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Casting Moonshadows - Terzo capitolo della traduzione in Italiano pubblicato!
Link per Casting Moonshadows in Italiano: https://www.fanfiction.net/s/13064411/1/Casting-Moonshadows-Traduzione
Link per l'originale Casting Moonshadows: https://www.fanfiction.net/s/3378356/1/Casting-Moonshadows
Ricordo che non possiedo la fanfiction, ma che tutti i diritti sono riservati all'autrice, Moonsign.
Casting Moonshadows - Third Chapter translated in Italian and published!
Link for the translated version in Italian: https://www.fanfiction.net/s/13064411/1/Casting-Moonshadows-Traduzione
Link for the original story in English: https://www.fanfiction.net/s/3378356/1/Casting-Moonshadows
I want to remind you that I don't own the fanfiction, but that it is written by the amazing Moonsign.
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Poeti in Campania: intervista a Mario Fresa
Il poeta campano che andiamo ad intervistare è Mario Fresa (Salerno, 1973). Ha compiuto gli studi classici e musicali e si è laureato in Letteratura italiana. Sue poesie sono state pubblicate su riviste italiane, francesi e internazionali: «Paragone», «Caffè Michelangiolo», «Nuovi Argomenti», «Almanacco dello Specchio», «Recours au Poème», «L’area di Broca», «Gradiva» «Quadernario», «Palazzo Sanvitale», «La clessidra», «Semicerchio», «Portique». È presente in varie antologie, pubblicate sia in Italia sia all'estero, da Nuovissima poesia italiana (Mondadori, 2004) alla recente Veintidós poetas para un nuevo milenio, numero monografico della rivista spagnola «Zibaldone. Estudios italianos» (Università di Valencia, 2017). È del 2002 il prosimetro Liaison, con la prefazione di Maurizio Cucchi (edizioni Plectica; Premio Giuseppe Giusti Opera Prima, Terna Premio Internazionale Gatto); seguono, tra le altre pubblicazioni di poesia, il trittico Costellazione urbana (Mondadori, «Almanacco dello Specchio», n. 4, 2008); Luci provvisorie (una triade di poemetti apparsa nel n. 45 di «Nuovi Argomenti», Mondadori, 2009); Uno stupore quieto (Stampa2009, a cura di Maurizio Cucchi, 2012; menzione speciale al Premio Internazionale di Letteratura Città di Como); La tortura per mezzo delle rose (nel sedicesimo volume di «Smerilliana», 2014, con un’analisi critica di Valeria Di Felice); Teoria della seduzione (Accademia di Belle Arti di Urbino, con disegni di Mattia Caruso, 2015); Svenimenti a distanza (prefazione di Eugenio Lucrezi; Il Melangolo, 2018).Tra i suoi libri di saggistica, Il grido del vetraio (Nuova Frontiera, 2005); Le tentazioni di Marsia (Nuova Frontiera, 2006) e La poesia e la carne (La Vita Felice, 2008): tre volumi scritti in collaborazione con il filosofo Tiziano Salari; Come da un’altra riva. Un’interpretazione del Don Juan aux enfers di Baudelaire (Marco Saya, 2014); Le parole viventi. Modelli di ricerca nella poesia italiana contemporanea (La Recherche, 2017); Alfabeto Baudelaire (saggio e scelta di traduzioni, EDB, 2017). Mario Fresa ha dedicato una specifica attenzione all’attività traslatoria, in particolare nell’ambito poetico, traducendo dal greco moderno (Sarandaris), dal latino classico e medievale (Catullo, Marziale, Seneca, Bernardo di Chiaravalle) e dal francese (Baudelaire, Rimbaud, Musset, Desnos, Apollinaire, Frénaud, Char, Cendrars, Queneau, Duprey). Ha ricevuto, tra gli altri, il Premio Franco Fortini per la saggistica (2011) e, ad honorem, nel 2017, il Premio Internazionale Prata per la critica letteraria. Come ti sei avvicinato alla poesia? Nel periodo dei miei studi musicali, a vent’anni, traducevo i testi dei maggiori liederisti e di alcuni libretti del teatro d’opera (m’interessavano, soprattutto, i principali Singspiele del Sette-Ottocento: quelli scritti da Schikaneder/Giesecke, Kind, Treitschke…); di questi ultimi approntavo anche ingegnose traduzioni isometriche. Continuai a coltivare l’arte della traduzione e passai alla poesia francese dell’Otto-Novecento. Poi, a poco a poco, grazie a questo magnifico, quasi quotidiano contatto a corpo a corpo con la musica e con la poesia, iniziai a scrivere versi in modo autonomo. Nel gennaio del 1999 pubblicai la mia prima poesia, intitolata La sabbia e gli angeli. Era un omaggio a mio padre. Maurizio Cucchi la fece uscire sul settimanale «Specchio della Stampa». C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti dato, che so, dei consigli di come muoverti nel tuo percorso artistico? I consigli più importanti li ho ricevuti dalla lettura e dallo studio diretto dei poeti, in ispecie del secondo Novecento. Che cosa cerchi attraverso la poesia? Qual è il tuo intento? L’ambizione è quella di dare vita, per il tramite di un piccolo inferno linguistico, a uno spazio difficile, impercorribile (diresti: a un buco nero) che conduca a una sorta di interdizione dell’utilitilarismo economicistico della parola. L’intento è quello di creare la proiezione di un abbandono provvisorio che permetta, infine, l’emersione, più oggettiva che soggettiva (e perturbante, più che ricompositiva) di quella dimensione psichica sepolta che il pensiero junghiano definisce ombra. Ma lo scopo è anche un altro; ed è di natura anarchica, perché fondata su di una salutare disobbedienza luciferina che sempre io desidero attribuire alla parola. In tale prospettiva disturbante e ribelle, lo stesso linguaggio impara finalmente a combattere e a corrodere i propri interni e subdoli scopi mercificanti. Così, le nuove immagini proposte, sempre alterate/alteranti, minano la sicurezza reazionaria della comunicazione