#le storie della vera croce
Explore tagged Tumblr posts
Text
Da: SGUARDI SULL'ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
IL CIELO VUOTO
La Madre. Il Figlio.
La scelta e il presagio.
E l’ineffabile, il padre: è assente.
L’icona bizantina ricorda sempre il Padre: è nello sfondo, nella materia rilucente che avvolge le figure divine e terrene della Vergine e del Cristo.
L’Occidente cristiano, invece, esclude dalle sue immagini il richiamo al Padre.
Lentamente ma inesorabilmente, scompare.
In ragione della sua indicibilità, della sua irrappresentabilità.
Non c'è scena per il Padre.
Ma scompare anche dall’orizzonte del credente, pregno del Dio generato, del Dio incarnato.
Diviene abissale lacuna.
La raffigurazione pittorica avverte il desiderio di colmarla, per quanto possibile.
Il riflesso realistico fa fatica.
Giotto lascia comparire una mano.
Masaccio lo riporta al vertice della Trinità: un atto imperativo, dirompente quanto il suo dipinto.
Ma è con Piero della Francesca, al vertice insuperato dell’arte sacra, che il Padre riappare al cospetto dell’annuncio, nell’istante dell’inizio.
Per ascoltare quel sì della Madre che inaugura l’era cristiana.
L’era del Figlio.
- Giotto (1267 - 1337): "San Francesco, la rinuncia degli averi", dal ciclo delle “Storie del Santo di Assisi”, 1292/1296, Basilica Superiore, Assisi, Perugia - Masaccio (1401 - 1428): "Trinità", 1426/1428, Santa Maria Novella, Firenze - Piero della Francesca (1416 - 1492): "Annunciazione" da "Storie della Vera Croce", 1452/1458, cappella maggiore, Basilica di San Francesco, Arezzo
9 notes
·
View notes
Text
Annie Oakley
Mira a un bersaglio alto e lo colpirai.
Annie Oakley è stata una grande protagonista dell’epopea del selvaggio West, la sua straordinaria abilità col fucile l’ha resa una vera e propria leggenda.
Si narra che, con un fucile calibro 22, da una distanza di circa 30 metri, potesse spezzare una carta da gioco e bucarla ancora prima che toccasse terra, che riuscisse con una mano sola, a sventare rapine sui treni e uccidere orsi e pantere.
Alcune storie sono vere, altre romanzate, di certo è stata una donna forte, indipendente e agguerrita che ha saputo farsi strada in un mondo difficile e diventare un modello di riferimento.
Ha dimostrato che una donna può competere in un mondo di uomini senza doverne assumere tratti e comportamenti. Che le donne possono essere star dello spettacolo senza compromettere la loro integrità. Che il matrimonio può essere una partnership amorosa tra pari. Ha esortato le donne a praticare sport, in particolare quelli all’aria aperta, allora riservati agli uomini. Ha aperto la strada alle donne nell’atletica.
Partendo dal nulla, ha raggiunto la celebrità con il duro lavoro e la sua grande personalità, riuscendo a sfruttare al meglio i suoi talenti.
Ha insegnato a usare un’arma da fuoco a oltre 15.000 donne, come forma di esercizio fisico e mentale e per difendersi.
Nata col nome di Phoebe Ann Mosey a Willodell in Ohio, il 13 agosto 1860, in una famiglia quacchera, era la sesta degli otto figli e figlie di Susan Wise e Jacob Mosey, morto quando lei aveva sei anni.
Sua madre si era risposata e le aveva dato un’altra sorella ma, nel 1870, era rimasta di nuovo vedova e, trovandosi in grandi difficoltà economiche l’aveva affidata a una famiglia in una fattoria vicina che la teneva in condizioni di schiavitù.
Dopo qualche anno era riuscita a fuggire e tornare a casa dove aveva imparato a cacciare per procurare sostentamento alla famiglia. Con determinazione e grande abilità nell’utilizzo delle armi, aveva messo su un commercio di selvaggina che vendeva a hotel e ristoranti. Con i suoi guadagni era riuscita, in breve tempo, a estinguere l’ipoteca della casa della madre.
La sua bravura nel tiro con il fucile ha determinato tutta la sua vita.
Si esibiva in diverse competizioni e, nel 1881, vinse una gara di tiro al bersaglio con un tiratore di vaudeville di nome Frank Butler che sposò un anno dopo e che divenne il suo agente e partner negli spettacoli.
Nel 1885 la coppia si era unita al Wild West Show di Buffalo Bill di cui lei divenne presto l’attrazione principale. Sbalordiva il pubblico con la combinazione della sua piccola statura e la grande maestria di tiratrice, riusciva a centrare una sigaretta tra le labbra del marito e, prendendo la mira con uno specchio, colpire un obiettivo posto dietro di lei.
Negli anni, si è esibita anche in Europa, per il giubileo d’oro della regina Vittoria a Londra e per altri re e regine.
Importante è stata anche il suo impegno filantropico. Ha speso molto tempo e denaro per le persone malate di tubercolosi, gli orfanotrofi e le giovani in cerca di un’istruzione.
Ha promosso il servizio delle donne nelle operazioni di combattimento per le forze armate degli Stati Uniti.
Aveva anche scritto una lettera al presidente William McKinley proponendo di organizzare per la guerra ispano-americana un gruppo di 50 tiratrici scelte.
Lo stesso fece con il Segretario per la guerra nel 1917 affermando di poter “garantire il servizio di un reggimento di donne che opereranno per la sicurezza nazionale. Ognuna delle quali è in grado di sparare e lo farà, se necessario”. In entrambi casi non ebbe una risposta positiva ma ha dato comunque il suo contributo raccogliendo fondi per la croce rossa e facendo dimostrazioni di tiro presso basi americane.
Dopo un grave incidente, nel 1902 aveva lasciato lo spettacolo di Buffalo Bill per iniziare la carriera di attrice in un dramma teatrale scritto apposta per lei, La Ragazza del West.
Nel 1910 è apparsa in un cameo nel film Actors’ Fund Field Day.
Ha dovuto più volte difendere il suo nome dai polveroni scatenati dalla stampa, come quando, nel 1903 una donna arrestata per droga si era spacciata per lei. Per riabilitare la sua immagine, ha intentato, vincendole, 55 cause per diffamazione contro i giornali.
Ha continuato a stabilire primati e a esibirsi fino alla fine della sua vita.
È morta di anemia perniciosa a Greenville, in Ohio, il 3 novembre 1926, aveva sessantasei anni. Il marito l’ha raggiunta dopo appena 18 giorni.
Fino alla fine della sua vita, è stata silenziosamente generosa con le persone meno fortunate.
La sua storia e le sue gesta, per lo più romanzate, sono state al centro di innumerevoli spettacoli teatrali, film, serie tv, libri e fumetti.
A differenza dell’immagine rimandata da Hollywood che la descrive spesso violenta e mascolina, è stata una donna minuta che amava il pizzo, l’argento, i bei mobili e gli abiti eleganti, come si evidenza nel The National Annie Oakley Center, il museo che le è stato dedicato a Greenville che mira a preservarne la memoria e chiarire le inesattezze e fantasie attorno a questa donna straordinaria.
0 notes
Text
@giorgiostagni mi scuso anche qui per il ritardo, ma le cose poi si accumulano, fortuna che non dimentico quasi mai :)
Premesso che non sono un fisico, quindi quello che scrivo è frutto del mio continuo studiare a mo' di autodidatta su tutta la fisica in generale (ho sempre sostenuto che una persona che non sappia almeno le basi della fisica è come se vivesse fuori dal mondo e le mancassero gli strumenti per capirlo).
