#ma per i vestiti delle cugine
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#anon#non lo so... potrebbe? anche se anche a me viene da pensare a quello#ma allo stesso tempo il primo indizio lo avrebbe dato lei qualche giorno fa con quel follow anche non volendo essere per quello#ma per i vestiti delle cugine#sai come lo si potrebbe scoprire? se fede fa gol e fa una certa esultanza ahaha
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Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che vengo a cena.
Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera.
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia.
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata.
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata.
Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata.
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l'alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte così come volavo alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutti quelli che urleranno il mio nome.
Perchè lo so, mamma, non ti fermerai.
Ma, per quello che vuoi di più, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non privare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Combatti per le loro ali, quelle ali che mi tagliarono.
Combatti per loro, che possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti per urlare più forte di me.
Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l'ultima.
Cristina Torre Cáceres
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Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che vengo a cena.
Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera.
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia.
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata.
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata.
Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata.
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l'alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte così come volavo alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutti quelli che urleranno il mio nome.
Perchè lo so, mamma, non ti fermerai.
Ma, per quello che vuoi di più, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non privare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Combatti per le loro ali, quelle ali che mi tagliarono.
Combatti per loro, che possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti per urlare più forte di me.
Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l'ultima.
Cristina Torre Cáceres
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Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che vengo a cena.
Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera.
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia.
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata.
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata.
Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata.
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l'alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte così come volavo alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutti quelli che urleranno il mio nome.
Perchè lo so, mamma, non ti fermerai.
Ma, per quello che vuoi di più, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non privare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Combatti per le loro ali, quelle ali che mi tagliarono.
Combatti per loro, che possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti per urlare più forte di me.
Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l'ultima.
Cristina Torre Cáceres
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Se non rispondo alle tue chiamate domani, mamma.
Se non te lo dico vado a cena.
Se domani, mamma, il taxi non arriva.
Magari sono avvolta nelle lenzuola di un albergo, per strada, o in una borsa nera.
Forse sono in valigia o mi sono persa sulla spiaggia.
Non spaventarti, mamma,
se vedi che mi hanno pugnalato.
Non urlare quando vedi che mi hanno trascinato via.
Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata.
Ti diranno che sono stata io,
che non ho urlato,
che sono stati i miei vestiti,
l'alcol nel mio sangue.
Ti diranno che era ora,
che ero sola.
Che il mio ex, lo psicopatico, aveva delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma,
che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Lo giuro, mamma,
sono morta combattendo.
Lo giuro, vecchia signora,
ho urlato forte mentre volavo.
Si ricorderà di me, mamma,
saprà che sono stata io a rovinarlo quando mi vedrà in faccia a tutte le ragazze che grideranno
il mio nome.
Perché so, mamma, che non ti fermerai.
Ma per favore, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le miei cugine,
non privare le tue nipoti.
Non è colpa sua, mamma,
non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Combatti per le tue ali, per le quali mi hanno tagliato.
Lottate affinché siano liberi e volino più in alto di me.
Combatti in modo che gridino più forte di me. Possano vivere senza paura, mamma,
proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sarò io, mamma,
se non torno domani,
distruggi tutto.
Se domani tocca a me,
voglio essere l'ultima.
- Cristina Torres Cácers
Ciao Giulia. ❤️
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“Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che vengo a cena. Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera.
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia.
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata.
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata.
Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata.
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l'alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una p*ttana.
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte così come volavo alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutti quelli che urleranno il mio nome.
Perché lo so, mamma, non ti fermerai.
Ma, per quello che vuoi di più, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non privare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Combatti per le loro ali, quelle ali che mi tagliarono.
Combatti per loro, che possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti per urlare più forte di me.
Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri.
Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l'ultima.”
(Cristina Torre Cáceres)
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Se domani non rispondo alle tue chiamate, mamma.
Se non ti dico che vengo a cena. Se domani, il taxi non appare.
Forse sono avvolta nelle lenzuola di un hotel, su una strada o in una borsa nera.
Forse sono in una valigia o mi sono persa sulla spiaggia.
Non aver paura, mamma, se vedi che sono stata pugnalata.
Non gridare quando vedi che mi hanno trascinata.
Mamma, non piangere se scopri che mi hanno impalata.
Ti diranno che sono stata io, che non ho urlato, che erano i miei vestiti, l'alcool nel sangue.
Ti diranno che era giusto, che ero da sola.