tradizionale e opportunistica, in modo da offrire un messaggio di trasvalutazione dei valori espressivi “comuni” e di costante opposizione nei riguardi della rassicurante comunicabilità dell’uomo “filisteo” (asservito ai poteri e alle ipocrisie del linguaggio sociale). La tua scrittura segue delle linee o delle correnti culturali specifiche? Lo studio del saggio Totem Art di Wolfgang Robert Paalen mi ha molto influenzato e ispirato. Quali programmi hai in cantiere? Ho finito da pochi mesi (dopo sette anni di lavoro!) di curare un Dizionario della poesia italiana del secondo Novecento (dal 1945 a oggi), la cui pubblicazione è imminente. Sto lavorando anche ad altri quattro o cinque libri che forse, se Arimane vuole, saranno presto pubblicati. Come vivi la cultura, la poesia, nella tua città, nella tua vita? Trovi difficoltà e quali? Ho organizzato, nei tempi passati, molti incontri letterari nella mia città. Adesso sono stufo. Intanto, mancano gli spazi. Qualche anno fa, a Salerno, c’erano decine di librerie. Ora si contano sulle dita di una sola mano. Si moltiplicano i ristoranti, però. Lo sappiamo bene: riempire la pancia è meno faticoso di pensare. Hai mai partecipato a premi letterari? Che opinione hai di essi? Ho molti bei ricordi dei Premi che mi sono stati assegnati. Cito il più caro: nel 2004 ricevetti il Premio Capoverso organizzato da Carlo Cipparrone e dal giovane editore Antonio Alimena. In quell’occasione felice, conobbi il filosofo e poeta Tiziano Salari. Diventammo, a distanza, due “amici stellari”, come dice Nietzsche. Scrivemmo tre libri insieme e fondammo anche una collana editoriale di ispirazione hölderliniana, “Il vulcano e la rosa”. Oggi, con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato politicamente o a risorse economiche, e le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Per non parlare poi della poesia che, seppur prolificante, è rinchiusa in “cripte” elitarie. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, e se sì, per quali motivi? Non ho mai avuto alcuna difficoltà nel pubblicare. Il prossimo libro di poesie, in uscita quest’anno, è nato in occasione di un invito che mi è stato rivolto da un editor di rara competenza. Certo, la poesia e gli stessi poeti sono rinchiusi in “cripte”, come tu dici. Il termine, tristemente funebre, è opportuno. Se chiedi a una persona di media cultura di citare il nome di un poeta italiano contemporaneo, sta’ sicuro che la risposta sarà il silenzio assoluto. Se dovessi paragonare la tua poesia ad un poeta famoso, a chi la paragoneresti? Quale affinità elettive ci trovi con la tua poesia? Ma no, non è possibile. Mi ripeto continuamente, insieme con Gozzano: «Ed io non voglio più essere io». Però non voglio essere nemmeno un altro al quale paragonarmi. Avere un io è già una piccola sciagura. L’attività dell’avere la lascio ai commercianti. Meglio essere che avere. Meglio ancora non essere che essere. La soddisfazione maggiore – se c’è stata – che hai raccolto nel mondo letterario? Soddisfazioni? Quelle le ho soltanto quando dormo un sonno senza sogni. Cosa pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea e perché? I libri digitali? Sono utili. Ma non necessari. Qual è il tuo rapporto con la politica? Prego Arimane o Farfarello o Malacoda che mi facciano stare lontano le mille miglia dal fetore etico ed estetico dei nostri governanti. La realtà politica dei tempi correnti è davvero orrenda. Ma la data di origine del disastro è lontana: mi riferisco al 1861, anno di nascita di quella che si soprannominò, in modo più che giusto, Terza Italia o Italietta. Questa Italia fintamente unita fu consegnata con la massima violenza agli orribili Savoia e, da allora, non si è mai più ripresa; ché la sua catabasi – lo si vede con molta chiarezza – è inarrestabile. Siamo passati, in questi anni, dalla volgarità furfantesca del berlusconismo al suicidio annunciato della sinistra, scesa sempre più in basso. Ora è la volta (ahinoi) dei leghisti, dei fascisti e dei risorgenti supercattolici difensori dei “valori” (?) della famiglia (ah, se avessero letto o riletto con attenzione i Tragici greci, o Sigmund Freud, essi avrebbero capito che la famiglia è il luogo di origine di ogni tragedia!). La cultura e la scuola sono state affossate. I nostri governanti sono anti-estetici, illetterati e del tutto incapaci di distinguere un Goya da un Velázquez, o una sonata di Haydn da una sonata di Scarlatti, o un verso di Foscolo da un verso di Leopardi. Ricordo ancora, con orrore, i disastri grammaticali di quella signora con i capelli rosso semaforo che fu nominata, alcuni anni fa, Ministro della Pubblica Istruzione. Ora questo Ministero è stato affidato a un ex allenatore di una squadra di basket. E io che mi lamentavo di Francesco De Sanctis o di Giovanni Gentile. Come vivi la quotidianità? Lavoro; scrivo; amo; veglio. Per fortuna, dimentico tutto con molta facilità: nomi, volti, situazioni. Ma ciò che è essenziale non lo cancello dalla memoria: posso ricordare decine e decine di versi di Baudelaire o l’intera partitura di un concerto mozartiano, dalla prima all’ultima nota. Lo spirituale è nell’arte, non nella vita. Oltre alla poesia, di cosa ti occupi? Musica, disegno, pittura. Se potessi cambiare lo stato comatoso in cui vive oggi la nostra società, quali sarebbero le tue soluzioni, le proposte? Il coma di cui parli è dovuto a una scelta precisa di suicidio. La società capitalistica ha trasformato gli uomini in consumatori-consumati. La cultura è stata disarmata e trasformata in merce o in un continuo e deprimente spettacolo di evasione e di distrazione. Sono contrario a qualsiasi ipotesi cristiana di salvazione o di redenzione, per me e per gli altri; perciò, non propongo nessuna ipotesi di soluzione. Se l’Italietta ha scelto l’eutanasia, si accomodi pure. Io, per me, ambisco a ritirarmi nel bosco, siccome il protagonista del bellissimo libro di Ernst Jünger, Der Waldgang. Qual è la tua ultima fatica editoriale? Puoi parlarcene brevemente? L’ultimo libro è Svenimenti a distanza, edito da il melangolo nel 2018. Sberleffo al perbenismo logico e rassicurante del linguaggio borghese, calcolatore, ipocrita, cattolico, tradotto nella forma di un incubo ininterrotto, felicemente (e innocentemente) crudele. Read the full article
