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Sui compensi di Tavares: Ipocrisie e finte sorprese
Un’analisi critica sulle dinamiche del liberismo economico e i compensi milionari
Un’analisi critica sulle dinamiche del liberismo economico e i compensi milionariA cura di Renzo Penna Le recenti polemiche sui compensi milionari e la liquidazione di Carlos Tavares, ex amministratore delegato di Stellantis, hanno suscitato grande scalpore mediatico e politico. Tuttavia, come sottolinea Renzo Penna nel suo articolo, questa “sorpresa” appare intrisa di ipocrisia. Si tratta…
#Alessandria today#capitalismo finanziario#Carlos Tavares#compensi dirigenti.#compensi milionari#crisi del lavoro#Crisi economica#critica economica#delocalizzazione#diritti dei lavoratori#diritti sindacali#distribuzione degli utili#economia e lavoro#economia globale#Elkann#finanziarizzazione economia#giustizia sociale#Google News#industria automobilistica#investimenti produttivi#italianewsmedia.com#lavoro svalutato#liberismo economico#liquidazione Tavares#mercato senza regole#Pier Carlo Lava#politica economica#politica liberista#Politiche Pubbliche#Produzione Industriale
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"Non riesco a staccare".
Molte persone sono talmente dipendenti dalla dopamina dell'iperattività, che non riescono mai a disconnettersi.
Dal lavoro alla palestra, o dalla produttività in generale.
Appena finiscono un progetto ne ricominciano subito un altro; appena raggiungono un obiettivo hanno subito fame di raggiungerne un altro.
Passano da una attività a un'altra senza soluzione di continuità.
Sono in un incessante flusso di contatto.
In gestalt, quando un ciclo di contatto è finito, c'è una fase successiva che viene chiamata ritiro dal contatto.
È quella fase in cui si stacca da ciò che abbiamo raggiunto o da un bisogno che è stato soddisfatto, e ci si ritira nella propria solitudine, o si sta nella gratificazione successiva al contatto.
Ma alcuni sono talmente drogati di azione, di fare, che non riescono a concedersi una pausa di riposo.
Poi ovviamente si lamentano ogni tre per due di sentirsi stanchi e sopraffatti dalla vita.
Tuttavia la realtà è che il solo pensiero di fermarsi, di staccare, di prendersi una pausa e di godersi un meritato riposo, li manda in ansia.
La paura dietro a tutto questo è di non valere nulla, di non essere nulla, se non si è nell'azione.
Se non si fa.
Molto spesso la radice di tale convinzione tossica risiede nelle dinamiche familiari.
I genitori spesso sono votati allo spirito di sacrificio e al fare a tutti i costi.
Sono legati profondamente all'idea per cui se non produci, se non fai, non vali nulla, e al fatto che l'essere, il valore inconzionato, debba essere svalutato.
È paradossale che le emozioni e i bisogni del bambino, fossero anche quelli di provare piacere o riposarsi, vengano svalutati, e invece venga innalzato a ideale il fare anche a costo di autodistruggersi.
Così da adulti non riusciamo a stare fermi, a goderci un attimo di riposo, un momento di festa, perché ci sembra tempo sprecato.
Ci sentiamo in colpa se lo facciamo.
Ci massacriamo se non facciamo nulla.
La società capitalistica ovviamente alimenta questo meccanismo, quando invece la strada corretta sarebbe quella di lavorare di meno e aumentare il tempo per divertirsi e rilassarsi.
Di aumentare le pratiche contemplative dedicate al riconoscimento della bellezza, al piacere e al relax.
L'altra conseguenza del non riuscire a staccare, è quella di non poter mettere in primo piano ciò di cui abbiamo davvero bisogno.
Il ritirarsi, dopo aver soddisfatto un bisogno o realizzato un obiettivo, fa sì che ciò che si è appreso nel contatto venga integrato, e dallo sfondo si stacchino nuove figure, nuovi bisogni e obiettivi.
Se ce ne sono, e se c'è l'energia sufficiente per farli emergere.
Ma se si è sempre in azione, sempre alla ricerca famelica del contatto, lo sfondo è talmente confuso e pieno zeppo di roba che l'attenzione viene continuamente catturata da una serie di stimoli, senza soluzione di continuità.
Tutti gli stimoli sono uguali, perché lo sfondo dal quale si stagliano è sempre pieno, non avendo mai potuto svuotarsi tramite il ritiro, e quindi la persona non riesce a concentrarsi su nulla, o peggio ancora non riesce a stare senza fare nulla.
Se gli si propone di ascoltare le proprie viscere o il proprio respiro, va in ansia e comincia a parlare, a muoversi sulla sedia, ad agitarsi.
Il lavoro da fare è quello di decostruire i propri introietti familiari, quelli per cui se non si fa non si è degni di stima, e stabilire dei solidi e al tempo stesso flessibili confini del sé, capaci di aprire al ritiro dal contatto, chiudendo in questo modo ogni singola esperienza appena trascorsa.
Omar Montecchiani
#quandolosentinelcorpodiventareale
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I luminari di internet.
Parlo spesso di musica, anzi ultimamente poco, ne parlo perché è la mia vita anche se negli ultimi 4 anni è più una sorta di nascondiglio privato, per non dire che non sto facendo niente di commestibile (ascoltabile) da mettere in rete e quindi non ho neanche uno spazio online come avevo prima. Eh si perché prima della pandemia avevo un pò di musica online e per qualche strana alchimia facevo anche dei concerti, da un certo punto di vista. Poi come è capitato a molti durante il lock down è cambiato qualcosa in me, in realtà mi sono messo a studiare tutti quei compositori del 1900 che avevo saltato molti anni fa, ci sto ancora dietro perché c'è parecchio materiale. Però durante il lockdown ho anche concluso la mia lunga ricerca sul perché la musica non funziona più come una volta e questo mi ha portato a un paio di conclusione, la prima è che bisogna fare una distinzione netta tra musica e commercio musicale. Tutti sanno che una volta se volevi sfondare nel mondo della musica dovevi consegnarti ad un discografico, ecco questo non ha più molto a che fare con la musica, perché sapete (se avete letto in passato i miei deliri sull'argomento) che la musica è una forma d'arte e non un articolo di vendita. Ma nella conclusione della ricerca oltre a capire che la colpa non è ne dei discografici, che fanno il loro lavoro per guadagnare, e neanche dei musicisti, ma bensì del pubblico. Lo so, detta così non è molto bella ma è una sintesi e sto già sforando, abbiate pazienza. Qua poi arriviamo ai giorni nostri e sapete quanto non mi stia simpatico spotify (odio totale), sia per il fatto che non paga una cippa agli 'artisti' sia perché il suo sistema ha svalutato il lavoro di molti musicisti, pagare 10€ o giù di li per ascoltarsi tutta la musica che si vuole è un furto alla musica stessa, ai miei tempi quando volevi ascoltarti un album lo compravi e lo piazzavi sul giradischi e lo ascoltavi tante di quelle volte che lo consumavi, questo portava non solo a dare un valore economico al vinile (poi cd), ma anche una valore artistico non indifferente perché quel microsolco ti entrava nel sangue e diveniva parte di te.
Quindi adesso cosa succede, la musica grazie allo streaming non ha più valore e le nuove generazioni sono abituate che la musica è gratis, questo non solo distrugge il lato commerciale ma anche quello artistico perché i musicisti non sono più visti come tali, già prima era difficile fare capire all'interlocutore (ignorante in materia) che la musica è un lavoro come tanti altri. Adesso come ciliegina sulla torta l'AI sta invadendo la rete diventando sempre più sofisticata che è anche difficile riconoscere se un brano è suonato e cantato da persone o è un software. Tutto questo papello è perché ho visto un paio di video di Rick Beato, che anche se oramai è sull'olimpo dei tubers non è altro uno che tira l'acqua al suo mulino, forse una volta faceva la sua bella figura, per carità tanto di cappello Rick è un ottimo musicista e ha anche una buona cultura e conoscenza musicale, ma si è un pò arreso secondo me. Comunque i suoi video parlano, il primo, del perché la musica sta diventando sempre più brutta, e fondamentalmente dice quello che dico io da anni, però lui è Rick Beato lo youtuber con milioni di followers; l'altro video parla dell'AI dicendo che l'aveva detto che sarebbe successo ... grazie ar cazzo Rick, tutto lo sapevano che prima o poi l'AI sarebbe cresciuta ed avrebbe dato del filo da torcere agli artisti (e non solo a livello musicale). Ecco i video se vi va di guardarli https://www.youtube.com/watch?v=zbo6SdyWGns&t=338s https://www.youtube.com/watch?v=1bZ0OSEViyo&t=607s
Comunque, a questo punto il mio cambiamento di direzione è più che logico anche se prima non sapevo del perché mi stavo imbarcando in sta crociata senza senso, mi chiedevo avvolte (vi ricordo che sono 4 anni che ci sto dietro) "Ma perché cerco sempre quell'ago nel pagliaio?", che sarebbe il mio scopo di vita cioè quello di fare qualcosa di diverso musicalmente, diverso da tutto quello che mi circonda, lo so che è quasi impossibile però tentare non nuoce, poi non sono nessuno quindi non ho nessuna scadenza, anche se non ci riesco non cambia nulla nel mondo ecc ecc, ma a me piace farlo, ricercare, sperimentare, spingere al limite se è necessario, tutto per onorare l'arte della musica o come la definisco ultimamente arte sonora. Alla fine quello che non cambierà mai è il concerto dal vivo, la performance, i musicisti continueranno a scrivere canzoni e salire sul palco per farle sentire al pubblico, cosa che l'AI non può fare.