Che il mio ex psicopatico avesse delle ragioni, che ero infedele, che ero una puttana
Ti diranno che ho vissuto, mamma, che ho osato volare molto in alto in un mondo senza aria.
Lo giuro, mamma, sono morta combattendo.
Lo giuro, mia cara mamma, ho urlato forte così come volavo alto.
Ti ricorderai di me, mamma, saprai che sono stata io a rovinarlo quando avrai di fronte tutti quelli che urleranno il mio nome.
Perché lo so, mamma, non ti fermerai.
Ma, per quello che vuoi di più, non legare mia sorella.
Non rinchiudere le mie cugine, non privare le tue nipoti.
Non è colpa tua, mamma, non è stata nemmeno mia.
Sono loro, saranno sempre loro.
Combatti per le loro ali, quelle ali che mi tagliarono.
Combatti per loro, che possano essere libere di volare più in alto di me.
Combatti per urlare più forte di me.
Possano vivere senza paura, mamma, proprio come ho vissuto io.
Mamma, non piangere le mie ceneri
Se domani sono io, mamma, se non torno domani, distruggi tutto.
Se domani tocca a me, voglio essere l'ultima.
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Armadio sostenibile- suggerimenti x dummies.
Ho sempre pensato che vestirsi in modo più etico e sostenibile costasse tanto, e so benissimo che il prezzo più alto è assolutamente giustificato da una qualità migliore dei capi e da un trattamento più rispettoso dei lavoratori/ delle lavoratrici ma penso anche che rinnovare (o modificare) il guardaroba debba essere un processo sostenibile per l’ambiente- sì- ma anche per il portafogli.
In pre-shopping mi è capitato di partire carichissima e con tante buone intenzioni ma, alla vista di certi prezzi, mi tiravo indietro. Questo perché, detto molto sinceramente, il mio potere d’acquisto non è poi così alto! Immagino che ci siano altre persone nella mia stessa situazione, quindi ho pensato bene (spero) di scrivere qualche suggerimento che può servire a chi vuole iniziare ad acquistare in modo più consapevole e rispettoso del pianeta oppure per chi cerca solo un’ispirazione.
1) Negozi dell’usato. Per favore, smettetela di pensare che nei negozi di secondhand si trovino solo cose datate da indossare a carnevale o per qualche revival anni ‘90. Una volta tolto questo preconcetto dalla testa, fatevi sorprendere da una selezione variegata di capi. Oltre ai grandi store (per esempio: Humana Vintage Store oppure ArmadioVerde online), è importante sapere che esistono tanti piccoli store dell’usato e un modo molto semplice per trovare quelli più vicini a voi può essere la mappa della Rete Zero Waste. Quest’ultima è davvero molto comoda e discretamente aggiornata, utilissima per fare le vostre ricerche. Ormai la qualità di questi negozi è molto alta, raramente ho trovato capi in cattivo stato e l’esperienza d’acquisto è stata sempre positiva.
2) Depop: Ammetto che l’ho usato poco, ma so che si trovano bellissimi capi a prezzi molto accettabili! Credo sia un’opzione d’acquisto molto sottovalutata qui in Italia e che meriterebbe più attenzione- soprattutto se siete amanti del vintage. L’app è molto intuitiva e trovo sia facile trovare tante alternative, adatte ai tanti gusti personali. Ricordate che, se siete possibili clienti o che vogliate aprire un vostro “Depop shop”, è importante comprendere che è una piattaforma in cui le foto -luminose e chiare- fanno la differenza e possono essere determinanti per l’acquisto. L’ultimo accorgimento da avere è quello di selezionare bene i rivenditori, perché possono capitare degli account che vendono capi/accessori fast fashion spacciandoli per usato o vintage.
3) Swap party: quante volte vi è capitato di scambiarvi vestiti con amici/amiche/sorelle/fratelli/cugin*/genitori/zii/zie? E’ sicuramente la modalità di scambio (o acquisto) che più preferisco, in questo modo ho ereditato tantissimi capi e dato la possibilità ad altri miei capi di non essere dimenticati nell’ armadio. Gli swap party, in un contesto molto informale, possono funzionare come dei semplici “baratti”; ma possono funzionare anche in modo più formale e strutturato attribuendo dei “crediti in stelline” agli abiti e/o pagando una somma compensativa. La modalità di organizzazione la decidete voi!