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. 🥀 ╱ fashback, chicago. 2015 ; ##ᴛᴏᴏᴍᴜᴄʜᴛᴏʙᴇᴀʀ. 𝗵𝗲𝗿 𝗽𝗼𝗶𝗻𝘁 𝗼𝗳 𝘃𝗶𝗲𝘄 ... Di quel passo avrebbe impresso, in modo permanente, nella propria mente il grottesco diramarsi delle crepe sulla parete che era stata intenta a fissare nel corso delle ultime ore, nella totale perdita della cognizione del tempo. Le mani riposte in grembo non avevano accennato a disfare quella sorta di capanna fatta di membra atta a donare almeno l’illusione di un po’ di conforto oppure - probabilmente la verità era quella - semplicemente poste lì a tenere stretta la presa al fine di evitare che quel vuoto che nasceva al centro del suo ventre si espandesse fino a divorarla viva. Poteva scorgere in quella parete il metaforico e lento sgretolarsi della sua esistenza, nell’accettazione di una sola e cruda realtà: che la sua vita sarebbe stata costellata di perdite ma alcune, proprio come quella, sarebbero avvenute proprio per mano sua ed ella avrebbe dovuto imparare a convivere con esse, con i sensi di colpa, con l’odio che provava nei confronti di se stessa. Un’altra ragione per cui teneva le mani incollate al suo stesso scarno corpo avrebbe potuto essere il terrore di scrutarsi i palmi e scorgere lo scarlatto lucore di un sangue puramente immaginario, appartenente ad una vita ormai spenta che gravava sulla sua coscienza. Era stata tutta colpa sua, della sua immaturità, della sua impulsività e della sua più grande paura - quella di perdere ciò che più amava - quindi aveva agito nel modo che le era parso più ragionevole: facendo sì che un probabile futuro amore non vedesse mai la luce. Quella concezione, però, non era neanche in grado di azzerare la colpevolezza né di metterla a tacere, mentre quella emetteva urla stridule ed agghiaccianti, simili a mille unghie su di una lavagna. Avrebbe perlomeno preferito piangere, riversare quel dolore in brucianti e lenti rivoli, mentre quel vuoto di cui si circondava dava agio alla mente di formulare un dolce e sommesso pulsare in prossimità del basso ventre, prima che esso si spegnesse in un lungo ed eterno silenzio. La morte che prende possesso della vita; l’aveva scorta per la prima volta due anni addietro, nelle calde e scure iridi del suo amato padre, e ora l’avvertiva, pervaderla e consumarla dall’interno del suo stesso corpo, come se portasse proprio la morte in grembo. ( … ) Un lungo bagno nella soffice spuma dal profumo acre dei saponi scadenti di un motel nella periferia di Chicago non erano bastati ad annullare l’odore pungente di disinfettanti che ancora rendeva il ricordo della sua visita in ospedale fresco e recente. Non aveva avuto il coraggio di far ritorno a casa, né di contattare, in qualche modo, Miguel. L’intenzione era quella di sparire dalla vita di chiunque conoscesse il suo volto, per ritirarsi dalle scene di un’esistenza ormai ridotta in frantumi e rifugiarsi, da irrimediabile codarda, da quel dolore che il destino e le sue stesse giovani mani le avevano inflitto. Una nuova fitta si levò dal centro del suo petto, al pensiero che, stavolta, fare una scelta cosciente avrebbe implicato dire addio alla sua sorellina, senza nessun saluto verbale, senza concedersi un ultimo abbraccio; confidava nel fatto che la bambina e sua madre avrebbero trovato il modo di gioire, presto o tardi, nella vita, nonostante la sua dipartita. Quel pensiero fu in grado di farle bruciare gli occhi ed inumidirle le guance. La meta designata, non troppo difficile da raggiungere passando inosservata, sarebbe stata il nord di Chicago, l’altra faccia di una città che avrebbe semplicemente potuto sparire; non avrebbe, per lei, fatto più alcuna differenza. __________________________ 𝗵𝗶𝘀 𝗽𝗼𝗶𝗻𝘁 𝗼𝗳 𝘃𝗶𝗲𝘄 ... « Sto cercando Nerea Rivera. » Le livide tracce di una notte insonne contornavano gli occhi d’ebano di Miguel Rodriguez, dando al suo normale colorito caramellato una tonalità smorta, scavando ombre grottesche cariche di apprensione. La donna dalla pelle di porcellana striata di premature rughe seduta alla scrivania della reception dell'ospedale parve soppesare la richiesta, intenta a battere sonoramente i tasti di una grossa tastiera, dunque levò su di lui lo sguardo, scrutando quei lineamenti con professionale curiosità. « Lei è un parente? » « Sono il suo ragazzo. » Ed era, con molta probabilità, la prima volta che si attribuiva quell’appellativo, in quanto la relazione condivisa nel corso degli ultimi due anni non aveva mai ottenuto definizione alcuna. Con altrettanta probabilità - a sentire la bocca dello stomaco stretta nella morsa di un pessimo presentimento - sarebbe stata anche l’ultima. Tuttavia, la donna parve farsi bastare la replica, e rivolse lo sguardo allo schermo di un computer. « La signorina Rivera è stata dimessa stamattina in perfetta salute, dopo alcuni controlli. » Recitò, traducendo