#la opera macabra
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enkeynetwork · 5 months ago
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Scomparso da mesi, viene trovato il corpo mummificato in casa
Il 76enne Italo Gatti è stato trovato senza vita nella sua casa di Via Antonio Degli Effetti, nel quartiere romano dell’Alberone. La macabra scoperta è avvenuta nella serata di ieri, ad opera dei vigili del fuoco e dei carabinieri, intervenuti su segnalazione dei vicini che non lo vedevano da novembre. I condomini, infatti, preoccupati per la finestra dell’uomo sempre aperta e la posta non…
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andrealego · 2 years ago
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Forse hai ragione tu ad avere paura ,io così instabile, irresponsabile e disordinata. Io che vivo la notte e sogno durante il giorno . Così sensibile da piangere per una canzone d amore così forte da affrontare,se pur con timore ,ogni difficoltà. Guardami mentre asciugo sola le mie lacrime e col tormento nel cuore indosso il mio miglior sorriso.
Stanca di combattere desidero solo farla finita perché di questo mondo sbagliato io sono la regina
Perdo l equilibrio cercando di restare in piedi ma mi ritrovo in ginocchio a imprecare quel Dio che da tempo mi ha condannato
Troppo disillusa per rinunciare all idea di un domani migliore, troppo debole per affrontare ogni nuovo giorno
Persa, fra utopiche certezze e false convinzioni,mi aggrappo,ogni sera,a desideri e fantasie che lievi svaniscono ad ogni alba
Abituarmi a sentire quel gelo fra le lenzuola, nello stesso letto poco prima scenario di giochi romantici.
Scusa se ti parlo tremando ,ti bacio per poi distruggerti con uno sguardo, ti sfioro nascondendo la rabbia . Assaporo le tue labbra per poi dirti addio a voce bassa.
Quando nuda ed indifesa rimango a guardarti,mentre ti rivesti, allacciando, bottone dopo bottone, quella camicia bianca che ti dà l aria da uomo per bene
Vorrei strapparmi la pelle per non sentire più i brividi che una tua carezza mi provoca
Con la mente offuscata cedo al dolore per combattere il dolore stesso
Mi sento sbagliata , inutile, indegna di attenzione o rispetto
Mi odio quando, debole,trovo sollievo nell osservare come ogni goccia di sangue colora il mio corpo
Una macabra opera d arte, dolorosa e liberatoria al tempo stesso
In silenzio,nuovamente sconfitta, premo più forte su quelle nuove future cicatrici
Mi domando se davvero vale la pena di mettersi in gioco pur consapevole dei reali pericolosi rischi
Sicuramente meglio provare qualsiasi sentimento, anche se maledettamente doloroso, piuttosto che accontentarsi ad una falsa idea di benessere
Faccio tesoro di ogni esperienza traendo da essa il massimo degli insegnamenti
Infinita sembra la notte,alla ricerca di risposte, sorseggiando un calice di vino sperando di perdere i sensi
Quella strana sensazione di contrasto che acchiappa l anima saltellando tra una personalità e quella opposta
"E guidare come un pazzo a fari spenti nella notte per vedere
Se poi è tanto difficile morire"(cit)
Domandarsi inevitabilmente se si stia vivendo o semplicemente sopravvivendo.
Incazzata,calpestata, incompresa, mi addormento desiderando di non svegliarmi domani per poi aprire gli occhi odiando il nuovo giorno
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iltrombadore · 3 years ago
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Hermann Nitsch, lo spettacolo come profezia...
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E' morto Herman Nitsch, il discusso, turbato e inquietante protagonista dell' Azionismo viennese. Aveva 83 anni. Di lui presentai una azione a Roma nel 2009, assieme a Francesco Villari. Con un testo che ripubblico oggi:                                   Residui d’orgia, tracce  di drammi rituali e di misteri consumati per una teatralità che lascia intravedere ampie colature di sangue versato a profanare stoffe bianche come tuniche sacerdotali, tabernacoli e altari dove possono rimanere appese tanto le vesti umane quanto le viscere  di animali votati al sacrificio: così l’opera di Hermann Nitsch evoca la origine caotica del mondo (“in principio era il Caos”) e si richiama direttamente come un ebbro Sileno alle radici di religioni a carattere dionisiaco puntando a coinvolgere il pubblico in una comune esperienza mistico-estetica. Una simile messa in scena, che non ha uno scopo puramente estetico, ma punta a realizzare effetti di comprensione religiosa (nel senso di “esperienza di verità ”) usa i riferimenti alla liturgia cristiana (altari, tabernacoli, croci, eccetera) per un valore di paradosso. Il  sacrificio cristiano, con i simboli della croce, del pane e del vino, è come il pretesto o il preambolo di una vertiginosa “discesa agli inferi” dove l’immagine dolente e trascendente del Crocefisso cede il passo alla vertigine del baccanale con le sue estasi e vittime sacrificali.  
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Protagonista del Wiener Aktionismous, la corrente che negli anni Sessanta del ‘900 puntò a valorizzare il corpo umano come centro dell’operare artistico, Hermann Nitsch  mette in gioco sé stesso  assieme al pubblico in una accurata regìa di accadimenti spazio-temporali (il famoso “Teatro delle orge e dei misteri”) dove compaiono simboli esoterici, nudità, azioni cruente, processioni. L’artista sollecita l’osservatore a superare la barriera della contemplazione visiva per entrare in una  rischiosa relazione psicofisica con lo  “spettacolo” che vuole associare indissolubilmente l’arte con la vita. Comportamento fisico e manipolazione estetica si danno la mano nel tentativo di fare emergere le pulsioni primigenie della vita emotiva individuale ben oltre le  difese della razionalità cosciente. In questa azione - di cui è parte integrante lo scenario visivo drammatizzato col vivido colore del sangue – si distingue l’esperienza estetica di Hermann Nitsch come un invito religioso a volgersi verso il mondo primordiale e originario, quel misterioso e ctonio “regno delle Madri” dal quale dipende,  avrebbe detto Goethe, “tutto ciò che ha forma e vita sulla superficie della terra” . 
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Di radice schiettamente romantica e più ancora espressionista, la linea espressiva prescelta dall’artista – tessuta di dissonanze, di grida, di improvvise gestualità e di violenti cromatismi suggeriti dall’uso di liquidi e altre materie organiche- sorprende per la macabra ed efficace sintesi di forma e contenuto. L’idea di associare l’elemento sublime a quello sub-liminale giunge però per l’artista “romantico e mistico” nel momento in cui la coscienza consuma fino in fondo l’esperienza della “morte di Dio” e di ogni religiosità trascendente. E riemerge così una tentazione neo-pagana che vuol vivere in forma dionisiaca il senso della disperazione e della avventura mortale del genere umano. Anche per questo il “Teatro delle orge e dei misteri”, concepito da Hermann Nitsch, intende gareggiare  con l’ambizioso progetto wagneriano di “opera d’arte totale” e in qualche modo riesce a suscitare una emozione che mima l’esperienza del “cammino spirituale”. La messa in scena è avvalorata tra l’altro dalla esistenza di un piano di azione ripetitivo fino quasi alla ossessività che punta a fare emergere i primordiali istinti umani . “…Il colore della carne- ha scritto Nitsch- del sangue e delle interiora era diventato importante. Dominava il rosso. Il monocromatismo assunse un ruolo arcaico. Tutto si orientava verso il colore dell’estasi, della vittima del sacrificio, della passione, del sangue, della carne”: all’ascolto di queste parole si riconosce facilmente tra l’altro un gusto tedesco tanto simile a quello di un poeta  tardo decadente come Stefan George che amava associare in poesia l’immagine corrusca e splendente dell’imperatore-dio Eliogabalo con quella del sangue caldo versato sui marmi del  palazzo all’atto della sua eliminazione.
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 E non vi è chi non riconosca ancora, in questa sensuale e diretta raffigurazione, un richiamo ai residui delle grandi feste pagane mediterranee che  si ripetono evocando il culto del sangue e della promiscuità sessuale (si pensi alle feste di Valencia e Pamplona, alla rincorsa dei tori sospinti fino al “macello” della corrida, e al lancio dei pomodori sulle vesti bianche della folla dei partecipanti) . In questa inquietante e vitalistica capacità di scuotere l’emozione risiede la principale virtù espressiva di Hermann Nitsch che mira precisamente ad ottenere un effetto provocatorio sollecitando lo smarrimento dello sguardo abitudinario. C’è del truculento in questa ripetuta  “performance” dionisiaca che l’autore predilige come intenzione estetica e al tempo stesso segnala, accanto all’elemento macabro, una accurata inclinazione al più vivido cromatismo dell’immagine (il bianco delle vesti contro il rosso del sangue, i fondi neri e dorati, il grumo colorato delle materie organiche). Ma ciò che veramente conta nel progetto di Nitsch è l’esigenza di non ridurre l’arte a fattore esclusivamente decorativo per mettere invece in risalto tutta la sua potenza come fattore  spirituale e conoscitivo. La “performance” rituale intesa come “atto purificatorio” che sintonizza esperienza scenica, musica, danza, vino e sangue, è una esplosione di materialità che punta a coinvolgere tutti i sensi in un miscuglio di “idea”, “materia” e “azione”. Su questa lunghezza d’onda  si sono nel tempo tra l’altro mossi, oltre a Nitsch e i protagonisti del Wiener Aktionismous, anche i formidabili artisti del gruppo giapponese Gutai, o il francese Yves Klein, per una sintesi di arte e vita che mette in funzione il linguaggio del corpo e cerca risposte radicali al desiderio di conoscenza e creazione. 
