#libreria illuminata
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Home Office Library Home office library idea with a large contemporary freestanding desk, a gray floor, a limestone floor, brown walls, a traditional fireplace, and a concrete fireplace.
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Milan Library Home Office
#Large trendy freestanding desk limestone floor and gray floor home office library photo with brown walls#a standard fireplace and a concrete fireplace stile primo 900#pavimento in pietra#home office#libreria illuminata
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Dal 22 ottobre esce in tutti i bookstore e ordinabile in libreria il romanzo di Enrico M. Colosimo “Intorno all’angolo” edito da LifeBooks.
Tre generazioni avevano calpestato il suolo d’America, vissuto, lavorato, allevato figli tra gioie e dolori. Non rimaneva più traccia della loro esistenza se non il ricordo, confuso nell’aria come l’eco di una ballata irlandese. Di sera la brezza sfiora anime e solitudini: l’azzurro profondo del cielo è un’ombra illuminata da stelle. Nella strada silenziosa, Dougal si sentirà in pace con se…
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Le famose sconosciute: Sylvia Beach, una libraia coraggiosa
Sylvia Beach [email protected] Beach – il cognome sognante Spiaggia. Doveva piacerle, il suo cognome, alla signorina Beach, quando era solo un’adolescente che fantasticava sul proprio futuro e, magari, riempiva di firme diari e quaderni. Come se il semplice atto di reiterare il proprio nome potesse donargli lustro. Forse le evocava ricordi di vacanze al mare e di tuffi liberatori nell’oceano atlantico. Anche se, data l’epoca nella quale è vissuta, l’avranno certamente costretta ad andare in spiaggia alquanto vestita. Se solo avesse osato indossare un costume vero e proprio, cioè smanicato, scollato e scosciato, allora qualche integerrimo agente yankee della buoncostume l’avrebbe prontamente multata: “Signorina Beach, in spiaggia non ci si può presentare seminude. È una mancanza di decoro. Deve seguirmi in centrale!” Invece, il nome che i genitori le avevano dato, Nancy, non le piaceva affatto. Per questo motivo, decise presto di cambiarselo in Sylvia, ma non ci è dato di sapere il perché. Quello che sappiamo, invece, è che nacque nel 1887 a Baltimora, New Jersey. Fu partorita in una casa parrocchiale. No, non si tratta di una storia scabrosa, dovuta alle licenze di lussuria di qualche incauto prelato. E la suddetta nascita non turbò in alcun modo le coscienze puritane della tarda epoca vittoriana. È solo che Sylvia Beach era figlia di un pastore presbiteriano e di una povera disgraziatacostretta al beghinaggio per il solo fatto di discendere da un’intera generazione di chierici. Il suo retaggio culturale era, pertanto, molto limitato, oltremodo bigotto, e piuttosto opprimente. C’erano tutti gli elementi affinché lei stessa diventasse una monachella, ma un avvenimento cruciale e provvidenziale la salvò da tale mesto destino. Tutta la famiglia dovette, nel 1901, trasferirsi a Parigi perché il padre era stato nominato assistente presso la Chiesa Americana in Parigi. A soli 14 anni, Sylvia venne catapultata dalla provincia nordamericana, culturalmente piuttosto acerba, nella fervente e illuminata capitale francese. Ne subì inevitabilmente il fascino e l’influsso culturale. Anche se, dopo soli cinque anni, dovette tornarsene in America, a causa di un nuovo incarico del padre presso Princeton, il suo legame con la Francia era ormai diventato indissolubile. La vitalità dell’ambiente parigino l’aveva segnata per sempre e il suo orizzonte culturale si andava progressivamente allargando, emancipandola dalla propria famiglia. Divenuta una donna adulta, invece di consacrare la propria vita a Dio, come forse i genitori avrebbero gradito, Sylvia la consacrò ai libri e alla letteratura. Lesse molto, intensamente, famelicamente, febbrilmente e si appassionò allo studio. Parigi – fascino senza tempo Nel 1916, all’età di 29 anni, il richiamo della douce France si fece talmente forte da costringerla al ritorno. Intendeva studiare letteratura francese. Era ormai una donna adulta, che aveva abbondantemente superato la cosiddetta “età da matrimonio” e, sebbene disponesse già di una dote di 3000 dollari, fornitale dalla previgente madre, non aveva alcuna intenzione di usarla per mercantteggiare con qualche pretendente e poi contrattualizzare la più classica delle unioni coniugali. Non ci pensava proprio a soffocare tutte le sue aspirazioni per dedicarsi ai ruoli di moglie e madre. La sua famiglia sarebbero state le pagine dei suoi adorati libri. Se, negli anni ’20 del secolo scorso, aveste potuto passeggiare lungo la rive gauche parigina, avreste certamente incontrato una ragazzona mora americana, piuttosto alta ma non procace, castigata in abiti austeri, intenta ad aggirarsi per le librerie del posto. Avreste notato il suo volto spigoloso, ma non per questo sgradevole, la sua pettinatura corta e moderna, in relazione ai tempi, i suoi occhi scuri, infossati dietro gli zigomi prorompenti. Occhi severi e profondi, ma anche appassionati e determinati.
Paul Emile Becat Ritratto di Sylvia Beach Chissà se, vedendola, avreste potuto immaginare che, in capo a pochi anni, sarebbe diventata non solo un’imprenditrice di successo, ma una tra le più nobili mecenati, e una stimata intellettuale. Una donna fuori dal suo tempo, libera, visionaria, illuminata. Una donna – permettetemelo – “eterna”, in quanto capace di comprendere e diffondere il valore eterno della letteratura e di impegnarsi nell’eternare le opere letterarie di cui divenne promotrice. Forse oggi il suo ruolo è stato dimenticato ma, negli anni ’30, Sylvia Beach era un punto di riferimento per un gran numero di personaggi senza tempo. Ve ne cito solo alcuni: André Gide, Ezra Pound, Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Gertrude Stein, Man Ray e James Joyce. Quest’ultimo le doveva molto, perché fu lei a pubblicare in Francia il suo “Ulysses” in lingua originale e tradotto in francese, quando era assolutamente bandito negli USA e nel Regno Unito.
Sylvia Beach e James Joyce Photo@NewYorker A quanto pare, però, il bizzarro autore irlandese disdegnava sia la punteggiatura che la riconoscenza perché, dopo poco tempo, firmò un contratto con un altro editore e lasciò la Beach in pessime ambasce finanziarie. Un percorso costruttivo Le superò e proseguì decisa nel suo intento. Non si era accontentata di diventare una semplice libraia, volle essere la protettrice della letteratura di inizio ‘900, volle essere un’editrice e un’autrice lei stessa. C’è da dire che tutto questo sarebbe dovuto accadere a New York, secondo i suoi piani originari. Ma i costi della metropoli americana erano davvero proibitivi per lei. Pertanto, dovette ripiegare su Parigi e, mi sento di dire, che questa scelta fu la sua fortuna. Perché, probabilmente, la ferocia del nascente capitalismo liberista americano, certamente non priva di una buona dose di misoginia, avrebbe potuto schiacciare, a forza di cinismo e aridità, la sua idea imprenditoriale e condannarla all’insuccesso. La mite atmosfera parigina e la maggiore apertura intellettuale furono il contesto ideale per la realizzazione dei suoi scopi. Non ci fu mai alcun matrimonio per lei e la dote venne investita nella fondazione della libreria “Shakespeare and company”. Una libreria americana nel cuore di Parigi, ornata da una coloratissima insegna e arricchita dalla passione e dalla dedizione della fondatrice. Vi si poteva comprare i testi o prenderli in prestito, dietro pagamento di un modesto nolo. Questa formula fu vincente, dato che erano pochi coloro che potevano permettersi l’acquisto di un volume. Nella libreria di Sylvia trovarono un punto d’approdo tutti i pellegrini della letteratura americana che sbarcavano a Parigi e, più in generale, un gran numero di intellettuali di lingua anglosassone. La loro assidua frequentazione arricchiva di idee e sogni quel posto di ritrovo, rendendolo un prezioso rifugio.