le informazioni che le suggeriva quella luminosa scatola, e scandì le parole in un modo così chiaro che persino la di lui evidente stanchezza non ebbe modo di trovare, in esse, qualcosa di incomprensibile. Tuttavia, era la sua mente a rifiutarsi categoricamente di accettare il pensiero di essersela lasciata sfuggire. « Comprendo e, senta … Non ho avuto modo di parlare con lei, ma volevo accertarmi delle sue condizioni. Vede, c’era la probabilità di una gravidanza in corso e volevo ... » Ma le sue parole si spensero al sorgere di un nuovo sguardo riflesso nelle iridi acquose della receptionist che, nuovamente, rivolse a lui l'attenzione: compassione. « Sono spiacente della perdita. » Replicò soltanto, accompagnando quei verbi con un gentile e veemente annuire. Un senso di tumultuosa nausea nacque laddove la morsa aveva tenuto a bada le sue viscere; tutto ciò che seppe, era che avrebbe voluto urlare a squarciagola e maledirsi per avere avuto tra le mani tutto ciò che avesse mai amato ed averlo fatto a pezzi. Seppe anche che, così come aveva sempre ironicamente associato la personalità della giovane Rivera a quella di un felino, quest’ultima, proprio come un esemplare di mammifero in questione, prendeva le distanze in stato di sofferenza; era andata via e lui non l’avrebbe rincorsa, non se farlo le avrebbe arrecato ulteriore danno. Ricordò le parole della di lei matrigna e fu chiaro cosa ella intendesse nel ridurla a pezzi: egli aveva adempiuto al di lei volere e di Nerea non restava che il ricordo. Avrebbe, pertanto, mentito, come il cacciatore mentì alla Regina nell’affermare che Biancaneve era morta. Stavolta avrebbe agito per il bene di lei, affinché si salvasse, trovasse il modo di essere felice, prima che quel peso gravasse sul di lui colpevole cuore come un macigno, troppo pesante da sopportare. ��� .
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“Come un tempo, il poeta deve dare la sua vita in dono alla Bellezza”. Audace, frivola, ribelle: Edna St. Vincent Millay
Dopo la preghiera del mattino, che scongiura la corsa dei cani dell’alba, faccio zapping leggendo i giornali di questo e altri mondi. Arrivo a “El País”, m’incuriosisce l’articolo di Andrea Aguilar. Titolo: “Il ritorno dell’indomita Edna St. Vincent Millay, la poetessa dei folli anni Venti”. Il pezzo è buono, la fotografia di Edna magnetica, come sempre. “La vita di Edna St. Vincent Millay si pu�� riassumere in uno dei suoi versi più celebri, La mia candela brucia da entrambe le estremità. Ottenne il Pulitzer per la poesia nel 1923: era la terza donna a conseguire un premio così importante, per molti fu la prima, per la sua popolarità e la lirica radicalmente nuova, diversa da ciò che era stato scritto prima… Al ritmo del foxtrot questa donna minuta, disinibita, indipendente, frivola, audace, piena di vitalità divenne la principessa del Greenwich Village di New York. Ebbe una incredibile lista di amanti, di entrambi i sessi, da Djuna Barnes a Salomón de la Selva, poeta discepolo di Rubén Darío. Anche Edmund Wilson fu uno dei suoi molti amanti, e un suo grande protettore, nonostante Edna avesse rifiutato la sua proposta di matrimonio. Non aveva paura di essere esuberante, ribelle, indifesa e indifferente, come una delle stravaganti eroine di Francis Scott Fitzgerald”.
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Il bravo articolista presenta, con sfoggio, l’Antología poética di Edna St. Vincent Millay appena edita da Lumen: quasi 400 pagine e una dida roboante, “La più grande poetessa dai tempi di Saffo”. Effettivamente, Edna fu baciata da un successo lancinante, frutto di una poesia disinibita, vitale, tecnicamente impeccabile (“Insieme a Robert Frost, è stata una dei più abili scrittori di sonetti del XX secolo, in grado di combinare atteggiamenti modernisti con le forme tradizionali, creando una poesia unica”).
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Nonostante il nome, non ebbe altra nobiltà che la poesia. St. Vincent non è un vezzo aristocratico, ma la targa dell’ospedale newyorchese in cui fu salvato, poco prima della sua nascita, lo zio. La madre, Cora, era un’infermiera con solide passioni letterarie (durante i vari traslochi teneva in borsa Shakespeare e Milton): si separò quasi subito dal marito, Henry, un insegnante. Edna – che si faceva chiamare Vincent, adorando l’ambiguità, e si firmava Nancy Boyd quando scriveva in prosa, moltiplicando le sue identità – crebbe povera, con un talento innato, sinuoso.
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Divenne “l’icona della Nuova Donna”, come scrive la sua biografa, Nancy Milford (Savage Beauty), non aveva paura di nulla. Il 22 agosto 1927 fu arrestata per aver protestato, davanti alla State House di Boston, contro l’esecuzione di Sacco e Vanzetti. “Capii che agiscono clandestinamente mostri dietro la democrazia”, disse. Scrisse, su “Outlook”, nel novembre di quell’anno, un articolo, Fear, di dichiarata potenza, contro il potere “ipocrita e avido”, contro “la bruttezza atavica dell’uomo, la sua crudeltà, la sua canonica faccia bugiarda”. Si era già sposata con Eugen Jan Boissevain, decisamente ricco, vedovo della suffragetta, socialista, femminista Inez Milholland. Edna fu felice (almeno al principio): ciascuno poteva coltivare con solare spavalderia le proprie relazioni fedifraghe. Nel 1943 fu onorata con la Frost Medal, medaglia importante in quel paese che crede nei premi (l’anno prima era andata a Edgar Lee Masters, dopo di lei la ottennero Wallace Stevens, John Ashbery, Ferlinghetti…).