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Rivendicando una funzione primigenia dell’Arte, il filosofo-artista Hermann Nitsch chiama all’appello i giganti dell’inconscio e con essi cerca di dar vita ad una comunità culturale arcaica esaltando una fisicità dionisiaca fino al limite dell’estasi. Così l’arte può diventare la discriminante  di esperienze più intense (al di là del bene e del male) dove le ragioni di Siegmund Freud (il principio del piacere) incontrano la catarsi sensuale di Federico Nietzsche (l’origine e la funzione della tragedia greca). In questa coinvolgente evidenza ottica e drammatica l’artista esibisce una  efficace “vocazione teatrale” in cui metafora religiosa e brutalità  quotidiana si esaltano e realizzano un monumento spettacolare  di rara efficacia barocca. Un po’ come Jospeh Beuys con la “scultura sociale”, anche Hermann Nitsch con i suoi misteri tanto simili  e tanto distanti dai misteri medioevali, vuole essere un “profeta dell’ arte” che mette assieme pittura e scenografia, scrittura, musica e drammaturgia, per effettuare catarsi collettive. Nella giostra tardo moderna delle immagini circolanti ad uso e consumo di una totale assenza di significato, ecco invece un tentativo estremo e quasi selvaggio di restituire senso alla parabola della vita umana e della morte: e nella manifestazione quasi ossessiva di questa radicale esigenza “religiosa”  Hermann Nitsch riesce a trovare le ragioni di una coerente vocazione estetica e di una notevole potenza formale ed espressiva.
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microcinewarhola · 3 years ago
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A propósito de la proyección de "Out of the Blue" en el Microcine Warhola, compartimos este artículo originalmente publicado en revista La Panera sobre "The Last Movie" ("La última película"), el desastre financiero y artístico que antecedió al filme de 1980. Una muestra estrepitosa de la grandilocuencia de un cineasta perdido en una industria que aún parecía mezquina ante las nuevas exploraciones. Un proyecto fallido que pasó por las manos de Alejandro Jodorowsky y fue desechado por los estudios.
"Pánico y locura en Chinchero"
(17 de mayo de 1936-29 de mayo de 2010) Dennis Hopper dispara con una metralleta, se baña en una tina llena de mujeres, se compara a sí mismo con Orson Welles, consume drogas, parece un vagabundo. Al documental «The american dreamer» (1971), de L.M. Kit Carson y Lawrence Schiller, se lo ha acusado de ser un montaje en el que el retratado parece demasiado consciente de la presencia de la cámara. Pero más allá de su performance –y el libro «Moteros tranquilos, toros salvajes», de Peter Biskind, lo confirma– es indudable que Hopper llevaba una vida alienada en esos años. Adicto a todo tipo de sustancias y conocido por sus delirios de grandeza, estaba fascinado con la contracultura aunque, a diferencia de otros cineastas con vocación rupturista, tenía la ventaja de contar con el apoyo absoluto de Hollywood tras el éxito de «Busco mi destino» («Easy Rider», 1969), película que cerró la utopía hippie para inaugurar la era de violencia que absorbería el Nuevo Cine Americano.
Las excentricidades de Hopper son conocidas: consumía en un día medio galón de ron, 28 cervezas y tres gramos de cocaína, andaba siempre con una pistola en su bolsillo, una vez probó LSD con Jack Nicholson en la tumba de D.H. Lawrence, duró solamente ocho días casado con Michelle Phillips (de The Mamas & The Papas) y llegó a perderse en una jungla mexicana donde tuvo visiones relacionadas con extraterrestres. Ese mismo año (1983) anunció una performance macabra: explotaría en mil pedazos usando veinte cartuchos de dinamita. Su “suicidio artístico” convocó a cientos de curiosos en una carretera de Houston – entre ellos a Wim Wenders– y fue registrado en video por el cineasta Brian Huberman. Tras nerviosismos y expectativas, la dinamita detonó pero Hopper salió ileso. Todo estaba fríamente calculado.
Pero si pudiésemos comprimir el delirio del cineasta más salvaje de la época en una obra, ésta sería «The Last Movie» (1971). Desde la panorámica del siglo XXI, sigue siendo uno de los mayores desastres comerciales de Hollywood. Un western marcado por los excesos. Una película bastarda.
Los preparativos
Hopper co-escribió «The Last Movie» junto a Stewart Stern (guionista de «Rebelde sin causa») en los 60, pensando que sería su opera prima como director. Pero debido al presupuesto elevado que demandaba, no pudo concretarla. Entonces se embarcó en «Busco mi destino», el mayor éxito comercial de 1969. Tuvo un costo de 500 mil dólares y registró más de 60 millones.
Lee Wasserman, el jefe de Universal, comprendió que había un nuevo nicho de consumidores y tuvo la ocurrencia de abrir una división para películas juveniles. Así acogió «The Last Movie». Su plan era no superar el millón de dólares en producción. Hopper exigió completo control creativo y que el rodaje fuera en Perú. Él mismo interpretaría a Kansas, el encargado de coordinar a los dobles de riesgo para un western sobre Billy The Kid que se filma en la localidad de Chinchero. Pero las cosas salen mal y uno de estos especialistas muere en el set. Kansas decide entonces retirarse de la industria y se queda a vivir en Perú, donde espera encontrar oro. Pronto descubrirá que los nativos han comenzado a “filmar” una película usando cámaras hechas de madera. El problema es que también imitan la violencia que el equipo cinematográfico simulaba desde el artificio.
Para realizar una cinta que cuestiona los límites entre ficción y realidad, además de lanzar sus dardos contra el colonialismo de Hollywood, Hopper convocó a figuras consagradas y amigos como Julie Adams («La mujer y el monstruo»), Peter Fonda, Sylvia Miles, Dean Stockwell, Kris Kristofferson y también al gran director Samuel Fuller. Se dice que algunos aceptaron el desafío por razones extracinematográficas: Perú era, en ese entonces, un paraíso de la cocaína.
El rodaje
Cuando Hopper pudo mirar hacia sus años de exceso con claridad, definió la filmación de «The Last Movie» como una “larga orgía de sexo y drogas”. Según un artículo escrito por el crítico de cine Brad Darrach, quien observó el proceso, más de 30 personas del equipo consumían drogas activamente, una actriz estuvo a punto de ser quemada como Juana de Arco en medio de una fiesta, y un actor casi muere de sobredosis.
“Las drogas nos ayudaron a hacer la película”, analizaría Hopper más tarde. “Quizás éramos drogadictos, pero lo importante es que éramos drogadictos con una ética de trabajo. Las drogas, el alcohol y el sexo potenciaron nuestra creatividad”.
Finalizado el rodaje, Hopper envió a Universal un mensaje: se refugiaría en un rancho del condado de Taos, Nuevo México, para editar el filme. Tardaría un año.
La posproducción
El último acto en la realización de «The Last Movie» fue, de alguna manera, una extensión de la aventura iniciada en Perú. Hopper compartió su hogar de Taos con amigos y yonquis. No se duchaba. Parecía un vagabundo delirante. Su cerebro estaba seco. No sabía cómo editar las 40 horas de rodaje que obtuvo en Perú y ya había superado el plazo convenido con los estudios. Entonces pidió a Alejandro Jodorowsky que lo ayudara en la tarea.
“Lo que más recuerdo es su olor”, confesaría el director de «El topo» tiempo después. Su juicio fue duro y frontal: para él, Hopper había fracasado en hacer una película de Hollywood. La solución estaba entonces en deconstruirla, desordenar la lógica del montaje, volverla experimental, pulir las imágenes con el subconsciente. El mismo Jodorowky se sentó en la sala de edición y en dos días obtuvo su propia versión del filme. Pero Hopper no quedó conforme.
Para Lawrence Schiller, Jodorowsky arruinó «The Last Movie» porque “jugó con la cabeza de Dennis”. Pero es evidente que el gurú chileno también le dejó una enseñanza: no es necesario seguir una lógica causal para construir una película. Hopper terminó montando las escenas a su manera.
Las reacciones
A pesar de que Universal odió el resultado final y trató, sin éxito, de que Hopper reeditara la cinta, su estreno en el Festival de Venecia fue sorpresivo. La cinta recibió un premio y logró entusiasmar a algunos críticos. Pero el triunfo no se reflejó en salas. Una función realizada en Nueva York no logró convocar ni siquiera a un espectador. Nadie apareció. En dos semanas, fue retirada de todos los cines.
Pero el legado de «The Last Movie» se ha entendido mejor con el tiempo. Apostar por una libertad absoluta dentro de los muros de la industria marcó con fuego el espíritu del Nuevo Cine Americano que comenzaba a desarrollarse. Hopper abrió el camino para Martin Scorsese, George Lucas o Steven Spielberg. Fue el gran mártir de una revolución que cambiaría los códigos de la industria estadounidense para siempre. La gran paradoja es que no es fácil conseguir hoy una copia. Hollywood enterró la obra de un cineasta visionario en las profundas fosas del olvido.