La libreria “Shakespeare and Company” Photo@Princeton Tutto questo poté realizzarsi solo dopo che Sylvia fece l’incontro più significativo della sua vita. Appena arrivata per la seconda volta a Parigi, con ancora addosso l’uniforme da studentessa, entrò nella libreria di Adrienne Monnier. Conobbe la proprietaria, una ragazza grassoccia e bionda, di quattro anni più giovane di lei, e con gli stessi interessi letterari. Iniziò a frequentare sempre più spesso il “negozietto grigio” della Monnier e lì fece amicizia con André Gide e tanti altri autori. Si rese conto che in città vi era una vera e propria colonia di intellettuali americani “fuoriusciti” e decise di sfruttare l’occasione. Negli anni ’20, gli stessi Stati Uniti che oggi gonfiano il petto quando si pronuncia il termine “libertà”, adottavano una politica di ferma censura contro la libertà d’espressione, vietavano la pubblicazione di molte opere e, in tal modo, costringevano i giovani autori a espatriare per trovare un ambiente consono alle loro aspirazioni. La libreria “Shakespeare and Company” ebbe molta fortuna nei primi anni della sua fondazione ma, dopo lo scoppio della Grande Depressione, iniziarono i problemi. Sylvia Beach si trovò sul punto di chiudere l’attività. Furono i suoi più affezionati clienti a salvarla. André Gide si fece promotore di un’iniziativa di soccorso e fondò un club di lettori. I membri del circolo pagavano una quota fissa di 200 franchi all’anno per poter frequentare la libreria e usufruire del servizio di noleggio dei libri. Dopo soli due anni, la situazione era migliorata e l’attività era salva. Epilogo Poi però arrivarono i nazisti e non ci fu nulla da fare. Nel 1941, l’occupazione tedesca della Francia, fu oltremodo repressiva verso gli ambienti culturali, per motivi assolutamente intuibili. Sylvia subì numerose intimidazioni, fu minacciata dal fuococol quale i nazisti avevano sempre combattuto i libri. Si vide costretta a chiudere la libreria e, per salvarne i tesori, li nascose in un appartamento disabitato, lì vicino. Chiuse la porta a doppia mandata, lasciando i volumi silenziosi a prendere polvere e se ne separò con dolore, mentre veniva condotta in un campo di concentramento tedesco. Per fortuna, essendo una prigioniera politica, fu sottoposta a un trattamento meno oltraggioso di quello che era riservato a giudei e zingari, e non incontrò la morte. Quando venne liberata, tornò a Parigi, ma non ebbe più la forza di riaprire la libreria. Si dedicò alla scrittura di un memoriale, nel quale si trattano gli aspetti più interessanti della vita culturale parigina fra le due guerre. Rimase a Parigi fino alla sua morte, avvenuta nel 1962, non prima di aver subito un tremendo dolore. C’è infatti un altro aspetto della sua vita che è essenziale trattare per comprendere appieno il carattere anticonformista e disallineato del personaggio. Sylvia Beach era omosessuale. Per oltre trent’anni intrattenne una relazione con la persona che influenzò maggiormente la sua esistenza, quell’Adrienne Monnier che le aveva aperto le porte della rive gauche e ispirato l’idea della promozione culturale. La loro relazione si concluse tragicamente nel 1955, a seguito del suicidio della Monnier.
Sylvia Beach e Adrienne Monnier [email protected] Oggi a Parigi si trova una libreria dal nome “Shakespeare and company”. Si tratta di un’attività diversa, aperta negli anni ’60 da un imprenditore americano e dedicata proprio alla memoria della Beach. Proprio in questi giorni, inoltre, ricorre il centesimo anniversario della fondazione della celebre libreria.
La libreria “Shakespeare and Company” oggi [email protected] Rosso Groviglio Read the full article
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Laura Maltini Lepetit, l’editrice delle donne
https://www.unadonnalgiorno.it/laura-maltini-lepetit/
Laura Maltini Lepetit è stata una scrittrice e editrice italiana, autrice di Autobiografia di una femminista distratta.
Nata a Roma il 3 agosto 1932, a dodici anni si è trasferita a Milano con la famiglia.
Si è laureata in Lettere moderne all’Università Cattolica di Milano. A ventiquattro anni ha iniziato a insegnare e ha sposato Guido Lepetit.
Nel 1962 ha rilevato, con Anna Maria Gregorietti e Vanna Vettori, la Libreria Milano Libri.
Tre anni dopo, ha creato, insieme a Giovanni e Anna Maria Gandini, Linus una rivista a fumetti con le strisce dei Peanuts.
Negli anni settanta si è avvicinata e iniziato a militare nel movimento femminista.
Nel 1975, ha fondato la casa editrice La Tartaruga per pubblicare il libro, Le tre ghinee di Virginia Woolf, che non era mai stato tradotto in italiano.
Pubblicando solo scritti di donne, ha costruito e conservato un patrimonio di saggi, romanzi e scritti autobiografici.
Ha pubblicato oltre 400 libri di più di 181 autrici di tutto il mondo, famose e in via di affermazione. Ha usato scelte coraggiose e soprattutto generose, ha fatto conoscere al pubblico italiano, scrittrici inedite o mai tradotte.
Per prima, ha pubblicato i testi della comunità filosofica Diotima di Luisa Muraro, oltre a collane di letteratura nera, di fantascienza e di saggistica.
La piccola e prestigiosa casa editrice milanese La Tartaruga è stata il marchio più importante dell’editoria femminile e femminista italiana.
Nel 1998, ha venduto il marchio e il catalogo alla Baldini Castoldi Dalai Editore.
Tra i tanti riconoscimenti per il suo lavoro e diffusione culturale, nel 1987 è stata insignita del titolo di Cavaliere del Lavoro «per meriti morali e professionali».
Laura Maltini Lepetit è stata una donna colta e coraggiosa, da attivista e imprenditrice illuminata, ha propagato cultura e pensiero femminile per quasi mezzo secolo.
È morta a Poggio Murella, il 6 agosto 2021.
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..illuminante...profondo e toccante nella sua meravigliosa semplicità...e' un libro tosto a cui il genere della fiaba conferisce solo maggiore incisività...al di là di certi facili toni sentimentali, questo è un libro sull’essenza dell’amicizia come realtà forte della vita, sul cui sfondo ci sono la perdita, il dolore, la morte...Libro che parla esplicitamente al nostro io più profondo, scuotendoci da quel torpore che l'abitudine ci ha reso familiare e fin troppo naturale. Con linguaggio poetico e con una leggerezza fuori dall'ordinario, l’autore ci stimola ad una profonda riflessione sull'amore, sull'amicizia e sul senso della vita. La realtà che abbiamo sempre avuto sotto gli occhi si trasforma perché viene illuminata dalla consapevolezza e questa consapevolezza si manifesta attraverso le parole del piccolo principe che svela ciò che si nasconde dietro le apparenze. Una lettura che stimola il cambiamento perché ha il pregio di rivolgersi direttamente al cuore e di portare nella vita delle persone piccole scintille che possono ravvivare la nostra esperienza sulla Terra e favorire una benefica presa di coscienza dell'esistenza che si sta conducendo. La strada che porta al risveglio può essere dolce, poetica ma tremendamente diretta...Da leggere e rileggere...ogni rilettura ci racconta cose nuove, verità nuove... #libridisecondamano #ravenna #booklovers ##instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #consiglidilettura #librerieaperte #zonarossa #ilpiccoloprincipe #saintexupery (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/CNEjGobn1Id/?igshid=1q0vgdsbjwz6h
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Alex torna col buio
Il vecchio è curvo sullo scrittoio, la lampada ad olio brucia piano accanto a lui. Alle sue spalle una libreria di assi grezze inchiodate alla meglio, illuminata dalla luce tremula della lampada sembra vivere di vita propria e muoversi con la silenziosità dei miraggi. La notte avvolge la casa, fredda come la tramontana che fischia dall’Ovest portando la neve. Il viso raggrinzito dell’uomo non mostra espressioni di sorta, i suoi occhi sono lucidi di una febbre che lo arde dall’interno, notte dopo notte, mentre aspetta l’inevitabile epilogo della sua storia. Con mani deformate dall’artrite scrive sempre fino a notte inoltrata, anche se fuori il fischio del vento è l’ultimo a fargli compagnia facendo gemere il tetto aguzzo e le imposte sbarrate della costruzione.
In tempi andati era uno studioso, apprezzatissimo nel proprio campo, un ricercatore senza pari. Era un medico, uno stimato chirurgo, specializzato in malattie legate alla degenerazione cellulare. Viveva in città, lontano dal posto in cui si trova ora, ed aveva famiglia. Dicono che la moglie lo lasciò per via della sua ossessione per il lavoro che lo portava a stare via per lunghi periodi, sempre in giro per il mondo a cercare qualche verità nascosta nelle pieghe dei corpi mutati dei suoi pazienti. Il figlio se ne andò più avanti negli anni, per un incurabile forma di malattia che lo ridusse ad un vegetale in poche settimane. Una forma aggressiva di qualcosa che non sappiamo ancora definire, ma che tanta importanza ebbe per il nostro futuro.
Il giovane divenne anemico e prima poco, poi visibilmente, perse peso. In quindici giorni non era più in grado di parlare, in venti la sua mente vacillava ed il delirio ebbe inizio. Nel sonno parlava di creature che vedeva, di notte, nella sua stanza. Non era altro che un delirio, si dissero i domestici mentre cercavano di alimentarlo a forza e lui straparlava. Il padre tornò da un viaggio in Europa dell’Est, dove da tempo si recava sempre più spesso, e lo trovò quasi cadavere. Nonostante la disperazione del genitore niente fu in grado di salvare il ragazzo. Morì due giorni dopo, all’alba, mentre il nuovo giorno faceva capolino dalla finestra enorme della sua stanza da letto ed il padre lo vegliava. Il vecchio sopravvisse solo per avere modo di vendicarsi della malattia.
Era un morbo antico, seppe poi. Uno di quelli che apparentemente non hanno spiegazioni. Deperire e morire era tutto ciò che potevano fare i malati. E poi? E poi tornare a tormentare i vivi. Anche Alex, il figlio, tornò dopo tre notti. Si fermò a casa della vicina e ne assalì i bambini, infettandoli. Essi a loro volta cercarono altri e così via. E fu la volta dei genitori, poi delle case vicine, poi di tutto il villaggio. E poi un altro ed un altro e così via.
Cominciò così, la malattia della notte. Tre anni fa. Non era il primo caso, ma uno dei primi riconosciuti si. Ed oggi, che è probabilmente l’ultimo rimasto in tutta la città a respirare, il vecchio scrive e attende. Ogni notte li ascolta radunarsi in silenzio nella strada maestra del piccolo paese in cui si è rifugiato e attende. Stasera, che il freddo è più accanito, la casa non è accogliente come dovrebbe essere. Il fuoco si è spento, nel camino come nel cuore del povero dottore che, rassegnandosi, ha smesso anche di vergare parole destinate a non essere mai lette,in quella regione dei morti, o forse, addirittura, in quel mondo di morti. Stasera non ha più voglia di scrivere e spegne la lampada, gettando la casa nell’oscurità e chiudendo gli occhi stanchi per non vedere ombre nel buio.