Vi lascio con una cosa un pò vecchiotta, visto che i tempi corrono, ma che a me piace molto come idea e come esecuzione
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Lavoro, Tridico: "Svalutato in trent'anni attraverso la flessibilita'"
L’ex presidente dell’Inps: “Non e’ cresciuto numero di ore lavorate ma persone che ne fanno di meno”source
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ECOLOGIE DELLA CURA. PROSPETTIVE TRANSFEMMINISTE Orthotes, 2021
Finalmente online e cartaceo un volume curato insieme a Miriam Tola a cui tengo molto, edito dai tipi di Orthotes. Che non esisterebbe senza i contributi preziosi di: Ilenia Caleo, Brunella Casalini, Laura Centemeri, Valeria Ribeiro Corossacz, Marianna Fernandes, Olivia (Oli) Fiorilli, Maddalena Fragnito, Márcia Leite, Hil Malatino, Giulia Marchese, Amaia Pérez Orozco, Tzk’at – Red de Sanadoras Ancestrales, Bue Rübner Hansen, Pirate Care, Mackda Ghebremariam Tesfaù, Miriam Tola, Françoise Vergès, Manuela Zechner
Prendersi cura è un lavoro svalutato e, insieme, una forma di relazione che coinvolge esseri umani, non-umani e tecnologie. Che cosa significa prendersi cura al tempo di disuguaglianze sociali vertiginose, di crisi sanitaria ed ecologica? A partire da diverse coordinate geopolitiche e da prospettive transfemministe e anti-razziste, il volume raccoglie contributi che mettono a fuoco le ambiguità e i paradossi della cura. Esplora teorie e pratiche di auto-difesa, riparazione e guarigione che sostengono corpi e comunità alla ricerca di alternative all’organizzazione neoliberista della cura. Anziché assumerla come un sentire positivo, questo libro problematizza la cura per riorientarla nel tempo che ci attende.
>>> Introduzione online <<<
>>> Scarica libro in PDF <<<
At last, a book edited together with Miriam Tola and published by Orthotes, which is very dear to me. The volume would not exist without the precious contributions of: Ilenia Caleo, Brunella Casalini, Laura Centemeri, Valeria Ribeiro Corossacz, Marianna Fernandes, Olivia (Oli) Fiorilli, Maddalena Fragnito, Márcia Leite, Hil Malatino, Giulia Marchese, Amaia Pérez Orozco, Tzk’at – Red de Sanadoras Ancestrales, Bue Rübner Hansen, Pirate Care, Mackda Ghebremariam Tesfaù, Miriam Tola, Françoise Vergès, Manuela Zechner
Caring is a devalued job and, at the same time, a form of relationship involving humans, non-humans and technologies. What does it mean to take care at a time of soaring social inequalities, health and ecological crises? By starting from different geopolitical coordinates and transfeminist and anti-racist perspectives, the book brings together contributions that focus on the ambiguities and paradoxes of care. It explores theories and practices of self-defence, repair and healing that support bodies and communities searching for alternatives to the neoliberal organisation of care. Rather than assuming it as positive sentiment, this book problematises care to reorient it in the time ahead.
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Sono stanca. Mi sembra nessuno provi ad ascoltarmi da non so più quanto tempo. In seduta parlano più i terapeuti di me, già fatico a esprimere un concetto, ultimamente, mi sento quindi continuamente interrotta e mi sembra di non essermi spiegata al meglio. Nelle mie relazioni interpersonali m’è sempre capitata questa cosa, non essere presa sul serio, che non so dire se derivi dal mio essere donna o donna con dichiarati problemi mentali. Fatto sta che ogni cazzo di volta, con i miei partner, appena dico qualcosa, non viene presa in considerazione, o viene sminuita, non so spiegarlo. All’inizio credevo fosse la proiezione di un mio disagio infantile (non son stata validata da piccola e mi convinco gli altri non lo facciano neanche adesso), ma poi ho avuto modo di appurare che è vero. Non so voi, ma quando una persona mi dice “questa cosa funziona così”, su un argomento di cui non so effettivamente niente, la prima cosa che faccio è prendere per buono quel che l’altro mi dice e, se si sta parlando di una roba che reca l’altro sofferenza, cerco di empatizzare. Ogni cazzo di volta che io mi sono esposta su una determinata situazione in maniera pessimistica - con tutte le ragioni del caso, che poi si son rivelate esatte - m’è sempre capitata gente che m’ha risposto “ma no, dai…non penso sia così”; e magari mi riferivo alle trafile burocratiche intorno alle questioni di salute mentale. Voglio dire, sono dieci anni che sto di merda e bazzico fra psichiatri, psicologi e ricoveri, vuoi che non conosca i tempi d’attesa di un CSM? Gli estremi per un TSO? Come funziona se chiami un’ambulanza perché ti vuoi ammazzare? Il funzionamento di uno psicofarmaco? E così via. C’è stata gente che m’ha voluto addirittura spiegare, da onnivora, come funzioni la dieta vegetale pur essendo stata vegana e vegetariana. Ho dovuto chiamare e recarmi dagli assistenti sociali per una questione, che ero convinta non potessero risolvere perché conosco come funzionano queste cose. E infatti. Le numerose volte che ne ho parlato al tipo, dicendo appunto che non credevo le cose si sarebbero risolte per tot. motivi, lui mi rispondeva “ma no, ma dai, ma son cose evidenti, ma ti pare che non fanno niente”, e via dicendo. Ora, io capisco tu voglia tentare in qualche modo di rassicurarmi, ma il confine fra il voler essere empatici e il voler insegnarti a campare è sempre molto sottile. Puntualmente a mia sorella dico qualcosa che lei non prende assolutamente in considerazione e due giorni dopo, mi fa:”Ma lo sai che *nome del tizio che si tromba* mi ha detto questa cosa?” Ma perché, io che t’ho detto una settimana fa? Addirittura le azzeccai la sua diagnosi di disturbo mentale prima degli psicologi che gliene diedero una totalmente errata ma comunque rimango, evidentemente, agli occhi degli altri, una cogliona. Ho diagnosticato a distanza un’appendicite prima di un medico ad una mia amica, ma rimango cretina. Ormai di fronte a questi atteggiamenti che sento invalidanti rispondo incazzandomi, anche passando per aggressiva, ma non m’importa. Perché io devo rispettare la tua posizione, le tue competenze, avere rispetto di ciò che dici, non azzardarmi a dare giudizi sul tuo ambiente, o il tuo lavoro, perché non li conosco, ma tu, persona a caso che popola la mia vita, ci metti tre secondi per cagare fuori dal vaso? Perché io non parlo da anni con la mia ex dei miei disturbi alimentari perché ne soffre ed ho paura di triggerarla ma la gente mi dice tranquillamente, conoscendo la mia storia, che tizio x s’è ammazzato, senza risparmiarmi dettagli e retroscena? Ovviamente per anni è stato tutto un processo mentale che ho imputato al mio essere borderline, quindi l’ho rigettato, svalutato; solo adesso che le circostanze mi danno continuamente “ragione” credo sia semplicemente il naturale desiderio umano di sentirsi ascoltati e presi sul serio. E porco dio, fatelo. Perché poi comincio a parlare con mille parentesi tonde quadre e graffe nel discorso per far capire l’altro che la mia condizione, forse forse forse eh, la stessa che vivo da 23 anni, la conosco meglio di lui.
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Pensa come sarebbe assurdo un mondo equilibrato, dove noi persone contiamo tutte allo stesso modo, dove possiamo cambiare il nostro corpo e nessuno possa farci del male, dove possiamo scegliere chi amare senza aver paura di tenergli la mano per strada, dove un vestito, un comportamento, un'azione non ci fa vittime di altri e di noi stess*. Dove lo stupro non esista, la pedofilia non esista, le persone non vengano rese un feticcio. Dove non saremo giudicati colpevoli per il male fattoci da altri. Un mondo dove noi persone non esistiamo in base al nostro colore, genere e orientamento sessuale, orientamento politico o religioso, dove esistiamo e basta. Un mondo dove noi possiamo amare una o più persone con o meno i nostri stessi genitali, colori e religioni. Un mondo dove possano esistere una mamma e un papà, due mamme e due papà e famiglie allargate con più compagn*. Nessuno che pensi ai bambini perché i bambini non verrano corrotti in nessun modo e sceglieranno loro da grandi chi essere e come vivere. Un mondo dove tutti avremmo la dignità, avremmo il pane per mangiare e un tetto sotto cui abitare. Un mondo dove il lavoro sia uguale per tutti, con i giusti meriti. Un mondo dove le persone che hanno il ciclo possano accedere agli assorbenti, tamponi, coppette senza che si pensi che siano un lusso. Un mondo dove il sesso venga spiegato nelle scuole e gli anticoncezionali gratuiti e i preservativi dati in ospedale, nei consultori. Un mondo in cui il velo sia normale per chi lo volesse portare. Un mondo dove i vestiti siano per tutti e non sessualizzati. Un mondo dove l'aborto non sia un trauma e sia accessibile a tutti e che anche i/le partners possano esprimere il loro pensiero, dove chi ha l'utero sia tutelato nel caso di una gravidanza senza che rischi di perdere il lavoro e cadere in povertà e solo. I genitori possano sposarsi e divorziare con gli stessi diritti di tenere i figli, senza inutili lotte e sofferenze. Un mondo dove si smetta di pensare che esista il diverso, esistono solo gusti diversi e nessuno ti picchia se ti piace la stracciatella e non la vaniglia. Un mondo dove l'accesso alla sanità sia per tutti e non solo per i ricchi. Un mondo dove l'accesso alle cure psichiatriche non sia impossibile, svalutato e usato per discriminare chi soffre. Un mondo dove non esistano canoni estetici. Un mondo dove le persone abbiano il rispetto per la terra su cui camminano e camminano anche tutti gli altri. Un mondo che non mi sembra così assurdo.
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L’Europa orba non ha visto il crollo di Deutsche Bank.