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corallorosso · 5 years ago
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Covid, i soldi per la ripartenza? Il comune di Bergamo li assegna a chi produce armi, ma non alle piccole imprese di Francesca Nava Oggi vorrei parlarvi del Rinascimento di Bergamo. Già, perché dovete sapere che la città martire del Covid-19, attraverso un accordo tra il Comune e Intesa Sanpaolo, ripartirà grazie a un piano innovativo dal valore complessivo di 30 milioni di euro, di cui 10 milioni a fondo perduto, per sostenere le imprese colpite dalla crisi e aiutarle a risollevarsi il prima possibile. Il progetto si chiama proprio così “Programma Rinascimento” e se andate sul sito del Comune lo trovate nella home page, con tanto di didascalia: “Strumenti di sostegno a favore del tessuto delle micro-imprese colpite dalla pandemia.” A gestire l’erogazione dei contributi a fondo perduto e le attività di monitoraggio e rendicontazione sarà il CESVI, una Fondazione Onlus, tra le più importanti e accreditate istituzioni del Terzo Settore, con cui il Comune ha definito una convenzione specifica. La Onlus ha sede a Bergamo e vanta tra le sue ambasciatrici anche la moglie del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, Cristina Parodi. La supervisione sarà invece affidata a un comitato tecnico di cinque membri (...) E di contraccolpi gli imprenditori bergamaschi, soprattutto i più piccoli, ne hanno avuti di pesantissimi. Tra questi imprenditori ci sono due stiliste, proprietarie di una piccola società di moda registrata nelle imprese artigiane di Bergamo. (...) Il loro codice ATECO è il 74.10.10, quello in cui rientrano le attività di design di moda e di design industriale. Convinte di avere tutti i requisiti, quando si collegano al sito del CESVI, la triste scoperta: il loro codice non rientra tra quelli idonei per la richiesta del finanziamento. Secondo la legge, la loro azienda avrebbe potuto continuare a lavorare anche durante la fase uno. Scorrono velocemente l’elenco per capire quali siano le attività che potranno invece usufruire dei fondi. E qui restano a bocca aperta: “Nell’elenco troviamo il 30.40.0 un codice ATECO relativo alla fabbricazione di veicoli militari da combattimento”, lo choc è totale. Nella città, che ha visto portar via le bare dei morti Covid proprio su dei carri dell’esercito questa scoperta va oltre ogni macabra immaginazione. Fanno anche un altro pensiero logico: “Proprio il CESVI, che opera in teatri di guerra al fianco dei bambini e delle popolazioni colpite da azioni belliche, non può patrocinare una iniziativa del genere!” Lo choc non finisce qui. Nell’elenco trovano anche la fabbricazione di armi e munizioni, con codice ATECO 25.40.00, la fabbricazioni di missili balistici con il codice 30.30.02, la riparazione di armi e munizioni con il 33.11.03, la fabbricazione di esplosivi con il codice 20.51.0 e infine il commercio al dettaglio di armi e articoli militari, con il codice ATECO 47.78.50. Il commento a caldo viene naturale: “Proprio noi, che siamo in una crisi pazzesca, in 23 anni non abbiamo mai chiesto nulla, ci hanno obbligato a stare a casa, eravamo terrorizzate, ora scopriamo che i soldi li danno a chi produce armi, è davvero troppo”. A questo punto prendono il telefono e chiamano la Onlus responsabile della erogazione dei fondi per lamentarsi e chiedere chiarimenti. Prima, però, fotografano la schermata, a futura memoria. Vengono richiamate e un responsabile assicura loro che il comitato analizzerà la loro domanda. Scrivono anche una mail, nella quale denunciano: “Doppio sconforto e disgusto quando abbiamo visto che tra le aziende aventi diritto a questi aiuti sono presenti quelle che producono armamenti da combattimento. Non ci potevamo credere!! Soprattutto se si pensa che siete il CESVI…”. Il 20 di maggio ricevono una mail ufficiale, nella quale la Onlus scrive: “Vi ringraziamo molto della vostra segnalazione, che con il dettaglio fornito ci ha permesso di individuare ed eliminare il codice ATECO in questione dalla lista. Provvediamo ad aggiornare le informazioni sul sito nel più breve tempo possibile e garantiamo che eventuali richieste giunte al sistema nel frattempo saranno inammissibili”. Dopo la risposta del CESVI, le due stiliste provano anche a contattare il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, scrivendo un’altra mail al Comune, nella quale lamentano “l’estrema superficialità con la quale è stato gestito questo prezioso e importante progetto per le imprese bergamasche. Come sarà andata a finire? Ve lo starete chiedendo, ovviamente. Dopo la segnalazione di questa piccola azienda di Bergamo esclusa dal bando, sul sito del CESVI e del Comune sono stati rimossi i codici ATECO relativi alla fabbricazione di missili balistici (intercontinentali), il 30.30.02 e il codice 30.40.00, relativo alla fabbricazione di veicoli militari da combattimento, tra cui i carri armati. E grazie al cielo, direte voi. Abbiamo scritto alla segreteria del sindaco Gori per chiedere chiarimenti, dal momento che ancora nella giornata di ieri, scorrendo sul sito del CESVI e del Comune, si potevano leggere, nella lista delle categorie produttive idonee ad accedere ai fondi del bando Rinascimento, attività come queste: fabbricazione di esplosivi; riparazione e manutenzione di armi, sistemi d’arma e munizioni; commercio al dettaglio di armi e munizioni di articoli militari; fabbricazione di armi e munizioni, tra cui rientrano anche armi pesanti, come lanciarazzi e mitragliatori, pistole ,munizioni da guerra, bombe, missili, mine e siluri (codice ATECO di quest’ultima chicca il 25.40.00). Stamattina il codice relativo al commercio al dettaglio di armi e munizioni è stato tolto, mentre è rimasto nell’allegato a pagina 30 quello inerente alla fabbricazione di armi e munizioni. ... Bergamo, il Rinascimento della guerra.
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demoura · 5 years ago
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TEMPORADA LÍRICA DO S.CARLOS ;LA FORZA DEL DESTINO DE VERDI ...UMA BOA ESTREIA ! não posso esquecer La Forza del Destino a que assisti em 2005 na Bayerische Staasoper com direcção musical de Fabio Luisi, o falecido Marcelo Giordani como Don Álvaroe Violet a Urmana como Leonora ! . O nível musical e vocal da produção foi fascinante mas detestei a encenação de David Alden .
Pois na produção do S.Carlos a encenação ( a despeito de algumas críticas ) é o seu maior trunfo .David Pountney faz do destino fatal “ fatalita “um personagem metafórico .Como a tragédia se desenrola a partir da morte do marquês de Calatrava num disparo acidental ,Pountney pega nos personagens periféricos de Preziosilla e de Curra uma cigana guerreira - e a empregada de Leonora, e transforma -as em Destiny, que dirige o guião da opera desde que soam os acorde da abertura.Às vezes mascarada, outras com cartola e penachos como uma artista de cabaré, a Preziosilla de Catia Moreso domina a ação.
Pountney divide a ópera - a primeira de uma trilogia de Verdi na Ópera Nacional de Gales - em duas partes, Paz e Guerra. mantendo uma acção fluida mergulhando de uma cena diretamente para a seguinte, auxiliado pelos cenários (vulgares ) de Raimund Bauer .A ópera cujo enredo se alastra , é uma série de quadros “pesantes”, mas Pountney consegue coerência . Troca duas cenas no Ato III antecipando a cena dos soldados - aqui uma revista macabra no Piccolo Teatro della Guerra um momento demasiado Kitsch e o pior da encenação ...Imagens de vídeo de um revólver e uma gigantesca roda da fortuna lembram o acidente fatal, assim como o sangue que escorre continuamente da parede contra a qual o marquês desabou; Quer Leonora, buscando refúgio como eremita, quer Don Carlo esfregam as mãos nele. Uma enorme janela desenha uma cruz, o mosteiro iluminado em azul e povoado por monges em penitência com vestes ensanguentadas e mitras fixadas por coroas de espinhos, que se autoflagelam . A Cena final é de grande impacto..
Antonio Piroli dirigiu de forma empolgante a Orquestra Sinfonica Portuguesa, (em noite feliz ) revelando com verve ,do princípio ao fim , a beleza da partitura de Verdi .No elenco os meus destaques vão para o soprano spinto da americana Julianna Di Giacomo que criou uma vibrante Leonora .Nos portugueses embora com algumas estridências Cátia Moreso foi uma Preziosilla surpreendente ( notável . “ Rataplan “ numa das melhores cenas ) . Infelizmente o tenor “ de forza” lituano Kristhian Benedikt foi substituído pelo “jump in” Rafael Alvarez que não me convenceu .O barítono . Damiano Salerno foi um Don Carlo de qualidade superior. Voz poderosa, timbre agradável Quanto ao restante elenco deixarei para o látego de Jorge Calado ...O Coro dos ex-grevistas voltou a cantar para os burgueses assinantes (alvo selectivo ) e cumpriu embora não possa fazer esquecer o Coro de Munique ....Uma estreia positiva acima das expectativas .16/ 20 .
O
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linventariodichicco · 5 years ago
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Opera dai valori artistici e sociali altissimi, #ToddPhillips con il suo #Joker sovverte totalmente il mondo e il modo di fare cinecomic, proponendo una pellicola intima, viscerale, macabra che reinterpreta abilmente le origini del villain più iconico di sempre. Un film confezionato da capolavoro con bene in mente la stagione dei premi, ma che riesce ad avere una critica sociale contemporanea rendendolo più “terreno” e vicino di quanto ci si aspetti. Un cammino che porta Arthur a diventare da vittima a carnefice di Gotham, supportato da una prova magistrale di #JoaquinPhoenix il cui #Oscar come miglior attore è praticamente certo. Un film con tecnicismi maniacali, una colonna sonora strepitosa, violento, epico e in cui gli unici superpoteri sono il risentimento e il narcisismo, derivante da una società sempre più marcia che sgretola in mille pezzi la fragilità di un uomo che diventa, però, inarrestabile. Recensione Completa: https://www.linventariodichicco.it/2019/10/03/recensione-joker/ #linventariodichicco #dc @toddphillips1 @jokermovie @dccomics @warnerbrositalia #warnerbros (presso L'inventario di Chicco) https://www.instagram.com/p/B3PJ9xBiUFz/?igshid=12uqlzhv7ysjg
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quattroperquattro · 6 years ago
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A Field in England, di Ben Wheatly (2013)
Guerra civile inglese, in piena battaglia: uno studioso impaurito e un paio di soldati si ritrovano a seguire un mercenario per la campagna inglese, alla ricerca di una locanda dove risposare. La cosa prenderà una piega psichedelica dal momento in cui si nutriranno di una zuppa "arricchita" di sospettosi funghi.
Hobbs, il filosofo, nel suo Leviatano disse che l'uomo senza governo sarebbe caduto nel caos e nell'anarchia, e che “La vita dell'uomo è confinata nella solitudine, nella povertà, nella sporcizia, nella brutalità e infine la durata della vita è alquanto breve.” Se avesse visto questo film prima di scrivere questo pezzo, l'avrebbe forse corretto in “La vita dell'uomo è estremamente confinata nella solitudine, nell'estrema povertà, nella totale sporcizia, nell'assurda e terribile brutalità e infine la durata della vita è simile ai 91 minuti di pantomima di Ben Wheatley.” O forse, avrebbe cancellato questo verso direttamente dalla sua opera, per non sentirsi a disagio.