Spero che questo post possa esservi d’aiuto, vi lascio con un ultimissimo suggerimento: comprate solo se necessario, i prezzi economici dell’usato possono ispirare tanti acquisti, ma fateli in modo consapevole e ragionato.
xoxo
-F.
#modasostenibile#secondamano#swapparty#depop#lamodabuonaegiusta#sustainablefashion#modalenta#shoppingsostenibile#secondhand
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I Lavori di Giugno in Giardino e in Terrazzo
Finalmente arriva l’estate! Le piante guardano con occhi preoccupati i padroni che fanno le valigie e pensano “quest’anno si sarà ricordato di cambiare le pile alla centralina dell’irrigazione?”. Ma oltre all’acqua ci sono tanti altri aspetti da prendere in considerazione. Questo mese il sole raggiunge il suo punto più alto nel cielo ed è capace di mandare arrosto il nostro terrazzo in pochi giorni.
Ultimi giorni di primavera In giugno la primavera appassisce: smette i suoi panni color di smeraldo e trascolora in tinte più calde e cariche. Anche gli odori cambiano: i profumi freschi e volatili di maggio cedono il passo a fragranze più decise e mediterranee. In giardino adesso fluttuano gli odori di lavanda, di elicriso, di salvie… che nell’aria galleggiano insieme al frinire acuto delle cicale.
Erbacee perenni Molte erbacee perenni sono in piena fioritura. Altre invece hanno le infiorescenze già appassite. Se volete tenere i semi ricordatevi di non recidere i fiori fino a quando non sono maturi. Alcune erbacee, come le aquilegie o i lupini, sono facilissime da riprodurre attraverso i semi; si consiglia quindi di conservarli e di seminarli la prossima primavera. Se invece volete stimolare la pianta a una seconda fioritura oppure non volete affaticarla con il processo di maturazione dei semi, tagliate senza indugio i fiori secchi.
Rampicanti Durante tutta la stagione vegetativa i vostri rampicanti cresceranno e si arrampicheranno con naturale istinto esattamente dove non devono. Se si vogliono indirizzare nei punti giusti vanno seguiti e amorevolmente spostati e legati man mano che crescono. A settembre, tornati dalle vacanze, sarà troppo tardi: a quel punto sarete costretti a intervenire con il machete vestiti da esploratore vittoriano per avere la meglio sulla giungla cresciuta durante l’estate sul vostro terrazzo.
Rose
Non tagliate i fiori appassiti di rose botaniche e antiche altrimenti perderete le bacche che in autunno sono molto decorative. Discorso diverso per le rose rifiorenti che invece è meglio spuntare per stimolare la rifioritura.In questo periodo gli afidi impazzano, non dategli tregua e ricordate che i prodotti biologici contro questi insetti sono efficacissimi.
Acqua
È il momento in cui il vostro impianto d’irrigazione va controllato per benino. Verificate che gli ugelli e gli sgocciolatoi non siano incrostati di calcare. In caso, un bel bagno nell’aceto risolverà il problema. Il momento migliore per annaffiare è la mattina presto. Ricordatevi inoltre che le irrigazioni serali attirano le zanzare. Per combattere questi fastidiosi insetti è utile mettere un pezzo di rame nei sottovasi. Se avete lo stagno, molti pesci, le gambusie ad esempio, sono adatti a mangiare le larve di zanzara.
Orto
È ora di raccogliere i primi prodotti! In giardino ma anche in terrazzo ricordatevi che le piante da orto possono essere molto decorative. E sono belle da accostare a quelle cugine meno usate che sono un po’ una via di mezzo tra piante ornamentali e piante da produzione. Tra queste consigliamo la Cynara cardunculus (in foto), molti Allium ornamentali, gli amaranti… ma ce sono moltissime!Stesso discorso vale anche per la frutta di cui spesso si sottovaluta il valore decorativo.
Letture in giardino!
Anche se questo mese i lavori che abbiamo fatto non sono stati pesanti come a inizio primavera, la fatica è resa simile a causa del gran caldo… Quindi è giunto il momento di sedervi e di godere del vostro giardino. Magari con un bel libro. Ecco allora 5 libri che secondo noi il buon giardiniere deve leggere prima o poi nella vita. In rigoroso ordine sparso:
1. Il giardino di Elizabeth di Elizabeth Von Arnim
2. L’educazione di un giardiniere di Russell Page
3. Pollice verde di Ippolito Pizzetti
4. Libereso, il giardiniere di Calvino. Da un incontro di Libereso Guglielmi con Ippolito Pizzetti di Libereso Guglielmi
5. L’avventura di un giardiniere di Peter Smithers
Ci vediamo a luglio con la prossima puntata. Consiglieremo altri 5 imprendibili libri da leggere sotto l’ombrellone!
