reale convinzione.
Questo gruppo si compone di due distinti sottogruppi: 1) i tifosi; 2) le persone affette da gravi disturbi mentali.
I tifosi sono persone per cui la questione dell’epidemia tende a riassumersi nel conflitto amico/nemico. Dell’epidemia avvertono solo l’occasione per dividersi in fazioni e combattersi ferocemente (anche per acquistare benemerenze presso la propria parte o per ragioni di carriera ed interesse economico). Debbono recitare di essere preoccupati per la salute o la libertà, per l’economia o il servizio sanitario (a seconda della parte scelta), ma, in realtà, l’unica cosa che loro interessa è prevalere. Se per azzardo gli schieramenti si invertissero, costoro non avrebbero nessun problema a seguire la propria fazione, sostenendo l’opposto di quanto avevano sostenuto sino ad un attimo prima.
Anche le persone affette da gravi di disturbi mentali percepiscono molto superficialmente l’epidemia. Questi malati sono spesso troppo presi dal proprio mondo interiore per rendersi davvero conto di quello che succede fuori. Un mio paziente gravemente psicotico era convinto che ogni volta che suonasse un clacson fosse un messaggio inviato a lui per indicargli di compiere o non compiere determinati gesti. Da parecchi mesi questo signore ha incluso il gesto di mettersi o levarsi la mascherina tra i gesti che i clacson gli ordinano: come si vede non si tratta di un nuovo sintomo ma dell’adattamento di uno vecchio alla diversa situazione. In questo caso, e in altri simili, sarebbe clinicamente sbagliato attribuire al COVID qualsiasi responsabilità nei disturbi dei pazienti. Tuttavia, c’è una certa ironia nel fatto che coloro che usano l’epidemia per le proprie guerre politiche, di carriera, di fazione accademica assomiglino così tanto a coloro che sono vittime di un delirio. Qui ci potrebbe essere una lezione da imparare anche per noi.
1) RCP, 2020, “Psychiatrists See Alarming Rise in Patients Needing Urgent and Emergency Care and Forecast a ‘Tsunami’ of MentalIllness”, Royal College of Psychiatrists(15 May), www.rcpsych.ac.uk/…/psychiatrists-see-alarming-rise-in-pati…
2) Nel luglio 2020 veniva pubblicata anche una prima systematic review (Salari et al., 2020, Prevalence of stress, anxiety, depression among the general population during the COVID-19 pandemic: a systematic review and meta-analysis, Globalization and Health16:57, https://doi.org/10.1186/s12992-020-00589-w) seguita da molte altre (al 1 novembre 2020, PubMed ne cita 49) sino all’ultima del 29 ottobre scorso, pubblicata sul J Health Psychol (Arora et al., 2020, The prevalence of psychological consequences of COVID-19: A systematic review and meta-analysis of observational studies. J Health Psychol. 2020 Oct 29:1359105320966639).
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Credo che di non dover o, meglio, poter aggiungere altro, tranne che invitare molti dei miei follower, conoscenti e amici a riconoscersi, purtroppo, in una delle tre descrizioni.
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