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Mi pare folle che in Italia di Edna ci sia quasi nulla. La sua tardiva scoperta – per Crocetti, nel 1991 – la si deve a Silvio Raffo, che ha curato un libro, L’amore non è cieco, quasi subito ‘di culto’. Per i 70 dalla morte, lo stesso Crocetti, il mese prossimo, produrrà una nuova edizione del libro, con “nuove traduzioni e molti inediti, a partire dal poema Renascence, che ha sancito la grandezza di Edna”, mi dice Raffo, che ho raggiunto per capire meglio lo specifico talento di Edna.
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Thomas Hardy disse che “gli Stati Uniti hanno soltanto due grandi attrazioni: i grattacieli e la poesia di Edna St. Vincent Millay”. Edna morì cadendo dalle scale, nella sua casa, Steepletop, ad Austerlitz, New York. Aveva fumato, stava traducendo alcuni passi dell’Eneide. La trovarono otto ore dopo il decesso. Il marito era morto l’anno prima; l’epoca a cui apparteneva era scomparsa da almeno dieci anni. “Fu l’eroina commossa e possente degli anni Venti, Trenta e Quaranta, fu un indolo per le giovani generazioni durante i gloriosi giorni del Greenwich Village”, scrisse il “New York Times”. Il giornalista che cavalca il coccodrillo azzarda in particolari: “Vestiva in impeccabile camicia da notte nera, indossava le pantofole”. Bisogna essere sempre pronti a lasciare questo mondo con nitida eleganza. (d.b.)
Edna muore 70 anni fa: quanto è giovane la sua poesia (ovvero: che senso ha leggerla oggi) e che ruolo ha negli Stati Uniti? Da noi è pressoché ignota, perché? E poi: non è che per l’anniversario stai allestendo qualcosa di suo, di nuovo?
La poesia di Edna non è giovane, è giovanissima. Fresca, fragrante, diretta, priva di astruse circonvoluzioni o cervellotici sofismi come tanto poetese contemporaneo. È lirica e insieme intellettuale al più alto livello del termine. Soprattutto, è una poesia gioiosa, vi si respira una profonda joie de vivre, che capovolge e rigenera ogni dolore e ogni pena, financo la nevrosi, in pura energia di canto. Il suo identikit è questa quartina:
The world and I are young! Never on lips of man, Never sine time began Gas gladder Song been sung.
Altro che litanie suicidevoli o sulfurei canti funebri o recriminazioni per l’altrui incomprensione. Nessun autocompiacimento. L’amore vissuto come dovrebbe essere sempre vissuto, nella totale libertà da qualsiasi pregiudizio o pretesa di possesso. L’amore non cieco (ricordiamoci il titolo delle mie prime traduzioni) ma dotato anzi di un terzo occhio. Maschile/femminile, eterosessuale/ omosessuale, tutte ridicole etichette che in lei non esistono. Il ‘panamore’ piuttosto, ma mai uno sbandieramento da corteo. Negli Usa l’amarono e l’amano per la completezza e la sicurezza della sua personalità, sia i primi rebels del Greenwich Village sia le signore ‘perbene’ della borghesia o aristocrazia ‘romantica’ (degli anni Trenta come di oggi) sensibili all’eleganza e alla Bellezza della Melodia. Ma la sua è una poesia che può raggiungere tutti, anche un pubblico non particolarmente colto, ad esempio con certe ballate che arrivano subito al cuore ma non tradiscono mai l’intelletto. (Altro che i nostri menestrelli asserviti all’ideologia di squallide bandiere). La critica americana l’ha definita non a caso “the most important lyrical poet”.
Tre aggettivi con cui definire la poesia di Edna e la sua personalità linguistica.
Luminosa, lancinante, modernamente melodica.
Come penetra nella poesia la vita di Edna e quali sono le sue influenze letterarie?
La vita entra nella poesia di Edna con assoluta semplicità, naturalezza e sintonia. Si tratta di una poesia anche del quotidiano: questa ossimorica simbiosi di realismo e trascendenza onirica è una delle sue qualità più peculiari. Sa descrivere le condizioni delle piante nella sua fattoria di Steepletop come se si trattasse di fenomeni paranormali o comunque sempre in relazione a un suo stato psichico. Formalmente parlando, il suo stile richiama poetesse a lei molto care, come la virginale e insieme tenebrosa Christina Rossetti o la malinconica e fulgida Sara Teasdale, ma nei sonetti (di una perfezione metricamente impressionante) Shakespeare filtrato da John Donne ma irrorato da un estro e un wit soltanto suoi, come soltanto sua la leggiadra perfidia che affiora in certi testi (cfr. Bluebeard).
E tu… come l’hai incontrata, perché è scattata la scintilla traduttiva?
L’ho incontrata grazie a una mia amica (nella mia vita ho sempre avuto amiche meravigliose): Anita Aletti, che mi disse, “Tu devi tradurre Edna St. Vincent Millay. Vi assomigliate troppo”. La presi in contropiede: “Le assomiglio più che ad Emily?”. Incredibilmente, disse di sì. Io avevo appena licenziato il ‘Meridiano’ Dickinson e, non essendo mai stato monogamo, mi lasciai convincere senza sentirmi un traditore (sono fedele a tutte, da Saffo a Dorothy Parker). Non me ne sono pentito.
Infine, cosa stai traducendo (o cosa vorresti tradurre)?