È incredibile come si stia tenendo sotto traccia la situazione, drammatica, del settore bancario tedesco. Per anni la vigilanza europea, i grandi esperti, ci avevano raccontato che il malato sono le nostre banchette. Sono mesi invece che si cerca di trovare una soluzione, un salvataggio parliamoci chiaro, alle due reginette tedesche: Deutsche Bank e Commerzbank. Il terzo incomodo fu acquisito anni fa da Unicredit, e guarda caso oggi, almeno in Germania, è in sicurezza.
Abbiamo pagato la follia della rigidità comunitaria obbligando le nostre banche a vendere alla velocità della luce i prestiti in sofferenza a cifre da saldo che giravano tra i 17 e i 20 centesimi per euro di capitale, e non ci accorgevamo che i giganti tedeschi stavano affondando. Abbiamo preteso che non si utilizzasse il nostro privatissimo fondo interbancario per ristorare gli obbligazionisti subordinati intrappolati dal bail in e non ci rendevamo conto che Deutsche e Commerzbank, di cui una parte del capitale è in mano diretta al ministero delle finanze tedesche, sommate insieme non valgono le quotazioni di Borsa di Intesa-SanPaolo. Anzi ad essere più precisi le due banche tedesche insieme valgono 24 miliardi, mentre la sola Intesa ne quota 40 di miliardi.
È incredibile e se ne parla troppo poco.
Una prima considerazione rende ancora più clamorosa la vicenda. La Germania che negli ultimi anni ha prosperato grazie al suo marco svalutato, e cioè l’euro, è sempre stata la locomotiva d’Europa, è sempre cresciuta a tassi superiori alla media Ue e di gran lunga maggiori rispetto all’Italia. Per essere più espliciti le banche tedesche hanno prestato soldi ad imprese che mediamente hanno sofferto la crisi meno di quelle italiane. E dunque la loro attività principale, e cioè impiegare i quattrini raccolti dai risparmiatori in investimenti produttivi, ha subito meno scossoni che da noi. Come sia possbile che le loro banche siano in acque così agitate, nonostante i loro investimenti tipici siano stati rivoltiad un tesuto produttivo che non ha subito la crisi è la domanda che ci si deve porre.
Una serie di risposte esiste. Forse le autorità europee invece di accanirsi sui nostri prestiti incagliati, avrebbero potuto ragionare in modo più complessivo. Tutti sanno infatti di una doppia peculiarità del mercato del credito tedesco.
a) La prima risiede nel fatto che ci siano una serie di superprotette banche regionali, equivalenti delle nostre banche locali, ma tutelate dai potenti politici locali. Ebbene esse sono di fatto fuori dal mercato. E spingono le due reginette, di cui sopra, ad una concorrenza piuttosto sleale. Deutsche quando combatte con la banchetta locale deve adeguarsi a condizioni non di mercato e dunque viene spiazzata. O se preferite deve trovare forme alternative di guadagno, tipicamente quelle da commssioni. Hanno spinto così fino all’inverosimile sull’investment banking, oggi in crisi, e su investimenti finanziari in derivati, la cui trasparenza è simile a quella di uno stagno nelle Everglades.
b) La seconda caratteristica del mercato creditizio tedesco è che banalmente il rapporto tra costi e ricavi è di molto superiore a quello italiano. Il folle sistema duale, che per qualche follia qualcuno vorrebbe introdurre in italia, è rigidamente pensato, compreso per Deutsche e Commerz, con un importante peso della componente dei lavoratori in consiglio di sorveglianza. Quando l’economia tira, la cosa funziona. Ma quando c’è da tagliare, da ammodernare, da rivedere iniziano i guai. La fusione tra le due banche tedesche, è inutile girarci tanto intorno, in gran parte nasce dal fatto che i consigli delle due banche avrebbero dovuto votare anche il taglio di almeno trentamila lavoratori: sarebbe mai potuto passare con una governance di questo tipo?
Sia chiaro, anche in Italia si è proceduto ad una pesante ristrutturazione con le principali banche che hanno ridotto la loro forza lavoro fino ad un quarto del totale pre crisi. Ma gli accordi sugli scivoli, cioè vai prima in pensione e ti garantisco per tot anni il 70-80% dello stipendio fino all’ottenimento dell’assegno previdenziale, ebbene questi accordi sono stati ottenuti con l’accordo del sindacato da una posizione di tipo contrattuale e non proprietaria.
La morale di questa storia è che il sistema bancario italiano, i nostri risparmiatori, hanno pagato un prezzo eccessivo per la crisi che ha investito la finanza nel post 2007, mentre quello tedesco, ritenuto a torto più solido, è stato tenuto falsamente in piedi, con la colpevole negligenza della vigilanza bancaria comunitaria così occhiuta nei nostri confronti. È stato ricapitalizzato per la bellezza di 240 miliardi di euro. E oggi ci troviamo, viene quasi da ridere a scriverlo, nell’imbarazzante situazione di trovare qualcuno che si accolli il fardello della Deutsche bank e della Commerzbank e che ci metta dentro altro capitale per non farle saltare.
Nicola Porro, Il Giornale 27 aprile 2019
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Il 16 luglio di cinque anni fa ci lasciava il grande George A. Romero, regista e sceneggiatore nordamericano specializzato generalmente in cinema “Horror”. Questo genere è sempre stato svalutato e confinato in gusti di nicchia, ma il cineasta in questione è riuscito a rivoluzionarlo con l’inserimento - fra le righe dei suoi film - di un’aspra critica sociale alla cultura occidentale. Ancora oggi da molti critici ed esperti di cinema, Ro- mero è considerato il padre dell’horror moderno e contemporaneo. Nato a New York nel 1940 si trasferisce in seguito a Pittsburgh, cittadina della Pennsylvania che diviene set di molte sue pellicole. Dopo aver girato alcuni cortometraggi indipendenti e degli spot TV, nel 1969 non ancora trentenne riesce ad autofinanziare il suo film d’esordio ovvero quello che è diventato uno dei più celebri cult-movie di tutti i tempi: “La notte dei morti viventi”. Attraverso questo film Romero riesce a ricodificare l'intero genere horror (fino ad allora improntato su classici come i vari “Dracula”, “Frankenstain” e alcuni monster-movie degli anni ’50-’60) grazie all’introduzione di due concetti fondamentali: a) i “mostri” sono una massa implacabile ed eterogenea, e rappresentano la maggioranza delle parti in gioco, mentre i “buoni” (che poi tanto buoni non sono…) rappresentano l’esigua minoranza; b) gli zombi resuscitano e camminano riportati in vita non da sedicenti riti magici o esoterici ma secondo spiegazioni razionali e scientifiche, anche se restano “sospese” e non del tutto chiarite. L’idea “corale” e “rivoluzionaria” deli zombi romeriani (che sarà ripresa e imitata da tantissimi altri autori) si contrappone alla natura umana dei protagonisti, che spesso risulta violenta, negativa, profondamente egoista e più incline al male. Queste tematiche vengono riprese anche ne “La città verrà distrutta all’alba” (1973), in una storia dove le perso- ne infettate da una misteriosa arma biologica si trasformano in pazzi omicidi e distruttori (“The crazies” è il titolo originale del film), mentre i sopravvissuti cercano di scampare a questa apocalisse scontrandosi fra loro e contro le forze dell’ordine, più disposte a sopprimere l’emergenza che a curarla. Dopo il film “Wampyr” (1977) - che metaforizza la dipendenza di sangue da parte di Martin, moderno e metropolitano vampiro, con la piaga dell’eroina e della droga in generale - Romero dirige quello che secondo molti è il suo capo- lavoro, cioè “Zombi” (1979), secondo episodio della trilogia dei morti-viventi (il titolo originale è: “Dawn of the dead”). Un gruppo eterogeno di 4 superstiti si barrica in un centro commerciale, mentre il mondo esterno è assediato da zombi cannibali. I morti viventi qui sono usati per una vera e propria critica alla collettività consumi- sta, mostrati come un'orda senza emozioni mossa esclusivamente da una forza atavica e ancestrale. “In una società consumistica noi, come loro (i morti viventi), finiamo per comportarci in modo simile, come fossimo eterodiretti all’acquisto di cose e merci, senza controllo” aveva dichiarato il regista su questo film che, nel terzo episodio della trilogia, “Il giorno degli zombi” (1985), pone l’accento anche sull’antimilitarismo e sulla forte critica alla guerra e all’apparato burocratico- militare. Nonostante l'idea di “massa” implacabile e senza pensieri sia proprio caratteristica degli zombie “romeriani”, è nell'aspetto sociale che i film di Romero trovano la forza principale di descrivere gli esseri umani molto peggio rispetto agli stessi “mostri” che essi combattono. Da sempre controcorrente, Romero - nonostante i successi dei primi film - ha in seguito fatto fatica a incassare la fiducia degli studios hollywoodiani per produrre film di zombie che non scadessero nello splatter gratuito ma che fossero, invece, fortemente ancorati a una dimensione legata alla critica sociale. L’opposta attitudine, purtroppo, tipica dei film horror tradizionali nel ricercare a tutti i costi la spettacolarità (a volte fine a sé stessa), lo “splatter”, il “gore”, ecc. ha lentamente tagliato fuori il cineasta statunitense dal “mainstream” del mercato, portandolo spesso ad autoprodurre i suoi lavori, come gli ultimi “Diary of the dead” e “Survival of the dead”, datati rispettivamente 2007 e 2009, che per i forti limiti sum- menzionati sono risultati poco più che film di serie B. . Negli anni ’80 e ‘90 l’autore ha però sfornato altre pellicole degne di nota, come il cartoonesco “Creepshow” (1982) e il metafisico “La metà oscura” (1993), entrambi partoriti dalla geniale penna di Stephen King; la collaborazione con il nostrano Dario Argento ha generato nel 1990 “Due occhi diabolici”, dove l’artista nordamericano ha portato sul grande schermo il racconto di Edgar Allan Poe “Fatti nella vita del signor Valdemar”; e poi c’è l’ultimo grande kolossal, ovvero “La terra dei morti viventi”, diretto nel 2005 e interpretato, fra gli altri, anche da Dennis Hopper e da Asia Argento. L’orrore, inteso come quel senso di repulsione e forte sgomento che si ha guardando oggi come oggi un qualsiasi film horror, nel cinema romeriano è sempre stato un aspetto secondario, che emerge solo dalle profondità di un'intensa e dissacrante critica rivolta alla società moderna. Non è tanto la violenza visiva per sconvolgere lo spettatore la tematica prediletta di Romero, bensì l'utilizzo di uccisioni e di omicidi quali portatori di significati sociologici precisi. Su tutto il resto si erigono tematiche profonde come la critica al razzismo, al consumismo, al militarismo, alla guerra, al classismo, ecc.: per Romero è sempre stato più importante far riflettere piuttosto che spaventare.