La vignetta si riferisce a quello che viene definito come "collasso della funzione d'onda".
Detto in parole molto spicciole, in un sistema quantistico tu hai degli elementi (= particelle, o i cavalli della vignetta) che si possono trovare, nello spazio e nel tempo, potenzialmente ovunque, non puoi avere la più pallida idea della loro precisa posizione, l'unica cosa che puoi dire è con quale probabilità, in un dato istante di tempo, la particella si possa trovare in un determinato spazio. Quindi ce ne andiamo un po' pe' culo, come direbbero i poeti. La funzione che descrive questa probabilità (che poi è la densità, ad essere precisi, ma comunque in soldoni quanto culo abbiamo nell'indovinare) è la famosa "funzione d'onda".
Ora, per esempio, se sappiamo che, in un certo istante di tempo, la probabilità che la particella si trovi tra il punto A e il punto B sia, che so, pari al 70%, come facciamo poi a verificare che sia vera tale cosa? Ovviamente, come in tutta la fisica, con una misura, guardi e verifichi. Se questo gesto nella fisica classica non genera problemi, nella meccanica quantistica ha causato diverse liti e pernacchie tra i vari esperti del settore, tra cui Einstein, Bohr, Heisenberg, tanto per citarne alcuni (le liti tra matematici/fisici sono storie affascinanti, questa è gente che si odia tra loro nei secoli).
La vignetta si riferisce in particolare all'interpretazione di Copenhagen, ovvero ad una delle possibili spiegazioni di cosa accade nel momento in cui tu interagisci con un sistema quantistico con l'atto della misura. Tale teoria afferma che nel momento in cui tu effettui una misura la funzione d'onda collassa in maniera casuale ad uno dei possibili valori di probabilità (che può essere quel 70% o altro), in pratica una misura non basta, ne dovresti fare tante, per capire se quel 70 è sensato o no (un po' come misurare la probabilità che una moneta abbia davvero il 50% di probabilità di fare testa o croce lanciandola migliaia di volte). L'atto della misura ha falsato quella che in teoria doveva essere la reale posizione (valore di probabilità), e da qui l'incazzatura del Doc nella vignetta.
Diciamo che Schrödinger enunciò il paradosso del gatto come modo per dimostrare la fallacia di questa interpretazione, che gli stava sul culo, ecco.
365 notes
·
View notes
Photo
La scorsa estate, dopo un mio concerto ad Arezzo, ho conosciuto Matteo Croce. Matteo, con la sua solarità e personalità gentile, ha voluto esprimermi il suo apprezzamento per la mia esibizione e per le mie canzoni. Mi ha raccontato che anche lui ama scrivere canzoni e io gli ho detto che se voleva mandarmi un link a qualche suo brano, lo avrei ascoltato volentieri. Ora sarò sincera, a prescindere da quello che pensiate della musica e dei versi che scrivo io, che potrebbero non piacervi, ci mancherebbe altro, ecco ovviamente se ascolto qualcosa sono a mia volta cullata dai miei gusti, nell'esprimere opinioni. Devo dire purtroppo che sempre più raramente, a tutti i livelli di popolarità, trovo canzoni che mi colpiscano positivamente. Ecco quindi che non alzo mai le mie aspettative, quando qualcuno mi dice ascolta questo, senti quell'altro. La cosa meravigliosa è quando poi ti arriva la canzone di un giovane cantautore agli esordi e la trovi davvero bella, bella e basta. Così io questo l'ho detto a Matteo e lui allora mi ha proposto di cantarla insieme. Ho risposto certo, che bello cantare insieme una tua canzone così bella. La canzone è "I Matti", ispirata a una storia vera di due "matti" del manicomio di Arezzo. È una storia d'amore che racconta anche un pezzo della nostra storia. Link nelle storie. Performance e video registrati presso il Centro Malpighi di @arezzochespacca . Recording, mixing, mastering @facometro @proservicebross_soundandlight Video @farrago._ Grazie a questa grande squadra. #musica #matteocroce #eleonorabetti #imatti #live #acoustic #video #cantautori #indiemusic #indieitalia #feat (presso Arezzo, Italy) https://www.instagram.com/p/CpQEAWUoHDR/?igshid=NGJjMDIxMWI=
0 notes
Photo
Il figlio spezzato della Santa (Le Storie della Vera Croce)
Performance per piccoli gruppi di spettatori alla volta, accompagnati Istituto Svizzero di Cultura, Palazzo Trevisan degli Ulivi, Venezia, Italia 30 giugno 2017 Produzione l’Artista e ArtOnTime Fotografia e video: Daniele Pezzi
In apertura: Sant’Elena, 2017, acquaforte su carta rosaspina avorio, cm 50 x 35, edizione in 50 esemplari
*
Performance for small groups at a time, accompanied Istituto Svizzero di Cultura, Palazzo Trevisan degli Ulivi, Venezia, Italy June 30, 2017 Production by the Artist and ArtOnTime Photo and video by Daniele Pezzi
#sant'elena#luigi presicce#performance#tableau vivant#istituto svizzero#artontime#costantino imperatore#le storie della vera croce#la leggenda aurea#jacopo da varagine#galatasaray#apollo#zeus#piero della francesca#agnolo gaddi#venezia#musei capitolini#roma#palazzo trevisan degli ulivi#costantinopoli#istambul
1 note
·
View note
Text
https://silviaalonsowriter.com
DIARIO EROTICO DI UN’ERETICA
Erano anni che invocavo Eros per un sogno impossibile, quello che ogni donna desidera del profondo del cuore: trovare il grande amore, con la Om maiuscola. Cioè il mantra cosmico che muove il sole e le altre stelle. Ma anche, più semplicemente, il rombo acustico che dal profondo delle viscere fa rabbrividire la pelle. Senza le collaterali rotture, s’intende, di qualsiasi vita di coppia, mutande e calzini da rammendare, o le ricorrenti flatulenze degne del peggior animale.
Ma lui sembrava non voler sentire e, a parte qualche decoroso avanzo di galera, a letto particolarmente focoso, con gli uomini normali l’argomento si è rivelato quasi sempre deludente, e oltretutto frettoloso. Tutto il resto era assolutamente noia. Storie di ordinaria routine, piccolo-borghese e senza gioia.
Limousine, ristoranti stellati, champagne cuvée e frequenti soirée nei teatri, ma sotto alle lenzuola il nulla più desolante. Un deserto sconfinato dei tartari, un’inutile attesa del niente.
A un certo punto ho pure provato ad abbassare le aspettative. Ho sceso, dando il braccio all’amore di turno, almeno un milione di gradini sulla scala sociale. Fino a quando ci ho proprio sbattuto il naso.
Dopo una sfilza di laureati, ecco arrivare i migliori tra i reputati in fatto di arte amatoria, uomini cosiddetti di fatica che, malgrado l’appellativo, a letto disdegnavano il loro compito come i vampiri con l’aglio, e senza dunque averci fatto troppi giri, rieccomi tentare la ri-monta verso il round finale di un potenziale equilibrio. Il risaputo ideale dell’impiegato, colui che la sua vita ha consacrato sull’altare di una scrivania uso ufficio. Ma forse, proprio per dispetto al suo nome, una volta trascinato a letto, anche l’esemplare più tipico della predetta categoria non faceva neanche una piega. Come se la fantasia amorosa scivolasse silenziosamente via dalle lenzuola per il timore di essere a sua volta imprigionata dalla cattiva piega che avrebbe potuto prendere una vita a tal punto ripetitiva.
