#letteratura liofilizzata
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Infinite Jest
di David Foster Wallace
Odissea di giovani tennisti e narcotici anonimi nell’america semiapocalittica
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Ho deciso di aprire un blog secondario: https://letteraturaliofilizzata.tumblr.com/
Lo scopo è di inserire descrizioni molto sintetiche di libri (brevissime, massimo 10 parole). L’ho chiamato Letteratura Liofilizzata. L’idea è che sia un blog collaborativo e quindi chiunque (tra i miei pochi lettori o chi capitasse per caso) volesse contribuire con i propri libri liofilizzati mi scriva in modo che lo aggiunga tra gli autori.
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Lo sterminio dei maestri. “La poesia non è dei professori e degli eruditi, ma degli sbandati, degli avventurieri, dei reietti delle isole”. Su una bordata di Andrea Temporelli (e una lettera di Giampiero Neri)
Lo sterminio dei maestri. Se non ci sono più i maestri, mi dicono, ce li costruiremo, mi dico come si fa una sedia – per offrirla, poi, ad altri. La maestria è dono che esiste finché ce ne priviamo. Nel suo spazio, nella sua privata profezia, Andrea Temporelli (che per me è Marco) scrive una riflessione ferina. Meglio, leviga la selce. L’arma s’intitola Dove sono i maestri? e il punto lampante è questo: “da poeta, voglio continuare a credere nella possibilità che un’opera sappia imporsi, magari col tempo, se davvero ha valore, e che dunque tutti i discorsi sociologici di contorno non debbano stornare l’attenzione dal dubbio che mi assale: dopo un brillante esordio o qualche passaggio importante, né i “padri” né i “fratelli maggiori” ci hanno lasciato un’opera capace, per la sua grandezza intrinseca, di obbligarci ad alzare lo sguardo o a cambiare direzione”. Lapidario. Come sempre.
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Poche scuse, ci dice Marco, poche palle: nessun libro, negli ultimi decenni, ha avuto la forza di incenerire, ha gettato il verbo che decapita e incanta. Marco conosce perfettamente le repliche che disintegrano la sua apodittica dichiarazione: la ‘riconoscibilità’ dipende dal ‘contesto storico’; la critica letteraria conta quanto il due di picche (e il critico s’è ridotto all’apericena di se stesso); il poeta è defenestrato dal ‘dibattito pubblico’ (e quando vi interviene è solo per ragioni elettorali, lacchè sublimato in eroe), i tempi non sono mai i tempi adatti… Palle, dice Marco, che da lettore incantato pretende l’opera che lo sfiguri, e ha ragione, figuriamoci.
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Sappiamo ancora leggere? Sappiamo riconoscere la maestria? Sappiamo dedicarci all’opera di un altro senza fagocitarla nell’intestino moltiplicato di io, io, io?
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Proseguo allineando le scusanti. L’Italia è un Paese che notoriamente sputtana i maestri: da noi non esiste qualcosa di simile alla “Library of America”, l’equatore della maestria, dove stanno William Faulkner e Philip K. Dick; non sappiamo fare leggenda dei nostri maestri, non esiste un Museo Montale, l’aeroporto di Fiumicino non è adornato con le poesie di Ungaretti (come accade a Dublino, dove dappertutto sei assediato dai versi di Yeats-Heaney, dalle frasi di Joyce-Wilde-Swift). Qui neanche sappiamo che i racconti di Giovanni Verga sono più rapidi, rapaci, ‘moderni’ di quelli dello stracotto Raymond Carver.
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Altra scusa. Il Novecento è stato un secolo bulimico di maestri. Li hanno fabbricati in serie, nelle catacombe, nelle botteghe oscure, alla luce del sole. Per questo le antologie patrie cambiano di continuo i connotati e gli ingredienti del canone: un chilo di Raboni è davvero meglio di un chilo di Luzi, forse un contorno di Pagliarani sta meglio di quella maionese di Sanguineti, e Antonio Porta, quando lo mangiamo? Non è detto che la zuppa Sereni sia più saporita di un brodino di Caproni (il tardo, però, l’epigrammatico) e il minestrone Zanzotto chi se lo inghiotte? Io all’insalatina liofilizzata del primo Ungaretti preferisco la costata ruvida di sangue di Dino Campana…
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Altra scusa. Nel mondo anglofono – ma anche francofono, ispanofono, ariano, in verità, in ogni altra parte del mondo – continuano a partorire maestri. Come? Con i soldi. Borse di studio, premi importanti, possibilità di lavorare sul serio dentro l’opera – che non è il referto riferito ad altri della nostra domenica, in vacanza, fratelli al tramonto e ai propri buoni sentimenti –, al di là della medaglia sul petto, la pacca sulla spalla, la presa per il culo.