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NON FARE IL PASSO PIÙ LUNGO DELLA GAMBA! 💥 Negli ultimi anni mi è capitato di vedere coppie che organizzano al meglio il loro giorno, senza tener conto di un fattore chiave: 💸 Puntualmente gli unici che ne risentono siamo noi fotografi. Fa male vedere il proprio lavoro svalutato, da persone che non danno il giusto valore ad una cosa così importante come la fotografia. Noi ci mettiamo anima e corpo in quel che facciamo, lavoriamo più del dovuto per dare sempre il meglio a chiunque si affidi a noi, e delle volte capita che quei ricordi rimangono sui nostri archivi addirittura per anni interi. Ripeto quanto detto nel titolo. Siate riconoscenti al vostro fotografo! 😅 𝗡.𝗕: 𝗜𝗟 𝗧𝗘𝗦𝗧𝗢 𝗡𝗢𝗡 𝗦𝗜 𝗥𝗜𝗙𝗘𝗥𝗜𝗦𝗖𝗘 𝗔𝗜 𝗦𝗢𝗚𝗚𝗘𝗧𝗧𝗜 𝗗𝗜 𝗤𝗨𝗘𝗦𝗧𝗢 𝗠𝗔𝗧𝗥𝗜𝗠𝗢𝗡𝗜𝗢, 𝗘' 𝗦𝗢𝗟𝗔𝗠𝗘𝗡𝗧𝗘 𝗨𝗡 𝗣𝗘𝗡𝗦𝗜𝗘𝗥𝗢 𝗚𝗘𝗡𝗘𝗥𝗜𝗖𝗢 WP @chiaracoppola_eventplanner Filmmaker @natstudio54 Location @villacimmino.hotelandevents Florist @caloricosebastiano Band @soulfoodvocalist Dress Bride @pronovias Dresser @francesco_atelier_pierre @pierresposa Car @harmony.autopercerimonie * * * * * #claudiocasconephotography #italywedding #weddinginitaly #italyweddingphotographer #napoliwedding #naplesphotographer #napleswedding #naplesweddingphotographer #naplesweddingplanner #sorrentowedding #sorrentocoastwedding #sorrentocoast #luxurywedding #documentaryweddingphotography #weddingideas #weddingphotography #weddinginspo #weddingdress #destinationphotographer #weddingflowers #photooftheday #bouquet #instawed #bride2023 #bridetobe2023 #getmarriedinitaly #bestweddingphotographer (at Gragnano) https://www.instagram.com/p/CfW6ZluIwAT/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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30 nov 2020 15:36
UN VOLO VERSO L’ABISSO – “REPORT” STASERA SVELA COME ALITALIA FU SPOLPATA PER REGALARLA A ETIHAD - LO SPONSOR POLITICO DI QUELL'AVVENTURA FU MATTEO RENZI, MA L'ANELLO DI CONGIUNZIONE CON GLI EMIRATI ARABI FU LUCA MONTEZEMOLO, ATTUALMENTE SOTTO INCHIESTA - LA SVALUTAZIONE “NON CORRETTA”, LE FATTURE GONFIATE, LE MIGLIAIA DI EURO PER PORTARE GLI OSPITI AL GP DI FORMULA 1 E LE CARTE SUL COSIDDETTO “AIR FORCE RENZI” – VIDEO
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DAGONOTA
L’inchiesta bomba di “Report” su Alitalia parte dalla relazione dei consulenti della procura di Civitavecchia, che indaga per bancarotta fraudolenta e falso in bilancio rispetto alla stagione Alitalia-Etihad.
Lo sponsor politico di quell'avventura fu Matteo Renzi, ma l'anello di congiunzione con gli Emirati Arabi fu Luca Cordero di Montezemolo, attualmente sotto inchiesta. Nella relazione viene fuori che la nostra compagnia di bandiera sarebbe stata in qualche modo depredata.
“Report” ha ottenuto in esclusiva anche una serie di fatture fatte pagare ad Alitalia (in cui venivano inserite anche cene in cui venivano lasciati 1000 euro di mancia). Spuntano anche centinaia di migliaia di euro per portare gli ospiti al Gran premio di di F1 di Abu Dhabi. Pagava sempre Alitalia.
La trasmissione di Sigfrido Ranucci ha ottenuto in esclusiva anche l'informativa riservata degli ispettori del lavoro di Roma, che multano Alitalia per aver fatto passare per cassa integrazione pagata da tutti noi quelli che dovevano essere riposi pagati dalla compagnia. Nell'informativa si punta il dito contro il ministero del lavoro che avrebbe avallato tutto senza controllare. Il ministro del lavoro dell'epoca era Giuliano Poletti (non indagato).
Alitalia aveva anche stretto un accordo con i sindacati, nel quale si riconoscevano 3432 giornate annue di permessi sindacali per ogni sindacato compresi di diaria. La cosa incredibile è che l'accordo prevede che per ogni giornata di permesso sindacale il sindacalista accumuli 3,8 ore di volo.
La ratio era quella di permettere al lavoratore sindacalista di non perdere quote di stipendio, visto che la retribuzione è legata alle ore volate ma qui siamo al paradosso: un pilota sindacalista, grazie alle ore fittizie accumulate durante le giornate di permesso sindacale, guadagna mediamente 2500/3000 euro rispetto alla media degli altri piloti non sindacalisti, che però le ore di volo e di lavoro se le fanno veramente.
Nell’inchiesta di Danilo Procaccianti si parla anche dell’Air Force Renzi, con tutte le carte sul discusso aereo di stato e la testimonianza in esclusiva di una fonte di alto livello, che racconta come avesse avvisato chi di dovere sul reale valore di quell'aereo. Nessuno gli ha dato ascolto. Anche su quello c'è un'inchiesta per truffa alla procura di Civitavecchia.
La stessa fonte anonima di alto rango militare racconta a “Report” alcuni dettagli sul prototipo del drone militare in sperimentazione da Piaggio Aerospace, che in quel momento era controllata dagli Emirati Arabi Uniti. Il drone precipitò misteriosamente in mare a Trapani e la sperimentazione naufragò. Quel drone sarebbe stato fatto precipitare volutamente per questioni geopolitiche.
2 – Comunicato stampa
Nuovo appuntamento con le inchieste della squadra di Report su Rai3, lunedì 30 novembre, alle 21.20. Si parte con “Allacciate le cinture” di Danilo Procaccianti. In questo periodo si parla tanto di Alitalia perché il governo Conte ha deciso di stanziare 3 miliardi di euro per salvarla, che si aggiungono ai tanti soldi pubblici messi in campo in quello che sembra un pozzo senza fondo. E quando è toccato ai privati?
L’ultima avventura è stata quella con gli emiratini di Etihad, una partnership fortemente sponsorizzata dall’allora premier Matteo Renzi. Come è finita? Molto male. Dopo due anni e mezzo hanno portato i libri in tribunale. Ma il rapporto degli Emirati con l'Italia in epoca Renzi non si esaurisce con Alitalia: Report mostrerà tutti i documenti sul famoso Air Force Renzi, l'aereo di Stato voluto dall'ex premier.
Si era siglato un accordo, sempre con Etihad, di svariati milioni di euro per un aereo che valeva pochissimo ed era fuori produzione dal 2011. Inoltre, l’inchiesta racconterà la vicenda di Piaggio Aerospace, l'azienda aeronautica del settore sicurezza e difesa anch'essa entrata in possesso degli Emirati Arabi in epoca renziana. E poi c'è un drone militare in sperimentazione, precipitato misteriosamente.
3 – "COSÌ SPOLPARONO ALITALIA PER REGALARLA AGLI ARABI"
Estratto dell’articolo di Vincenzo Bisbiglia per “il Fatto Quotidiano”
Prima di vendere le quote, nel 2014, Alitalia aveva svalutato in maniera "non corretta" le quote di una sua partecipata, Alitalia Loyalty, risultando così più appetibile all'acquirente Ethiad. Tutto ciò mentre l'azienda degli Emirati Arabi produceva verso la compagnia di bandiera italiana fatture probabilmente gonfiate. E mentre si accavallavano gli extra-costi, fra straordinari considerati in quota cassa integrazione - e dunque pagati dai contribuenti - costi di catering abnormi e lussuosi voli di Stato sull'Airbus 340-500, noto come "Air Force Renzi".
Sono alcune delle conclusioni di Ignazio Arcuri e Stefano Martinazzo, nelle loro 526 pagine di relazione tecnica consegnata alla Procura di Civitavecchia e, nelle scorse settimane, alla Corte dei Conti di Roma, che indagano sul crack di Alitalia, nonostante il salvataggio "tentato" dall'ex premier Matteo Renzi insieme a Luca Cordero di Montezemolo.