Come potevo dunque realizzare il mio personale karma?
Incontrare Eros era il mio destino, ma lui si ostinava a sfuggirmi.
Poi un giorno capii, ed era pure elementare. Bastava un po’ di semplice mitologia per sciogliere i nodi che sino allora avevano tardato a venire al mio pettine. E sì che non mi mancava la giusta chioma da Valchiria, indomita e selvaggia come l’amazzone che mi scalpitava dentro.
Se aveva ragione Platone, e dunque la colpa era delle sue origini povere di cui si vergognava, Eros avrebbe cercato contesti attraenti, disdegnando vite domestiche, lavori routinari e stipendi quasi da indigenti. Lui aveva la necessità di volare, perciò per conquistarlo avrei dovuto puntare molto in alto, direttamente sino alle stelle.
Sposando un uomo spropositatamente ricco, il mio Adone si sarebbe magicamente rivelato facendosi vivo da solo, bussando un bel giorno alla mia porta con nonchalance, come un bambino alla ricerca di un aquilone.
E così, infatti, è accaduto.
L’ho conosciuto ad una festa elegante, come dicevo, e pur recitando la parte della gran signora, a tratti sfuggente e altezzosa, ho subito capito che si trattava del migliore dei Casanova. Giovane e aitante, atletico e irriverente, si muoveva a suo agio tra i candelabri dei tavoli e le misteriose maschere della gente, incantando le dame col suo potere seducente. Soltanto molto tempo dopo ho scoperto che era un modello di professione che per l’arte del sesso aveva molto più che un’innata vocazione.
Il suo sguardo penetrante mi ha subito scatenato l’impossibile desiderio di un amore cocente, talmente pieno di passione da smuovere anche le vette più inaccessibili delle mie altissime montagne, che allora tenevo ben strette nel corsetto, tra pizzi e rasi, scosse da un brivido lungo la schiena. Mi sfiorò delicatamente la catena d’oro bianco e perle, ma non finì nel solito dopo cena. Si limitò a porgermi il suo miglior biglietto da visita, lasciando a me la decisione: se morire di fantasie impossibili corrosa dalla pura immaginazione, oppure abbandonarmi al prosaico reality di un’avventura amorosa, lasciandomi prendere da una sfrenata passione. Non ebbi nessuna esitazione.
Ma essendo lui un bellissimo Adone, di me senz’altro più giovane e forse gigolò praticante, il sospetto in proposito si stava insinuando nella mia limitata esperienza. Stupirlo doveva diventare la mia unica missione, legarlo a me, sebbene dissuasa da un angolo remoto di coscienza.
Dovevo conquistarlo lentamente, suonando con dedizione lieve e costante quel flauto magico rinchiuso nella cesta della sua mente, che alla fine avrebbe incantato non solo il più restio tra gli uomini, ma anche il più refrattario, maestoso serpente. Non che il suo ne avesse bisogno, ovviamente.
Un solo avvertimento, prima di iniziare i nostri giochi. Sapevo che sarei dovuta restare molto attenta. Il monito della favola di tutti i tempi raccomandava a noi fanciulle non più ingenue di rinchiudere l’uccello d’oro in una gabbia di legno. Sulle prime, l’interpretazione era sibillina. Tale appellativo non poteva attribuirsi a un paragone poco lusinghiero nei confronti della mia a-dorata vagina. Ma alla fine capii che la parabola sottendeva una nascosta, sottile allegoria: dovevo conquistarlo in sordina, con una seduzione apparentemente innocua, ma circolare e continua, fatta di carezze a spirale, musica e profumi a profusione. Per dargli l’illusione di essere finito in un harem, una specie di paradiso di cui era l’unico dio, il temuto e venerato sovrano.
Narrazioni esotiche, aromi d’incenso e cannella, massaggi di seta, poesie oniriche, pioggia di petali a catinella. Protagonisti di un paradiso erotico, ogni volta mutavamo forma, attori unici del teatro sincronico della nostra immaginazione.
Nel nostro Eden segreto io ero Cleopatra e lui Antonio, io la schiava e lui il pirata, lui il principe e io l’ancella. Ma era ancora troppo poco, volevo che la mia ipnosi fosse totalizzante e resa ancora più mirabolante, per diventare ai suoi occhi più bella trattenendolo a me, seppur nel fuggevole attimo del presente.
Pensai allora di convincerlo che era Shiva: divinamente muscoloso com’era, la mia dea interiore Shakty ne avrebbe gioito, amandolo per sempre in quel tratto che rifuggiva dal mondo.
Ma dopo appena un mese di recite a soggetto, scoprii che quel gioco era solo la replica di un copione già visto: il kamasutra vedico lo avevamo ormai esaurito, e a quel punto non ci restava che provare con le divinità dell’antico Egitto. La mia ninfa ninfomane necessitava di nuova linfa, o l’ispirazione ne avrebbe languito.
Ci voleva una nuova perversione. Un’immagine simile a una visione, che potesse rinnovare un vecchio repertorio con nuovo vigore. “Ritornare alla radice”, mi sono detta, e più non facciamo questione.
Una monaca di clausura sembrava la giusta soluzione, una figura allegorica che riportasse il mio corpo a risplendere nella più fulgente luce, magari nel mezzo di una dolce tortura. Sarei stata io, questa volta, la dominatrice. E da Sherazad che già aveva assaporato le mille e una botte, sarei ritornata totalmente pura, redenta e limpida come acqua cristallina.
Avrei avuto carta bianca per dargliele deliziosamente di santa ragione, se solo lo avessi ammanettato a dovere, con una nuova gamma di fustigazioni. Più di cinquecento sfumature, tra quelle da catalogo e improvvisazioni.
La castità doveva diventare la nuova frontiera, in nome di una nuova religione. Sesso esclusivamente immaginario, telepatia e dominazione. Nessun amplesso dei corpi, ma solo un’eterna, infinita erezione. Vietata ogni eruzione.
Detto fatto, eccomi alle prese con le mie prime armi.
Sembro una Mistress con tutti i crismi. La frusta ruota lieve attorno al suo corpo in un’infinita danza, disegnando mandala aerei prima di approdare ad infliggergli la suprema fustigazione, l’estrema acrobazia della mia nuova, inebriante eresia.
Geme. Fremo. È vera sublimazione. Puro distillato di un sesso tangibile, ma al contempo evanescente, come se dai nostri corpi fosse di colpo evaporata, per liberarsi infine polverizzata, una nube densa di profumo e sudore, dispersa nell’etere di un cosmico stupore.
Lo vedo all’apice dello stordimento, assaporandone il liquido mai versato, per fecondare ogni mia più remota fantasia. È dunque giunto il momento di esigere un’ultima prova: la mia brama di supremazia richiede la suprema resa.
Decido di approfittare di quest’attimo di perfezione, il Kairos degli dei, se così si può dire, per porgergli un’ultima domanda. Senza via di fuga, come fosse un condannato al giudizio finale, la risposta non prevede alcuna esitazione.
Vacilla per un attimo, titubante. Mi attendevo qualcosa di inedito, la proposta di un’esibizione sinfonica, un esuberante quartetto da camera, o anche solo un trio di cui sarei stata regina.
Ma così non pare. Resto muta, avvertendo che si sente sulla soglia di un bivio. Sussurra infine esile, con un sottile fil di voce:
“Vorrei con me Livio, per il supplizio della croce”.