Potete leggere questo e altri articoli sulla nostra pagina di Houzz
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“Da qui ti chiamo Definitiva e me ne copro il cranio”: l’epistolario estremo di Veronica Tomassini e Davide Brullo
Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per l’Europa, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. Colpito da un morbo contratto in Armenia, mentre cercava di raggiungerla, ora Nathan è bloccato a Tabriz, in frantumi di delirio. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera; qui la risposta di Nathan. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. L’ultima puntata del ciclo è qui.
***
Tabriz, 20 giugno 1950
Tre sono le tue vite – una è questa. Aveva la lingua per metà blu, un cervo impennato disegnato sulla guancia destra, una longitudine di rovi tra i capelli – il male, che ha declinazione retorica nel sangue, mi fa sognare troppo e questo, pare, mi lacera le forze. Delle tre vite l’unica che non intendeva considerare – seduta nel cortile dell’ospedale, non chiede soldi per sondare il passato, non cede, ma la pazienza di uno che dia calibro all’oggi – era la quarta, questa, perché, diceva, “per ascendere al futuro bisogna capire ciò che è morto”. Mi svelò la prima – “alle altre arriverai di conseguenza”, disse, bisbigliando, come se avesse un millennio e la sua vigna tra i denti – e io pensai a quel nugolo di versi di William Butler Yeats – Once out of nature I shall never take/ My bodily form from any natural thing,/ But such a form as Grecian goldsmiths make –, che avevo letto a Reims, incisi sulla lama di una spada ornamentale, nella casa troppo sontuosa dell’uomo che avrebbe traviato mia madre, ti giuro, prima che lei mi dicesse. “Eri orafo tra gli Sciti, nel IV secolo prima di Cristo – ti uccisero dopo aver elaborato il collare della regina, perché è inconcepibile la vita di chi offre una forma pura”. Improvvisamente mi sembrò che i bambini orfani, nel cortile, stessero giocando con il sole, lo avessero staccato dalla sua orbita, come demoni minori e passeggeri, troppo capricciosi per curarsi degli inferi – mi parve che si stessero spartendo l’astro, a morsi, e la luce mi lavò l’iride – caddi – la donna, forse, d’età inutile, era il prodotto del secondo o del quarto sogno, geologicamente collegato agli altri.
Non riesco a uscire da Tabriz e tu sei il mio acquartieramento nella quiete – la tua povertà, la tua insufficienza, sono così risolte – Antartide non è abbastanza perché quel bianco – su cui l’astro con lascivia lava e dilata la sua colpa – non rende ragione alla tua bianchezza.
Dicono che a Urmia sia nato Zarathustra – mi sono recato lì con un rabbino – va in giro con un seguito di cani, gli trottano intorno, li tratta come se fossero le dita di Dio. Avrei chiesto di raggiungerti almeno con l’anima, introducendola a forza nel corpo di un colombo – le lettere evocano fraintendimenti, un cataclisma di interpretazioni contrapposte. Le parole hanno quel blu che porta al tradimento, per una banale scomposizione delle virgole in vizio. Ma il morbo mi ha massacrato – come se avessi una voliera nello stomaco – e il rabbino, che ha il nome di uno degli angeli maledetti, ride quando qualcuno è preda del male, perché lo ritiene una chiara testimonianza divina, e chiama i cani Keter, Chokhmah, Binah, come le Sephiroth, gli attributi di Dio – mi ha riportato a Tabriz, in questa prigione di veli e di cure, incastrato al regno onirico. Non so dirti se esista la luna, qui, o se i cani del rabbino l’abbiano spaventata, ad accucciarsi tra Israele e il Mediterraneo e la sua invidia.