Ma non divaghiamo: A Field in England è un assurdo e viscerale meltdown psicadelico monocromo, ambientato da qualche parte durante la guerra civile inglese ("da qualche parte" è importante, segnatevelo); una volta separata quella siepe nelle fasi iniziali del film, il mondo sembra come entrare in stallo per tutta la durata della pellicola, troppo preso nello schiacciare sotto il manto del terrore lo studioso Whitehead, e cancellare la presenza di Dio dalle menti degli sfortunati protagonisti. Inoltre, una volta che il necromantico O'Neil entrerà a far parte di questa messinscena, ogni cosa perderà senso e significato, ma non nel senso di caos e disordine, ma di perdita di scopo. Tutto sembra far risaltare una ricerca vana di una risposta, di una soluzione, di un significato.
A Field in England è un film lasciato all'addiaccio, colpito dalla febbre, dai brividi e dalle allucinazioni. Le perfette immagini in bianco e nero sembrano togliere ogni possibile forma di empatia a questa vicenda macabra, mentre alcuni bizzarri momenti in cui gli attori sono come in fermi immagine, o meglio come dei ritratti di natura viva, rimarcano sicuramente gli aspetti metaforici delle loro mortificazioni e della loro agonia.
Tecnicamente: con soli 5 attori e un campo in campagna, Ben Wheatley (e la sceneggiatrice Amy Jump) sono come riusciti a ricreare una pièce teatrale di tutto rispetto, senza però lasciare l'impressione che intorno ai personaggi ci siano delle quinte a delimitarne il mondo; anzi, grazie forse alla splendida fotografia, questo prato sembra comprendere ogni cosa e ogni luogo, dando un senso di totalità che naturalmente non troverete nei film più teatrali (di solito chiusi in unità di tempo e luogo, i.e. stanze). Naturalmente anche la parte sonora è da brividi, e riesce anche a essere regina in una delle scene più iconiche del film (parlo naturalmente di Baloo My Boy).
Rispetto a un "Kill List", sempre suo, qui il sottotesto è come se fosse sempre presente davanti ai nostri occhi, in caratteri gigantiformi e rosso sangue, ma sembrerà impossibile vederlo (come a causa di un incantesimo o un malefizio) fino a che i titoli di coda non partiranno e anche lì, questi caratteri saranno come impressi nelle vostre retine come quando si guarda il sole senza protezione. Solo dopo aver riabituato la vista, forse riuscirete a notare, ancora. Ma vi avverto, queste sono cicatrici che si portano per sempre.
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ivanreycristo · 2 years ago
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El castillo de los MOROS (cultura q optó por TAPAR y SOMETER a la MUJER como SOLUCION al problema del PECADO ORIGINAL o del SEXO como un PODER OSCURO en lo que lo convirtio la MUJER y $atana$ u OSCURIDAD..apesar de ser regiones donde reina el SOL o el CALOR)..CRISTO o LUZ q soy YO optará x DESTAPAR O DESNUDAR a la MUJER para volver a hacer el SEXO algo de LUZ O DIOS y LIBRE O GRATIS y por tanto FACILITARLO para contrarrestar la OSCURIDAD o los VICIOS Y EXCESOS DEL DINERO y TODO TIPO DE PROSTITUCION Y ESCLAVITUD así como para PRESERVAR LO NATURAL Y LA NATURALEZA q destruye este Sistema de la FALSA MORAL o DINERO apesar de tanto POLITICO, RELIGIOSO E IDOLO.
Por cierto ..se puede subir al Castillo de los MOROS x un ATAJO desde la IGLESIA DE SANTA MARIA (q está poco antes de la casa donde se hospedo HANS CHRISTENSEN autor de CUANDO LOS ESPAÑOLES ESTUVIERON AQUI o la MACABRA "LAS ZAPATILLAS ROJAS" q adapto a OPERA-ROCK el cantante de LA UNION como LAS BOTAS ROJAS donde vende su ALMA AL DIABLO para ser una ROCKSTAR y en la q debutó la malograda Bimba BOSE)..pero es más jodido q ir por la carretera xq es de Escaleras y EMPEDRADO..aunque para bajar es mejor
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moviemaniac2020 · 4 years ago
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La casa dalle finestre che ridono (1976)
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Le acque del fiume Po scorrono lente nella vasta pianura padana, ignare delle perversioni che animano gli esseri umani… Nel 1976, l’allora trentottenne Pupi Avati aveva alle spalle solo quattro pellicole girate, più o meno tutte di genere grottesco. Nessuno si aspettava dal regista bolognese un thriller-giallo (con qualche sconfinamento nell’horror) così cupo e inquietante, che ben presto sarebbe diventato un cult-movie per tutte le generazioni a seguire: “La Casa dalla finestre che ridono”. Girato a bassissimo costo e con un cast di attori allora sicuramente sconosciuto (Lino Capolicchio, Gianni Cavina, Bob Tonelli, Francesca Marciano), il film di Avati al cinema incassò oltre 700 milioni delle vecchie lire, strappando anche alti giudizi critici nonostante il suo genere settario: Mereghetti, per esempio, esaltò l'idea vincente di “trasformare la Bassa Padana, assolata, sonnacchiosa e con tanti scheletri nascosti negli armadi, nel teatro ideale per un horror” (cit.). Una regia semplice ma pulita, un ritmo incalzante dalla prima all’ultima scena, una fotografia che mette in risalto i bellissimi paesaggi delle "Valli" di Comacchio e una sceneggiatura (dei fratelli Avati in collaborazione con Cavina e Maurizio Costanzo – un quartetto che collaborerà ancora a lungo in futuro) solida e senza buchi: sono questi gli ingredienti di una pellicola che ancora oggi a distanza di oltre quarant’anni dalla sua uscita è in grado di trasmettere ansie e inquietudini profonde. Trama. Anni ‘60. Un giovane restauratore arriva in un paesino della Bassa Ferrarese per ripristinare un affresco sulla morte di San Sebastiano, opera macabra di un artista locale folle e morto suicida trent’anni prima. Nei giorni di lavoro il protagonista si trova, però, coinvolto in una bieca atmosfera e assiste a omicidi violenti, finché colpo di scena dopo colpo di scena scoprirà un’orribile verità… Le inquadrature fisse, i movimenti di macchina da presa, i primi piani, gli zoom improvvisi e la spettrale colonna sonora del pianista Amedeo Tommaso non annoiano un solo minuto lo spettatore alla ricerca di un film dalle emozioni forti, capace anche di scavare dentro l’inconscio e le paure ancestrali. Scene culto: la terrificante sequenza di tortura di un povero moribondo in una sorta di macabra trasposizione tridimensionale dell’affresco, e il finale aperto e sospeso in un climax narrativo di tensione e paura che raggiungono l’apice appena prima dei titoli di coda. Regia: Pupi Avati. Italia, 1976. Cast: Lino Capolicchio, Francesca Marciano, Gianni Cavina, Vanna Busoni, Bob Tonelli, Pietro Brambilla, Ines Chiaschetti, Eugene Walter, Pina Borione.  streaming: https://www.youtube.com/watch?v=dUm_tPZugBE (rece: Mirko Confaloniera)
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andreashennen · 7 years ago
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Splendida intervista riguardo la TRONDHEIM SAGEN Grazie a Stefania Romito
Ciao Andreas, tu sei laureato in design presso l’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e hai deciso di dare libero sfogo alla tua creatività attraverso l’ideazione di una saga fantasy. Come ti è venuta questa idea?
“Trondheim Sagen” non nasce per caso, ma dopo un’attenta valutazione delle possibilità narrative. Un ampio lavoro di ricerca sui nomi dei personaggi ha dato vita alla scintilla creativa, vasta e dalla poliedrica ispirazione. Ho personalmente realizzato la mappa, inclusa in ogni volume, e grazie a quel lavoro ho determinato le vicissitudini della storia. In principio dovevano essere quattro volumi, ma molto sarebbe stato tralasciato, non offrendo una chiara lettura dell’evoluzione dei personaggi e delle trame tessute. Quindi dopo aver rivisto a tavolino le tracce in maniera più oculata, i libri sono divenuti sette. Molto è dovuto al Fantasy dei grandi autori, come il linguaggio colto, sinonimo di maestosità intellettuale caratterizzante alcuni personaggi, o l’imponenza degli ambienti atti a regalare suggestione nel lettore. Creature e animali giungono in parte dalla splendida mitologia vichinga, per scorrazzare in un vastissimo mondo al fianco di creature parto dei miei incubi.
Le architetture vengono accuratamente descritte ed estremizzate nelle loro più ardite forme, ponendo i lettori al cospetto di costruzioni gigantesche, prestate ora dall’architettura gotica, ora da quella nordica, sovente dalla tradizione giapponese senza limitazione di tempo o modo, creando una stupefacente mescolanza di stili ed elementi architettonici, caratterizzanti la multiculturalità dell’Impero degli Uomini Uniti. Sapienti cenni, derivanti dalle molteplici lezioni di storia dell’arte, guizzano agli occhi dei più esperti in materia, rivelando un’affinità con la Danza Macabra del tardo medioevo e, sovente, con il simbolismo figurativo. Il giusto spazio è stato lasciato ai valori per me fondamentali. Credo di non averli mai imposti o ostentati, sviluppandoli al pari di un’ombra tra il turbinio della narrazione.
Cosa rappresenta il fantasy per te?
Da anni seguo con crescente interesse il panorama del genere Fantasy, trovandolo una forma di chiara espressione artistica, la porta per far dono della propria preziosa fantasia a chi sia disposto a leggere e comprendere. Per quanto mi riguarda trovo magnifico poter spaziare liberamente con l’immaginazione, svincolato da leggi o canoni. Essere io il “demiurgo” del mondo e poter decidere come muovere ogni singola foglia degli alberi per dare vita a quanto, fino a poco tempo fa, era nascosto nella mia fantasia. Per me è un sogno reso palpabile l’aver pubblicato i primi due libri e scritto quasi interamente l’opera!