Sento il cuore spezzarsi in petto. Decisamente no: quest’ultimo colpo non l’ho retto.
Posso solo scappare da questo castello di sabbia che mi è franato addosso di colpo, a tradimento. Mi rivesto in tutta fretta, col desiderio di lasciarmi alle spalle il fardello di questo lacerante tormento.
Ma non faccio in tempo a fuggire dal mio peggiore incubo che l’oste mi presenta il conto dell’ultima cena, e quello di tutti i precedenti bagordi.
Cattivi tempi per noi ingordi: ahimè è molto salato. Mi domando come diavolo ho potuto.
Questa sensazione di amaro in bocca mi resterà impressa per anni, come un marchio di fuoco, segnandomi, oltre all’anima, anche il corpo. Troppo cocente, la delusione.
Potrei sempre dire che, per certi versi, mi ha fatto sentire come Nietzsche sul punto della sua più solenne dichiarazione, ma a quale prezzo?
Se Dio è morto, non credo risorgerà mai più. Non di certo per il mio stupido, carnale vezzo, men che meno per un’ultima deflorazione.
5 notes
·
View notes
Text
LA MORTE TORNA A VISITARE LA CASA DELLE OMBRE. Un giallo al confine tra verità e leggende. Da decenni una splendida villa è al centro di diversi misteri. Una scrittrice vi ha trovato ispirazione per un suo libro.
Una casa infestata dai fantasmi è un grande classico della letteratura al centroanglosassone, assai meno in Italia, dove tuttavia non mancano leggende legate ad alcuni particolari edifici. A una di esse si è ispirata Paola Mizar Paini, che per Fratelli Frilli editore ha pubblicato, il romanzo La casa delle ombre, incentrato su a una vera casa del circondario di Lomello, Villa Cerri. La scrittrice, attraverso ricerche storico-documentali e sopralluoghi, ne è diventata una grande esperta e lattrattiva che il bellissimo edificio, in puro stile liberty, esercita su di lei è tale che appena può va ad ammirarlo.
È vero che tu sei nata un po’ sensitiva come indica il tuo singolare secondo nome Mizar?
Io provengo da una famiglia di sensitivi E in effetti Mizar ha avuto origine da un fatto accaduto durante la mia nascita, ma che preferisco approfondire, se ce ne sarà occasione, unaltra volta.
Veniamo a Villa Cerri. Ci puoi parlare della leggenda che riguarderebbe, secondo una tradizione, il terreno su cui è sorta?
Il mistero della villa, detta anche villa degli amanti maledetti inizia molti anni prima che venisse edificata. Lo dice una storia inedita, raccontatami da un anziano signore conosciuto casualmente nei dintorni della villa. Va detto che di queste vicende di tanti anni fa, mancando una documentazione che attesti la verità storica, esistono varie versioni. Nel 1850 un contadino, sospettando il tradimento della moglie, incinta di quattro mesi, la uccise durante una lite. Di notte trasportò il corpo in un bosco ai margini del paese di Lomello e per spregio conficcò sopra la fossa una croce di ferro. Qualche giorno dopo andò a costituirsi, accompagnando i gendarmi sul luogo. La terra era smossa, la croce capovolta e il corpo non cera più. Gli abitanti del paese pensarono a una maledizione, poiché la donna aveva fama di fattucchiera, così piantarono croci di legno tutto intorno. La notte dopo le trovarono tutte capovolte. Cinquantanni dopo un possidente terriero, sebbene avvertito della maledizione, avrebbe costruito su quel terreno la villa, salvo poi sparire misteriosamente. La casa sarebbe passata a un cugino, il quale venne ad abitarvi con la moglie
Chi sarebbero gli amanti maledetti e quando e come si manifesterebbero?
Come diceva qualcuno: So che i fantasmi non esistono, ma ne ho paura. Dobbiamo parlarne con rispetto. Anche se non esistono, esistono storie che ne parlano. Di questa affascinante dimora si è detto e raccontato di tutto. Basta fare una ricerca su internet per scoprirlo. Alla base cè una storia di tradimento, un marito ingannato e lonore lavato col sangue. Ma la storia va oltre, perché la donna era incinta e il 23 agosto di un anno non ben identificato si compì lorrendo destino di tre persone. Secondo una diffusa tradizione, ogni anno, in quella stessa data, nel buio della notte, si può scorgere la fioca luce di una candela dentro la torretta. Sarebbe lei, linfelice Dama Bianca, che rinnova il segnale convenuto in vita col suo amante per i loro incontri. A quanto se ne sa, non si tratterebbe di uno spettro malefico, ma di unanima che non ha trovato pace per la terribile tragedia che lha portata alla morte.
Secondo il giornalista e scrittore Davide Zardo e i coniugi Magenta, storici locali, non ci sarebbe nessun terreno maledetto, nessun marito geloso, ma solo la sventura accaduta al povero Pietro Cerri (proprietario della villa) caduto mortalmente da una scala a pioli e quella di suo figlio, scomparso in un incidente stradale. Se questa è la vera storia, rimane comunque che gli abitanti della villa non hanno avuto molta fortuna. Parlaci del servizio fotografico che insieme alla tua amica Paola Cariati hai realizzato alla villa. Cosa hai scoperto su una delle foto?
Paola Cariati è la bravissima fotografa delle copertine di tutte le mie pubblicazioni. Ricordo con emozione la giornata di fine gennaio quando abbiamo deciso di fare alcuni scatti a villa Cerri per la promozione del libro. Un anno dopo, osservando meglio le immagini scattate, mi sono accorta che a una delle finestre della torretta si scorgono due visi, di un uomo e di una donna, anche se non tutti riescono a distinguerli…
Il mistero, dunque, prosegue. Di recente hai pubblicato un libro, Emily. Cronache dal passato, in lizza al concorso Provincia in Giallo. Unanticipazione sul contenuto?
Emily è un thriller immerso in unatmosfera angosciosa da storia gotica, scritto a quattro mani con Pier Emilio Castoldi. Narra la storia di due ragazzini: Leo ed Emily, separati dagli eventi dopo essere stati testimoni del ritrovamento di un cadavere. Trentanni dopo Emily torna da Leo per raccontagli una strana storia… La vicenda è ambientata nel paese di Samorello, in provincia di Cuneo. Uno di quei luoghi chiamati “paesi fantasma” perché l’intera popolazione è emigrata….