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Altra scusa. Le scuole, le scuole… I poeti non si leggono a scuola! Propongo al Sindacato dei Poeti di proporre per obbligo la presenza di un poeta nelle scuole di tutto il Paese!
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Poi ci siamo detti che i maestri erano tutti cattivi, liberi tutti, viva la libertà. In questa paradossale solitudine, al Premio Strega, l’anno scorso, ha rischiato di finire un romanzo su Gian Ruggero Manzoni, ma non l’opera di Gian Ruggero Manzoni, un maestro. D’altronde, chi conosce e riconosce l’opera fondamentale di Alessandro Ceni, di Francesca Serragnoli, chi ha letto Isacco Turina e perché al Campiello non ha vinto uno dei romanzi più potenti di questi anni – alla luce del troppo che ho letto – Tutte le voci di questo aldilà, di Andrea Temporelli?
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D’altronde, Temporelli dice tutto, in quel libro: “Alla larga dalla poesia, schiccherafogli che non avete mai fatto spreco di voi stessi, che non avete mai vissuto e pensate di riscattarvi con i vostri bisillabici piagnucolii. Non destate i lupi: scenderanno nottetempo a sbranarvi. Voi non sapete che cosa sia scrivere sui vostri polmoni, riversati davanti come le ali di un angelo scomposto. Conoscete la vostra vanità”.
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Scuse, appunto. L’opera appare, fiammante, nonostante il tempo, il contesto, i contestatori. Eppure, dice il puro&folle, come la mettiamo con Rimbaud, la Dickinson, Hölderlin, Dino Campana, appunto, tutte le grandi opere nascono nell’irriconoscenza, nell’irreparabile eresia dal ‘pubblico’. Una volta ci siamo detti: ci basti custodire la fiamma, consegnare la torcia – ecco, la maestria – affinché qualcuno, oggi, domani, tra secoli, in questo o in altri mondi, sappia attingere al fuoco appiccando l’incendio. Un fuoco lo si afferra come un’arma, come la mano di un bimbo.
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Ieri mi è arrivata una cartolina da Giampiero Neri, il poeta. Alessandro Rivali lo ha definito un maestro in ombra; i libri di questo poeta non hanno agito dentro di me quanto la sua umanità, che mi affascina. Nel lavoro di Neri c’è la costanza di chi ha regalato molte volte i propri occhi, pezzi d’ambra, incagliati in luoghi distinti della storia – egli conosce la deriva continentale dell’uomo, misura quanto stagiona la speranza, il punto d’ebano dell’abisso. “La poesia non è dei professori e degli eruditi, ma degli sbandati, degli avventurieri, è come la fede in Gesù Cristo che hanno le Marie di Magdala, gli adulteri, i buoni ladroni, non gli scribi e neanche i farisei, sempre gli avventurieri, gli ultimi della classe, i reietti delle isole. Siamo al cospetto del mistero della letteratura, che è anche il mistero della vita. Forse questa volta ti trovo solidale. Bevo un bicchiere di vino alla tua salute”, mi scrive Neri, e non è maestria questo vino spartito a distanza, come un patto?
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D’altronde, le cattedrali le hanno elette degli anonimi; e chi ha scritto il Cantico? Ci sono tempi in cui una maestria s’impara dalle nuvole, dalle muraglie innocenti, e dall’albero che si allinea all’assalto. E tu a chi scrivi?, questa è una domanda, ad esempio. Imparare che è sufficiente un solo destinatario, e dedicarsi ad esso senza risposta, da irresponsabili, è una direzione. (d.b.)
*In copertina: Philippe Halsman fotografa Salvador Dalí, nel 1954
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La mite
F. Dostoevskij
Un marito severo si dispera ipocritamente per la sua perdita.
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Cronache di poveri amanti
Vasco Pratolini
Di come delle anziane, alla finestra, governano una via intera.