Il tuo progetto letterario, piuttosto ambizioso, prevede sette volumi di circa 750 pagine ciascuno. Posso chiederti il motivo che ti ha indotto a scegliere un numero predefinito di pagine per ciascuno libro?
La risposta è molto semplice, tutto dipende dalla necessità di poter offrire al pubblico un prodotto adeguato sia fisicamente, che economicamente. Un Fantasy come il mio non è adatto a un limitato quantitativo di pagine, poiché ogni dettaglio è nuovo, non posso favorire associazioni con cose esistenti, essendo ciascun oggetto estremizzato nelle forme e nelle decorazioni. Quindi la sola via percorribile era quella dei cosiddetti “mattoni”.
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Di questa saga, dal titolo “Trondheim Sagen”, sono già stati pubblicati i primi due volumi. Il primo libro è stato pubblicato nel dicembre del 2016. “Tumulto della terra”, questo è il titolo, ricalca molto lo stile del romanzo epico. È giusto affermare questo?
L’intera Trondheim Sagen è un racconto fantasy epico, dove nulla è stato escluso! Mostri raccapriccianti provenienti dalle mitologie classiche, demoni, maghi, stregoni, Dei e rigurgiti degli inferni tutti si avvicenderanno contro o al fianco dei deboli umani, per creare un turbinare di eventi inattesi. Scontri eroici e amori imprevisti travolgono i protagonisti, sconvolgendo le loro vite, come fossero drakkar soggetti al soffio di un vento beffardo dal discutibile intento di sospingere le vele su perigliose rotte. La dicotomia del bene e male nell’intera saga non appare netta, salvo rari casi, ma ogni protagonista sarà capace di agire nel modo a lui maggiormente proficuo, incrementando l’imprevedibilità dell’azione.
Un libro dal quale emergono gli aspetti più infimi dell’uomo ma anche i più sublimi, ce ne vuoi parlare?
La storia degli uomini parla chiaro e non mente! Da sempre siamo soggetti alla corruzione del “Dio Denaro” e difficilmente resistiamo alle brame di potere. Giochi di palazzo senza il minimo scrupolo sono all’ordine del giorno in alcuni Reami da me descritti e ho inserito personaggi capaci di far accapponare la pelle per il loro cinismo o psicologica cattiveria. In mezzo ad una massa di avide e aride genti certo spunteranno rari fiori, dalle corolle pervase da sgargianti riflessi di fedeltà, amicizia, coraggio, abnegazione e famiglia. Valori cardine secondo il mio modesto parere.
Il romanzo narra le vicissitudini intercorse nell’Impero degli Uomini Uniti. Un mondo in cui la pace è costantemente messa a rischio. Che ruolo riveste re Holaf nell’intreccio?
Re Holaf Erlingson Signore del Nord è la voce fuori dal coro, il condottiero nordico per eccellenza! Egli unisce una forte personalità ad una carismatica giuda, capace di poter risollevare le sorti del morale delle truppe con una sola frase. Il suo sguardo appare meno ottenebrato di quello degli altri Re dei Re e per lui nulla si figura mai come il tetro burattinaio dell’avversa sorte avrebbe voluto far credere. Non è un eroe senza macchia, le sue mani grondano sangue e non si pone scrupoli per salvaguardare il suo popolo e il proprio casato.
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L’anno successivo dai alle stampe il secondo volume dal titolo “Marea verde”. Quali sono gli elementi di contatto e di discordanza con l’opera precedente?
I libri della Trondheim Sagen hanno legami assai stretti tra loro: fin dal primo volume inserisco piccoli dettagli in seguito spiegati e rievocati. Ciascun libro tratta una “storia verticale”, ma si intreccia con altri protagonisti e imprevisti “orizzontali” all’intera opera, originando un turbine di disavventura dalle disparate situazioni ed epiloghi. Ogni tomo è un passo al fianco del Signore del Nord e a quello dei suoi compagni per giungere ad un unico incontrovertibile verdetto.
Anche in questo libro l’eroismo e la condivisione di ideali emergono in primo piano. Oltre a questi aspetti, quali sono gli altri elementi che si impongono con evidenza nell’intreccio?
Molti descrivono un “medioevo angelicato” ove nessuno mai soffre e si sporca con il sangue del nemico. Ho preferito dunque inserire parti violente proprio per comunicare al lettore la tragicità della guerra e dell’evolvere degli eventi, l’asprezza delle situazioni nelle quali i personaggi si troveranno e l’ansia da loro provata per i propri amici e cari. Inoltre offro, a mio modo, un non velato tributo al vigore del “gentil sesso”, poiché ho creato personaggi femminili con caratteri estremamente forti e liberi. Non rare saranno le donne capaci di salvaguardare la vita dei compagni, paragonandosi ad essi sia per forza che per volontà. Inoltre sovente si leggono provocazioni da parte di guerriere che farebbero impallidire i più emancipati eruditi della storia.
Qual è il filo conduttore che farà da collante a tutti i sette volumi di questa saga?
Il filo conduttore della Trondheim Sagen altro non potrebbe essere se non il restare uniti per un bene comune, la necessità di farsi coesi contro nemici immensamente superiori, e dimostrare quanto “fuoco” ancora arda in petto nei “deboli uomini”. Una razza fino a poco prima naufragata nelle lusinghe del benessere e obnubilata dall’essersi accontentata di credere alle mere apparenze senza più aver la voglia di indagare.
Dove è possibile acquistare i tuoi libri?
Sia “Tumulto della terra” che “Marea verde” sono disponibili sulla piattaforma Amazon: https://www.amazon.it/s/ref=nb_sb_noss?__mk_it_IT=%C3%85M%C3%85%C5%BD%C3%95%C3%91&url=search-alias%3Ddigital-text&field-keywords=trondheim+sagen
Entrambi acquistabili in formato cartaceo o ebook.
Di ogni tomo Amazon rende usufruibile, gratuitamente, una corposa anteprima di circa ottanta pagine, e se questo non fosse ancora sufficiente a convincervi, settimanalmente posto sul sito internet https://trondheimsagen.wordpress.com/ e sulla pagina Facebook https://www.facebook.com/trondheimsagen, approfondimenti inediti, appositamente scritti con immagini realizzate da me!
Mi trovate inoltre sul canale Youtube
https://www.youtube.com/channel/UCS-QbMwK_-l66gD8zpjgoBA
e nei profili Instagram
https://www.instagram.com/trondheimsagen/
e tumblr
https://www.tumblr.com/blog/andreashennen
Bene, Andreas, è stato davvero un grande piacere parlare con te del tuo ambizioso progetto letterario. Un progetto che incontra il gusto di tutti coloro che amano il genere fantasy e non solo, perché sono davvero molti e interessanti i valori che emergono da queste tue storie. Il genere fantasy diventa, quindi, un veicolo privilegiato che ti consente di trasmettere e di condividere messaggi importanti. Tantissimi complimenti e in bocca al lupo per tutto!