*
Tabriz, 22 giugno 1950
Della violenza degli Sciti racconta Erodoto – e della valenza dei loro orafi. Come se il sangue fosse equivalente all’oro, come se il massacro assuma lucentezza, come se il raro sia possibile solo tra i sopravvissuti. Viaggiai fino a Buenos Aires – trovando virtù per vite che sono di molto superiori a tre o a quattro – per acquistare una mappa del cielo degli Sciti. Era, appunto, una piccola placca d’oro, intagliata con finezza: negli occhi di un giaguaro che salta – granitico nel desiderio –, sono disposti, da un lato, il nostro pianeta, dall’altro la Luna – sulla lingua è deposto il Sole e sul corpo della bestia si aprono costellazioni di forme sconosciute. Ciò che vale per le parole, vale per le stelle nel cosmo: a seconda di come le interpreti, qualcosa orienta, qualcuno ama, distribuisce o disturba. Ho rivenduto quella placca – per anni ho voluto essere il salto nell’oro di quel giaguaro stellato – a un banchiere di Firenze, dieci anni fa – coltivava serpenti in una vasca, frusciavano con suono di bicchieri e di gambe, intonati al disinvolto cinismo del loro padrone. Capelli laccati, vestiti ordinari come il codice penale, l’impeccabile pinguedine di chi somministra la ferocia come un farmaco. A volte, immergeva un uccello nella vasca, vivo, un passero, una gazza, chiudeva il coperchio, l’uccello urlava in gergo umano, affondava nello scintillante sibilo delle serpi – insieme si muovono con l’acuta prescienza di un fiume – come si getta una pietra in un lago, che smuove il sentimento dell’acqua, poi è nulla. Di ogni luogo, ho bisogno di vedere il potente – chi è efficace alla Storia e ne è l’anatomico esecutore – hanno visi simili a un proiettile – perché agire se l’unico scopo è sparire? Eppure, è più facile vedere un dio che razzola tra gli impuri piuttosto che mentre brandisce una spada, invitando alla costruzione di minareti e alla distruzione di tutto il resto.
Più tardi
Ho parlato di te al rabbino, lasciandogli assaggiare alcune frasi delle tue lettere – le odora e i denti sono decine di ventri e di polmoni, pulsano, si muovono – a Budapest ho sentito odore di arancio nella nebbia e ho pensato che basti un crocevia di luminosità, un luogo dove maceri per anni lo stesso giorno, a stimolare un’etica anomala. Poi, più tardi, mi prende le mani, come se fossero le tue lettere, e dice “lei non può che essere amata perché è la morte” – il viso del rabbino è carta, puoi strapparlo, e sotto ce n’è un altro, poi un altro, infine il muso di un cane, quello di un lupo, un falco: il rabbino sa che ogni cosa è un’altra, che nell’albero c’è la natura di un acquazzone, che la pietra ha in serbo il ragno, ed è per questo che prega, fino a escludersi, per stabilizzare il creato. “La magrezza estenuata, la quiete arcuata con cui ti attende, di chi non vuole e non ha, introdotta alla privazione, il campo che le ha disseccato il corpo e scorporato lo spirito – lei è una risorta, una ricomposta”. Cita testi che non conosco – di cui sono esecutori i celesti – dice “per vivere devi morire in lei” – e la sua indagine è più alta dei vaniloqui della fattucchiera – poi mi chiede chi vorrei essere, e sa che realizzare qualcosa è uccidere.
Più tardi, ancora
Forse scrivere è il mattatoio – ambire a queste lettere che hanno muggiti, e cavalcano, e una mortalità più ambigua della nostra. Per anni ho fatto ingresso nella vita delle donne che ho finto di amare – che ho amato con la sincerità incresciosa della finzione. In dedizione alla loro vita come al corpo – mi sono fatto presentare ai familiari – sono entrato in confidenza con fratelli, cugine, genitori. Mi adatto a ogni parentela, con un garbo riconosciuto. Poi, colto dall’ineludibile desiderio di deludere, mi sono dileguato – consegnando il morbo del sospetto e il demonio del rammarico – restando, in effetti, indimenticabile – è ciò che avrebbe potuto essere che ci compiace, non ciò che è, una estatica dell’ovvio. Per questo ho istituito una fratellanza con te, Vera, disintegrando ogni altro legame – non sai quante vite ho dissipato, e forse è a questo che alludeva l’indovina. Necessità di individuare la zona cruda della vita ed esaudirla, per prepararmi a te.
Ora il virus mi impone l’orizzonte di un uomo che muore, che giace nel male – a Tabriz non esiste notte ma una nicchia dove gli dèi inferiori, quelli dalla faccia di sciacallo, si radunano – l’alba è l’alcova del Dio unico, l’isolato – da qui ti chiamo Definitiva, e me ne copro il cranio.
Nathan
L'articolo “Da qui ti chiamo Definitiva e me ne copro il cranio”: l’epistolario estremo di Veronica Tomassini e Davide Brullo proviene da Pangea.