Rino Casazza
1 note
·
View note
Photo
GUIDA ROCAILLE AD AREZZO . 🏰 Botteghe di antichità che sembrano camere delle meraviglie; un’intera cappella affrescata con le storie della vera croce; una vera e propria wunderkammer con scheletri di dinosauro; la casa e il giardino segreto dove abitò Giorgio Vasari. . 📌 Un breve itinerario adatto per gli amanti dell’arte e dei luoghi curiosi, con musei un po’ nascosti, ristoranti chic e hotel insoliti. . ➡️ Oggi su ROCAILLE.IT (link in bio) . . . #rocailleguide #italianelegantadventures #provinciaitaliana #vacanzeitaliane #rocailleblog #slowtravel #slowtourism #wunderkammer #antichità #antiques #theatrummundi #theatrummundi_arezzo #pierodellafrancesca #ciclodellaveracroce #affreschidellaveracroce #arezzo #arezzocity #arezzolovers #volgoarezzo #visitarezzo #volgoarezzo_ #igerarezzo #volgotoscana #igertoscana #italy_vacations #italytheplaceto🐝 #italythebeautiful (presso Arezzo, Italy) https://www.instagram.com/p/CFSBS_kIEEr/?igshid=14obbghkovmwy
#rocailleguide#italianelegantadventures#provinciaitaliana#vacanzeitaliane#rocailleblog#slowtravel#slowtourism#wunderkammer#antichità#antiques#theatrummundi#theatrummundi_arezzo#pierodellafrancesca#ciclodellaveracroce#affreschidellaveracroce#arezzo#arezzocity#arezzolovers#volgoarezzo#visitarezzo#volgoarezzo_#igerarezzo#volgotoscana#igertoscana#italy_vacations#italytheplaceto🐝#italythebeautiful
4 notes
·
View notes
Photo
Da @mariotra77 , che ringraziamo per il fantastico contributo. "Se a Catania per le celebrazioni di Sant'Agata arrivano un milione di persone, al mio paese ci saranno, boh, 25 persone, alla processione per la santa. Che poi, il mio paese c'ha 200 abitanti, e uno non è che pretende chissà che, anzi, a me questa processione affascina tantissimo proprio perchè è così, 25 persone a camminare in ordine sparso a febbraio dietro alla croce, in una strada di campagna, fino a un albero di olivo, andata, e ritorno. La storia della processione del mio paese ha diversi ingredienti che la rendono straordinaria. Innanzitutto, la storia: il percorso fino all'olivo passa di fianco a un vecchio convento e un vecchio cimitero - una urbanizzazione molto antica, e un ossario comune - sepolti alla fine degli anni '70 da una ruspa scellerata per fare spazio a un vigneto, e cancellati per volontà o indifferenza da un 'padrone' (così dalle mie parti si chiamava ancora, alla fine degli anni '70, il proprietario di quei terreni), nel silenzio rancoroso degli abitanti, ma che sempre silenzio è. Un albero di olivo secolare dove si dice sia apparsa (io non so se) la madonna o sant'agata, a qualche fedele qualche tempo fa. Un oliveto secolare diventato una pista di motociclette; uno degli pochi omicidi irrisolti in Italia, qualche decennio prima, in mezzo a quegli olivi. Un quadro del '700, raffigurante la santa e conservato nella chiesetta del mio paese, che propriamente chiesa non è, ma cappella privata dentro un palazzo chiamato Scurzije, e altre storie ancora. Ma storia e storie a parte, l'aspetto più affascinante di questa processione è il suo essere, assolutamente, vera. Antropologicamente, un capolavoro. Cruda. Qualcuno direbbe hard core. Villa Iubatti, Abruzzo, Italia, 2020." (presso Villa Iubatti) https://www.instagram.com/p/B8bSdQGIbTd/?igshid=ljl0o7kfu67y
2 notes
·
View notes
Photo
Da: SGUARDI SULL’ARTE LIBRO TERZO - di Gianpiero Menniti
IL CIELO VUOTO
La Madre. Il Figlio. La scelta e il presagio. E l’ineffabile, il padre: è assente. L’icona bizantina ricorda sempre il Padre: è nello sfondo, nella materia rilucente che avvolge le figure divine e terrene della Vergine e del Cristo. L’Occidente cristiano, invece, esclude dalle sue immagini il richiamo al Padre. Lentamente ma inesorabilmente, scompare. In ragione della sua indicibilità, della sua irrappresentabilità. Non c'è scena per il Padre. Ma scompare anche dall’orizzonte del credente, pregno del Dio generato, del Dio incarnato. Diviene abissale lacuna. La raffigurazione pittorica avverte il desiderio di colmarla, per quanto possibile. Il riflesso realistico fa fatica. Giotto lascia comparire una mano. Masaccio lo riporta al vertice della Trinità: un atto imperativo, dirompente quanto il suo dipinto. Ma è con Piero della Francesca, al vertice insuperato dell’arte sacra, che il Padre riappare al cospetto dell’annuncio, nell’istante dell’inizio. Per ascoltare quel sì della Madre che inaugura l’era cristiana. L’era del Figlio.
Giotto (1267 - 1337): "San Francesco, la rinuncia degli averi", dal ciclo delle “Storie del Santo di Assisi”, 1292/1296, Basilica Superiore, Assisi, Perugia
Masaccio (1401 - 1428): "Trinità", 1426/1428, Santa Maria Novella, Firenze
Piero della Francesca (1416 - 1492): "Annunciazione" da "Storie della Vera Croce", 1452/1458, cappella maggiore, Basilica di San Francesco, Arezzo
In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
#thegianpieromennitipolis#arte#arte italiana#arte medievale#Giotto#Masaccio#piero della francesca#maria casalanguida
27 notes
·
View notes
Text
Oggi Leopardi compie gli anni. Insieme agli auguri, sveliamo l’autore che il divo Giacomo ha “plagiato” per scrivere “L’infinito”. Ovvero, modesta proposta per una storia della letteratura italiana alternativa
Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, è l’ultimo testo scritto da Andrea Sciffo, insegnante di liceo, poeta, novellista e saggista, edito dalla rivista digitale sui generis Il Covile, cui l’autore monzese contribuisce regolarmente con meditazioni che hanno in due viennesi, Hofmannsthal e Illich, in due lombardi, Corti e Quadrelli, e in Simone Weil, i puntelli di un pensiero radicalmente altro – cristiano, cattolico, dunque fedele all’intuizione poundiana per cui il sentire (per esempio: il potere della musica) unisce, col cuore, nella carne, mentre il pensare (per esempio: il vuoto cerebralismo) divide, nella mente, nelle idee, o meglio nelle ideologie, quindi negli ideologismi, nonché all’et-et asburgico, tardobarocco e antimoderno – insomma controcorrente rispetto alla letteratura e alla critica gnostica, e a-gnostica, del XX e XXI secolo.
*
Lui è Andrea Sciffo
Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, perché tale è secondo la sua tesi la storia delle patrie lettere, da intendersi come letteratura post-unitaria (l’equazione di base è proprio questa e vale a dire che tutto ciò che è post-unitario si colloca in un ambiente decisamente post-amoroso) ossia della falsa patria di nome “Italia” e non delle sue singole parti – le quali soffrono tuttavia di una falsa “identità” che si fonda appunto sulla totale mancanza d’amore, da cui deriva, e che deriva, da una storia anch’essa “senza amore” che abbraccia – o meglio strangola –, soffocandola in una stretta mortale tutta la letteratura italiana – o meglio italofona –, a partire dal cronologismo (“la crudeltà di Chronos”, ovvero “il male radicale”, scriveva il leibniziano Gilles Deleuze a proposito del naturalismo di Émile Zola) che limita le scuole e la scuola.
Si tratta ovviamente dello storicismo e dello scuolismo dei Tiraboschi prima e poi dei De Sanctis, dei Croce, e infine dei Ferroni, dei Sapegno, contro i quali Sciffo scrive in quello che si direbbe un piccolo pamphlet, non fosse che quello pamphlettario è un tono che non appartiene alle sue sue corde, cor–cordis, al suo cuore, libero dal grottesco gioco delle parti di cui è vittima un paese preso tra Commedia dantesca (cf. Inf.) e quotidiana commedia farsesca – “senza amore”.
*
“Se esiste una definizione sintetica che possa abbracciare la letteratura italiana nella sua interezza, […] è proprio questa endiadi che consta delle due sole parole che non andrebbero mai accostate. Se è senza amore la storia delle patrie lettere, a maggior ragione lo sono anche le storie individuali dei singoli che popolano la cultura italica, cresciuti nel suo cono d’ombra come tanti arlecchini senza arte né parte”.