di  STEFANIA ROMITO scrittrice, conduttrice radiofonica e televisiva, Rappresentante letteraria del CENTRO LEONARDO DA VINCI di Milano, fondatrice di “Ophelia’s friends Cultural Projects”
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novalistream · 5 years ago
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Covid, i soldi per la ripartenza? Il comune di Bergamo li assegna a chi produce armi, ma non alle piccole imprese di Francesca Nava Oggi vorrei parlarvi del Rinascimento di Bergamo. Già, perché dovete sapere che la città martire del Covid-19, attraverso un accordo tra il Comune e Intesa Sanpaolo, ripartirà grazie a un piano innovativo dal valore complessivo di 30 milioni di euro, di cui 10 milioni a fondo perduto, per sostenere le imprese colpite dalla crisi e aiutarle a risollevarsi il prima possibile. Il progetto si chiama proprio così “Programma Rinascimento” e se andate sul sito del Comune lo trovate nella home page, con tanto di didascalia: “Strumenti di sostegno a favore del tessuto delle micro-imprese colpite dalla pandemia.” A gestire l’erogazione dei contributi a fondo perduto e le attività di monitoraggio e rendicontazione sarà il CESVI, una Fondazione Onlus, tra le più importanti e accreditate istituzioni del Terzo Settore, con cui il Comune ha definito una convenzione specifica. La Onlus ha sede a Bergamo e vanta tra le sue ambasciatrici anche la moglie del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, Cristina Parodi. La supervisione sarà invece affidata a un comitato tecnico di cinque membri (...) E di contraccolpi gli imprenditori bergamaschi, soprattutto i più piccoli, ne hanno avuti di pesantissimi. Tra questi imprenditori ci sono due stiliste, proprietarie di una piccola società di moda registrata nelle imprese artigiane di Bergamo. (...) Il loro codice ATECO è il 74.10.10, quello in cui rientrano le attività di design di moda e di design industriale. Convinte di avere tutti i requisiti, quando si collegano al sito del CESVI, la triste scoperta: il loro codice non rientra tra quelli idonei per la richiesta del finanziamento. Secondo la legge, la loro azienda avrebbe potuto continuare a lavorare anche durante la fase uno. Scorrono velocemente l’elenco per capire quali siano le attività che potranno invece usufruire dei fondi. E qui restano a bocca aperta: “Nell’elenco troviamo il 30.40.0 un codice ATECO relativo alla fabbricazione di veicoli militari da combattimento”, lo choc è totale. Nella città, che ha visto portar via le bare dei morti Covid proprio su dei carri dell’esercito questa scoperta va oltre ogni macabra immaginazione. Fanno anche un altro pensiero logico: “Proprio il CESVI, che opera in teatri di guerra al fianco dei bambini e delle popolazioni colpite da azioni belliche, non può patrocinare una iniziativa del genere!” Lo choc non finisce qui. Nell’elenco trovano anche la fabbricazione di armi e munizioni, con codice ATECO 25.40.00, la fabbricazioni di missili balistici con il codice 30.30.02, la riparazione di armi e munizioni con il 33.11.03, la fabbricazione di esplosivi con il codice 20.51.0 e infine il commercio al dettaglio di armi e articoli militari, con il codice ATECO 47.78.50. Il commento a caldo viene naturale: “Proprio noi, che siamo in una crisi pazzesca, in 23 anni non abbiamo mai chiesto nulla, ci hanno obbligato a stare a casa, eravamo terrorizzate, ora scopriamo che i soldi li danno a chi produce armi, è davvero troppo”. A questo punto prendono il telefono e chiamano la Onlus responsabile della erogazione dei fondi per lamentarsi e chiedere chiarimenti. Prima, però, fotografano la schermata, a futura memoria. Vengono richiamate e un responsabile assicura loro che il comitato analizzerà la loro domanda. Scrivono anche una mail, nella quale denunciano: “Doppio sconforto e disgusto quando abbiamo visto che tra le aziende aventi diritto a questi aiuti sono presenti quelle che producono armamenti da combattimento. Non ci potevamo credere!! Soprattutto se si pensa che siete il CESVI…”. Il 20 di maggio ricevono una mail ufficiale, nella quale la Onlus scrive: “Vi ringraziamo molto della vostra segnalazione, che con il dettaglio fornito ci ha permesso di individuare ed eliminare il codice ATECO in questione dalla lista. Provvediamo ad aggiornare le informazioni sul sito nel più breve tempo possibile e garantiamo che eventuali richieste giunte al sistema nel frattempo saranno inammissibili”. Dopo la risposta del CESVI, le due stiliste provano anche a contattare il sindaco di Bergamo, Giorgio Gori, scrivendo un’altra mail al Comune, nella quale lamentano “l’estrema superficialità con la quale è stato gestito questo prezioso e importante progetto per le imprese bergamasche. Come sarà andata a finire? Ve lo starete chiedendo, ovviamente. Dopo la segnalazione di questa piccola azienda di Bergamo esclusa dal bando, sul sito del CESVI e del Comune sono stati rimossi i codici ATECO relativi alla fabbricazione di missili balistici (intercontinentali), il 30.30.02 e il codice 30.40.00, relativo alla fabbricazione di veicoli militari da combattimento, tra cui i carri armati. E grazie al cielo, direte voi. Abbiamo scritto alla segreteria del sindaco Gori per chiedere chiarimenti, dal momento che ancora nella giornata di ieri, scorrendo sul sito del CESVI e del Comune, si potevano leggere, nella lista delle categorie produttive idonee ad accedere ai fondi del bando Rinascimento, attività come queste: fabbricazione di esplosivi; riparazione e manutenzione di armi, sistemi d’arma e munizioni; commercio al dettaglio di armi e munizioni di articoli militari; fabbricazione di armi e munizioni, tra cui rientrano anche armi pesanti, come lanciarazzi e mitragliatori, pistole ,munizioni da guerra, bombe, missili, mine e siluri (codice ATECO di quest’ultima chicca il 25.40.00). Stamattina il codice relativo al commercio al dettaglio di armi e munizioni è stato tolto, mentre è rimasto nell’allegato a pagina 30 quello inerente alla fabbricazione di armi e munizioni. ... Bergamo, il Rinascimento della guerra.
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corallorosso · 7 years ago
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Hiroshi Ouchi, A volte, è la scienza il peggior assassino È il 30 settembre 1999 e Hiroshi è un normale operaio di 35 anni impiegato in una piccola centrale nucleare. Niente fa presagire l'orrore che seguirà. Un errore umano nella miscelazione di uranio ed acido nitrico all’interno di un serbatoio causa una reazione nucleare fortissima e una fuoriuscita di radiazioni che colpisce in pieno Hiroshi. Altri due operai vengono colpiti, ma è a Hiroshi che tocca il destino più atroce. Appena giunto in ospedale, Hiroshi sembra stare bene, fatta eccezione per un generale malessere che inizia a sopraggiungere, ma presto la situazione degenera. Dal corpo dell'uomo iniziano a staccarsi grandi lembi di pelle che cadono a terra come strisce di carta. La poca carne rimasta attaccata diventa scura. Il dolore è indescrivibile. Hiroshi viene messo in coma farmacologico per evitargli la sofferenza che gli provoca la degenerazione cellulare. Hiroshi si riduce presto a una massa di carne viva e sanguinante che spurga ogni giorno più di venti litri di fluidi corporei. In questa terribile condizione, Hiroshi sopravvive per ben 83 giorni, completamente sedato per evitare i terrificanti dolori che lo torturerebbero. I medici sanno bene che Hiroshi non può sopravvivere: le radiazioni lo hanno distrutto a livello cellulare e, nella remota possibilità che si riprenda, non potrà mai essere risvegliato dal coma farmacologico e lasciare l'ospedale. Ma la legge in Giappone è chiara: bisogna fare di tutto per tentare di salvare la vita al paziente. Si provano quindi trasfusioni massicce di sangue, innesti di pelle e trapianti di cellule staminali, ma ovviamente è tutto inutile e dopo quasi tre mesi, Hiroshi cede. Ad oggi, il triste ed inquietante caso dell’incidente di Hiroshi Ouchi è considerato uno degli incidenti più gravi nel campo del nucleare. Testimonianza di ciò che può accadere quando vengono commessi degli errori in questo campo. Un esempio di quanto la vita, e la morte, a volte possano essere più crudeli di qualunque macabra fantasia. Ho giudicato le immagini del ricovero di Hiroshi troppo cruente per questa fascia dark, ma, per gli interessati, su Google è possibile vedere i terribili effetti delle radiazioni sul povero opera (Le fotografie che hanno fatto la storia)
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pangeanews · 5 years ago
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“Pasolini non era scandaloso, non promuoveva lo scandalo. Pasolini, ecco, si scandalizzava”
In principio, benché sia la fine, è un corpo – il corpo del reato, il corpo del reo. Il corpo martoriato di Pasolini ricorda che ogni corpo è un reato, che ogni corpo è martire e mattatore. Ogni corpo è contundente: ci sfiora, ci ferisce. Il corpo esiste per quello, per colpire. Quando è inerme – cadavere – quel corpo rimette a noi la sua responsabilità: ne siamo colpevoli, pur colpiti.
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L’esposizione a cui è sottoposto Pasolini ha fatto sì che il suo corpo sia stato sottratto, non c’è più. Al suo posto c’è una immagine, a volte una voce – la sua opera, il corpus, invece, è stata soppiantata dall’interpretazione. Si è colpevoli, anche, della sparizione di un corpo. Pasolini non esiste – esiste una griffe, che può graffiare qualsiasi cosa, come Nike, Adidas, Armani. Pur inseguendo il sacrilegio, forse, PPP non supponeva questo attentato, è diventato sarcofago – l’hanno reso inoffensivo, arma priva di proiettile, argomento da museo. Anche la sua nudità – il corpo esposto – non è finestra sull’osceno, né sul candore che precede ogni atto: è teca, tocco d’arte, estro d’intelletto, applausi di Stato.
*
Tutto questo – che è quasi nulla rispetto alla potenza del resto – è stato scritto, previsto, pre-detto, con concreta dedizione da Gianni Scalia, in un libro, La mania della verità: dialogo con Pier Paolo Pasolini, edito da Cappelli nel 1978, che ritorna per Portatori d’acqua, straordinaria avventura editoriale con sede a Pesaro, insieme a un notevole numero di altri materiali. Tra questi, c’è un commento a Salò o le 120 giornate di Sodoma, “il più bel film di Pasolini – un film comunque terribile”, in cui scrive, Scalia, tra l’altro: “Questo film, nella descrizione del sì più totale, cioè dell’adattamento alla realtà orribile senza residui, è allo stesso tempo l’estremo no all’adattamento. Può darsi che questa sia la virtù dei poeti. La virtù dei poeti, che nel momento in cui accettano la realtà e questa non si può mutare, la mutano proprio in quanto dicono che è immutabile”. E continua: “Potrete dirmi: questa è la virtù dei poeti, ma noi che non lo siamo? Intanto ascoltiamo la voce dei poeti piuttosto che la chiacchiera, le divagazioni inutili, le parole illeggibili, le frasi incomprensibili, questa specie di rumore di fondo e di bavardage uniforme che ci circonda e ci invade”. Il poeta non va capito – ho in sospetto la facile comprensione, immediata, che fa scattare il sorriso, l’ironia velenosa, compiaciuta, ciò che ‘avrei potuto dire io’ – va ascoltato. La poesia è nel punto d’ombra, dove luccica la selce, nell’assalto.
*
Pasolini nella lettera a Scalia, il 3 ottobre 1975: “Sono nel vuoto – in un vuoto quasi accademico o da ospedale psichiatrico – e qualcosa che mi giunga dall’esterno è un messaggio consolante e festoso. Dunque esisto!”.
*
Eppure, il corpo finale ritorna quello dell’esordio, il cadavere retrocede al me donzel, “io vivo di pietà/ lontano fanciullo peccatore// in un riso sconsolato”. Torna donzel, Pasolini, vagando nel luogo dove “la luce acceca” – la lus a imbarlumìs, è scritto, che parlare magnifico s’agglutina in bocca, tra barlume e barbaro, l’imbarbarimento della luce.