Perché, stasera, Alex tornerà a casa.
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#jadeluxeonline ➡️➡️ Follow @jadeluxeonline on Instagram ❤️❤️ Reposted from @thewhitehoneyhome Buongiornoo!🌱 {30|07} Ogni volta che guardo il soggiorno da questa angolazione, mi ritorna in mente il vecchio “dinosauro”, l’imponente e cupo mobile TV con libreria che occupava tutta la parete... il giorno in cui lo abbiamo smontato per sostituirlo con questi componenti bianchi e lineari è stato una liberazione!🤩 Tutta la casa ha cambiato aspetto e si è illuminata di una nuova luce!🧡 Per il prossimo autunno ho in mente altri progetti per le ultime stanze che restano da rinnovare e, da un lato, non vedo l’ora!🤩 Per me settembre è sempre il mese dei nuovi inizi, più che gennaio, per questo è uno dei periodi dell’anno che preferisco!🧡 Buon giovedì a tutti amici plantlovers!🌱 〰️〰️〰️ #bohodecor #bohostyle #bohosummer #bohovibes #bohobedroom #bohoinspired #bohochic #modernboho #bohemiandecor #bohomodern #boholiving #bohoroom #bohoroomdecor #bohohome #boholifestyle #boholife #boholove #bohointeriors #bohome #bohodecorideas Disclaimer: Full disclaimer regarding reposting and our content policy, can be found on https://ift.tt/30hlfTS All content posted/reposted on our social media is related to fair use and we are curating content as well as posting our own, for other users to discover great relevant content and help the original content owner to grow. So, in essence we're providing a service for the Social media community. All due credits given to the original post and owner. If you as the original owner of this photo/video, which we have Reposted and featured, do not want to be featured on our social media pages, then please immediately inform us via DM or email to [email protected] and we'll delete your post from our social media. Not informing us to delete your content, automatically means you agree to allow us to repost the content on our social media pages https://instagr.am/p/CF_OCZwn3qC/
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22 GEN 2020 18:47
VIVA ARBASINO! IL GRANDE SCRITTORE COMPIE OGGI 90 ANNI – L'INTERVISTA DI MALCOM PAGANI: ''SI È DECISO A TAVOLINO CHE I NOSTRI BEST-SELLER DOVESSERO ESSERE AL LIVELLO DEL FRUITORE. VENDONO MOLTISSIMO. SONO UN PRODOTTO DA BANCO. UNO SHAMPOO. FORSE SONO PIÙ ALTERNATIVO, IO'' - SASSOLINI SU VISCONTI E ANTONIONI (“CHE PALLE”), SU NANNI MORETTI IL “MORALISTA”, SU MORAVIA “PERMALOSO”, SUGLI ANNI ’70: ‘’FIGLI DEI FIORI IN CALIFORNIA, ASSASSINI IN ITALIA”…
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Malcom Pagani per il “Fatto quotidiano” del 14 luglio 2014
Pur refrattario all’elaborazione di un saggio sul maleducato da carrozza: “Il tempo è prezioso e la tolleranza costa già un notevole sforzo”, Alberto Arbasino soffre treni, scompartimenti e vicini ciarlieri. “Prendere le cosiddette vetture silenziose, che poi tanto silenziose non sono, è un’accortezza inutile”. Parlano tutti ad alta voce: “Dei fatti loro, dell’intimo, del personale”.
E il vento caldo delle sue piccole vacanze in Spagna: “Andavamo alle Baleari. Ibiza era meravigliosa e Formentera non era altro che una lingua di sabbia tagliata dal taxi che ci portava da un lato all’altro dell’isola per il pranzo” o “i flautisti da giardino che ascoltavo d’estate dall’ammezzato di una delle mie prime case romane” non tornano a visitare la stagione dei suoi 84 anni.
Luglio è quasi a metà, sulla terrazza il fico ha foglie di un verde innaturale e Arbasino indossa la camicia color kaki di chi sa come attraversare il suo deserto: “Di sera esco ancora volentieri, anche se scivolare dalla Via Veneto prefelliniana alla cena in Piazza Navona, non mi accadrà più. Con Ercolino Patti, Sandro De Feo e Cesare Brandi succedeva spesso. Cesare aveva un piccolo pied-à-terre e dopo una giornata di lavoro casalinga non covava il desiderio della minestrina nel tinello.
Così si usciva in gruppo e si stava insieme fino alle due di notte. Mi stupivo. Lavoravano come ossessi e scrivevano senza sosta, ma non rinunciavano a vivere. Ridursi male comunque era difficile. Non tralignavamo mai. Un bicchiere, forse due. Si beveva il giusto, con moderazione”. Della grande casa con le sue iniziali sulla porta, conosce oro, incenso e giacimenti.
Quando cerca nella biblioteca un volume di De Chirico: “Me lo regalò lui in Via della Vite, in fondo ci sono anche delle note a penna”, insegue un nome sulla Garzantina: “L’editore fiorentino di cui le parlavo era Carocci”, sventa l’attentato dell’ospite superando agile uno zaino sulla moquette o rimpiange con discrezione la mancanza di un computer: “Non lo possiedo, per alfabetizzarsi è tardi, ma ne sento la mancanza”, Arbasino denuncia il perpetuo movimento che dalla fine degli anni 50, immobile non l’ha fatto mai restare.
Anche se i baffi di quando intervistava Borges sono un ricordo fotografico, è nell’autoscatto del tempo che fu: “Self-made man di origini decadenti (nato a Voghera nel 1930, rinato a Roma nel 1957) con la tentazione di vivere come se. Cioè come se abitassimo una società civilissima, illuminata e cosmopolita...” e nei versi ancora attualissimi di Super-Eliogabalo: “Senza pietre di paragone/ né pretese di perfezione/ se ragiono/ a tono/ funziono/ a una condizione/ diventare ciò che sono/ non chi impersono” che Arbasino può vantare la curiosità di chi ha guardato il mondo senza curarsi delle “ultime novità”.
Lo stile nemico della semplificazione: “Per far contenti tutti e raggiungere le edicole degli areoporti non si può rinunciare all’ambiguità, alla notte, al mistero, all’oscurità”. L’amicizia con Agnelli: “Ci vedevamo spesso, dietro la sua raffinatezza pulsavano frequentazioni e lezioni erudite, Mario Tazzoli, Luigi Carluccio e Franco Antonicelli che alle signore di Voghera consigliava di servire i cioccolatini in coppe di cristallo”.
Il mondo dell’avvocato come ouverture per altri 92 splendidi e diseguali Ritratti italiani raccolti per Adelphi. Ironia, affinità elettive, distanze e convergenze di Arbasino con i pensatori del suo tempo si allineano sotto l’ombrello di un illusorio ordine alfabetico. Sono volti, echi e disegni di passato senza data. Incontri con imprenditori, registi e letterati. Quadri non sovrapponibili.
Cornici di un’età irripetibile. Sulla parete d’ingresso, nel tratto grasso di un pennarello nero, uno schizzo che Pasolini donò allo scrittore durante un’intervista: “Arbasino, in un atto di industria culturale (abbietto, naturalmente)”. Gli zigomi duri, nota Arbasino: “Sono i suoi” come la freccia che Pasolini indirizza a se stesso: “Io mentre aspetto che scriva le domande a cui nobilmente rispondere”.
Lei arriva a Roma negli anni Cinquanta.
Avevo poco più di vent’anni e non la pensavo diversamente da Paul Nizan: ‘Non permetterò a nessuno di dire che è la più bella età della vita’. Quando si parla di Arcadia bisognerebbe essere cauti. In Italia la ricostruzione era a buon punto, ma ci sembrava comunque un’epoca noiosissima, una lunga stagione morta.
Sfogandosi con lei, Pasolini parla di un “ridicolo decennio”.
È un decennio di paradossi e contraddizioni. Di ultimi fuochi, di cambiamenti, di libera sessualità dietro le dune e le pinete e di libri straordinari. Lo osservavo, lo criticavo, lo subìvo il decennio dei ’50, poi adocchiavo la letteratura e mi chiedevo: ‘Come è possibile?’. Di mese in mese, anzi di giorno in giorno, in libreria era una festa. Il Pasticciaccio gaddiano, Menzogna e Sortilegio, Il Disprezzo e La noia, gli ultimi due romanzi veramente belli di Moravia.
Glielo disse che erano gli ultimi?
Con Alberto ce ne facemmo e dicemmo di cotte e di crude. Da ragazzo era antipatico. Da uomo maturo dispettoso, prepotente ed eccessivamente prono al partito. In vecchiaia ci rappattumammo. Non ripeteva più ‘uffa uffa’ con severo cipiglio, ma in trattoria, davanti alle pere cotte, gridava: ‘Semo tutti peracottari’. Gli era venuta voglia di ridere. È superfluo dirlo, ma mi manca moltissimo, non solo nell’ultima veste giocosa.
Eravate entrambi permalosi?
Lui sicuramente. Io mai, altrimenti non sarei arrivato fin qui. Alberto era ispido ed era capace di lunghissimi silenzi. Quando compì settant’anni gli portai 7 fazzolettini da Parigi. Aveva il vezzo di annodarli al collo e mi impegnai nell’acquisto. Li avevo cercati con perizia: grandi marche, colori magnifici, confezione adeguata. Li soppesò e poi disse: ‘Li conosco, a Roma li chiamano strangolini’.
Faceva parte degli intellettuali suscettibili?
Lui no, ma non mancavano. C’erano persone che non tolleravano neanche l’afrore del giudizio critico e si adombravano se non si ragionava delle loro opere dal superlativo in su. In supporto non mancavano mai teorie di corifei. Gente che generosamente si prestava all’equivoco: ‘Chi osa mettersi contro da oggi in poi non è credibile’, ‘Chi non capisce è sciocco’, ‘Chi non si spella le mani è un buzzurro’.