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La lettrice scomparsa
di Fabio Stassi
Un biblioterapeuta che cura gli altri ma non se stesso.
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Walden ovvero vita nei boschi
di Henry D. Thoreau
Manuale di sopravvivenza per l’uomo del diciannovesimo secolo
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Un indovino mi disse
di Tiziano Terzani
Un indovino disse a Terzani di non volare nel 1993
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Città sola
di Olivia Laing
Libro per uomini, artisti e lettori soli nei loro abissi.
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Guida galattica per autostoppisti
di Douglas Adams
La terra viene distrutta per costruire un’autostrada intergalattica
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“Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”: leggete Evgenij Zamjatin, l’antidoto contro l’esteticamente corretto
La frattura, qui, è scomposta. Intanto: bibliografia liofilizzata e un titolo. E poi: poetica in forma di ideologia. Partiamo dalla seconda. Dei molteplici sguardi che ci sono dati, ci accontentiamo di uno. Narrare, oggi, significa quasi sempre pattinare sulla superficie: una forma di giornalismo con pathos, far cronaca della propria fantasia. Occorre ‘farsi capire’ – mica capire! Non si elabora, dico, altra strategia narrativa che quella dell’italiano in America, mero scimmiottamento della trama. Allenamento alla stupita stupidità dei ‘fatti’. Alienazione dalla lingua – perché tutto ciò che è lingua sa di intransigenza, ha una autenticità al diamante, insopportabile.
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Di Evgenij Zamjatin, ad esempio, sappiamo solo Noi, la cui scrittura iniziò un secolo fa, fu pubblicato per la prima volta, in inglese, nel 1924, “è il capostipite di tutte le distopie del Novecento”, come insegna la ‘quarta’ dell’edizione Mondadori, a cura di Alessandro Niero, pubblicata nel 2018. La versione Mondadori ripiglia quella Voland del 2013, segue quella di Barbara Delfino per Lupetti del 2007 e soprattutto quella di Ettore Lo Gatto pubblicata da Garzanti e da Feltrinelli. Insomma, Zamjatin è risolto lì. Morto nel 1937 a Parigi, dove era riuscito a espatriare nel 1931, grazie all’avallo di Maksim Gor’kij, Zamjatin, esaltato come un nuovo Gogol’, fu ‘rivoluzionario’, poi spina nel fianco della Rivoluzione, con la penna intinta nell’acido. Fu decisamente celebre: nel 1930 l’Anonima romana editoriale traduce la “tragicommedia in quattro atti” Mister Kemble: la società degli onorevoli campanari. Eroe del gruppo dei “Fratelli di Serapione” – teorico di una narrativa formalmente ineccepibile, con tecniche di montaggio scacchistiche, in reazione all’egida dell’impegno ‘sociale’ – nell’anno della morte è censito così da Lo Gatto, che mise una pietra sopra all’incontenibile: “Originariamente comunista, lo Z. si allontanò sempre più dalle idee sovietiche, ma all’estero visse solitario, senza aderire all’emigrazione politica. Scrittore originale di contenuto e di stile tra il raffinato e il popolare, Z. non aveva ancora dato piena espressione alle sue grandi possibilità artistiche”. Fu, anche in gruppo, solo a se stesso, per questo morì, poeticamente, da poveraccio.
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In un memorabile articolo del 1921, dal titolo indicativo, Ho paura, Zamjatin delinea la cruna dell’arte in contrasto con la politica imperante, contro lo Stato dilagante. “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”.
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Sostanzialmente, Zamjatin è risolto in Noi. Tra gli sparuti testi altri, Il destino di un eretico (Sellerio), Racconti inglesi (Voland), A casa del diavolo (Mup). Così, quando Dafne Munro mi invia il trittico di racconti edito da Edizioni Urban Apnea – sia lode all’iniziativa editoriale che pubblica una invidiabile varietà di testi riesumati dall’oblio, da Ambrose Bierce a Camillo Boito, da Horacio Quiroga ad Antonio Ghislanzoni, da Bruno Schulz a Gertrude Barrows Bennett – resto ingenuamente sbalordito. L’ironia corrosiva di Zamjatin, il genio nello strutturare situazioni apodittiche e apocalittiche, la sinuosità del linguaggio, tra coltello e piuma, me lo fa preferire a tanti narratori americani precipitati nel canone (Carver? Ma che è al confronto? Un cioccolatino nella fabbrica di cioccolato…). Zamjatin, ecco, è una specie di antidoto all’esteticamente corretto.