Così esordisce Sciffo puntellandosi, o meglio, come scrive egli stesso facendo eco a una massima apocrifa metà anni Cinquanta di Noventa, che denunciava come tutta la cultura ufficiale italiana fosse fondata sugli errori della scuola torinese, e così la scuola di Stato, lo stato delle cose delle stantie scuole “scuolastiche” ancora e sempre deamicisiane (Cuore) basate a loro volta sulla continua coscrizione degli studenti e cittadini (senza amore e ormai senza civitas) e sul disamore quale condizione forse irrimediabile in assenza della parola-chiave che è summa di tutti gli affetti e aspetti (eros, agàpe, filìa, storghé, dilectio) del sommo affetto – per rilanciare poi l’idea di un apprendimento più libero – non meno impegnato – con mezzi propri – magari più essenziale – anche in povertà – anarcronistico nel senso di libero dal potere del tempo – come Pinocchio.
“[���] E poi verrebbe la grande amorosa agnizione, un ritrovarsi in armonia con l’altro da sé, una catarsi purificatrice del gran difetto del soggetto moderno: l’ipocrisia. La vecchia pagliacciata sarebbe finita e soltanto i suoi estremi attori fingerebbero di non accorgersene: il trucco scivolato dalle guance e i costumi logori; le battute del copione prevedibili e comunque i guitti ne dimenticano ogni volta una o due”.
Come Pinocchio con un libro trovato quasi per caso, o con la convivialità, tema fondamentale del pensiero di Illich, oppure nella natura, o nello spazio rurale, come fece la Weil, due ambiti quasi del tutto assenti tra gli autori “italiani” del XIX e XX secolo – certo con qualche eco nella Brianza di Manzoni, nella Padanìa della Scapigliatura, nel Veneto di Comisso, di Zanzotto, ma di norma declinati in senso atrocemente negativo come sul Vesuvio di Leopardi, nella Sicilia di Pirandello, di Verga, in Cristo si è fermato a Eboli, e nella Roma di Moravia, di Pasolini, tanto per citare degli esempi d’altri universi etnici e letterari.
*
Senza Amore, sottotitolo L’ultimo capitolo della letteratura italiana, e le ultime pagine sono proprio quelle di Manzoni, e soprattutto di Leopardi, alle quali non è corrisposto secondo Sciffo nessun rinascimento – essendo stato il cosiddetto risorgimento politico la fine, – quanto un trionfo – sancito dalle istituzioni, dagli scuolismi, e dalla scuola, – di una serie d’istanze tipicamente leopardiane come il senso del dolore e della noia, tra erudizione e freddezza, e della figura del “letterato” denunciato dalla Weil, proprio a proposito del poeta recanatese cui Sciffo oppone il dalmata Tommaseo, che considera ben superiore.
Dietro c’è una vera e propria censura, ovvero l’ostilità verso tutta la letteratura del Seicento, parallela a quella ancor più dichiarata dei Savoia e di tutto il risorgimento nei confronti del Barocco, del Tardo-Barocco, con la sua Gesamtkunstwerk, l’opera d’arte “totale” che va dalla figurazione pittorica alla parola alla musica alle figure architettoniche che negli esiti del movimento controriformista trovò un altro ultimo capitolo (nel 1866 nel monastero cretese di Arkadi, unico esempio greco ortodosso di Barocco, dava rifugio a dei martiri resistenti agli ottomani – nel mentre da cinque anni gli “italiani” inneggiavano al fatto di essersi cinti il capo con l’elmo pagano appartenuto a Scipione l’Africano)… – e nelle lettere autori come Filicaia, Magalotti, Maggi, Menzini, Redi, Salvini… – e De Lemene, che secondo Sciffo fu plagiato proprio dal poeta de L’infinito…
“Riempie il tutto, e se fingendo io penso / oltre al confin de’ vasti spazij, e veri, / deserti imaginati…”.
Questi versi sono tratti da una raccolta di poesie sacre edita a fine Seicento, e che per Sciffo “quasi certamente Leopardi plagiò per poi rifonderli forse inconsciamente nel più celebre dei suo i Canti”. Così come nel libro Sette giornate del mondo creato (1686) “per esempio […] le due terzine con cui Giuseppe Girolamo Semenzi immortalò Il passero solitario [sic]”, con queste melodiose parole: “Sto poetando al ciel ne l’erma cella / talora e far godo la vita anch’io / selvaggia quanto più, tanto più bella, // Passero solitario è detto pio. / Gloria però del solitario è quella, / onde un bruto non è ma quasi un Dio”.
Come si può evincere dalla lettura del volume Arcadia edificante, edito da ESI a Napoli nel 1969 e curato da Carmine Di Biase, prima di Leopardi e della letteratura unitaria ovvero “senza amore” l’universo italofono era ben altro, dal “controcanto” lombardo a quello partenopeo con poeti che cantano il Creatore, le Creature, la loro creaturalità, e infatti un terzo esempio che egli cita è una strofa – “strofa che espone il legame psicobiologico del poeta tardobarocco con la ‘natura’ sentita come simbiotico altro-da-sé con cui però è inevitabile la pulsione fusionale: in un processo di integrazione tra organico e inorganico che mi pare di una limpidezza mai più ottenuta in tempi recenti, per la quale il ‘creante’ viene chiamato ‘autore’ delle cose che un individuo sente come maggiormente intime e personali”.
*
L’entità chiamata “Italia” – come ha fatto con la cultura di alcune sue regioni – come ha fatto recidendo l’albero che costituivano – che tali erano sotto occupazioni non più estranee – come sotto quelle cristiane spagnole e austriache – ha annichilito, annullato, o meglio emarginato, questo suo possibile “controcanto” che dice di un mondo del tutto differente, radicato nella creaturalità, d’uomini connessi col Creato come lo sono i passeri, e gli alberi, e in cui l’autore, il poeta, non canta soltanto del suo dolore, della sua noia, ma anche e soprattutto della sua “comunione” con Dio, per tramite di ciò che è “altro-da-sé”.
In questo Sciffo è allievo della scuola-non-scuola della Weil, di Quadrelli, e dunque erede della vera tradizione, quella del Cristianesimo, della poesia di Hölderlin, del Tardo-Barocco, e della censurata “Arcadia edificante” di cui ha voluto testimoniare: non senza ma con amore.
Marco Settimini
L'articolo Oggi Leopardi compie gli anni. Insieme agli auguri, sveliamo l’autore che il divo Giacomo ha “plagiato” per scrivere “L’infinito”. Ovvero, modesta proposta per una storia della letteratura italiana alternativa proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/31X86ih
4 notes
·
View notes
Text
Anche stamattina mi sono guardata allo specchio...