Di Antonioni, incline all’offesa, lei scrive cose non tenere.
Con intuizione corretta, Antonioni fotografava tedio, imbecillità e incomprensioni sentimentali della società europea sottoposta all’industrializzazione forzata. Metteva sotto la lente quel disagio che i milanesi bramarono di provare nell’istante immediatamente successivo all’edificazione del primo grattacielo cittadino. Ma nel suo cinema, la pretesa letteraria si risolveva in bozzetti incongrui e programmatici. La serietà con cui agghindava i suoi improbabili personaggi, le mezze calzette elevate a paradigma del Paese, involontariamente comica. Passata la sbornia e svanito l’equivoco, in effetti, si rise.
Altro moloch dal carattere puntuto, Luchino Visconti.
In lui la componente populistica e quella dannunziana convivevano contribuendo all’essenza di un Visconti che nel retropalco e nell’isolamento sembravano esattamente la stessa persona. Uno che ideologicamente pendeva per il proletariato, detestava la classe media e respirava circondato dallo sfarzo. Un signorotto di geniale talento, ben allevato da genitori che lo portarono alla Scala fin da bambino, con una sua corte di zelantissimi sottomessi, affannati nell’eseguirne gli ordini. Frequentarlo annoiava e addolorava. Giovanni Testori, un caro amico, era sfruttato malamente. Sul versante teatrale poi, anche se gli dobbiamo spettacoli sommi come Anna Bolena e La sonnambula, l’elenco di quelli infelici ha voci in quantità. A un certo punto, anche dal loggione, prevalse lo strepito collettivo: ‘Che palle’.
In “Ritratti italiani”, parole liete sono riservate a Giorgio De Chirico.
Era unico. Straordinario. Diverso da chiunque altro. Avvertiva l’estraneità al mondo circostante, viveva al passato remoto, si sentiva inadeguato persino all’allegro, innocuo circo di Piazza di Spagna. De Chirico abitava a pochi passi dalla filiale della Banca Commerciale Italiana e temeva di essere costantemente rapinato da briganti e mascalzoni. ‘Ho paura sia a ritirare che a depositare’ mi diceva e io: ‘Maestro, perdoni, ma che razza di traffico ha con questa banca?’.
Il denaro per lei è stato importante?
Non troppo, ma ho sempre considerato ovvio essere pagato per scrivere: il mio lavoro. Nel ’67, ai tempi de Il Giorno di Italo Pietra, un ex comandante partigiano che ben conoscevo per antichi vincoli familiari e che dei suoi anni universitari a Pavia amava dire: ‘Ballavamo il Charleston e traducevamo Sofocle meglio degli altri’, mi trasferii in un amen al Corriere Della Sera. A Il Giorno mi pagavano regolarmente, ma da anni collaboravo senza l’ombra di un contratto. All’ennesimo rinvio della questione mi spostai in Via Solferino. Un problema simile lo ebbi anche a Repubblica. Ero stato eletto deputato con il Partito Repubblicano e l’amministrazione del giornale fu laconica: ‘Un contratto con un deputato non si fa’.
Divenne deputato nel 1983.
Me lo chiesero due fior di personaggi come Giovanni Spadolini e Bruno Visentini. Una volta con Visentini si andava a Treviso. Lui si trasformava, parlava in dialetto e diventava incomprensibile. Di preferenza litigava con uno scrittore autoctono che però dal trevigiano si era emancipato. Aveva viaggiato. Quando si incontravano non c’era facezia che non li accendesse in discussioni infinite.
Niente a che vedere con la timidezza di Gadda e Manganelli.
Manganelli, uno scrittore sublime, era schivo. Lo incontravi al ristorante, in una sala appartata, avviluppato in se stesso. Mandava l’ambasciata di un cameriere per salutarti, poi si raccomandava: ‘Non dire a nessuno che mi hai visto’. Gadda era diverso. Me lo ricordo su una mia vecchia spider con Bonsanti sul sedile posteriore.
Terrorizzato dalle curve e con la mano sul freno, Gadda era pronto a intervenire. Una sera, tornando dalla proiezione de La Bella di Lodi, chiese di fermarsi all’Hilton di Monte Mario. Si impelagò in un discorso da ingegnere sugli ascensori con un altro ingegnere, il fratello di Fabrizio Clerici. Tecnicismi da ossessi che evaporarono in un istante quando all’orizzonte si scorse la sagoma di un prelato.
Gadda, l’uomo che vestiva in blu, non dimenticava mai la camicia bianca e certe discutibili cravatte acquistate in uno spaccio di Via della Mercede, all’improvviso si illuminò: ‘Così dovevo nascere. Essere americano, farmi prete e vivere in un grande albergo bevendo succo d’arancia’. Erano anni curiosi. Anni in cui gli uomini non sapevano farsi la barba e Mimì Piovene, di casa a San Giovanni, si lamentava: ‘Sono diventata la barbiera del Laterano’.
Di Umberto Eco ha scritto: “Costruiva oggetti complessi che agli incolti mettevano paura”.
È vero e fu un’operazione di rara intelligenza. Con i libri di Eco, laureati e laureandi scoprivano la complessità dell’esistenza in maniera abbastanza semplice. Il successo fu assoluto. L’attenzione della critica, sacrale. Non a caso, da allora e per sempre, Eco ha fatto il fornitore di oggetti apparentemente complessi.
Le è simpatico?
Simpaticissimo. Anzi, simpaticissimi. Lui e la moglie.
Il verbo di Eco inizia a imporsi nei ’70.
Un decennio abbastanza atroce. Si viveva sulla retorica del ’68 rapidamente diventata una retorica tremenda. A San Francisco c’erano i figli dei fiori, in Europa gli assassini. In California, con gli spazi larghi tra i palazzi, i prati e la sensazione di libertà, la spinta a delinquere era anestetizzata dal contesto. Da noi in fondo, in ambiti più asfittici, l’agguato era nell’aria e la storia fosca dei Guelfi e dei Ghibellini, dei Montecchi e dei Capuleti, non faceva altro che ripetersi.
Altra icona dei ’70, Nanni Moretti. Nel suo ritratto si sostiene che il regista sia privo di cinismo.
Il cinico non perde tempo a deplorare il proprio cinismo con malspeso rovello. Moretti è un cuor d’oro sempre animato dal senso civico e dal bisogno di stare dalla parte giusta. Il rischio moralismo, quando si vuole essere educati, corretti e civici, c’è. Il ritratto del perfetto moralista, in certi film in cui il nostro porta in scena se stesso, anche.
Se scrivere è un lavoro, leggere che cos’è?
È un altro lavoro. Va compensato. Costa fatica. Non a caso non ho letto i libri che partecipavano al premio Strega.
Nessuno?
Nessuno. Neanche per sogno. Chi mi paga? Nei libri dello Strega di quest’anno non mi viene in mente nulla che valesse l’aggravio della lettura.
Perché?
Per la stessa identica ragione per la quale se sul giornale vedo gesti normali insigniti delle nove colonne, mamme che mettono lo zucchero nel caffè o profeti che pensano di stupire usando la parola cazzo, giro pagina. Non me ne importa niente. Non mi vien voglia di leggere. Tanti anni fa non si usavano letterariamente gli antichi sapori o le ricette della nonna mescolandole impunemente con le malattie del papà o l’agonia della mamma.
C’erano libri diversi. Scrittori migliori. Il proprio minuscolo io o il proprio ombelico non erano ritenuti validi motivi per sbarcare in libreria e anche se le chiese politiche erano più invadenti di oggi, c’era più understatement anche nella presa di posizione. Se si esclude il Pci, non pulsavano le maldestre voglie di appartenenza e la conclamata aderenza al nuovo progetto politico sul tavolo che oggi rendono impossibile qualsiasi sfumatura. C’è una percepibile ansia di salire sul carro. Consiglierei prudenza, magari il carro si rivela meno solido del previsto.
È un problema culturale?
Ma la cultura è un affare bizzarro. Come ho scritto in Ritratti italiani, di fronte al rotocalchismo, quella vera sparisce. Basta un lieve sospetto e non la si trova più. Pensare che in un’epoca lontana sorridevamo dell’ingenuità di Carlo Ponti, un produttore che a differenza degli epigoni contemporanei, a Milano aveva studiato davvero. Nell’ufficio all’Ara Coeli, oltre il suo tavolo, teneva la Pléiade con la costa della copertina rivolta verso l’interlocutore. Ci chiedevamo: ‘Ma se volesse leggerla lui, che periplo dovrebbe fare per raggiungere il sapere?’.
È sparita anche la letteratura italiana?
Si è deciso a tavolino che i best-seller dovessero essere al livello del fruitore. E così, una volta abbattuto il gusto a colpi di orrori, visto l’apprezzamento per il buco della serratura di stampo familiare, via libera ai sapori, alle ricette della nonna, ai lutti e alle corsie d’ospedale. Vendono moltissimo. Sono un prodotto da banco. Uno shampoo. Un codice in più nello scontrino del supermercato. Forse sono più alternativo, io.
Sull’affezione premiologica della letteratura italiana lei montò uno speciale per la Rai in epoca non sospetta.
Più della liturgia dello Strega, non ho dimenticato Casa Bellonci. I corridoi strapieni di libri, lo spazio totalmente colonizzato dai volumi, una cosa da restare sbalorditi. Per la Rai in effetti assemblai un’ora e mezza di premi nazionali da Venezia a Firenze. C’era un ritmo serrato e allo spettatore sembrava si trattasse di un unico premio.