L'attuale leader di Italia Viva non è indagato, a differenza degli ex vertici di Alitalia, da Montezemolo agli ex amministratori delegati Silvano Cassano e Marc Cramer Ball, fino all'ex numero uno di Etihad, James Hogan e al commissario liquidatore Enrico Laghi.
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RENZI E MONTEZEMOLO TRA LE HOSTESS ALITALIA il servizio di report su alitalia etihad 8
la puntata di report su alitalia etihad 2
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1 IDEA REMUNERATIVA SULLA BORSA AMERICANA: BED BATH & BEYOND
BED BATH & BEYOND 1 IDEA REMUNERATIVA AZIONARIA E OBBLIGAZIONARIA SULLA BORSA AMERICANA
Sulla borsa americana si contano migliaia di titoli azionari e decine di migliaia di obbligazioni quotate e scovare una idea remunerativa di breve, medio e lungo termine, interessante dal punto di vista del rischio/rendimento, è impresa con cui ci confrontiamo quotidianamente. Goodwill Asset Management sa, gestore patrimoniale autorizzato in Svizzera e a partire dalla Svizzera, forte di convenzioni economiche vantaggiose per la clientela appoggiata presso le migliori banche svizzere, tra i molteplici screening di azioni e obbligazioni ha selezionato qualitativamente come idea remunerativa del mese un titolo azionario e le sue tre obbligazioni quotate sula borsa americana. Il titolo in questione si chiama Bed Bath & Beyond, ticker BBBY ,attivo nel settore retail americano, specializzato nella fornitura di mobili e oggettistica di tendenza con marchi proprietari e marchi iconici dell'arredamento. La società capitalizza sulla borsa americana circa 1.8 miliardi di usd con un liquidità di cassa e investimenti di breve termine per circa 1 mld di usd e un debito complessivo per 1.5 mld di usd. Le tre obbligazioni sono molto remunerative, in quanto la scadenza piu' vicina, la 2024 ha un rendimento del 4% circa, l'obbligazione con scadenza intermedia 2034 e l'obbligazione di lunga durata con scadenza 2044 (la più remunerativa) hanno un rendimento dell'8% circa. La società risulta essere molto sottovalutata: ha un magazzino già ampiamente svalutato per 2.3 mld di usd che compensa ampiamente i debiti verso fornitori che ammontano a circa 1 mld di usd. Il magazzino sarà progressivamente monetizzato e aumenterà la già importante cassa disponibile. La compagnia dispone di 1534 negozi fisici, oltre che svariati negozi digitali online. Tra quelli fisici ne ha 993 a marchio Bed Bath & Beyond e 541 suddivisi in una serie di catene di negozi minori tra cui Buybuy Baby, World Market, Cost Plus, Christmas Tree e numerosi altri marchi la cui possibile valorizzazione tramite vendita potrebbe portare nelle casse un ulteriore 1,3 mld di usd. Solamente da questi dati, estrapolati dallo Stato Patrimoniale, si evince la remunerativa opportunità di investire nelle tre obbligazioni. Tali obbligazioni oggi prezzano ampiamente sotto la pari per le aspettative di contrazione del fatturato e dei margini dovuta alla forte competizione degli store online e alla lentezza del management precedente nel rispondere al mutato contesto competitivo. Oggi la società si trova ad un punto di svolta grazie a un cambiamento radicale di tutto il management tra cui spicca la nomina di Tritton lo scorso 4 novembre nel ruolo di Ceo della società. Tritton, figura di spicco nel settore retail, proviene da Target, dove rivestiva la carica di Chief Marketing Officer. Tritton è stato il responsabile della riorganizzazione della forza lavoro, ha ottimizzato e chiuso negozi fisici non remunerativi e riorganizzato i negozi in maniera innovativa. Egli ha inoltre traghettato Target da un'esperienza puramente offline a store online con completa integrazione tra negozi fisici e digitali. La profonda trasformazione che porterà Tritton, ancora non si riflette nei prezzi delle obbligazioni e delle azioni e crea oggi una importante idea remunerativa nel breve medio e lungo periodo sia sulle obbligazioni che sulle azioni. Infatti la forte discesa del prezzo delle azioni dal massimo storico del 30 dicembre 2013 pari a 80.82 usd per azione all'attuale 14.5 usd per azione, crea le basi per un prossimo apprezzamento dei corsi borsistici (opportunità remunerativa) come possiamo mostrare nella tabella seguente in cui abbiamo racchiuso i principali multipli di mercato odierni e prospettici a 12 mesi stimando per il 2020 un eps di 2 usd per azione. La tabella rapporta indici medi del settore retail con i target a cui dovrebbe tendere l'azione per recuperare il gap valutativo con i competitors piu' virtuosi:
Come evidenziato nella tabella precedente la sottovalutazione dell'azione rispetto al target price è del 65.5% e rappresenta un'idea remunerativa decisamente interessante e relativamente conservativa dal punto di vista fondamentale. Inoltre la società, a sostegno dei corsi del titolo azionario, ha un importante buyback azionario in corso e distribuisce dividendi e interessi che sono ampiamente sostenibili nonostante l'attuale stagnazione del fatturato e dei margini operativi. Nei prossimi mesi verificheremo se questa idea remunerativa è stata premiata dal mercato sia sul fronte azionario che su quello obbligazionario. La mission di Goodwill asset management infatti è di gestire in maniera remunerativa i portafogli della clientela sulle migliori banche svizzere e di generare idee e proposte di investimento remunerative e originali. Read the full article
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“Hanno dato il Nobel a Claude Simon per confermare la diceria che il romanzo è finalmente morto?”. Uno scrittore di genio che stava sulle scatole a tutti: troppo complicato, antipatico, poco allineato
Leggi il discorso Nobel di Claude Simon e senti un’intelligenza limpida, sicura mentre scavalca gli ostacoli. Io so perché è caduto in discredito dopo aver vinto il premio nel 1985. Perché aveva già stravinto la corrente irrazionale di Foucault e della biologia politica. Epifenomeni epigonici di Foucault allignano tuttora in Italia.
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La cultura francese è strana. Alterna momenti di cristallo (Valéry e Cartesio) a ondate irrazionali (Balzac e gli alchimisti che interessavano a Bobi Bazlen). Purtroppo quando trionfa il partito irrazionale se ne vedono di tutti i colori. Si scivola con Barthes e le sue follie di discorso amoroso. Ci si becca il virus foucaultiano. Si rimane ingarbugliati nel concetto di “rete” di Bordieu. Ci si inebria sul divano con la critica astrusa leggendo Soglie di Genette. Ci si esalta, sullo stesso divano, sfogliando Lévy-Strauss. Una pagina tira l’altra.
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Conosco i segni dell’antica fiamma. So bene il fascino dell’irrazionale, l’ho patito. E quello francese è poca cosa in confronto al Blut und Boden dei tedeschi: suolo e sangue romantici. Per questo mi eccita scoprire il discorso di Claude Simon, vedere il suo corpo a corpo con la tradizione, con i nanerottoli suoi contemporanei che non vedono in lui altro che un bislacco compositore di romanzi senza capo né coda.
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Credo che il suo discorso, anche se preso a spizzichi e bocconi, sia un godimento assoluto per la corteccia cerebrale. Perché parte da premesse astoriche, come quelle dei suoi romanzi e approda all’acciaio lucente della ragione. Arriva a Stendhal, all’immagine mnemonica che si fissa come una figura a sbalzo e supera questa visione di Stendhal con un tuffo nell’interiorità. Lo scrittore si fa sguardo.
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Sbaglia chi crede che gli intellettuali siano asettici. Mai scordare che alla radice dei razionalisti francesi c’è Cartesio che, come raccontato in un bel libretto, aveva inalato qualcosa di potente prima di sognare nella tenda al calore della stufa. Dopodiché si svegliò e scrisse le tavole della legge, il Discorso sul metodo. E nemmeno scordarsi che Cartesio aveva sognato di trovarsi, nei fumi, davanti a un’arancia. Una roba che nemmeno Dalí…
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Quindi anche il lucido Cartesio sognava. Nel seguito della sua avventura onirica il padre del sedicente razionalismo si trovò poi davanti a un bivio. Da una parte il Sì e dall’altra il No. Tanto basti per chi crede che gli intellettuali siano insensibili. Poi, leggere le poesie di Jaqueline Risset sul sogno di Cartesio.
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Peraltro, che Einaudi storico editore di Simon non si sia mai filato il suo discorso la dice lunga sul suo stato di salute: e qui voglio essere velenoso, perché il discorso Nobel 1985 tocca vertici che Pamuk e Vargas Llosa non raggiungono nei loro proclami in sede nobelistica. Peccato però che entrambi siano foraggiati da Einaudi che gli stampa anche gli opuscoli dei discorsi manco fossero oro colato. Ma Pangea è qui per risolvere i vostri problemi di lettura. Mentre Einaudi è come l’idraulico di Fruttero & Lucentini. Non verrà mai quando serve.
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Ci sono. Eureka. Ho capito perché Simon è stato messo nel bidone. Già durante la guerra civile spagnola si era disilluso riguardo il sol dell’Avvenire dei Compagni. Leggo nell’intervista Paris Review 1992. “Intervistatore – Hai combattuto affianco ai repubblicani in Spagna ma ti sei disilluso abbandonando la causa. Perché? Simon – Io non combattevo. Arrivai a Barcellona nel settembre del 1936 per essere spettatore più che attore della commedia che si svolge nel mondo. Se non ha colto la citazione, è uno dei principi di Cartesio e quando scrisse queste parole, comédie indicava ogni genere di rappresentazione teatrale, tanto comica che tragica. Per Cartesio, che viveva austeramente osservando la debolezza delle passioni umane, la parola comédie aveva un senso lievemente peggiorativo e ironico. Stessa cosa per Balzac che scrive il ciclo, arreso al tragico, che ha per titolo Commedia umana. Gli ingredienti più miserevoli della guerra di Spagna erano i suoi motivi gretti, le ambizioni nascoste che serviva, l’enfasi su parole vuote adoperate da entrambi gli schieramenti. Pareva una commedia terribilmente sanguinosa. Ma pur sempre commedia. Pure, considerato il grado omicida cui si spinse questa guerra fatta di tradimenti, da parte mia non potevo indicarla come comédie. Cosa mi portò laggiù? Certamente le mie simpatie repubblicane. Però anche la mia curiosità di osservare una guerra civile, vedere cosa succedeva”. So già che le lettrici dissentiranno da questa visione riduttivista. Io qui sto. Sicuro che nasca tutto da divergenze politiche.