È così che inizierà questo mio viaggio nel quale con me, in bagaglio, ho deciso di portare la mia esperienza: mettere dentro solo l’essenziale per combattere una guerra e compiere la mia missione. Non ritroverete le mie cose, semplicemente perché non sono partita per darne un volto e un nome; sono solo (porta)voce di melodie e di canti stonati che rappresentano, da sempre, le colonne sonore dell’intera umanità. In qualcosa si è più simili: alla fine, tutti nasciamo per imparare a camminare, ma ognuno, poi, lo fa verso una propria direzione: chi lentamente, chi danzando, e chi scappando per arrivare prima alla fine. All’inizio di questa avventura, in cui sei stato chiamato ad esprimere la tua su questo breve viaggio di ritorno, ti ritrovi solo, insieme ad altri, a cercare di decifrare gli imprevisti che potrebbero essere scritti sulla carta di imbarco. Ma, invece, realizzi che è tutto un gioco che di regole ne ha tante, ma alla fine ne capisci solo una, che poi, una volta atterrato a destinazione, annulla tutte le altre. E così arrivi nel tuo nuovo mondo, quello che gli Eroi chiamano “straordinario”, nell’accezione letterale del termine, ossia “diverso dall’ordinaria prevedibilità” che ti potevi aspettare di prevedere. Un piccolo passo alla volta, precario, ma stabilmente sostenuto dalle tue più vicine certezze, impari a camminare nella tela bianca della vita, alla quale solo tu puoi dare un colore, una rappresentazione e un significato vero e chiaro, anche nelle piccole e grandi sbavature. Con il tempo, ho capito che il valore di un quadro è tale solo per chi lo dipinge:gli altri disegneranno altri paesaggi, costruiranno altre storie;cambieranno il tuo punto di vista, la tua prospettiva e molto probabilmente oscureranno i tuoi punti di luce cancellando il tuo nome, da quell’opera d’arte, per sempre. Prima di questo tempo, ne seguirà un altro in cui , per imparare a camminare, dovrai scendere al compromesso di dover ingenuamente accettare tutti quei saggi consigli che, solo perché calati dall’alto di una pluriennale esperienza di vita da quei Watussi che ti hanno scortato indenne fino a quel momento del viaggio, sono adornati di una sacralità tale che te li ritrovi appiccicati al collo, all’altezza del cuore, come una croce stretta in mano, durante una disperata preghiera di espiazione ( delle colpe). Finisci per coprirti il capo e il volto con questo velo, e a vestire la tua anima di nero. La collezione di pensieri, opinioni, credenze, giudizi è pronta per essere indossata durante “le stagioni delle tua vita” e, piano piano, anche tu ti convinci che puoi stare bene se trattieni il respiro mentre sfili. Mai poi quel pantalone va davvero stretto e mette in mostra la parte di te, quella vera, che quasi mai viene apprezzata e capita. Allora questo pericoloso gioco diventa un circolo vizioso, che ti tende trappole nelle quali cadi solo per trovare un retrogusto dolce dietro l’amarezza con la quale, molti di quelli che ti circondano, scelgono di vivere la loro vita e giudicare la tua. Ed è così che sei finita a vederti quando sei tu da sola con il riflesso di quello che ti hanno (fatto): sbagliata, inadeguata, colpevole. Se prendi qualche kilo, confondi un giudizio per un consiglio e decidi che vederti più magra sia l’unico e vero modo per vedersi anche più bella. Ma poi diventa inutile violentare il tuo corpo, tanto non sarai mai magra abbastanza per…..ESsErE QUALcUnO. Un giorno, finalmente, solo per tua determinazione, riesci a raggiungere quello standard, quei presupposti ( se esistono) per poter dire finalmente di esistere, ma sbagli un’altra volta: ora è troppo, smettila di non sorridere! Tra “hai preso qualche kg”, e “si vedono le ossa , fai schifo” non c’è molta differenza: entrambi nascondono ,conficcata nella schiena, una lama che continua a fare male e non si frena, che colpisce come può e consuma. Proprio come un libro che prende fuoco, ne vedrai la cenere senza scoprire mai quale storia stava per scrivere. Da qualche parte, tempo fa avevo letto: “non giudicare mai nessuno perché sta combattendo una battaglia che non conosci”, e(aggiungo io ) se fa lo stronzo/a è solo perché sta provando a curarsi le ferite prima di vincere. Sempre troppo facile chiudere le persone in un’etichetta (qualunque essa sia)per poi decidere in quale cassonetto dell’immondizia più adatto buttarlo; ti toglie dalla responsabilità di doverti cancellare dalla lista dei colpevoli , perché ad ogni ferita corrisponde una salita da scalare, con le unghie e i denti stretti. Se mi guardo allo specchio e non mi piaccio in ogni caso, è perché mi sento colpevole se sono grassa o se sono magra, perché capisco che quello che vedo non è quello che per me voglio, che essere magra o un po’ più in forma mi è servito fin ad ora solo per non deludervi un’altra volta, perdendo di vista quello che rimaneva di me oltre tutto questo. Camminando, ho imparato a perdonarvi, ma una volta arrivata in cima, spero di poter riuscire a trovare anche la forza di amarmi. Non ritroverete le mie cose, semplicemente perché non sono partita per darne un volto e un nome; sono solo (porta)voce di melodie e di canti stonati che rappresentano, da sempre, le colonne sonore dell’intera umanità. In qualcosa si è più simili: alla fine, tutti nasciamo per imparare a camminare, ma ognuno, poi, lo fa verso una propria direzione: chi lentamente, chi danzando, e chi scappando per arrivare prima alla fine. All’inizio di questa avventura, in cui sei stato chiamato ad esprimere la tua su questo breve viaggio di ritorno, ti ritrovi solo, insieme ad altri, a cercare di decifrare gli imprevisti che potrebbero essere scritti sulla carta di imbarco. Ma, invece, realizzi che è tutto un gioco che di regole ne ha tante, ma alla fine ne capisci solo una, che poi, una volta atterrato a destinazione, annulla tutte le altre. E così arrivi nel tuo nuovo mondo, quello che gli Eroi chiamano “straordinario”, nell’accezione letterale del termine, ossia “diverso dall’ordinaria prevedibilità” che ti potevi aspettare di prevedere. Un piccolo passo alla volta, precario, ma stabilmente sostenuto dalle tue più vicine certezze, impari a camminare nella tela bianca della vita, alla quale solo tu puoi dare un colore, una rappresentazione e un significato vero e chiaro, anche nelle piccole e grandi sbavature. Con il tempo, ho capito che il valore di un quadro è tale solo per chi lo dipinge:gli altri disegneranno altri paesaggi, costruiranno altre storie;cambieranno il tuo punto di vista, la tua prospettiva e molto probabilmente oscureranno i tuoi punti di luce cancellando il tuo nome, da quell’opera d’arte, per sempre. Prima di questo tempo, ne seguirà un altro in cui , per imparare a camminare, dovrai scendere al compromesso di dover ingenuamente accettare tutti quei saggi consigli che, solo perché calati dall’alto di una pluriennale esperienza di vita da quei Watussi che ti hanno scortato indenne fino a quel momento del viaggio, sono adornati di una sacralità tale che te li ritrovi appiccicati al collo, all’altezza del cuore, come una croce stretta in mano, durante una disperata preghiera di espiazione ( delle colpe). Finisci per coprirti il capo e il volto con questo velo, e a vestire la tua anima di nero. La collezione di pensieri, opinioni, credenze, giudizi è pronta per essere indossata durante “le stagioni delle tua vita” e, piano piano, anche tu ti convinci che puoi stare bene se trattieni il respiro mentre sfili. Mai poi quel pantalone va davvero stretto e mette in mostra la parte di te, quella vera, che quasi mai viene apprezzata e capita. Allora questo pericoloso gioco diventa un circolo vizioso, che ti tende trappole nelle quali cadi solo per trovare un retrogusto dolce dietro l’amarezza con la quale, molti di quelli che ti circondano, scelgono di vivere la loro vita e giudicare la tua. Ed è così che sei finita a vederti quando sei tu da sola con il riflesso di quello che ti hanno (fatto): sbagliata, inadeguata, colpevole. Se prendi qualche kilo, confondi un giudizio per un consiglio e decidi che vederti più magra sia l’unico e vero modo per vedersi anche più bella. Ma poi diventa inutile violentare il tuo corpo, tanto non sarai mai magra abbastanza per…..ESsErE QUALcUnO. Un giorno, finalmente, solo per tua determinazione, riesci a raggiungere quello standard, quei presupposti ( se esistono) per poter dire finalmente di esistere, ma sbagli un’altra volta: ora è troppo, smettila di non sorridere! Tra “hai preso qualche kg”, e “si vedono le ossa , fai schifo” non c’è molta differenza: entrambi nascondono ,conficcata nella schiena, una lama che continua a fare male e non si frena, che colpisce come può e consuma. Proprio come un libro che prende fuoco, ne vedrai la cenere senza scoprire mai quale storia stava per scrivere. Da qualche parte, tempo fa avevo letto: “non giudicare mai nessuno perché sta combattendo una battaglia che non conosci”, e(aggiungo io ) se fa lo stronzo/a è solo perché sta provando a curarsi le ferite prima di vincere. Sempre troppo facile chiudere le persone in un’etichetta (qualunque essa sia)per poi decidere in quale cassonetto dell’immondizia più adatto buttarlo; ti toglie dalla responsabilità di doverti cancellare dalla lista dei colpevoli , perché ad ogni ferita corrisponde una salita da scalare, con le unghie e i denti stretti. Se mi guardo allo specchio e non mi piaccio in ogni caso, è perché mi sento colpevole se sono grassa o se sono magra, perché capisco che quello che vedo non è quello che per me voglio, che essere magra o un po’ più in forma mi è servito fin ad ora solo per non deludervi un’altra volta, perdendo di vista quello che rimaneva di me oltre tutto questo. Camminando, ho imparato a perdonarvi, ma una volta arrivata in cima, spero di poter riuscire a trovare anche la forza di amarmi.