L’intento era quello. Quando andai da Maria Bellonci spiegandole che non avrebbe potuto parlare per più di 30 secondi quasi mi rise in faccia: ‘Ho bisogno di più tempo’. Si cambiò 10 volte, il risultato era inverosimile. Maria vestita da donna, da uomo, a pois. Divertentissimo. Lei lo sapeva. Era una furbona.
È furba anche una letteratura in cui l’intimo dolore sfiora la pornografia?
Furba sicuramente, pornografica non so, certamente irrilevante. Come può affascinarmi il calvario della prozia? Il ‘sapesse quanto abbiamo sofferto signora mia?’. Vabbè, anche se c’è chi non si diverte e gli scrittori danno l’impressione di divertirsi poco, signora mia sarà contentissima.
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Incontro con Cassie e Holly (e Sarah!!!)
Ah oggi è anche il compleanno di Daniel! (Tanto perché la fangirl che è in me non si ferma mai) E ricordiamo che potevamo vedere Tom Felton se non era alla Festa dell'unicorno, proprio ieri. Comunque passiamo all'incontro. Clara ancora non si spiega come io non sia riuscita a dire a Cassie che ero e sono super esaltata per il fatto che Alec e io condividiamo la data di nascita, oltre gli scatti da maniaci del pulito (veramente Cassie dice che ha sempre i capelli in disordine e poco lavati, ma per il resto Alexander è un vero casalingo) e l'iperprotettività (sempre più lui che io) In realtà le ho detto di Born to endless night e lei mi ha detto che Max è adorabile, poi le ho mostrato la collana con la mia famiglia preferita e lei ha detto Soooo cuteeee. Praticamente è il mio modo di reagire a ogni scena Kitty (per i Malec non formulo frasi sensate). Tanto per parlare di Born c'era anche Sarah e lei è stata super carina e mi ha detto che ha amato scriverlo e che non riusciva più a smettere (ha fatto tic tic come se stesse scrivendo di fretta e io ero tipo 😍) Ha visto il segnalibro e fa Le parole di Magnus! (Ciao mondo) Sono partita della signing e questo vi fa capire come sto sclerando male(c) solo a raccontarvelo. Perché se sclero per Born, sclero per l'abbraccio inaspettato di Holly. Le do il regalo e lei si è illuminata e si è sporta in avanti. Giuro che non riuscivo nemmeno più ad articolare. Ro di Shadowhunters.it mi fa "Capisco". Però poi mi sono goduta la risata sadica di Cassie quando Isabelle ha chiesto dei suoi amati Clace e io ho riso, ma poi ho lanciato un'occhiataccia alla Sadica. Non si scherza con quei poveri fanciulli! Nell'incontro ho sclerato di brutto sulle 20 pagine di scena hot scritte da Wes, di brutto tipo che scriverei a Wes di continuare così e convincere Cassie che 20 pagine di scena hot vanno benissimo. Amo il fatto che Wes faccia quello che vuole perché far esasperare la Cassie è divertente e può portare buoni frutti. Mi è dispiaciuto che Holly abbia avuto poche domande, però ha dato risposte davvero interessanti sull'essere scrittore e sullo scrivere insieme e condividere la scrittura con un co-autore. Holly ha una voce che mette subito allegria e quei capelli che sono una favola. Amo quel blu. Cassie scandalizzata per l'uccisione di quattro gatti da parte di Holly è stato uno dei momenti più belli. 😂😂😂 Loro due si vogliono davvero bene, si vede da come interagiscono e come anche Sarah sia parte della loro vita. Ora sono tutte e tre insieme in Umbria (anzi quattro c'è anche l'immancabile Joshua -porca vacca non sono riuscita a farmi firmare il Codice, ma la prossima volta ci riuscirò!-) e mi immagino momenti alla Magnus/Catarina/Ragnor. Ah stanno guardando un drama coreano (altro che scrivere) Per quanto riguarda il prossimo libro, ovvero TLH, Cassie mi è sembrata titubante sull'uscita l'anno prossimo. Sembrava voler aggiungere altro, ma poi non ha detto niente. Ci ha fatto solo preoccupare quando si è mal spiegata e abbiamo pensato tutti che ci fosse un rapporto incestuoso tra Jamie e Lucie. Direi che è sicura l'uscita del primo di TEC anche se non è stato espressamente detto, però si capiva che stavano editando. La domanda "Ci godete a farci soffrire (per le morti)?" mi ha fatto morire dalle risate e Cassie ha riso quando gliela hanno tradotta. Ridi ridi, Sadica, ma dopo LoS e l'Accademia c'era poco da ridere. Holly però ha ricevuto tanti applausi per aver salvato personaggi di Cassie, soprattutto Simon. Grazie Holly, sei la nostra migliore alleata 😘 Cassie ha detto che le sue opere di infanzia sono da cestinare, ma le tiene per dimostrarsi che non può essere peggio di così. Holly voleva cestinare la prima copia del suo libro vista in libreria, perché nessuno potesse comprarlo. Cassie ha detto che uno dei personaggi a cui sta più attenta è Magnus e invece ha dato molto di sé in Simon e Tessa. Holly ha detto che affiderebbe a Sarah e Cassie suo figlio, per cui perché non dovrebbe affidare le sue opere e i suoi personaggi? Cassie ha anche detto che non gli piace se l'amore è facile... ma secondo lei non ce ne siamo accorte? 😂😂😂 In tutto questo ringrazio di nuovo le ragazze che erano con me, perché parte della magia l'hanno fatta anche loro. Ulteriori precisazioni: -A Cassie ho dato il fumetto di Raziel (spero che lo legga e le piaccia) e lei È un regalo (con la faccia di chi dice Sto sicuramente dicendo una minchiata in un'altra lingua) per me? Sorpresa dal suo perfetto italiano non so manco se le ho risposto qualcosa 😂😂😂 ma ho annuito. -Ho fatto la foto con Sarah. E mi ha firmato Born to endless night. È DOLCISSIMA. -Grazie alle ragazze di Shadowhunters.it (l'ho già detto su twitter ma mi sembra doveroso anche qui)
#cassieandhollyinflorence#cassandra clare#holly black#sarah rees brennan#florence#firenze#shadowhunters
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La retorica del senso di colpa
Per come la vedo io l'Islam, come tante altre religioni, contiene e trasferisce il desiderio che tutto il mondo sia islamico e chi nega questo non ha mai nemmeno visto la copertina di un Corano nella libreria sotto casa. Ebbene, c'è il mussulmano che decide di tenere questo desiderio nel suo cuore di fedele affidandolo ad Allah e rispettando gli “infedeli”, e c'è il mussulmano che arde in ansie mistiche e, indottrinato a dovere, si sente strumento di Dio nell'esaudimento di questo desiderio, decidendo per la lotta santa, in arabo Jihad. Il tutto in un turbinoso e complicatissimo puzzle di tribù, stati, riti, dogmatismi, tradizioni, accuse di eresia, pretese di ortodossia, faide, rancori, invidie petrolifere e assenza totale di un'autorità spirituale globale. Spesso si sente affermare, anche da illustri professori: “potrebbero sfruttarlo loro il petrolio delle loro terre, e invece è tutto nelle mani degli occidentali e questa è la causa della loro povertà”. È una falsità storica. Per la struttura culturale dei paesi islamici -radicalmente diversa da quella giudaico-cristiana dell'occidente- un'autorità forte, autoritaria ed inflessibile, meglio ancora se anche religiosa, è fondamentale per lo sviluppo dell'economia. I casi dell'arabia saudita e degli emirati arabi, e in parte del marocco, ne sono l'inconfutabile prova, anche se a spese di minorities sfruttate, spesso asiatiche, che finanziano con la loro manovalanza il bassissimo costo del lavoro di estrazione e raffineria in questi paesi. Il resto dei paesi islamici è ininterrottamente attraversato da guerre civili e fratricide, le maggiori delle quali tra sunniti e sciiti. Tutto il quadro mediorentale -escludendo il lungo periodo di dominazione turco-ottomana, autoritaria, teocratica e a tratti illuminata- è instabile da secoli. Nella risoluzione di tali instabilità è indubbio che le forze occidentali abbiano spesso usato la leva del peace-keeping per allungare le mani sulla torta del petrolio, agendo in modo da mantenere instabilità e provocando l'insorgere di gruppi estremisti particolarmente visionari. Ma questa è, e rimane, una conseguenza di una realtà pre-esistente, ovvero uno stato geopolitico regionale fatalmente influenzato da fattori religioso-culturali imprescindibili.
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“Ero a New York quando morì… la solitudine, improvvisamente raddoppiata”. Il carteggio tra Victoria Ocampo e Albert Camus
Estate 1946, Mar del Plata; ardita, enigmatica, cinquantenne, così rievoca l’evento: “avevo appena letto Caligola, l’opera di uno sconosciuto che mi pareva di conoscere da sempre. Cominciai a tradurla”. Roger Caillois, amico intimo da anni, fa da intermediario, ottiene il permesso per la pubblicazione. Albert Camus sbarca su “Sur”, mitica rivista argentina, nel numero di marzo del 1946. È il pezzo forte della rivista. Insieme a lui, il Sumario della rivista promette un testo di Gabriela Mistral e uno studio sulla Psicología del cinematógrafo di André Malraux. “La passione per l’impossibile, per un drammaturgo, è oggetto di studio inevitabile, valido quanto l’avidità e l’adulterio”, aveva scritto Camus, introducendo l’edizione statunitense delle sue opere teatrali. Per Victoria Ocampo, aristocratica Circe della letteratura argentina, che, per contrasto, amava l’artificio e l’assurdo, il nulla con i fiocchi, queste parole avevano profilo di tigre.