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Zamjatin flirta con il paradosso e la sinestesia (“Caldo. Le giornate sono gialle, cariche della gialla pienezza delle mele mature pronte a cadere al primo tocco, al primo sguardo o soffio”), ha il talento della metafora esistenziale (“Se una pietra cade in acque sonnolente, le agita creando mulinelli che ne increspano la superficie. Ma poi i mulinelli si espandono, lasciando solo irrilevanti increspature simili alle rughe che si formano nell’angolo di un occhio sorridente. E alla fine tutto torna piatto e immobile”), pone gli occhi, su ogni situazione, di sbieco, puntati sull’inatteso e sulla vergogna. Il racconto X è spassoso, racconta l’abiura di un diacono, non tanto attratto dal marxismo quanto dal ‘marthismo’, cioè dalle dolci forme dell’ambita Martha: “la fondatrice di questa dottrina (totalmente avulsa da qualsiasi riferimento filosofico alle classi sociali), al momento solo accennata tra le righe, un giorno di primo mattino, si dirigeva verso il fiume per un bagno. Si spogliò, appese il vestito su un ramoscello, mise in acqua la punta del piede destro… e a un paio di metri a sinistra, sotto a un cespuglio, stava accovacciato nudo il diacono Indikoplev (non ancora pentito)”. Zamjatin, con esasperante bravura, passa dallo sketch divertito alla descrizione lirica, dal grottesco all’appagato, dal colto al greve.
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Il racconto più bello – a varietà di stili corrisponde pluralità di invenzioni narrative – s’intitola La caverna, riproduce una nuova era del ghiaccio, postumana. Questo è l’esordio. “Ghiacciai, macerie, mammut. Le buie scogliere notturne sono case da rivivere in qualche modo. Nelle scogliere, le caverne. E nessuno che conosca l’origine di quel rumore notturno sul sentiero pietroso degli scogli, chi sia a soffiare la nevosa polvere bianca sniffando su per il sentiero. Forse un mammut color grigio-tronco, forse il vento. O il vento stesso è il ruggito ghiacciato del re dei mammut. Una cosa è certa: è inverno. E tu devi stringere i denti più forte che puoi per non sbatterli; devi fare legna con un’accetta di legno e ogni notte devi trasportarla di caverna in caverna, sempre più in profondità. Poi devi coprirti il più possibile con ispide pelli di animali. Anni fa, un mammut grigio-tronco si aggirava tra le scogliere di notte, dove sorgeva San Pietroburgo. Uomini della caverna avvolti in stracci, pelli e mantelle si spostavano di caverna in caverna”. I mammut a San Pietroburgo – lo spettro di Zamjatin dovrebbe irrorare le nostre vite, dovrebbero usarlo nelle scuole di scrittura, dovremmo leggerlo per dare profondità a furor di farfalle a questa bieca ‘realtà’. (d.b.)
*In copertina: Evgenij Zamjatin (1884-1937)
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“Il problema non sono i soldi, contano solo le persone”. La notizia del giorno: il Presidente del Rimini FC vuole ingaggiare il malmenato portiere del Liverpool. E rivoluziona il mondo del calcio italiano (con Brodskij in appendice)
Oggi lasciamo la politica a marcire nei palazzi, a torchiare il nulla. Oggi parliamo di calcio. Parto da lontano, però, dall’area di rigore di un’amicizia. Un’amica mi scrive, stamattina, da Milano. Sconvolta. Ha scoperto – meglio tardi che… – Iosif Brodskij, il grande poeta russo. Trent’anni fa, dal podio svedese del Premio Nobel per la letteratura – ora ridotto a flebili palpate su culetti regali – Brodskij dice: “l’estetica è la madre dell’etica: quanto più ricca è l’esperienza estetica di un individuo, quanto più sicuro è il suo gusto, tanto più netta sarà la sua scelta morale e tanto più libero – anche se non necessariamente più felice – sarà lui stesso”. Sintesi bruta: senza il bello non si concepisce il bene; il ‘bel gesto’ è prioritario rispetto all’utile.