1 note
·
View note
Text
Kroce al Golden Palm di Dubai
l’ artista scelto per rappresentare i giovani emergenti italiani
Grande soddisfazione e meritato successo per il giovane cantante spezzino Kevin Croce, in arte Kroce, di rientro da pochi giorni da Dubai, dove è stato ospite del “Golden Palm”, concorso organizzato dalla WAPA (World Association of Performing Arts) all’interno dell’Expo 2020. Il contest lo ha visto rappresentare la categoria dei giovani artisti italiani emergenti della sezione canto. Kevin ha presentato il suo ultimo brano “Pagliaccio” uscito lo scorso 19 Novembre e con la sua esibizione è stato premiato con il primo posto nella sezione “pop- music”. Un traguardo inaspettato e dunque fortemente emozionante per l’artista. Un onore ricevere e portare a casa questo primo posto, che conferma la giusta direzione musicale intrapresa dal cantautore decretato dal riscontro più che positivo da parte del pubblico internazionale. Un'esperienza che ha lasciato in Kroce una serie di emozioni e input grazie al contatto con gli altri artisti presenti da tutto il mondo: culture, stili di musica, influenze e anche preparazioni artistiche tutte differenti hanno arricchito il suo personale bagaglio artistico, in una contaminazione fluida ed estemporanea.
Un evento che è stato anche un modo per farsi conoscere, relazionarsi e approfondire determinati aspetti di diverse culture, apprendere ma anche comprendere e farsi influenzare da ciò che arriva musicalmente da altre nazioni.
Il brano presentato al concorso, oltre alla sua particolare musicalità, porta con sé molti significati, ponendo in primis una riflessione sul come provare a fermarci un istante, quando si ha in mente di esprimere un facile giudizio. O parlare per sentito dire di un'altra persona, perdendo cosa c'è di vero nelle storie altrui. Il testo è una sorta di “viaggio dietro la maschera”, uno sfogo di momenti di vita personali celati tra metafore ed immagini iconiche, come quella del “pagliaccio”. Le parole riassumono il disagio e la costrizione di un ruolo in cui non ci si identifica e che non è stato scelto. E’ l'immagine di colui che non si è mai sentito appartenere ad un posto in particolare, che si guarda allo specchio vedendo qualcun altro e non si riconosce per quello che è in realtà. Una persona che si è sempre dovuta appoggiare solo a se stesso e alle sue consapevolezze nella ricerca di un posto nel mondo. Ma nonostante cadute, lacrime e lividi il messaggio è quello che si può risalire, si può crescere ed imparare dagli errori e riuscire finalmente a togliersi quella “maschera” oppressiva per liberare l'essenza della nostra vera personalità.
Kroce, reduce da questa importante esperienza ricca di stimoli è già ritornato a lavoro pronto per la preparazione di nuovi brani. Lo attendiamo presto e gli auguriamo un buon “work in progress”.
0 notes
Photo
LE STORIE DELLA VERA CROCE (2012/2020)
MATTATOIO ROMA dal 9 Febbraio al 27 Giugno 2021
Il Padiglione 9B del Mattatoio di Roma ha ospitato fino al 27 Giugno il risultato video di 18 performance che raccontano 10 episodi della storia del Sacro Legno, tema già affrontato da Piero Della Francesca e Agnolo Gaddi 6 secoli addietro. La mostra è stata curata da Angel Moya Garcia.
La mostra ha ospitato 6 Tableau vivant con sedute di pittura dal vero e una rassegna cinematografica.
Causa Covid 19 sono saltati tutti gli incontri pubblici.
Info:https://www.mattatoioroma.it/mostra/luigi-presicce-le-storie-della-vera-croce Rassegna stampa selezionata:
Le Monde FRhttps://www.lemonde.fr/blog/lunettesrouges/tag/presicce/ ATP DIARYhttp://atpdiary.com/luigi-presicce-mattatoio-roma-21/ Il Manifesto ALIAShttps://ilmanifesto.it/una-performance-visiva-in-dieci-tappe/ ARTRIBUNEhttps://www.artribune.com/arti-visive/arte-contemporanea/2021/02/mostra-luigi-presicce-mattatoio-roma/ EXIBARThttps://www.exibart.com/arte-contemporanea/la-vera-croce-secondo-luigi-presicce-in-una-installazione-esemplare/
2 notes
·
View notes
Text
Le Storie della Vera Croce di Piero della Francesca
Le Storie della Vera Croce di Piero della Francesca
Le Storie della Vera Croce costituiscono il ciclo di affreschi che decora la cappella Maggiore della Basilica di San Francesco di Arezzo: il capolavoro di Piero della Francesca. Nel lontano 1417 il facoltoso mercante aretino Baccio di Maso Bicci morì. Nel suo testamento aveva lasciato una somma cospicua per decorare il coro della basilica quasi volesse espiare qualche colpa e riconciliarsi con…
View On WordPress
0 notes
Text
Lezione del 30/09/2020
AUTORE: Piero della Francesca
NOME: presunto autoritratto, tratto dalle Storie della Vera Croce
DATA: 1446 circa
MATERIALE E TECNICA: affresco
LUOGO DI CONSERVAZIONE: San Francesco, Arezzo
CONTESTO ORIGINALE: Piero della Francesca importante figura del Rinascimento, nella sua opera De prospettiva pingendi divide la pittura in tre diversi elementi compositivi: Disegno, commensuratio et colorare. Il primo corrisponde dunque ai contorni, il secondo alla prospettiva (egli scrive infatti che i contorni, e dunque le linee, debbano essere posti proporzionalmente) ed il terzo all'apporre il colore all'opera imitando la realtà, dividendo i chiari (le parti in luce) dagli scuri (le parti in ombra) per definire i volumi. Il rinascimento pone infatti grande importanza alla gestione della luce introducendo anche ombre proprie e portate all'interno delle opere.
0 notes