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Il rapporto si consolida: a giugno, stesso anno, “Sur” apre con Cartas a un amigo alemán – così in traduzione – di Camus. Victoria pensa che l’uomo valga un viaggio: Albert è a New York, per l’ennesima conferenza, lei lo raggiunge. Viso squadrato, occhiali triangolari, cappello micidiale, si fa largo tra la folla, è al suo cospetto: “Piacere, sono il suo traduttore. Sur, Buenos Aires”. Per eleganza, preferì non dire che di “Sur” lei era il direttore, l’editore, il proprietario, quello, cioè, che ci metteva i soldi oltre alla testa. Camus la squadra: la raffinatezza aurea della donna ne cela l’età – 23 anni più grande di lui. “Assediato dalle donne, di ogni età, Camus avrà pensato che le attenzioni della Ocampo nei suoi confronti non fossero soltanto intellettuali…” (Eduardo Paz Leston). La città è corrosa dalla pioggia – quando piove, lo sanno tutti, tutto è lecito. Alla fatata – e ricca – Ocampo, mecenate illuminata, Camus dedicherà un testo lirico (diremmo, retorico), Pioggia a New York. “Ho amato New York, di quell’amore forte che può lasciare pieni d’incertezza e di risentimento: capita che si abbia bisogno di esilio. E l’odore stesso delle piogge di New York ti insegue allora in fondo alle città più armoniose e familiari, per dirti che al mondo c’è almeno un luogo di disimpegno, in cui, con tutto un popolo e per quanto si vorrà, ci si potrà finalmente perdere senza mai ritrovarsi”. Non disdegnava la fama, lo scrittore, la bellezza, la carne.
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Nei suoi Taccuini, 1947: “Victoria Ocampo va a Buckingam Palace. All’ingresso, la guardia le domanda dove va. ‘A trovare la regina’. ‘Passi’. Gli appartamenti della regina. ‘Prenda l’ascensore’. Ecc. Viene ricevuta senza altra formalità”. In sintesi: alla Ocampo tutto è permesso, è donna dalle infinite relazioni, dalle tentacolari qualità. A mo’ di amuleto e di omaggio, a sancire la soglia di un’amicizia, Camus fa pubblicare da Gallimard il saggio che la Ocampo dedica a Lawrence d’Arabia, 338 171 T.E. Il libro esce con una bandella ardita, le héros de notre temps; lo stile della Ocampo è esotico: “Vestito di bianco come un arabo, con un pugnale alla cinta, T.E. Lawrence, roso dal deserto, dice ai suoi uomini che l’umanità chiama fallimento la libertà accordata da Dio… Come Arjuna, Lawrence non desidera più la vittoria, il potere, il piacere, è al di là di ogni sensazione”. La Ocampo divulga ai quattro venti e ai molti amici dettagli della sua amicizia con Camus: insieme hanno vagato per il Canada, sono stati a Parigi; di lei, nei suoi diari, Camus non scrive – ma sorride sempre.
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In ogni caso, l’amicizia sarà fruttuosa: nel 1947 è “Sur” a tradurre e pubblicare in anteprima un capitolo de La peste, che sarebbe stato edito dalla Editorial legata alla rivista. In quello stesso numero, dedicato alla letteratura francese, vengono pubblicati André Gide, Malraux, Paul Éluard, Francis Ponge, Julien Gracq. La Ocampo continua a tradurre il teatro di Camus: Requiem para una reclusa, tratto da Faulkner, nel 1957; Los poseídos, nel 1960, da Dostoevskij. Un tomo edito da Sudamericana raccoglie la Correspondencia (1946-1959) che lega Camus alla Ocampo.
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Il 27 agosto del 1946, lei a Camus. “Ieri, in una libreria insignificante, a Deauville, trovo uno Zarathustra, lo apro, leggo questo passo. Lo leggo come se fosse stato scritto per me. ‘Oh, solitudine! Tu, patria mia, solitudine! È passato troppo tempo da quando ho vissuto selvaggiamente, in paesi selvaggi, e ora torno a te con le lacrime agli occhi!’; ‘Una cosa è l’abbandono, l’altra, distinta, la solitudine… tra gli uomini sono sempre strano, selvatico’. I libri sono pieni di cose che avrei potuto dire io. Dunque, mi dico: non vale la pena scrivere! E sottolineo le pagine, come se fosse sufficiente. Torno a Parigi, contro la mia volontà, il mio fiuto, i miei polmoni, contro tutto, domani. Spero di vederti, allora”. Quella della Ocampo è una vita tra i libri: l’odore della realtà è inqualificabile.
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Infine, nel giugno del 1949, Albert Camus è in Argentina. Il viaggio è funestato dal disastro: Lo straniero è bandito dalla censura, in Argentina domina Perón. Camus preferisce la barca, approdando in Brasile; poi è a Montevideo, dove tiene una conferenza. Il 12 e 13 agosto è a Buenos Aires, da lì in aereo va a Santiago del Cile. Prevede di parlare, in pubblico. Tema: “Libertà di espressione”. L’ambasciatore francese in Argentina lo avverte che il testo della conferenza deve essere bollato e ammesso dai censori peronisti. Lo scrittore annulla la conferenza. A proteggerlo, la Ocampo. “Camus sapeva perfettamente con chi stare, qui e in altre parti del mondo. La sua coerenza era limpida. Ha capito che l’Argentina, in quel periodo, era appestata da una piaga che minava il nostro organismo morale”. Per due notti Camus fu ospite a Villa Ocampo, “vorrei dormire qui fino alla fine del mondo”, annota. Il primo giorno, la Ocampo ostenta il suo ospite, un trofeo, a una quarantina di intellettuali argentini; il giorno dopo i due restano soli. Ascoltano Britten, leggono Baudelaire. “La lotta comincia a esaurirmi, c’è una specie di pace provvisoria in questa casa”, scrive Camus. Lei era certa che un libro potesse rovesciare un governo – ma in fondo, che valore ha una nazione rispetto a un sonetto?
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“Il 4 gennaio ero a New York, da sola. Era tardi. Il telefono suona. Una voce, dall’Argentina. ‘Immagino che sarà distrutta…’. Da cosa? ‘Non ha sentito la radio… Camus…’. Il nome mi bastò. Come? Dove? Interruppi la comunicazione. Dicono che piovesse, quel giorno, dall’altra parte dell’Atlantico, in Francia, in quella strada punteggiata di platani. Cosa hai pensato in quell’ultimo istante? Cos’hai sentito? La morte l’hai presa come una disgrazia o come una liberazione? La tua assenza ci lascia senza verbo. Quella notte, a New York, la solitudine fu doppia. L’uomo infestato di sogni, l’uomo travolto dall’infezione divina, non come gli sciamani ubriachi di fumi… lucido, statuario, ha mantenuto limpida la visione, nel vento meridiano. Ho visto Albert Camus. Vivrà sempre in me”. Così Victoria Ocampo, era il 1960. Morì nel gennaio del 1979, neppure lo strazio ha scalfito la sua eleganza, connaturata. (d.b.)
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MACERATA – “Verso l’infinito” è il titolo della 25^ edizione di Libriamoci – Festival del libro illustrato, rassegna promossa dall’assessorato alla Cultura del Comune di Macerata, da Macerata Musei, in collaborazione con Ars in Fabula – Scuola di illustrazione editoriale presentata questa mattina nel corso di una conferenza stampa alla presenza dell’assessore alla Cultura Stefania Monteverde, di Mauro Evangelista, direttore artistico di Ars in Fabula e curatore di Libriamoci e Rosaria Cicarilli di Macerata Musei.
“Libriamoci a Macerata compie 25 anni. È una grande notizia! Significa che questa città da 25 anni cura l’amore per i libri belli – afferma l’assessore alla Cultura Stefania Monteverde -. Fu un’intuizione dell’allora assessora alla cultura, l’indimenticata e illuminata Barbara Pojaghi: un progetto di città a misura di bambine e bambini deve fondarsi sui libri belli. Nacque Libriamoci. Festival dei libri illustrati. Ebbi l’opportunità di contribuire alla scelta del nome, per dire che i libri ci fanno volare. – ricorda l’assessora alla cultura Stefania Monteverde- in 25 anni ogni anno è la mostra dei migliori libri illustrati prodotti dalle più grandi case editrici italiane, attesa e visitata da scuole turisti famiglie cittadini.
È la scoperta di straordinari artisti delle illustrazioni, capaci di trasformare in visioni sogni, desideri e paure. È lo spazio dei bambini per crescere con le cose belle, e degli adulti per non perdere l’immaginazione. Da 25 anni Libriamoci è curata da Ars in Fabula, prestigiosa scuola di specializzazione nell’illustrazione che ha fatto crescere artisti bravissimi Made in Macerata, raccogliendo premi e riconoscimenti. Merito dell’ingegno creativo di Mauro Evangelista e della passione operativa di Michela Avi, ai quali va il riconoscimento della città per aver fatto di Macerata un punto di riferimento internazionale nel campo del libro illustrato.”
E prosegue: “Ho avuto il privilegio, da assessora alla Cultura in questi dieci anni, di ereditare un così grande patrimonio, e, insieme al sindaco e alla giunta, abbiamo cercato di averne cura. In questi anni il Comune di Macerata non ha smesso mai di investire su Libriamoci come progetto di comunità, considerato da tutte le amministrazioni che si sono succedute un patrimonio culturale che bene alla città. L’augurio è che anche nei prossimi 25 anni continui a vivere e crescere Libriamoci. Festival dei libri illustrati a Macerata, un luogo necessario che può regalare a tutti noi un dono raro, gli occhi per vedere l’invisibile.”