Torno dalla lirica al mondo brutale. Un amico mi segnala il sito della Gazzetta dello Sport. Il giornalista della ‘Gazza’ rilancia, parole sue, “la straordinaria lettera aperta del presidente del Rimini F.C.”. La storia è anomala in questo Paese di faine e di galline, di galletti e di schiamazzi. Giorgio Grassi rileva la società di calcio, dal passato nobile – poco più di dieci anni fa giocava contro la Juventus in Serie B – nel momento più difficile della sua storia. Si parte dall’Eccellenza. In un paio di stagioni, il Rimini vince il vincibile. Quest’anno, il capolavoro: promozione in Serie C. Agognato ritorno tra i professionisti. Poi. Sabato scorso un po’ tutti abbiamo sognato che una macchia rosso sangue lordasse la candida casacca del Real. Invece. Il Real Madrid blinda in teca 13 Coppe dei Campioni, per grazia di Loris Karius, il numero uno dei Reds, che ha fatto la figura del numero zero. Di fronte a Karius le eccitazioni sono state, sinuosamente, due: odi sperticate del gentil sesso, improperi a go-go da parte dei tifosi. Dalle stelle della finale della Champions alle stalle del ludibrio pubblico. Lo sport è così, è la vita liofilizzata in un istante, in 90 minuti. A quel punto. Grassi piglia la penna e scrive una lettera aperta al calcio, indirizzata a Karius (che leggete per intero qui). “Il prossimo 22 giugno Loris Karius, portiere del Liverpool protagonista della serataccia nella finale di Champions League, compirà 25 anni. Mi piacerebbe ospitare il portiere tedesco per qualche giorno a Rimini, terra dell’accoglienza e da sempre frequentata dai suoi connazionali”. La lettera contiene una ‘modesta proposta’, immediatamente rilanciata dai media di mezzo mondo: Grassi allunga al tedesco “un anno di contratto con il Rimini F.C., il luogo ideale dove ritrovare serenità, autostima e forza per rincorrere il suo sogno”. Ma non è questo il punto. Il punto è questo: “Sarei felice di incontrarlo a Rimini per ricordargli come ci voglia solo coraggio, o forse buon senso, per capire che le lezioni migliori sono di solito le più dure, quelle più difficili da sostenere. Ci siamo passati tutti, purtroppo per lui sotto gli occhi di milioni di persone. Perché in fondo l’unico vero fallimento è, in realtà, nel permettere alla sconfitta di avere la meglio su di noi. Vorrei dire queste parole a Loris perché possano aiutarlo nel diventare l’ennesimo esempio di chi nel calcio, come nella vita, cade e si rialza”.
Tipo strano, alieno all’ovvio, Giorgio Grassi. Lo conosco. Fabbrica palloncini. Cioè, sogni con l’aria dentro. Magro, elegante, non alza mai la voce. Pensa che per lavorare bene sia necessario essere felici, per lo meno sereni. Non ha il cellulare, ma ha due capre nel piccolo giardino antistante la sua azienda. Quando ha preso la squadra del Rimini, è partito promuovendo un logo, “Un altro calcio è possibile”. Un calcio dove il valore cavalleresco, l’impeto etico, abbiano la meglio sulla scaltrezza e la mera ambizione. Insomma. Una rivoluzione. Sostituire il primo concetto che viene in mente pensando al calcio (vince chi è più furbo), con un altro: è il coraggio di scegliere il bene la vera vittoria.
Appendice. I media s’infiammano – una squadra di Serie C che fa la proposta a un portiere da Champions – ma Grassi non si scalda. A chi lo interpella dice la stessa cosa. “I soldi non contano, i soldi sono l’ultimo dei problemi, conta l’uomo. Vorrei incontrare Karius come un padre, per dirgli, anzi tutto, di non abbattersi, di non mollare”. I soldi non contano. Un altro calcio è possibile – e dio solo sa quanto ne avremmo bisogno. Così mi torna in trachea Josif Brodkij. Il bello è meglio dell’utile. Il bel gesto è più importante della piramide di euro; l’estetica abbaglia, vince. (d.b.)
L'articolo “Il problema non sono i soldi, contano solo le persone”. La notizia del giorno: il Presidente del Rimini FC vuole ingaggiare il malmenato portiere del Liverpool. E rivoluziona il mondo del calcio italiano (con Brodskij in appendice) proviene da Pangea.
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Non avevo capito niente
Diego De Silva
Un avvocato malinconico alle prese con fantasia e realtà.
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