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Griot
Un pezzo di Toscana nell’Africa nera. A Kebemer, nel cuore del Senegal, 150 chilometri a nord di Dakar, si parla più l’italiano che il francese. «Porca miseria», «maremma cane»: neri come il carbone, pura razza Wolof, ma le esclamazioni sono quelle della lingua di Dante, con tanto di «c» che scivola via. I leoni del Senegal hanno appena perso ai rigori un’importante partita, e la delusione di fronte alla tv si scioglie in bicchierini di un the forte come un liquore.Il sole tramonta in mezzo ai baobab che spezzano la linea piatta della savana, e una piccola folla di parenti e amici saluta e ringrazia chi li ha ospitati per l’evento sportivo. Lui, il padrone di casa, è Ablaie, 22 anni per quasi due metri di altezza e un fisico da atleta su una faccia da bambino. E’ sua la bella casa in muratura con una grande terrazza per le ore più fresche, e sua la televisione, una delle poche del paese, e i mobili all’europea di una sala vasta e un po’ kitsch, con lo stereo e le grandi foto dei marabout islamici, mentre fuori è parcheggiata una vecchia Mercedes comprata usata ma tirata a lucido.
Ablaie lavora in Italia, dopo due anni a Pisa è arrivato a Pescara, uno dei mille e mille venditori che misurano a piedi le strade e le spiagge delle località turistiche. Da alcuni giorni sono ospite a casa sua. Mi ha messo in contatto con lui Mass, capo della comunità senegalese di Pisa e cugino di Ablaie. Mass più di 20 anni prima era stato uno dei primi a pronunciare la parola «vuccumprà», poi è diventato sindacalista. E’ in gamba: negli anni successivi sarà richiamato in patria dal suo governo, che gli affiderà un ministero.
A Kebemer ho perso il conto dei fratelli e delle sorelle, dei cugini e dei parenti vari di Mass: per le strade ti fermano tutti e ti chiedono in italiano notizie dell’amico lontano. Il fatto è che centinaia di abitanti di questa cittadina sono sbarcati in Italia grazie al suo esempio e anche al suo appoggio concreto. Da queste parti Mass è un vero personaggio, il punto di contatto fra il Senegal e quella lontana terra fredda e piovosa dove per tutti c’è un’occasione, fra la dura realtà africana e il sogno italiano.
Ablaie ha tre fratelli, due più grandi lavorano con lui a Pescara, uno di 20 anni sogna l’Italia e mette i soldi da parte: servono almeno diecimila euro. «Sono tanti? Forse — ammette — ma sono l’unica possibilità. Qui lavoro non ce n’è. Con questi soldi ci procurano i permessi e ci inseriscono nel giro del lavoro. Poi si tratta solo di resistere, e lavorare duro. Qualcuno non ce la fa, e torna a casa. I più restano in Italia anni. Tutti sognano di tornare. E c’è anche chi fa fortuna»
A San Louis ad esempio, al confine con la Mauritania, un cinquantenne che da 30 anni lavora a Genova sta costruendo un albergo di lusso. Mi mostra il cantiere con orgoglio, si profonde in ringraziamenti per l’Italia «che ci ha accolti, ospitati, ci ha dato una possibilità». Aprire un albergo, o un ristorante a Kebemer è anche il sogno di Ablaie, che in Italia ci viene sei mesi l’anno, ma vorrebbe costruire il suo futuro qui, vicino alla moglie e alle due figlie e a tutti gli altri parenti, la madre, una zia, due cugine. Tutti legati a un solo stipendio, il suo. Ablaie in Italia guadagna poco meno di mille euro. Cinque-seicento li manda a casa, più o meno il triplo di uno stipendio medio. Col resto si mantiene a Pescara.
A Kebemer la sua oggi è una famiglia ricca. Casa, auto, tv sono i segni di uno status sociale elevato. Alla periferia della cittadina in molti vivono ancora nelle capanne di paglia. E le case in muro sono spesso poco più che baracche. Da mangiare c’è per tutti, un po’ ovunque. Il problema è che si sta sviluppando un doppio mercato: cibo, alloggi, generi di prima necessità costano pochissimo. Ma chi guadagna di più, come gli emigranti, entra automaticamente nel labirinto del consumismo. Una bella casa, l’auto, la tv, lo stereo costano quanto da noi, forse di più. Cinquecento euro sono anche troppi per sopravvivere, ma terribilmente pochi per vivere all’europea. Così i soldi non bastano mai. E per molti il sogno di tornare rimane tale.