Sto divertendomi a tradurre Dante Gabriel Rossetti, adorabile esteta capriccioso e necrofilo, e un poeta sconosciutissimo, Sir Ernest Dowson, un wildiano impenitente sentimentale e supermelodico morto all’età di Gesù. Prendo solo ora coscienza che sto iniziando a tradire le donne con gli esponenti di genere maschile. Dovrei preoccuparmene? No, sono come Edna, e non mi faccio problemi di nessun genere.
***
Rinascita
Dalla mia postazione di vedetta scorgevo solo tre montagne e un bosco; poi mi volsi e scrutai nell’altro senso, e tre isole vidi in una baia. Con gli occhi giunsi all’orizzonte – linea sottile, fine, dritta tutt’intorno – di nuovo al punto ritornai da dove ero partita con lo sguardo, e vidi null’altro ancora che montagne e bosco. Altro non m’era dato di vedere, era questo soltanto a circondarmi: montagne e bosco, ma così vicini parevano che quasi, con la mano, avrei potuto toccarli, pensai, da dove mi trovavo. E d’improvviso tutto mi parve piccolo. Il respiro s’attenuava, e quasi si spegneva. Ma certo, mi dicevo, è grande il cielo, per miglia e miglia sovrasta il mio capo. Mi stenderò per terra, e con lo sguardo percorrerò quanto più posso il cielo. Così scrutai e mi accorsi, dopo tutto, che il cielo no, non era così alto. Mi dissi: Il cielo, sì, deve fermarsi da qualche parte – e ne vidi la fine! Non è poi così grande neanche il cielo, pensai, posso toccarlo con la mano! E levandola per toccare il vuoto gridai. Sentivo il cielo in mano! Gridai forte e, lo giuro, l’Infinito scese a posarsi proprio a me d’accanto. Il mio grido respinse nei precordi, le mani ricompose sul mio seno ed incidendo dell’Indefinito ogni definizione della mente, uno specchio mi pose innanzi agli occhi, che la mia vista attraversò a fatica finché mi parve di toccar con mano l’immensità al mio palmo misurata; una parola bisbigliò il cui suono assordò l’aria e molti mondi intorno e alle mie orecchie il mormorio sommesso portò di amabili sfere rotanti. Il cigolio del cielo penetrato, il ticchettare dell’Eternità.
*
A Katleen
Come un tempo anche oggi il poeta in una buia, gelida e misera soffitta deve patire fame, freddo e scrivere su cose come il fiore, il canto e tu;
e come un tempo dare la sua vita in dono alla Bellezza, per farla sopravvivere, quella Bellezza che non può morire finché ci sono i fiori, il canto e tu.
Edna St. Vincent Millay
*Le traduzioni sono di Silvio Raffo
L'articolo “Come un tempo, il poeta deve dare la sua vita in dono alla Bellezza”. Audace, frivola, ribelle: Edna St. Vincent Millay proviene da Pangea.
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“Più si è feriti e più si è grandi. E più si è vuoti”: Kevin Spacey torna sul palco dopo due anni e interpreta le poesie di Gabriele Tinti. “Ho sempre parteggiato per i capri espiatori”
Gabriele Tinti ama mettere KO i luoghi comuni. Lo conosco da tempo; nel 2016, con Skira, pubblica Last words e la sua scelta ribalta tutti i canoni. Raduna le parole dei suicidi testimoniate su internet. Parole ordinarie di gente ordinaria che ha percorso la scelta estrema, traducendo il male in gesto contro di sé, contro tutto. Poesia desunta dal nulla, che turba – perché poesia è la parola ultima, dedotta in testamento. Intervistato su questo foglio, Tinti ha denudato la propria estetica (“non c’è poesia al di fuori del dolore”) e il proprio esilio dalla tribuna lirica italica: “So di essere un outsider”. E poi: “La poesia in Italia, e non soltanto qui ma in particolar modo qui, regno della cricca, agonizza in quanto confinata da un pregiudizio linguistico in un genere letterario. Si è ovunque sostanzialmente rimosso il significato primario di creazione, composizione, della parola poiesis”.
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L’ultima di Tinti – di cui hanno dato nota, va da sé, in tanti – va nel solco dello sconcerto. Tinti non vuole ‘stupire’. Ama gli estremi. Ama fare vigna tra i perduti, i perdenti, i battuti dalla vita. Mi dice. Kevin Spacey ha letto le mie poesie ispirate al “Pugilatore a riposo”. Figurati. Tinti è solito ‘imboccare’ le sue poesie nell’ugola di grandi interpreti. Robert Davi, Alessandro Haber, Franco Nero, ad esempio. Ma… Kevin Spacey, due Oscar in teca, quello di American Beauty e dei Soliti sospetti e di House of Cards e di decine di altri capolavori. E delle accuse deflagranti. 60 anni compiuti il 26 luglio: festeggiati con il ritiro delle accuse di molestie da parte dell’attore Anthony Rapp. Altre ne restano in piedi, ma sta di fatto che quella al Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo, il 2 agosto, con le poesie di Tinti tra le mani, è la prima apparizione pubblica di Spacey dopo due anni. “In questi ultimi due anni numerose personalità della cultura come Bertolucci, Baldwin, Morrisey, Schrader, Talese e molte altre ancora si sono espresse a sostegno di Spacey che è stato un vero e proprio capro espiatorio, vittima di un fenomeno di contagio mimetico come direbbe Girard. Dal canto mio ho sempre parteggiato per i capri espiatori”, mi scrive Tinti.
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Spacey non arriva dallo spazio. Così Tinti spiega come e perché l’attore ha accettato di leggere i suoi testi. “Ho contattato Kevin Spacey facendo parlare il mio lavoro, presentandogli il progetto. Ha subito apprezzato il coraggio e la particolarità della mia proposta. L’idea di dare voce alla statuaria antica, di donare nuova vita alle spoglie, ai frammenti, a quel che resta del nostro passato, ha incontrato la sua sensibilità e profonda passione per l’arte. La sua generosità e disponibilità nel voler far accadere la lettura ha reso tutto il resto semplice. Ha messo nella collaborazione una intensità di partecipazione da me inaspettata, a testimonianza del grande artista che è. Non c’è dubbio infatti che egli sia uno dei più grandi attori viventi. Per me è stato un onore abbia accettato di leggere i miei versi; essere riuscito ad affidarli proprio a lui e poterli così sentire risuonare nella sua voce è stato un privilegio”.