*
Gianni Scalia, l’immenso intellettuale, la mente di “In forma di parole”, isola, rifugio, incubatrice di genio per noi poveri piccoli cercatori dell’insolito, si domanda continuamente sul modo, la forma, la formula di ‘tradurre’ Pasolini. “Pasolini cercava di tradurre, e chiedeva di essere tradotto. Noi, anche oggi, stiamo ‘traducendo’ Pasolini? Stiamo aiutando, sia pure postumamente, Pasolini a essere tradotto?”. Da apolide m’è venuta in memoria L’Orestiade di Eschilo tradotta da Pasolini per Gassman, nel 1960. “Ho cominciato a tradurre… del tutto impreparato… con entusiasmo… con la brutalità dell’istinto”, scrive Pasolini. Credo che ci sia qualcosa di notevole, di nativo, di appena sorto nelle parole impreparato, entusiasmo, brutalità, istinto. La brutalità di una nascita – far nascere quel testo in altra lingua. Nell’impreparazione – cioè: nell’essere inadatti – è l’entusiasmo, brutale. Pasolini traduce Eschilo così: “E dal cuore reso finalmente umile/ dalla necessità, si fece strada/ l’impura, disperata idea:/ non lo trattenne più niente./ Perché, sorgente di ogni male,/ è la funesta follia degli atti infami/ che dà forza agli uomini./ Uccise sua figlia con le sue mani”. Che bellezza questo Eschilo che diventa Pasolini – e che Pasolini immaginava in Africa. Bisogna uccidere il figlio che è dentro di sé – o nutrirlo con il proprio sé, fino alla denutrizione – per tradurre in uomo il nostro stare. (d.b.)
***
“La storia di Pasolini è soprattutto la storia di una persecuzione (che ha condotto all’esecuzione), in forme implicite o esplicite, materiali o ideologiche, da parte di quasi-tutti: classe dirigente e stampa; magistratura e organizzazioni politiche (anche ‘di sinistra’); intellighentzia politica o letteraria; ‘moralità’ sociale e istituzionale – per non parlare della stupidità e mostruosità fascista. Negli ultimi anni Pasolini aveva cominciato un processo al Palazzo, al Potere, sempre meno confidando nella ‘opposizione istituita’; e, indirettamente, ha preparato l’odio del Palazzo, del Potere. L’esecuzione, atrocemente puntuale, è avvenuta”.
“Pasolini non era scandaloso, non promuoveva lo scandalo. È possibile, ancora, fare scandalo in questa società, possessiva e permissiva, repressiva e funzionale, egoista e ‘socializzata’? Pasolini non era scandaloso. Pasolini, ecco, si scandalizzava. È una reazione sempre meno frequente, non praticata, impensata. Sfruttamento, oppressione, corruzione, violenza, dolore, male ci fanno sempre meno scandalizzati. Pasolini voleva, prima di spiegare, comprendere fino in fondo. Conoscere e non solo avere coscienza, dei rapporti corrotti, disumani, artificiali tra gli uomini. Era ‘cristiano’? i più di noi, credo, a volte, sono scandalosi, scandalistici, non scandalizzati. In scandalo c’è un etimo di sopportazione e di insopportabilità che conosciamo sempre meno. Skandalon è ostacolo, pietra d’inciampo, rottura nel ‘progresso’ della servitù, dell’oppressione, del male: è, anche, ferita, patimento, intollerabilità: entrare negli interstizi, nei ‘buchi’, nelle dissidenze… Lo scandalizzato è un impotente, la cui sofferenza è possibilità; un tollerante, che non tollera, non sopporta e non si sopporta; si nega convivendo, si estrania abitando insieme. Pasolini, sappiamo, a volte abbassava gli occhi per non vedere gli occhi, le facce; arrossiva del pudore o della vergogna altrui, che lo giudicavano; solitario nella divorante solidarietà, cercava i rapporti, che temeva o sperava, evitava e desiderava”.
“Pasolini è stato crudele. Ci ha ricordato la realtà del mondo in cui abitiamo, abituati. Che l’avanzare può essere un declinare. Ci ha ricordato, con altrettanta crudeltà, il ‘sogno di una cosa’; in una disperata vitalità, la crudeltà del ‘diritto di sognare’. Questa crudeltà, è la sua dolcezza. I poeti (certi poeti) sono crudeli. La loro crudeltà è, forse, la memoria perduta, o dispersa, o lacunosa della dolcezza da raggiungere a costo di lungo strazio: dolcezza crudele, poiché non ci dà nessuna purificazione, eppure ricorda, attraverso il sacrificio della sua consolazione, che potrà esserci una purezza, che al di là della poesia c’è, può esserci, qualcosa che non può essere poesia. La crudeltà finale di Pasolini è nel non farsi solo giudicare, comprendere, ammirare o amare: ma nel non farci dimenticare di quella crudeltà. (E di adoperarla, finché e se, ancora, ci resta)”.
“Pasolini è diventato di consumo. Si è detto: che è una vittima della società (o del suo ‘mondo’), che era destinato, pre-destinato, che si era preparato alla morte, come in una ‘sua’ sceneggiatura (funebre, macabra sceneggiatura che soddisfa la società dello spettacolo); che è stato vittima del suo ‘corpo’, della sua ‘immaturità’. (Si dimentica che alla fine aveva abiurato dall’‘innocenza’, presunta, del corpo). Lo si indizia come un caso, lo si evoca come tema di dibattiti e convegni, fantasma benigno o maligno. Lo si eserciterà, presumo, come pensum. È presumibile che se ne faccia un film: come già si preparano fumetti, album di fotografie, calendari di ‘vizi’ (ormai ammessi), libri di edificazione programmata, chiacchiere di scandalo (lecito), vite romanzate; e saggi-verità, bibliografie e filmografie, filologia universitaria… Si è ripetuto troppe volte che Pasolini lascia ‘un vuoto’ nella cultura (nella società) italiana. Ma Pasolini viveva e scriveva in un vuoto: lui stesso in quel ‘vuoto pieno di buchi’ (come sapeva Artaud) che è la vita nella società del capitale, l’atroce, mostruosa ‘religione della vita quotidiana’”.
I frammenti sono tratti da: Gianni Scalia, “La mania della verità. Dialogo con Pier Paolo Pasolini”, a cura di Pasquale Alferj, Riccardo Corsi, Simone Massa, Portatori d’acqua, 2020
L'articolo “Pasolini non era scandaloso, non promuoveva lo scandalo. Pasolini, ecco, si scandalizzava” proviene da Pangea.
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internazionalevitalista · 5 years ago
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Popoli del mondo, ancora uno sforzo!
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di Raoul Vaneigem
Il mondo cambia la sua base
Lo choc del coronavirus non ha fatto che eseguire la sentenza pronunciata contro sé stessa da una economia totalitaria fondata sullo sfruttamento dell’uomo e della natura.
Il vecchio mondo si sfalda e affonda. Il nuovo, nella costernazione delle rovine che si ammassano, non osa sbarazzarsene; più impaurito che risoluto, pena a ritrovare l’audacia di un bambino che impara a camminare. Come se aver a lungo gridato al disastro lasciasse il popolo senza voce.
Tuttavia, quelle e quelli che sono scampati ai mortali tentacoli della merce sono in piedi tra le macerie. Si risvegliano alla realtà di un’esistenza che non sarà più la stessa. Desiderano affrancarsi dall’incubo assestato loro dalla denaturazione della terra e dei suoi abitanti.
Non è forse questa la prova che la vita è indistruttibile? Non è su questa evidenza che si infrangono nella stessa risacca le menzogne dall’alto e le denunce dal basso?
La lotta per il vivente non deve dare giustificazioni. Rivendicare la sovranità della vita è in grado di annientare l’impero della merce, le cui istituzioni sono mondialmente ridotte a brandelli.
Fino ad oggi, non ci siamo battuti che per sopravvivere. Siamo rimasti confinati in una giungla sociale dove regnava la legge del più forte e del più furbo. Lasceremo l’isolamento al quale ci costringe l’epidemia del coronavirus per replicare la danza macabra della preda e del predatore? Non è evidente a tutte e tutti che l’insurrezione della vita quotidiana, della quale i gilets jaunes sono stati in Francia il segno premonitore, non è altro che il superamento di questa sopravvivenza che una società di predazione non ha smesso di imporci quotidianamente e militarmente?
Quello che non vogliamo più è il fermento di quello che vogliamo
La vita è un fenomeno naturale in ebollizione sperimentale permanente. Non è buona né cattiva. La sua manna ci fa dono della spugnola come dell’amanita falloide. Essa è in noi e nell’universo una forza cieca. Ma ha dotato la specie umana della capacità di distinguere la spugnola dall’amanita, e di qualcosa di più! Ci ha armati di una coscienza, ci ha dato la capacità di crearci ricreando il mondo.
Per farci dimenticare questa straordinaria facoltà, ci è voluto che gravasse su di noi il peso di una storia che comincia con le prime città-stato e termina - tanto più rapidamente quanto più vi porremo mano - con lo sfaldamento della mondializzazione del mercato.
La vita e il suo senso umano sono la poesia fatta per uno e per tutte e tutti. Questa poesia ha sempre brillato della sua esplosione nelle grandi sollevazioni della libertà. Non vogliamo più che essa sia, come nel passato, un chiarore effimero. Vogliamo mettere in opera una insurrezione permanente, all’immagine del fuoco passionale della vita, che si acquieta ma non si estingue mai.
È dal mondo intero che s’improvvisa una via dei canti. È là che la nostra volontà di vivere si forgia spezzando le catene del potere e della predazione. Catene che noi, donne e uomini, abbiamo forgiato per la nostra infelicità.
Eccoci al cuore della mutazione sociale, economica, politica ed esistenziale. È il momento del “Hic Rhodus, hic salta”. Non è un’ingiunzione a riconquistare il mondo dal quale siamo stati scacciati. È il soffio di una vita che lo slancio irresistibile dei popoli ristabilirà nei suoi diritti assoluti.
L’alleanza con la natura esige la fine del suo lucrativo sfruttamento
Non abbiamo preso abbastanza coscienza della relazione concomitante tra la violenza esercitata dall’economia contro la natura della quale fa razzia, e la violenza con la quale il patriarcato colpisce le donne dalla sua instaurazione, tre o quattromila anni prima dell’era detta cristiana.