Per il resto la vita si svolge secondo ritmi antichi: il mercato, la moschea, le festività religiose (in questi giorni la più importante, il Tabaski, dove ogni famiglia “sacrifica” e porta in tavola una pecora). E la sera tutti insieme a mangiare nell’atrio della grande casa in muro. La mia cena è stata preparata nel salone, la tavola è apparecchiata solo per me. Un trattamento di riguardo per l’ospite. Chiedo di mangiare con tutti gli altri, se non è un problema. Non lo è. Si mangia nell’ingresso, seduti a terra in cerchio intorno ad una grande conca di riso e pesce, ci si serve con le mani. La porta è aperta, vanno e vengono di continuo parenti, amici, i “talibé”, piccoli sciuscià che chiedono e ricevono la carità di un piatto caldo. Si sta bene qui. Tutti parlano, qualcuno canta, Ablaie gioca con i bambini. L’Italia è fredda e lontana, e la notte africana è così dolce
«A Kebemer ce l’avete un griot?». Ablaie ci pensa un attimo, poi annuisce: «C’è una griot molto vecchia, e anche suo figlio e suo nipote sono griot. Incontrarla? Non sarà facile. I griot non amano le interviste». Ci provo con un trucchetto dialettico: «Ma non è compito del griot dare informazioni? E io quelle chiedo…». Lo stratagemma funziona: l’appuntamento a casa dei griot è fissato per le 22.
Cos’è un griot, figura di grande rilievo nel sistema sociale senegalese, sarà l’oggetto di oltre un’ora di intervista. Ma occorrono molte parole, tante quanti sono i suoi ruoli, per spiegarlo. Prima definizione, la più poetica: griot è chi prende le cose brutte e riesce a farle diventare belle. Griot è un cantastorie, uno che racconta, dà notizie, informazioni, ma anche un sapiente, con in mano le chiavi della tradizione orale in un mondo che non ha tradizione scritta; quindi è la storia, sa tutto del villaggio e delle sue famiglie, una sorta di stato civile vivente capace di risalire indietro nel tempo di generazioni. E ancora è un ottimizzatore, uno che trova le soluzioni più giuste, e un mediatore, che presenta sempre i lati migliori delle cose.
E’ lui ad esempio che «illustra» le doti e garantisce sulle rispettive famiglie prima di un matrimonio, cantandone le gesta, la bellezza, la salute. Ed è lui il riferimento morale dell’intera società Wolof, la principale etnia del Senegal. Il più famoso di tutti i griot ha un nome conosciuto nel mondo: Youssou N’Dour, popstar internazionale amatissimo in tutto il Paese. L’ho incrociato una settimana prima nella babele della pista da ballo della sua discoteca techno, alla periferia di Dakar. Ci ho scambiato due parole, ma ancora non sapevo che era un griot. Speravo in un’intervista. Lo riconobbi, in piedi al lato opposto della grande pista metallica, sotto una grande finestra da dove l’allora moglie Mami infiammava centinaia di ragazzi. La traversata, sballottato da un mare di corpi scatenati, fu un’odissea. Una stretta di mano nel frastuono, un sorriso, poi lo persi in un inferno di luci e di suoni.
Kebemer è un altro mondo. Il silenzio della notte è rotto solo dall’abbaiare di qualche cane. In un cortile poco illuminato la donna corpulenta, dallo sguardo severo, di età molto avanzata ma indefinibile è seduta su un’ampia poltrona. E’ lei la griot. Mi riceve insieme a figli e nipoti. Uno di questi, sui trent’anni, lavora a Ferrara e parla un italiano corretto, quasi colto. Lui farà da interprete. La donna parla lentamente, scandisce le parole come chi sa affascinare con le sue storie. Racconta gesta epiche avvenute all’alba dei tempi, la storia del primo griot. Parabole ed aneddoti che dipingono la figura del griot, da sempre con l’onere di essere il più intelligente, il più preparato, il più giusto. In battaglia è quello che porta le insegne del villaggio, se muore lui la battaglia è persa.