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Probabilmente Spacey si è sentito in sintonia con il pugile narrato da Tinti. Qui, per gentile concessione, pubblico le lasse in prosa del testo.
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Per favore, ripeti. Non riesco a sentire quello che dici. Il mio viso è di bronzo, non lo vedi? Guarda i miei occhi, le mie orecchie, questo petto. Ripeti se vuoi. Oppure risparmia il fiato. Le parole si rassegnano davanti a me. Ogni volta c’è qualcosa che non torna, la voce si perde. Non so perché ma non è mai abbastanza. Come dici? Forse hai ragione. Più si è feriti e più si è grandi. E più si è vuoti. M’hanno usato per i loro divertimenti, nutrito di roba scadente. La vita se n’è andata in un momento. È sempre stato così: ho lottato, cercato un orlo, un’alba dove poter ricominciare. Ho passato un’infinità di notti senza dormire. Sono rimasto ore e ore a sudare per distruggere e cadere. Ho fatto di tutto per occupare ogni vuoto. Il sangue brillava nelle mie vene e io, in fondo, ho sempre voluto precipitare.
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Questi che vedi sono i miei guanti sacri alla vita, le mie ferite. Fermati un momento, appoggiaci la mano, guarda. Bisogna succhiare il cuore d’un eroe finché batte, lo dovresti sapere. Ho scosso il paese, scrollato le arene, fatto a pezzi gli avversari. Ho illuminato il buio, raccolto gli insulti, costretto agli applausi. Non tutti l’hanno saputo fare. Non te, non voi. D’altronde la vita non è uno spavento per chi non l’ha mai rischiata. Chi mi può capire? Con chi posso ancora parlare? Lo spirito è ammalato, non si può più curare. Sparirà dalla faccia della terra. È il suo destino. Lo so, adesso sono stanco e sto diventando malinconico. È per questo che m’avete scavato la fossa. L’avete aperta lassù, lontano. Per nascondermi. Per non avere problemi e non dover vedere. Stolti! Non potevate immaginare che sarei resuscitato in questo vestito di metallo, che sarei tornato a fissarvi con il mio volto scuro, senza labbra.
Gabriele Tinti
*In copertina: Kevin Spacey e Gabriele Tinti, courtesy Mauro Maglione
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“Nell’indifferente sepoltura del servizievole mare”: dialogo con Alessandro Ceni (e poesia inedita in allegato)
Lo punto da tempo, senza tema d’invidia né di spregiudicatezza, come un ghepardo che voglia indottrinarsi riguardo all’atletismo del rapace. L’intervista è pattuita, ritrovo la mail, nell’ottobre del 2017. Un anno fa. Ma ne conosco la ritrosia, la primizia del pudore – per questo, dopo averlo scocciato, per un po’, lo mollo. Ma non demordo. So che a volte bisogna attendere che le stelle divengano un canneto. Dopo averlo scritto mille volte – fino a mandarlo graziosamente in bestia – non lo dico più. Ricordo, allora, un paio di eventi. L’impressione possente che mi fece quella placca d’arte, Ossa incise e dipinte, pubblicata da L’Albatro nel 1999: un tassello dell’opera più vasta di Alessandro Ceni (nella fotografia di Dino Ignani), Mattoni per l’altare del fuoco (Jaca Book, 2002), che è ancora lì, meteorite bruno, quarzo-capodoglio, spiaggiato su questa landa lirica, la raccolta poetica cruciale, diciamo, dagli Ottanta in qua. Penso che fu Massimo Gezzi a inoltrarmi alla grandezza di Ceni, poi – il secondo evento – fu insieme a Daniele Piccini – che installa Ceni nella rigorosa antologia La poesia italiana dal 1960 a oggi, Rizzoli, 2005 – che chiarificai la mia personale prossimità a quel dettato. Ma poco importano le fole liriche private, semmai potete leggere Ceni, poeta radicale e raro – può coltivare una singola poesia per anni di patimenti e di scavi geo-linguistici – alieno alla grande editoria (preferisce stabilirsi in piccole, dedicate edizioni: l’ultima raccolta, Combattimento ininterrotto, è edita da Effigie nel 2015), nella raccolta commentata Parlare chiuso. Tuttelepoesie (Puntoacapo editrice, 2012; con testi critici di Roberta Bertozzi, Stefano Guglielmin, Massimo Morasso, Daniele Piccini, Salvatore Ritrovato). Resta il dato oggettivo: il poeta, di audace precocità – l’esordio nel 1980, per Guanda, poco più che ventenne, con I fiumi d’acqua viva – ha dato alla poesia italiana versi miracolosamente memorabili (“Io sto qui e da qui/ vedo collassare le stelle, implodere i volatili,/ cabrare verso il loro dio le nubi/ per poi precipitare in lacrime e piogge;/ vedo cadere tutto e tutto/ ininterrottamente”), che ci portano, evviva, in spazi siderali, dentro un linguaggio artico, articolato, anomalo alla nostra tradizione. Inoltre – ed è qui il pretesto al dialogo – Ceni è tra i traduttori più importanti dalla lingua inglese: per i massimi editori italici (Einaudi, Bompiani, Feltrinelli) ha tradotto di tutto, da Edgar Allan Poe a Robert Louis Stevenson, da John Milton a Walt Whitman, da Herman Melville e Joseph Conrad (indimenticabili i ‘suoi’ Moby Dick e Lord Jim), da Oscar Wilde a Charles Dickens. Al momento, per Feltrinelli, è impegnato nella traduzione dell’Ulisse di James Joyce. Ad ogni modo, l’attesa ha avuto il premio. Ho preteso Ceni a Rimini, poco fa – chioma bianca, vigore da totem indiano, viso tra Gregory Peck e ultimo Mohicano della poesia – finché non ha potuto rifiutarmi l’intervista. Un anno dopo. In dono – inatteso – una poesia inedita, che non va letta ma masticata, ha sentore di rito e di volo. (Davide Brullo)
In uno scritto esegetico piuttosto noto Piero Bigongiari avvicina alla tua poesia il detto di Dylan Thomas – poeta, per altro, che Bigongiari ha conosciuto, ospitato a casa, nel 1947, e tradotto. Tu traduci dall’inglese. Pensi esista una filiazione tra la tua poesia e quella anglofona? E poi: com’è che non hai mai tradotto Thomas?