Inserita nel calendario di Libriamoci 2019, nella suggestiva ambientazione di Palazzo Buonaccorsi, la mostra, dedicata alla più celebre poesia di Giacomo Leopardi, inaugura il 15 dicembre e sarà visitabile fino al 2 febbraio.
L’infinito trova nuove forme e colori nelle immagini dell’artista Marco Somà, vincitore del Premio Andersen 2019 come miglior illustratore, formatosi alla Scuola di illustrazione Ars in Fabula. Le visionarie tavole esposte rappresentano un invito, per grandi e piccoli lettori, alla scoperta, al ritorno, al viaggio nell’universo leopardiano. Si trova lo spunto per riflettere sullo spazio e sul tempo, nelle loro declinazioni personali e intime in relazione alla vastità del mondo e alla sua contemplazione.
A veicolare questi significati possono essere proprio i libri, che dallo spazio finito delle pagine diventano luoghi d’accesso protetti al dolce navigar nell’immensità del mondo. Come scrive lo scrittore Daniele Aristarco nella prefazione dell’albo L’infinito illustrato da Somà, pubblicato da Einaudi Ragazzi in occasione del bicentenario della composizione della poesia:
“Ognuno ha la sua siepe, un luogo nel quale stare da solo e lasciare che l’immaginazione si muova liberamente nel tempo e nello spazio. Non sappiamo se quell’infinito esista realmente, eppure ci piace provare a immaginarlo. In questo preciso istante, mentre sei seduto e i tuoi occhi scorrono questi segni, la tua mente viaggia indietro di duecento anni e poi in avanti, forse, o chissà dove. Forse la tua siepe la stai stringendo tra le mani. Nello spazio finito della pagina di un libro, un luogo d’accesso al tuo splendido naufragio”.
“La preziosa collaborazione con Libriamoci – ha detto Rosaria Cicarilli di Macerata Musei – è iniziata nel 2009 con l’inaugurazione del Museo della Carrozza per la quale Mauro Evangelista e i suoi studenti illustrarono un libricino dedicato ai bambini. Un rapporto, proseguito negli anni con l’allestimento di mostre e con l’accoglienza a Palazzo Buonaccorsi dei corsi di illustrazione e master, costante e motivo di grande orgoglio.”
Il viaggio verso l’infinito inizia domani, domenica 1 dicembre, alle 18, con l’inaugurazione di Libriamoci 2019 nella storica sede della Galleria degli Antichi Forni.
“La rassegna quest’anno festeggia venticinque anni – sottolinea il direttore artistico Mauro Evangelista, illustratore Premio Andersen – e, insieme alla Scuola di illustrazione Ars in Fabula, ha fatto conoscere la città di Macerata al mondo come capitale italiana del libro illustrato”.
Ci accompagneranno verso l’infinito le illustrazioni tratte da ben 13 libri pubblicati quest’anno nati tra i banchi di Ars in Fabula: Il signor Erik (edizioni Uovonero), Ada al contrario (Settenove), I tre porcellini (Carthusia), La povera gente e Sredni Vashtar (entrambi Orecchio Acerbo), Marc est devenu un chat e Dejeuner sur l’herbe (entrambi Notari), La leggenda del paese dove nascono le parole (Feltrinelli kids), L’alfabeto delle emozioni (Gribaudo), La ragazza della foto (Il battello a vapore), Com’è nata l’Italia (Mondadori), Il re e i suoi cavalieri (Sinnos) e Poesie della neve (Fatatrac).
Insieme ai giovani illustratori, in mostra anche professionisti navigati: ritroviamo Marco Somà con La vera storia di King Kong (Kite), Mauro Evangelista con Il principe felice ed altre storie di Oscar Wilde (Bompiani), Giacomo Garelli con Io e Charlie (Orecchio Acerbo).
Anche quest’anno saranno esposti i lavori degli studenti del corso Entry-Level di Ars in Fabula che si sono cimentati nell’illustrare opere di grandi autori: Fedro, Italo Calvino, Gianni Rodari, Topelius. La novità di quest’anno vede l’arrivo agli Antichi Forni dei progetti personali degli studenti del nuovo corso Advanced Ars in Fabula. Si troveranno illustrazioni di diverse fiabe della tradizione popolare, opere di inediti e grandi autori come Borges, Yeats, Pasolini, Guy de Maupassant e tanti altri.
Come sempre, in programma mattina e pomeriggio visite guidate gratuite per le scuole (nell’ultima edizione hanno partecipato oltre cento bambini al giorno), arricchite dalla presenza degli illustratori ospiti. Ogni pomeriggio sono in programma appuntamenti no stop dedicati all’albo illustrato: Fiabe in galleria con il Teatro Rebis, incontri in collaborazione con il Museo della Scuola, laboratori con gli autori ospiti e attività curate da Ars in Fabula. Come di consueto uno spazio della rassegna è dedicato alla mostra-mercato del libro illustrato, bookshop – a cura di Bottega del Libro e Libreria del Monte – che spazia dai classici dell’infanzia alle ultime novità editoriali italiane ed estere.
Info: www.comune.macerata.it
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Da bambino, sessant’anni prima di diventare Barney Panofsky, Mordecai Richler aveva l’assoluto divieto di accendere o spegnere la luce, rispondere al telefono o ascoltare la radio di sabato. Nei giorni che precedevano Yom Kippur era costretto a farsi roteare un pollo sopra la testa per scaricare sul terrorizzato animale i peccati dell’anno trascorso. A tredici anni, diventato ormai un apikoros, un miscredente, si convertì alla fede laica, socialista e sionista di Habonim, i Costruttori, ansiosi di approdare quanto prima in Palestina e fondare uno Stato ebraico. Alla fine, Richler non emigrerà nella Terra Promessa. La visiterà due volte, nel 1962 e nel 1992, incontrandovi turisti americani di mezza età, coloni della Cisgiordania, giornalisti dissidenti, fondamentalisti cristiani in trepida attesa della battaglia nucleare fra il Messia e l’Anticristo nella piana di Armageddon, vecchi compagni di Habonim. Quest’anno a Gerusalemme è il romanzo – intessuto di ricordi, rimpianti, incontri casuali, telefonate nella notte, dolorose rivelazioni – di un sogno giovanile e delle amicizie perdute. È un reportage che parla di pace, guerra, territori occupati, intifada, antisemitismo. È, a suo modo – il modo ironico e disincantato a cui ci ha abituato Richler –, una sorta di anticipazione di ciò che sarebbe successo, in Israele e nel mondo, in questi anni, e che succederà ancora. Ma anche un’analisi illuminata della situazione, non priva di suggerimenti politici oggi più che mai attuali..... #libridisecondamano #ravenna #bookstagram #booklovers #bookstore #instabook #igersravenna #instaravenna #ig_books #mordecairichler (presso Libreria Scattisparsi) https://www.instagram.com/p/BzrwOuUIwSN/?igshid=r55j2eqn126b
#libridisecondamano#ravenna#bookstagram#booklovers#bookstore#instabook#igersravenna#instaravenna#ig_books#mordecairichler
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L’ho scritto tanto tempo fa
Di nuovo si trovava sul materasso ortopedico, infagottata in un goffo pigiama di ciniglia, ad accarezzare l'idea di farla finita. Quel pensiero pareva stonare con l'ambiente in cui si trovava e con la figura che lo specchio a un paio di metri le restituiva. Seduta sul copri materasso rosa, fresco di bucato, un lenzuolo a fiorellini di cotone bianco le era rimasto a coprire una caviglia, come a voler nascondere tutti gli altri momenti passati in cui si era ritrovata nella stessa stanza, con lo stesso pensiero. Un tatuaggio tentava di coprire, malamente, ciò che pensava fosse il medioevo della sua vita, mentre lei si trovava ormai in un luminoso rinascimento. Aveva amaramente scoperto che i periodi bui sono duri a finire e anche quando pensi di esserne ormai completamente fuori, non ti abbandonano mai del tutto. Le ombre mantengono la presa sulle tue caviglie pronte a tirarti sul fondo alla prima bracciata incerta. In effetti in quel momento si sentiva annegare. La libreria bianca le restituiva fotogrammi di una vita di tentativi. Tentativi di essere felice, tentativi di essere una persona diversa da quella che era stata messa al mondo in un giorno piovoso dell'estate '95. A periodi alterni credeva di aver trovato veramente la chiave per uscire dalla sua fortezza di ombre, lunghi periodi in cui si era illusa di trovarsi ormai in una grande radura illuminata dal sole e che di lì in avanti la strada sarebbe stata sempre sicura e illuminata. A periodi alterni. Erano momenti di illusione, il cui solo scopo fin ora era stato forse quello di impedirle di finire una volta per tutte ciò che aveva cominciato. Anche un solo secondo di speranza può darti la forza di ricominciare a nuotare. Un solo attimo di lucidità bastava per ricordarti che c'erano stati dei momenti felici e che non aveva senso privarsi di quelli che ci sarebbero stati in futuro. Se ce ne sarebbero stati. Erano i se che la fregavano. I se e i ma. "Con i se e con i ma non si va da nessuna parte" e infatti lei lì era rimasta, per così tanto tempo. Il suo cellulare si illuminò e il riflesso sull'acciaio le fece abbassare lo sguardo. "Buonanotte amore mio, ti amo da impazzire". Quasi che quel messaggio in un momento di solitudine così grande ebbe l'effetto contrario delle intenzioni del mittente. Servì soltanto a ricordarle quanto stupide sono le relazioni umane e quanto soli siamo, in fin dei conti. Chiusa nel