E il rapporto con le migliaia di giovani che vanno a lavorare all’estero? «Sono il nostro tesoro più grande — risponde lenta — e prima che partano li incontriamo sempre, insieme alle famiglie. A queste ultime chiediamo di stare loro vicino, di essere presenti, di telefonare spesso e non farli sentire soli. A chi parte raccomandiamo la solidarietà, e l’onestà». «Tu vai in un Paese lontano — diciamo loro — con abitudini e tradizioni diverse. Rispettale e non fare niente di cui ti vergogneresti. Tu sei l’ambasciatore della cultura Wolof all’estero, comportati come tale, noi ti seguiremo e ti saremo vicini, fa’ che possiamo essere orgogliosi di te…». In Italia il numero dei senegalesi che vanno contro la legge è più basso rispetto ad altre etnie, lo dicono le cifre. Che dietro il luogo comune del «bravo senegalese» ci sia il lavoro antico del griot.
Touba è la città sacra di gran parte dell’Islam senegalese. Qui, 250 chilometri a nordest della capitale, è vissuto all’inizio del Novecento Amadou Bamba, grande Marabout, una sorta di Padre Pio locale che fra opere di bene e miracoli oggi è ricordato e venerato come un santo. E qui nel 1963 è stata completata una splendida, grandiosa moschea a lui dedicata: tonnellate di candido marmo di Carrara e altri pregiatissimi marmi colorati provenienti da tutto il mondo per un’opera colossale, un’immensa cattedrale nella savana il cui minareto alto 98 metri è visibile da chilometri di distanza.
Il venerdì e la domenica la città è invasa dai pellegrini: vestiti i bianchi abiti della festa intere famiglie fanno decine, a volte centinaia di chilometri nella maggior parte dei casi su un carretto tirato da un asinello per venire a pregare vicino alla tomba di Amadou Bamba. E nel giorno che ricorda il ritorno dall’esilio del loro marabout, sono più di mezzo milione i visitatori che si riversano nelle strade di Touba. Ma la confraternita che si è raccolta intorno a questo marabout, oggi la più forte e la più numerosa del Senegal, ha un altro motivo per andare fiera di Touba.
Anche Ablaie e Mass ne fanno parte, e Ablaie mi porta con orgoglio alla periferia della città. Qui mi mostra un edificio nuovissimo, con alcune ali ancora in costruzione. «E’ un ospedale — spiega — lo stiamo costruendo noi. Alcuni reparti sono già in funzione». Soldi italiani, perché da tempo ogni immigrato in Italia che appartiene alla confraternita di Bamba si tassa di 300 euro l’anno. Mass, tanto per cambiare, è uno dei principali artefici dell’iniziativa, e lui riscuote le donazioni annuali da tutta Italia e le gira al cantiere dell’opera, che cresce di anno in anno. Sono stati investiti molti soldi. E l’«ospedale degli italiani» è lì, davanti ai miei occhi. Un sogno che è diventato realtà.
(in collaborazione con "L'arte di realizzare l'impossibile") http://www.artedirealizzarelimpossibile.com
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22 settembre
sognato di trovarmi all’ingresso di un parco naturale all’interno della Sardegna, dove io e R. arrivavamo all’imbrunire, ragion per cui ci veniva chiesto di non oltrepassare alcuni sentieri: pena il ritrovarci al buio, da soli, in un luogo impervio e sconosciuto.
La scena si spostava in seguito nella mia attuale abitazione, che però non corrispondeva in tutto e per tutto alla realtà, e dove accoglievo cugine (che fra loro sono in particolare disaccordo). Una di queste mi portava in dono una sorta di pista, su base di legno e macchinine di plastica, trovavo l’oggetto oltre che brutto (salvo la piattaforma di legno che subito pensavo a come avrei potuto riciclare), senza senso; l’altra cugina invece mi portava forse dei vestiti o comunque aveva da ridire sui miei, specie su una maglia che a suo dire nascondeva parte del mio corpo, e benché le dicessi che l’avevo usata apposta perché mi trovavo ingrassata, lei sosteneva che avrei dovuto sollevarla.
Sognavo poi che zia. P. doveva acquistare delle scarpe per il figlio, ragion per cui mi chiedeva di accompagnarlo, e nonostante avessi cercato di dissuaderla (insomma, il figlio ha raggiunto la sua maggiore età da oltre vent’anni) lei insisteva. Poco dopo saliva su un trattorino, che si mostrava incapace di manovrare, finiva per mettersi in ridicolo, mostrare le mutande, e buttare giù persino i vestiti che stavano appesi all’interno del negozio.
Succedevano poi in seguito delle altre cose, ma che ricordo ormai soltanto vagamente.
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