Andrea Bianchi
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Claude Simon, Dal discorso per l’accettazione del Nobel 1985
(…) Non è per un semplice e schietto caso, o così pare a me, che questa istituzione abbia la sua sede e deliberi la sua scelta qui in Svezia, più precisamente a Stoccolma, al centro quasi geografico o, se preferite, al crocevia di quattro nazioni le cui genti, per quanto ridotte di numero, in virtù della loro cultura, delle loro tradizioni e civiltà e leggi, hanno fatto la Scandinavia così grande da renderla una sorta di isola privilegiata ed esemplare contornata da un mondo d’acciaio e di violenza. Quello in cui abitiamo noialtri.
Dunque non è per caso, dicevo, che Norvegesi, Svedesi e Danesi abbiano tradotto per primi le mie Les Géorgiques uscite da poco. Né è casuale che fosse possibile, lo scorso inverno, incontrare un’altra traduzione sugli scaffali di una stazione di servizio in un borgo isolato tra laghi e foreste della Finlandia. Pure, quando quest’ultimo Nobel fu annunciato, il New York Times (per dire solo uno dei due giganti sotto il cui peso mostruoso siamo schiacciati oggi) chiese invano ai critici americani una loro opinione, e nel frattempo i media del mio paese cercavano febbrilmente qualche informazione su questo autore virtualmente sconosciuto e questo accadeva mentre la stampa popolare nel mio paese, per carenza di analisi critiche delle mie opere, pubblicava ritagli fantasiosi sulla mia vita e la mia attività di scrittore – vorrei dire che le cose andavano sempre così ma altri deploravano il fatto come una catastrofe nazionale per la Francia.
Ammetto di non essere così presuntuoso o così stupido da non intuire che ogni scelta nel regno dell’arte e della letteratura è contestabile e, in qualche modo, arbitraria; e sono il primo a considerare diversi altri scrittori, per i quali ho il più grande rispetto, siano in Francia o altrove, come egualmente eleggibili. Riferisco queste meraviglie di scandali (e talvolta di terrore, come quando un notissimo settimanale francese ha sospettato che la vostra Accademia fosse infiltrata dal KGB) e la loro eco sui giornali ma spero che nessuno vi colga dello spirito satirico o maligno o di facile trionfo. Il fatto è che queste proteste, questa indignazione, addirittura questo terrore, sono come un confronto diretto allestito dentro il regno della letteratura in nome delle forze della conservazione contro quelle che non voglio chiamare di “progresso” (parola destituita di significato in relazione all’arte) ma in ogni caso di “movimento”. E così vorrei dare risalto al divorzio abbrutito, e ancor più aggravatosi, tra arte viva e grande pubblico, il quale è tenuto timidamente nelle retrovie da tutti quei poteri terrorizzati dal cambiamento. (…)
Infatti molti hanno rimproverato ai miei romanzi di non rispettare la tradizione, di non avere né capo né coda (così dicono), cosa perfettamente corretta. Qui vorrei considerare due aggettivi ritenuti diffamatori e che sono sempre associati naturalmente tra di loro o – potremmo dire – associati in quanto correlati. Aggettivi che servono a illustrare la natura del mio problema; le mie opere sono insomma denunciate come frutto di un “lavoro” su di esse e perciò necessariamente in quanto “artificiali”. (…)
Tutti questi signori critici dimenticano che il linguaggio parlato dai maggiori scrittori e musicisti dei secoli passati, prima durante e dopo il Rinascimento – molti dei quali trattati come servi di famiglia agli ordini altrui – era un gergo artigianale. Ci si riferiva ai frutti del loro lavoro, e penso a Bach, a Poussin, come a opere eseguite nel modo più elaborato e coscienzioso possibile. Purtroppo devo riferirvi che oggi, per certe scuole di critici, la stessa nozione di lavoro, o di opera, andrebbe messa in discredito, in modo che se trovate uno scrittore che trovi difficile scrivere siete davanti a una situazione spaventosa. Forse dovremmo insistere su questo fatto perché apre visuali su orizzonti più vasti di quelli che derivano da un semplice sguardo.
Scrive Marx nel primo capitolo de Il capitale che “il valore d’uso o valore di ogni merce ha valore soltanto in quanto impersona e materializza il lavoro dell’uomo”. E infatti conviene partire da qui. Non sono né filosofo né sociologo, eppure sono colpito dal fatto che durante l’Ottocento, in parallelo allo sviluppo delle macchine e di una feroce industrializzazione, vediamo da un lato lo sviluppo della celeberrima “cattiva coscienza” e dall’altro l’intero concetto di lavoro (malpagato per lavorare le merci) che viene svalutato. In questo modo si nega allo scrittore la virtù dei suoi sforzi, in favore di quel che certa gente chiama “ispirazione” e perciò il nostro scrittore diventa un semplice intermediario, un dicitore di chissà quali cose buone con poteri soprannaturali, e la cosa è tanto affascinante che lo scrittore di un tempo, il servo domestico, l’artigiano coscienzioso, adesso osserva se stesso e si accorge di essere una persona lasciata fuori in cortile. Una persona negata. Al massimo diventa un copista, traduttore di libri già scritti da qualche altra parte, una sorta di macchina per decifrare il cui lavoro è consegnare, in un linguaggio piano, messaggi dettatigli da un misterioso “altrove”.
La strategia, allo stesso tempo elitista e nichilista, è evidente. Onorato dal suo ruolo di Pitonessa inebriata, o di altro genere di oracolo, precisamente perché ormai non è più nulla, lo scrittore adesso nondimeno appartiene a una casta esclusiva alla quale d’ora in avanti non è pensabile accedere sulla base del proprio merito o lavoro. Al contrario, il lavoro è considerato, come un tempo usava fare l’aristocrazia, come qualcosa di infame e degradante. D’adesso in poi l’opera d’arte sarà giudicata per mezzo di una parola presa a prestito, in modo abbastanza naturale, dalla religione: si chiama “grazia”, quella grazia divina che come tutti sappiamo non c’è virtù o sacrificio di sé in grado di raggiungere. (…)
In grazia di questa conoscenza (Cos’hai da dirci? soleva dire Sartre, chiedendo che conoscenza uno possedesse), lo scrittore diviene depositario o conservatore, qualcuno che, ancor prima di prender carta e penna, possiede in sé una conoscenza rifiutata agli altri mortali. Questo significa che lo scrittore si vede assegnata la missione di insegnare tutto ciò alla gente in modo che il romanzo, è abbastanza logico, diventa imagistico nella forma, nello stesso modo in cui l’istruzione religiosa è operata per mezzo di parabole e fiabe. Si abolisce la vera persona dello scrittore (è suo compito cancellarsi dietro ai personaggi) e così anche l’opera-prodotto, il pezzo scritto. “Lo stile migliore è quello che non si nota” siamo ormai abituati a dire ricordandoci della formula di qualcuno [Stendhal] che voleva che il romanzo non fosse altro che “uno specchio che cammina ai margini di una strada”: superficie piatta e uniforme, senza alcuna asperità e dietro il suo piatto di metallo lucidato null’altro che queste immagini virtuali che lo scrittore, indifferente e oggettivo, piazza una dietro l’altra. In altre parole, “il mondo come se non ci fossi io a darli una lingua”, per usare la formula ironica di Baudelaire nel definire il realismo.
“Hanno dato il Nobel a Claude Simon per confermare la diceria che il romanzo è finalmente morto?” si chiede qualche critico. Quel che gli è sfuggito è che il “romanzo”, il modello letterario stabilitosi nell’Ottocento, è chiaramente morto, e non importa quante copie di racconti di avventura, amorevoli o terrificanti, coi loro finali felici o disperati, sono comprate e vendute alle stazioni ferroviarie e in altri luoghi consimili. E per lungo tempo si continuerà a venderli, perché portano titoli che annunciano tali verità rivelate: La condizione umana, La speranza [Malraux] e I cammini della libertà [Sartre]. (…)
Invece io quando arrivo davanti al foglio scopro che chi scrive, o descrive, lo fa senza che sia successo nulla prima di allora, non c’è proprio nessuna teoria. È lui che produce, nel senso preciso del termine, dentro il suo proprio presente. È il risultato, non il confliggere, tra il vago progetto iniziale e il linguaggio, è la loro simbiosi così che, almeno nel mio caso, il risultato è decisamente più ricco di qualsiasi intenzione.
Stendhal ha subito questo fenomeno del presente letterario solo nella sua Vita di Henry Brulard [opera finale inconclusa] mentre descrive l’Armata d’Italia che valica il Gran San Bernardo. Mentre è lì a cercare una veridicità possibile, dice, si rende conto all’improvviso che forse sta descrivendo non tanto quell’evento ma un’incisione vista solo in seguito. “L’incisione aveva preso il posto, per me, della realtà” scrive Stendhal. Avesse meditato un poco più a lungo avrebbe intuito che tutti sappiamo immaginarci gli oggetti di un’incisione, fucili carri merci cavalli ghiacciai rocce ecc. ma l’enumerazione riempie molte pagine mentre quella di Stendhal sta in una pagina sola. Avrebbe capito che non si trattava nemmeno di un’incisione ma di un’immagine che si stava formando dentro di lui e che stava prendendo il posto dell’incisione che lui credeva di star descrivendo.