silenzio della propria stanza da ore, incerta sul da farsi, nessuno le aveva scritto per chiederle come stava. Nessuno aveva pensato che forse, dopo tutto, lei il giorno dopo non sarebbe stata più lì. La vita era tutto un dare per scontato: diamo per scontate le persone, diamo per scontato il lavoro, diamo per scontato ciò che possediamo. Ma tutto può andarsene. O essere portato via. Era normale che nessuno venisse a controllare che fosse ancora viva? Certo. Chi è che si sveglia nel cuore della notte per andare a controllare se nella stanza accanto qualcuno sta commettendo un suicidio. Eppure era arrabbiata ché nessuno capiva che qualcosa di grosso si stava consumando, in mezzo a tutti quei mobili sottomarca. Era arrabbiata con tutti e quando era arrabbiata le ombre si nutrivano della sua rabbia e stringevano la presa sempre più forte intorno alle sue caviglie e non aspettavano altro che il momento propizio. L'avrebbero tirata giù. Alla prima incertezza, tutto sarebbe diventato nero e freddo. E quel messaggio, che le avrebbe dovuto far sentire il calore dell'amore di chi con le ombre litiga giornalmente, ma in altri modi, la fece sentire così arrabbiata per l'incapacità della persona che più l'amava al mondo di sentire, più che accorgersi, che qualcosa non andasse. Accorgersene era infatti impossibile, non dava ancora il minimo segno di cedimento esterno. Ma lui avrebbe dovuto comunque percepire il desiderio di morte che cresceva piano piano dallo stomaco e saliva su. Avrebbe dovuto sentirlo e avrebbe dovuto chiederle cosa potesse fare per cacciare via le ombre, per liberarle le caviglie. Sarebbe bastato questo, forse. Ma lui era così preso dalla sua vita, dalle sue luci, dalle sue ombre. E lei era così arrabbiata che lui non le chiedesse come stava che ormai era impossibile anche solo che sostenessero una conversazione. La loro relazione si limitava a qualche messaggio superficiale giusto per far capire che erano ancora vivi, che nessuno dei due aveva ancora scelto di andarsene. Dalla coppia, dal mondo. Solo che lei forse aveva scelto ed era arrabbiata con lui per non averlo capito, per non averle chiesto come stava. Era così arrabbiata. Sarebbe bastato un messaggio. Sarebbe bastato che avessero parlato anche un po' di lei, della sua vita, delle sue ombre. Lui si sarebbe sentito in colpa, per non aver percepito nulla di tutto ciò. Si sarebbe sentito in colpa. Si sarebbe maledetto. Si sarebbe odiato. E avrebbe fatto bene. Lui, come tutti gli altri. Era così furiosa. Era sul piede di guerra. Gliel'avrebbe fatta pagare a tutti, avrebbero capito cosa significava vivere con un peso attaccato alle caviglie che ti trattiene indietro, mentre tutti vanno avanti. Avrebbero capito cosa significava far fatica a compiere gesti banali, come alzarsi dal letto, prendersi cura del proprio corpo, del proprio aspetto, della propria salute. Star dietro alla sua testa era un lavoro a tempo pieno e le rendeva quasi impossibile fare tutto il resto. Quando la mattina apriva gli occhi, normalmente dopo un sonno pieno di incubi in cui ribaltava praticamente le coperte, le lenzuola, i cuscini e pure il materasso, la prima cosa che pensava era, beh, nessuna in realtà. L'ansia le arrivava in gola prima ancora che il suo cervello avesse il tempo di elaborare un pensiero. Così chiudeva gli occhi e faceva respiri profondi e regolari per evitare un attacco di panico. Inspirava per 7 secondi, espirava per 11. Sempre con il naso. Si stendeva a pancia in su con le braccia lungo il corpo e i palmi rivolti verso l'alto e respirava. Mano a mano il cuore rallentava e l'ansia ritornava dal luogo in cui era venuta e lei sprofondava di nuovo nel mondo dei sogni. Era più facile svegliarsi quando la giornata era già cominciata da un po' per il resto del mondo, perché c'erano pulsioni più elementari che entravano in gioco e le permettevano di alzarsi finalmente dal letto: andare a fare pipì, bere un litro d'acqua, mangiare prima di morire affamata. Inoltre c'era la consapevolezza che ormai mezza giornata se ne era andata e quindi, se avesse voluto, quel supplizio sarebbe potuto durare molto poco: otto ore e poi di nuovo a letto. Come se stare svegli e vivere fosse un lavoro che andava fatto, volenti o nolenti. Magari mi avessero pagato.
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TOUR DELLA BULGARIA
DAL 12 AL 19 MAGGIO 2017
1° giorno 12-05-2017: CATANIA-ROMA-SOFIA
Alle 10.00 sono al parcheggio dell'aeroporto e una navetta mi porta allo scalo. In 45' faccio il check-in Alitalia (nei giorni scorsi si è scongiurato uno sciopero indetto per oggi), consegno la valigia e passo il controllo sicurezza. Alle 12.30 partiamo in ritardo per Roma (11.55-13.15). A bordo, sconsolatamente, dispensano solo una bibita. Atterriamo alle 13.30 nella capitale e ci mettiamo 20' per sbarcare e altri 15' perché la navetta ci porti in stazione. Corro alla mia coincidenza temendo di perderla. Arrivo che stanno imbarcando, meno male sono in tempo. Ingurgito in piedi i due sandwiches che ho portato preventivamente da casa. Alle 15.00 il volo decolla con solo 80 passeggeri (14.45-17.40). Nuova dispensazione di bibite con l'aggiunta di un dietetico snack. Atterriamo alle 17.12 locali. Dopo il controllo passaporti mi reco ai nastri ritiro bagaglio e resto in attesa della mia valigia. Ed ecco che quello che temono tutti i viaggiatori mi si palesa davanti. Il nastro si ferma e della mia valigia nemmeno l'ombra. Siamo in tre ad avere lo stesso guaio. Dopo esserci guardati negli occhi ci rechiamo sconsolati allo sportello Loost & Foud. Mentre accettano la mia denuncia, l'impiegato, pigiando sulla tastiera del computer, mi informa che la mia valigia è stata già trovata. E' in aeroporto a Roma è arriverà a Sofia con il volo di domani pomeriggio. “Peccato” che io domani sono già in un altra città. Inoltre pare che non posso nemmeno farla ritirare da un altra persona senza passare da un notaio-avvocato per la delega. Mentre chiarisco questi particolari, ricevo una telefonata dal Tour Operator locale che chiede mie notizie. Mi attendevano per il trasferimento in hotel. Spiego lo stato dei fatti e loro spostano il mio trasferimento di 20' in attesa che io finisca le pratiche. Subito dopo ricevo una identica telefonata anche dal T.O. Italiano. Alla fine, allo sportello, mi consegnano un modulo: il P.I.R. (Property Irregularity Report), unico flebile legame con la mia valigia. Esco nella hall dell'aeroporto e resto in attesa del mio trasferimento. E' la prima volta che mi perdono la valigia ad inizio viaggio. Un altra occasione mi capitò al ritorno dal mio viaggio in Messico quando il bagaglio non arrivò a Catania per una incredibile serie di cambio voli -per maggiori ragguagli visitate il mio Tour Messico-. Si fanno le 18.45, quando una collaboratrice del T.O. Locale mi viene a recuperare in taxi. In auto per l'hotel, Lilya, l'incaricata dell'agenzia, fa alcune telefonate per accertarsi dell'iter di recupero della valigia ritardataria. Alla fine dei conti il bagaglio mi verrà consegnata tra due giorni a Varna, visto che domani non sono a Sofia. Ricevo un SMS di conferma Alitalia con numeri telefonici da chiamare e siti da visitare. So di avere diritto ad acquistare beni di prima necessita per un valore di €200, ma dopo il rientro dal Messico ho preso delle precauzioni per emergenze simili. Statistiche alla mano una disavventura del genere mi doveva pur ricapitare, così, da allora, viaggio con un cambio abiti completo che porto sempre con me nel mio zainetto scolastico. Posso sopravvivere due giorni, l'importante che siano puntuali nella consegna. Alle 19.05 sono in hotel. In stanza faccio una ricognizione e trovo ciabatte da camera, detergenti e saponette da bagno, tranne spazzolino e dentifricio. Telefono e me li fanno avere. Faccio una doccia veloce e alle 20.00 sono a cena dove conosco Kamen la nostra guida per il tour e i componenti del gruppo. Siamo 12 più guida e autista. Alle 21.00 in solitaria faccio il primo giro notturno di Sofia con l'obiettivo di arrivare almeno fino alla Cattedrale. Lungo il Bulevard Maria Luiza incontro Leoni di bronzo; Tram in transito; la poco illuminata moschea centrale di Sofia Banya Bashi Dzamija alias Moschea dei Bagni; palazzoni sovietici. Giro per il Bulevard Tsar Osvoboditel tra la chiesa Sveta Petka Samardzijska, semi interrata, e i resti delle Terme Romane e proseguo sotto altri Palazzoni, la National Art Gallery, il Museo Etnografico, una Chiesa Russa, la piazza con il Monumento allo Tsar Osvoboditel e il Palazzo dell'Assemblea Nazionale. Da qui intravedo la mia meta la Cattedrale. Proseguo per l'Universita St. Kliment Ohridki e girando dalla Libreria Nazionale entro nella piazza sulla quale si erge la maestosa Cattedrale Alexander Nevski. E' già ora di rientrare. Imbocco il Bulevard Moskovka e passo davanti alla irriconoscibile Basilica di St. Sofia con il leone simbolo della città e il fuoco perenne dei caduti di tutte le guerre. Sono in hotel alle 22.40.
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