Naturalmente sì, anche se proprio di filiazione non parlerei. Lavorando su una lingua straniera (ma per certi versi lavorando sulla propria), e su quella di grandi autori per giunta, è inevitabile (ma salutare) che si compia una specie di travaso, di continuo allettamento o sirenico canto (da seguire, questo) che non può non sfociare in un poeta in rivi linguistici adattati alla lingua madre (arricchendola). La lingua inglese ha contribuito al mio ritmo, al mio suono, al mio lessico e a certe magie sintattiche che ho traslato dalla prosa angloamericana. Thomas? Il Grande? Ho qualche mio personale assaggio di traduzione ma, molto semplicemente, in quanto a pubblicarlo in mie versioni non c’è stata l’occasione. Mi piacerebbe Under the milkwood.
Come è iniziata l’avventura del tradurre, con quale libro, perché?
È iniziata col desiderio di conoscere, apprendere fino in fondo la lingua degli autori anglofoni che ho amato fin da giovane: il desiderio, lavorando sul vivo del testo, di penetrare dettato, senso, musica. Comunque, la traduzione l’ho sempre considerata anche un lavoro, sic et simpliciter, un andare in laboratorio o scendere nei campi per portare il frutto a casa e viverci (di conseguenza, senza rammarico, per imparare il mestiere e campare mi è capitato di tradurre anche molta paccottiglia).
Tra l’altro, tu ti laurei, proprio con Bigongiari, con una tesi su Tommaso Landolfi, scrittore straordinario, eccentrico, ed eccelso traduttore dai russi e dai tedeschi. Ritieni che per un poeta, per affilare la lama della propria lingua, sia necessario l’esercizio del tradurre?
Penso di sì, ma non è detto che a tutti sia indispensabile. Dipende dal proprio atteggiamento, dalla propria inclinazione, dalla propria intenzione linguistica. E dal peso che ciascun poeta dà alla parola. Nel caso mio è assoluto.
Quale libro ti ha divertito di più tradurre? Quale libro sei stato più felice di tradurre per affinità con la tua opera?
Il Circolo Pickwick: non solo divertimento, ma autentico godimento. Quanto al resto, la scelta è più ardua. Direi comunque (più che per affinità per corrispondenze amorose e travolgimento): I racconti di Stevenson e Moby Dick.
A contrario, quale libro hai avuto più difficoltà a tradurre, e perché?
Se per difficoltà intendi osticità ad entrare in sintonia con l’autore (e quindi col suo testo), non ho dubbi: Alice nel paese delle meraviglie e Oltre lo specchio. Carroll mi fu proposto e accettai ma non mi appartiene (il libro tuttavia ha avuto, mi dicono, un ottimo riscontro editoriale, il che significa in ogni caso che il lavoro era stato eseguito bene).
La lista degli autori eccelsi che hai tradotto, da Whitman a Melville, da Conrad a Coleridge e Stevenson è infinita. Di solito, sei tu che proponi cosa tradurre all’editore, o sei ‘schiavo’ delle necessità di chi ti paga la traduzione?
Ormai da diversi anni propongo io, salvo eccezioni che vaglio. Certo, possono capitare ancor oggi commissioni, che però rientrano tutte nell’ambito di tradizione e genere di autore a me pertinenti.
Come traduci? Studiando, con pazienza; oppure con ferocia, secondo il tuo istinto linguistico?
Studiando, con pazienza ma con le antenne sempre ritte. Il testo comanda e il traduttore deve sentirlo e sapercisi adattare: è un traghettatore che possiede l’interpretazione (linguistica, musicale, attoriale) come imbarcazione. Navigare in codeste acque è bene sia sempre lento e avveduto.
Ora so che vai traducendo l’“Ulisse” di Joyce. Ennesima opera capitale che ti capita di tradurre. Quali sono le difficoltà di quel linguaggio?
Perdona la brevità della risposta: tutte. È un avventura strepitosa.
…e come poeta? Dove ti trascina la tua ricerca, dove tracima?
Valutate voi.
Canto grosso
Stiance amarissime, talasse, di voi – che noi lì si stava lì a guardare dopo il lungo accanimento muto d’una luna acidula e mezzana d’amori, stiance amarissime, talasse, di voi – che per fecondazione esterna, come da un dopo e un sotto come da un fondale come da impedire una cosa già avvenuta ed esser saldo nell’intento, stiance amarissime, talasse, di voi – che somministrate la medicina scaduta la non-medicina la medicina che non vale più che non è più medicina che non c’è più medicina, stiance amarissime, talasse, di voi – mutandoci in larve per ipnosi profonda annullamento abolizione ipossia e blocco in minutissimo plancton nel vasto assortimento della grande collezione dell’ossario comune e nell’indifferente sepoltura del servizievole mare, di voi, stiance amarissime, talasse, come per primi entrando in un posto segreto sentivamo soltanto i suoni pacificati dopo lo strazio, scetavano simili a un’invocazione da un campo flegreo.
Alessandro Ceni
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