Più o meno consapevolmente, come risultato delle imperfezioni, prima della sua percezione e poi della sua memoria, l’autore non solo seleziona soggettivamente, sceglie ed elimina ma valorizza pochi tra le centinaia di migliaia di elementi sulla scena: e improvvisamente siamo ben lontani dallo specchio che cammina lungo il margine della strada. (…)
A volte la gente parla, in modo volubile ed ex cathedra, della funzione dello scrittore e dei suoi doveri. Anni fa, usando una formula che contiene in sé una contraddizione, certuni dissero, in modo abbastanza demagogico, che “un libro vale nulla se paragonato alla morte di un piccolo bambino del Biafra”. Ma cos’è questa morte, diversa da quella di una scimmia, perché è uno scandalo insopportabile? Perché il bambino è un infante umano col dono dell’intelligenza, di una coscienza (per quanto embrionale) che, se sopravvive, sarà un giorno capace di pensare e parlare delle sue sofferenze e di leggere della sofferenza altrui e farsene commuovere e, con un tocco di fortuna, potrà scriverne.
Prima che finesse il secolo dei Lumi, prima che fosse forgiato il mito del “realismo”, Novalis enunciò con scioccante lucidità questo paradosso. Paradossale in apparenza. “Col linguaggio è come con le formule matematiche: entrambi contengono una parola sua propria che sta sola per conto suo. Il loro gioco è esclusivo ed interno, non esprime altro che ciò che sta dentro la parola, e precisamente il gioco reciproco degli oggetti che vengono così singolarmente riflessi”.
È in questo gioco reciproco che forse si riesce a concepire il coinvolgimento dentro l’atto di scrivere che, con tutta modestia, contribuisce a cambiare il mondo ogni volta che si cambia il modo in cui un uomo, anche al grado minimo, si riferisce al mondo in termini di linguaggio. Non c’è dubbio che il sentiero su cui ci incamminiamo sarà ben diverso da quello dei romanzieri che, incominciando dall’“inizio”, raggiungono la “fine”. Questo modo che dico costa all’esploratore di terre misteriose tanti dolori (perdersi, ritornare sui suoi passi, guidato o deviato da somiglianze tra posti diversi, dagli aspetti diversi degli stessi posti) e il nostro uomo dovrà sempre fare delle verifiche, passare da incroci già attraversati. Quanto alla fine dell’indagine: verterà sul “presente” di immagini ed emozioni che non sono più vicine o più distanti tra loro che a qualche altra immagine ed emozione (e ci saranno parole in grado di usare un potere prodigioso per accostare e giustapporre gli oggetti che altrimenti rimarrebbero disgiunti all’interno del nostro tempo e spazi misurati da unità scientifiche). La fine del viaggio potrebbe avvenire quando il nostro viaggiatore torna al punto di partenza più ricco per aver notato certe direzioni, per aver scoperto alcuni attraversamenti e per essersi addentrato, con ostinazione, dentro certi particolari senza menar vanto di cose che non conosce ancora. Si potrebbe anche farlo tornare a quel “buon senso comune” che tutti dobbiamo far mostra di riconoscere perché ne siamo parte.
Lungo questo sentiero non c’è altra fine che l’esaurimento delle energie di colui che, esplorando questo territorio infinito mentre lo percorre, contempla la mappa incerta che ha tracciato durante la sua marcia, mai abbastanza sicuro di aver fatto del suo meglio nel seguire certi entusiasmi, nell’obbedire a certi impulsi. Nulla è sicuro, né ci sono altre garanzie di quelle di cui disponeva Flaubert e, prima di lui, Novalis: c’è una musica, un’armonia che ci farà sicuri. Mentre la ricerca, lo scrittore svolge il suo progresso laborioso. Seguendo il suo sentiero come se fosse cieco, intoppa in cul-de-sac, si impantana e ne riesce. Se cerchiamo a tutti i costi un fine edificante nei suoi sforzi, potremmo dire che basta osservarlo mentre avanza, come noi, sulla sabbia che scivola sotto i piedi.
Grazie per la vostra attenzione.
Claude Simon
*traduzione di Andrea Bianchi
L'articolo “Hanno dato il Nobel a Claude Simon per confermare la diceria che il romanzo è finalmente morto?”. Uno scrittore di genio che stava sulle scatole a tutti: troppo complicato, antipatico, poco allineato proviene da Pangea.
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PRESENTAZIONE DEL LIBRO ECOLOGIE DELLA CURA A ESC ATELIER Con Federica Giardini e Beatrice Gusmano
Venerdì 17 febbraio, H 18:30, Esc Atelier Autogestito
Recensione su DINAMOPRESS di Tania Rispoli
Artwork di faida.acquifera 🌿
Siamo felici di presentare Ecologie della cura, il volume a più voci curato da Maddalena Fragnito e Miriam Tola ed edito da Orthotes.Prendersi cura è un lavoro svalutato, invisibile, non remunerato o malpagato, svolto soprattutto da donne e persone razzializzate. Allo stesso tempo, è una relazione che sostiene corpi, spazi ed ecologie non umane."Quali relazioni sociali ed ecologiche vale la pena rigenerare e quali invece devono essere disfatte per trasformare le condizioni della vita in comune? Quali cure generano altri mondi? Se la cura è pratica necessaria di cui non si può fare a meno, all’analisi delle asimmetrie è necessario accompagnare strumenti e conflitti in grado di reimmaginarne le forme politiche, etiche ed estetiche."Parleremo di cura e riproduzione sociale ed ecologica, delle pratiche di mutuo aiuto, di self-care antirazzista, delle reti queer e trans che contestano le esclusioni e i privilegi prodotti dalle forme egemoniche della cura. Per esplorare insieme le ambiguità e i paradossi della cura e per riorientarla nel tempo che ci attende.
Ne discutiamo con le curatrici del libro e con:
Federica Giardini, filosofa, Università Roma Tre Beatrice Gusmano, sociologa e attivista, Università di Parma
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Leonardo, la cura "Profumo" ha funzionato: utile in aumento dell'83 per cento
Il gruppo guidato da Profumo ha chiuso con un utile in aumento dell’83 per cento rispetto all’anno precedente, a quota 510 milioni di euro con una crescita del 4,3%, attestandosi a quota 12,24 miliardi di euro, grazie soprattutto all’andamento dell’Elettronica, Difesa e Sistemi di Sicurezza e agli Elicotteri. “Il 2018 ha rappresentato un importante passo in avanti nell’esecuzione del Piano Industriale: abbiamo intrapreso le azioni necessarie e mantenuto le promesse; abbiamo raggiunto i target e superato la Guidance – ha commentato l’amministratore delegato Alessandro Profumo. Continuiamo ad essere fiduciosi sul raggiungimento di tutti gli obiettivi del piano industriale: crescita della top line insieme al rigoroso controllo dei costi, per una redditività di Gruppo a doppia cifra ed una importante generazione di cassa dal 2020. Nei prossimi anni vogliamo accelerare ulteriormente il percorso avviato per la crescita sostenibile”. Fabio Tamburini su Il Sole24Ore ha intervistato l’amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo. Una nuova Europa è possibile? Sono un inguaribile ottimista e continuo a ritenere la sfida europea fondamentale. Certo occorrono dei cambiamenti ma, alla fine, la strada verrà trovata e nella difesa permetterà di costruire un percorso razionale che consentirà di spendere nel modo migliore i soldi dei cittadini. Le alleanze con francesi, tedeschi e inglesi rischiano di saltare? È vero il contrario e lo confermano due esempi. Il programma anglo-italiano Tempest e quello franco-tedesco, entrambi nei caccia, auspico possano convergere. Ugualmente, nei carri armati, Leonardo ha le carte in regola per affiancarsi al progetto avviato da Germania e Francia. I progetti con la Cina per un nuovo aereo mettono in discussione il rapporto storico con Boeing? Non vedo problemi particolari perché il dialogo con gli americani è continuo. Nel caso le buone relazioni con Boeing sono la priorità. Il portafoglio ordini è in linea con il piano? A inizio anno avevamo dato una previsione per il 2018 di 12,5-13 miliardi di euro. Poi, a luglio, l'abbiamo portata a 14-14,5 miliardi. Oggi il consuntivo è stato di 15,1 miliardi. La struttura dedicata costruita per rilanciare il mercato internazionale ha lavorato bene. C'è chi sostiene che numeri traggono beneficio da poche, grandi commesse in Qatar, Kuwait, Stati Uniti. È così? Tutte le grandi aziende vivono anche di grandi ordini, che sono motivo di soddisfazione e orgoglio. I contratti con il Qatar, in particolare, valgono 3 miliardi e gli Stati Uniti rappresentano il 28% del giro d'affari complessivo, ottenuto però sommando operazioni piuttosto frazionate. State partecipando a gare per altre commesse d'impatto così elevato? Replicare questi contratti è difficile. Negli elicotteri l'ordine del Qatar è stato il più elevato nella storia aziendale. Le tensioni in Europa vi stanno creando difficoltà? Tutte sono ampiamente superabili. Nella mia vita manageriale precedente, in Unicredit, ho sempre puntato su operazioni transnazionali. E anche qui lo sto facendo. Tra i vari Paesi ci sono visioni diverse ma, alla fine, è interesse comune costruire una strategia unica. Nella difesa è condizione necessaria per ottenere risultati migliori e competitivi nel mondo. L'asse tra Parigi e Berlino sulla difesa integrata europea rischia di isolare l'Italia e svantaggiare anche voi? Allo stato no anche se occorre che l'Italia abbia politiche attive sia con Francia e Germania, sia con Regno Unito e Spagna. Non solo. Vanno costruiti sistemi di alleanza con i Paesi del centro Europa. Francia e Germania stanno studiando il nuovo carro armato europeo. Leonardo è tagliata fuori? Non è stato ancora deciso a chi affidare il progetto, un progetto importante. Noi abbiamo competenza nell'elettronica e nei carri armati con Oto Melara. Vedremo. Nel Regno Unito state partecipando ai lavori per un nuovo caccia inglese, il Tempest. Contemporaneamente francesi e tedeschi hanno un'alternativa: l'Fcas. Cosa farà Leonardo? Come potrà contare considerando che lo Stato italiano non ha previsto alcun fondo per il progetto? Tempest verrà aperto alla partecipazione di altri Paesi. Auspico la convergenza con francesi e tedeschi. La trasferta negli Stati Uniti del sottosegretario alla presidenza del consiglio, Giancarlo Giorgetti, è stato utile a Leonardo? Si, nel mercato della difesa è decisivo dare visibilità e supporto al sistema Paese. Dal canto nostro Leonardo è uno strumento importante di politica internazionale. L'americana Drs si è confermata difficile da integrare nel gruppo. Avete deciso di metterla in vendita? Tutt'altro. Drs ci permette di partecipare ai programmi classificati, per cui occorre dare garanzie particolari. In un mercato, quello degli Stati Uniti, che per noi rappresenta il 28 per cento del fatturato complessivo. L'azienda è stata interamente ristrutturata e oggi va verso una redditività a due cifre. Non so se è stata in dismissione. Dopo il mio arrivo sicuramente no perché ci ho creduto fin dall'inizio. Gli elicotteri sono un punto di forza del gruppo. Pensate a concentrazioni con altri oppure ad acquisizioni? Già oggi siamo leader negli elicotteri per utilizzi civili. Continueremo a crescere ma per linee interne, finanziando progetti che possono dare soddisfazioni adeguate. Un esempio è il modello Aw609, un oggetto fantastico. Il decollo resta verticale ma viaggia in orizzontale come un aereo, al di sopra delle nuvole, a velocità doppia degli elicotteri. In futuro gli elicotteri potranno incrociarsi con i droni? Assolutamente sì. Già oggi disponiamo di due modelli a guida remota. In più la divisione elicotteri sta cominciando a ragionare su un altro progetto affascinante: l'automobile a decollo verticale. I droni sono il futuro. E Leonardo partecipa al programma europeo con Germania, Francia, Spagna. Verrà coinvolta anche Piaggio aerospace che ha un progetto importante e di cui Leonardo è creditore per circa 115 milioni? Il credito è una partita totalmente separata. Quanto pesa sul bilancio del gruppo? Nulla, perché il credito è stato totalmente svalutato. A noi, peraltro, di Piaggio aerospace interessa la parte manutenzione motori, che occupa il 40% circa dei dipendenti ed è fondamentale per l'aeronautica militare italiana. I rapporti con Boeing sono molto forti, soprattutto negli elicotteri. Prevede ripercussioni dall'incidente in Etiopia? Nessuna. Boeing è e resterà partner fondamentale. È un'azienda da cui abbiamo imparato moltissimo. L'ultimo esempio è il programma che ha messo a punto per migliorare la qualità dei fornitori. Noi, classificati da loro come il fornitore migliore, stiamo cercando di replicarlo con i nostri fornitori. Con quali risultati? Significativi, anche per quanto riguarda i risparmi sui costi. Quanto avete tagliato finora? Almeno 200 milioni e senza strizzare i fornitori, ma imparando insieme a lavorare meglio. Nell'aeronautica commerciale Leonardo resterà legata più a Boeing che all'Airbus? Siamo uno dei pochi produttori europei che lavorano con entrambi e continueremo a farlo. Aggiungo che, non ponendo limiti alla Provvidenza, sono convinto che arriveremo perfino a migliorare le posizioni. I vostri progetti in Cina per il nuovo aereo di Comac(Cer-929) non risultano particolarmente graditi agli americani. Con quali conseguenze? Escludo ogni conflittualità con Boeing che per noi resta partner chiave ma, per la verità, non vedo problemi particolari. La sconfitta nella gara americana per gli aerei addestratori riduce le prospettive per l'M-346? Gli ordini per questo velivolo scarseggiano? Non abbiamo vinto, ma ottenuto soddisfazioni adeguate che ci lasciano ben sperare. La gara prevedeva due componenti: la qualità e il prezzo. Sul primo fronte ci siamo piazzati allo stesso livello di Boeing. Poi, sotto certi valori non potevamo andare perché avrebbe significato generare perdite significative. L'M-346 è un velivolo da addestramento per piloti militari eccellente e ci stiamo organizzando, insieme all'aeronautica militare italiana, una delle migliori al mondo, per vendere anche servizi di addestramento come Ifts (International flight training school), in Italia. Un progetto in cui crediamo molto. Sono possibili, e a quali condizioni, accordi più stretti con Fincantieri? Fincantieri, che ha fatto un percorso eccezionale di crescita, produce navi. Noi facciamo un lavoro diverso. Grazie all'accordo su Orizzonti sistemi navali abbiamo compiuto un grandissimo passo avanti, ma resteremo due aziende separate che si muovono in collaborazione. Come sta procedendo la trattativa con la francese Naval per una joint venture nei siluri leggeri? Il percorso è molto chiaro anche se, in questo momento, siamo in attesa degli esiti del confronto interno al mondo francese sulle scelte nella sensoristica. Poi vedremo. Conferma che resterete fuori dal salvataggio Alitalia? Non vedo alcun significato strategico che giustifichi un eventuale investimento. Le piace di più la produzione del gruppo nella difesa oppure nel civile? Le due attività sono inscindibili. Sia perché le tecnologie del militare sono decisive per l'evoluzione dell'industria civile, sia perché la redditività della difesa serve a finanziare il resto. Leonardo è molto diversificata. Sono previste altre razionalizzazioni? Il portafoglio, ricco e ben strutturato, ha come focus tre attività: elicotteri, velivoli, elettronica per la difesa. Continueremo così. Certo, nel tempo, dovremo capire come rafforzarci ancora di più. Le altre aziende mondiali del settore sono almeno il doppio di Leonardo. Come pensa di affrontare la concorrenza di Airbus, Lockheed Martin, Thales? Il fattore dimensione è fondamentale nei singoli settori, non considerando la holding. E nei singoli settori abbiamo leadership mondiali. Dalla maxi privatizzazione di Finmeccanica nel giugno 2000 il titolo ha perso oltre il 68 per cento. Quando lei ha assunto l'incarico nel maggio 2017 quotava 15,52 euro mentre oggi è a 8,648 euro, con una perdita superiore al 40 per cento. Gli azionisti hanno qualche speranza? Ho comprato 100 mila azioni a 9,73 euro e sono assolutamente convinto di avere fatto un buon investimento. Stiamo lavorando per fare quanto il mercato si aspetta: evitare sorprese negative e generare un significatívo ammontare di cassa. Io ci credo. Il management del gruppo è cambiato profondamente. Rifarebbe uno spoiling system così radicale? Penso di avere fatto il bene degli azionisti valorizzando dirigenti interni ed esterni al gruppo come Bill Lynn (alla guida di Leonardo Drs), Gian Piero Cutillo (elicotteri), Valerio Cioffi (velivoli). Lorenzo Mariani (area commerciale), Raffaella Luglini (relazioni esterne), Simonetta Iarlori (risorse umane). Tutti, tranne una, non li conoscevo. In alcuni casi hanno pensato che fossi un po' matto, ma i risultati mi stanno dando ragione. Lei, appena nominato, ha giudicato positivo lo smantellamento delle società prodotto deciso dal predecessore e la trasformazione in semplici divisioni della holding. È ancora della stessa opinione? Assolutamente sì perché mettere a fattor comune funzioni di supporto ha permesso di dare valore aggiunto alle diverse attività per fare meglio. Oggi, dopo avere dato sostanza alla holding, abbiamo creato una grande matrice concentrando l'area commerciale, rapporto con i fornitori, comunicazione, governance. Il vertice del gruppo è cambiato molto negli ultimi anni. Non si rischia l'instabilità? Una struttura manageriale deve muoversi con orizzonte a lungo termine ed è esattamente quello che stiamo facendo. Qui lavoriamo pensando Leonardo tra gli anni. Tocca ad altri soggetti decidere le nomine al vertice. Le scelte vengono fatte dagli azionisti. Uno dei principali competitor, la francese Thales, ha centrato la propria strategia sul digitale. Condivide tale scelta? Lo farà anche Leonardo? Tutta la nostra attività è centrata sul digitale. Forse non pubblicizziamo programmi specifici, ma il digitale è la base di ogni iniziativa. A quanto pare la cura Profumo ha fatto davvero bene a Leonardo. L’auspicio è, però, che a livello europeo si realizzino davvero progetti inclusivi per poter competere con i colossi mondiali. La strada è quella della partnership italo-francese Fincantieri-Stx France. La tendenza di lavorare su progetti comuni ma distanti come il Fcas e il Tempest non sono incoraggianti per far germogliare l’idea di una comune politica industriale di Difesa Europea. Read the full article
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Videoblog: #illavorosiamonoi: e se viene svalutato anche noi veniamo svalutati!
Videoblog: #illavorosiamonoi: e se viene svalutato anche noi veniamo svalutati!
Dobbiamo opporci alla menzogna di chi dice che gli immigrati fanno il lavoro umiliante che gli italiani non vogliono fare.
In realtà, non esiste lavoro umiliante: esistono lavori non etici e lavori necessari fatti in condizioni umilianti per far guadagnare imprenditori non etici.
Dobbiamo opporci.
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https://youtu.be/Hhhq_7WwNu8
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