Con il capitalismo verde-dollaro, il brutale saccheggio delle risorse terrestri tende a cedere il posto alle grandi manovre della subornazione. In nome della protezione della natura è di nuovo la natura che viene venduta. Cosi va nei simulacri dell’amore quando lo stupratore si atteggia a seduttore per meglio ghermire la sua preda. La predazione ricorre da gran tempo alla pratica del guanto di velluto.
Siamo al punto in cui una nuova alleanza con la natura riveste un’importanza prioritaria. Non si tratta evidentemente di ritrovare - come potremmo? - la simbiosi con l’ambiente naturale nel quale evolvevano le civiltà della raccolta prima che giungesse a soppiantarle una civiltà fondata sul commercio, l’agricoltura intensiva, la società patriarcale e il potere gerarchizzato.
Ma, si sarà capito, si tratta ormai di restaurare un ambiente naturale dove la vita sia possibile, l’aria respirabile, l’acqua potabile, l’agricoltura sbarazzata dai suoi veleni, le libertà del commercio revocate per la libertà del vivente, il patriarcato smembrato, le gerarchie abolite.
Gli effetti della disumanizzazione e degli attacchi sistematicamente portati contro l’habitat non hanno avuto bisogno del coronavirus per dimostrare la tossicità dell’oppressione del mercato. Di contro, la gestione catastrofica della calamità ha mostrato l’incapacità dello Stato di dare prova della menoma efficacia all’infuori della sola funzione che sia in grado di esercitare: la repressione, la militarizzazione degli individui e delle società.
La lotta contro la denaturazione non ha da fare promesse e lodevoli dichiarazioni retoriche d’intenti, corrotte o meno che siano dal mercato delle energie rinnovabili. Essa riposa su un progetto pratico che verte sull’inventività degli individui e delle collettività. La permacultura rinaturalizzante delle terre avvelenate dal mercato dei pesticidi non è che una testimonianza della creatività di un popolo che ha tutto da guadagnare nell’annientare ciò che ha congiurato alla sua perdizione. È tempo di bandire quegli allevamenti concentrazionari dove il maltrattamento degli animali è stato notoriamente la causa della peste suina, dell’influenza aviaria, della mucca resa pazza da questa pazzia del denaro feticizzato che la ragione economica tenterà ancora una volta di farci ingurgitare se non digerire.
Hanno una sorte tanto diversa dalla nostra quelle bestie da batteria che escono dal confinamento per entrare nel mattatoio? Non siamo forse in una società che distribuisce dividendi al parassitismo d’impresa e lascia morire uomini, donne e bambini di carenze sanitarie? Una inarrestabile ragione economica alleggerisce così le voci di bilancio imputabili al numero crescente di anziane e di anziani. Essa preconizza una soluzione finale che impunemente li condanna a crepare nelle case di ripose spogliate di mezzi e di infermieri. A Nancy, in Francia, vi è stato il caso di un alto responsabile della sanità il quale ha dichiarato che l’epidemia non è una ragione sufficiente per non tagliare ulteriormente letti e personale ospedaliero. Nessuno l’ha cacciato a calci sul sedere. Gli assassini economici suscitano meno indignazione di un disturbato mentale che corre per le strade brandendo il coltello dell’illuminazione religiosa.
Non faccio appello alla giustizia popolare, non preconizzo Massacri di Settembre per gli zozzoni del fatturato. Chiedo solo che la generosità umana renda impossibile il ritorno della ragione del mercato.
Tutti i modi di governo che abbiamo conosciuto sono falliti, smontati dalla loro crudele assurdità. È al popolo che spetta di mettere in opera un progetto di società che restituisca all’umano, all’animale, al vegetale, al minerale una fondamentale unità.
La menzogna che qualifica come utopia un tale progetto non ha resistito allo choc della realtà. La storia ha rivelato la civiltà del mercato come obsolescente e insana. L’edificazione di una civiltà umana non è solo divenuta possibile, essa schiude la sola via che, appassionatamente e disperatamente sognata da generazioni innumerabili, si affaccia sulla fine dei nostri incubi.
Dal momento che la disperazione ha cambiato campo, essa appartiene al passato. Ci resta la passione di un presente da costruire. Ci prenderemo il tempo di abolire il “tempo è denaro” che è il tempo della morte programmata.
La rinaturalizzazione è un crogiolo di nuove culture dove dovremo gattonare tra confusione e innovazioni nei più diversi ambiti. Non abbiamo forse dato troppo credito a una medicina meccanicista che spesso tratta i corpi come un garagista la vettura affidatagli? Come fidarvi di un esperto che vi ripara per rispedirvi al lavoro?
Il dogma dell’anti-natura, tanto a lungo martellato dagli imperativi produttivisti, non ha forse contribuito a esasperare le nostre reazioni emotive, a propagare panico e isteria sicuritaria, esacerbando perciò il conflitto con un virus che l’immunità del nostro organismo avrebbe avuto qualche possibilità di ammansire o rendere meno aggressivo, se non fosse invece stata messa a mal partito da un totalitarismo del mercato al quale nulla di inumano è estraneo?
Ci hanno abbacinato a sazietà con il progresso della tecnologia. Per arrivare a cosa? Le navette spaziali verso Marte e l’assenza terrestre di letti e di respiratori negli ospedali.
Di sicuro, dovremmo meravigliarci più delle scoperte su una vita della quale ignoriamo tutto, o quasi. Chi ne dubiterebbe? Solo gli oligarchi e i loro lacché, che la diarrea mercantile svuota della loro sostanza, e che confineremo nelle loro latrine.
Farla finita con la militarizzazione dei corpi, dei costumi, delle mentalità
La repressione è la ragion d’essere ultima dello stato. A sua volta fattone oggetto sotto le pressioni delle multinazionali che impongono i propri diktat alla terra e alla vita. La prevedibile messa in discussione dei governi tornerà a porre la questione: il confinamento sarebbe stato pertinente se le infrastrutture sanitarie fossero rimaste all’altezza, invece di subire lo sbranamento che sappiamo, decretato dall’imperativo della redditività?
Nell’attesa - è una constatazione obbligata - la militarizzazione e la ferocia sicuritaria non hanno fatto che prendere la rincorsa della repressione in corso nel mondo intero. L’Ordine democratico nemmeno poteva immaginare un pretesto migliore per premunirsi contro la collera dei popoli. L’imprigionamento a casa propria, non era forse questo l’obiettivo dei dirigenti, inquieti per la stanchezza delle loro sezioni d’assalto di manganellatori, sguerciatori, sicari salariati? Bella replica generale di quella tattica del kettle usata contro manifestanti pacifici, che reclamavano tra le altre cose il rifinanziamento degli ospedali.
Almeno siamo avvertiti: i governanti tenteranno di tutto per farci transitare dal confinamento alla cuccia. Ma chi accetterà di passare docilmente dall’austerità carceraria al conforto della schiavitù rappezzata?
È probabile che la rabbia del confinato avrà trovato l’occasione di denunciare l’aberrante e tirannico sistema che tratta il coronavirus alla maniera di quel terrorismo multicolore che ingrassa il mercato della paura.
La riflessione non si fermi qui. Pensate a quegli studenti che, nel paese dei Diritti dell’Uomo, sono stati costretti a inginocchiarsi davanti alla sbirraglia dello stato. Pensate all’educazione stessa dove l’autoritarismo professorale inibisce da secoli la spontanea curiosità del bambino e trattiene la generosità del sapere dal propagarsi liberamente. Pensate fino a che punto l’accanimento concorrenziale, la competizione, l’arrivismo del “fatti in là ché mi piazzo io” ci hanno chiuso in una caserma.
La servitù volontaria è una soldatesca che marcia al passo. Un passo a sinistra, un passo a destra? Che importanza ha? L’uno e l’altro restano nell’Ordine delle cose.
Chiunque accetti che gli si sbraiti dall’alto, o dal basso, non ha fin d’ora che un avvenire di schiavo.
Uscire dal mondo molle e chiuso della civiltà del mercato
La vita è un mondo che si apre ed è apertura sul mondo. Certo, ha spesso subìto questo terribile fenomeno d’inversione per cui l’amore muta in odio, o la passione di vivere si trasforma in istinto di morte. Per secoli è stata ridotta in schiavitù, colonizzata dalla bruta necessità di lavorare e sopravvivere come bestie.
Tuttavia, non si conosceva un solo esempio di confinamento, in celle d’isolamento, di milioni di coppie, famiglie, singoli che la debolezza dei servizi sanitari ha convinto ad accettare la loro sorte se non docilmente almeno con una rabbia contenuta.
Ciascuno si ritrova solo, confrontato a un’esistenza dove è tentato di discernere la parte di lavoro servile e quella dei folli desideri, La noia dei piaceri consumabili è compatibile con l’esaltazione dei sogni che l’infanzia ha lasciato crudelmente incompiuti?
La dittatura del profitto ha deciso di eliminarci nel momento stesso in cui la sua impotenza si palesa mondialmente e la espone a un possibile annientamento.
L’inumanità assurda che ci ulcera da tanto tempo è scoppiata come un ascesso nel confinamento cui ha portato la politica di assassinio lucrativo, che le mafie finanziarie praticano cinicamente.
La morte è l’indegnità ultima che l’essere umano s’infligge. Non per una maledizione, ma in ragione della denaturazione che le è stata imposta.
Le catene che abbiamo forgiato nella paura e nella colpa, non le romperemo con la paura e la colpa. Bensì con la vita riscoperta e ripristinata. Non è forse questo che dimostra, in questi tempi di oppressione estrema, la potenza invincibile del mutuo soccorso e della solidarietà?
Un’educazione impressa per millenni ci ha insegnato a reprimere le nostre emozioni, a spezzare gli slanci di vita. Abbiamo voluto ad ogni costo che la bestia che dimora in noi facesse l’angelo.
Le nostre scuole sono rifugi d’ipocriti, repressi, raziocinanti torturatori. Le ultime passioni di sapere vi arrancano con il coraggio della disperazione. Impareremo infine, uscendo dalle nostre celle, a liberare la scienza dalla camicia di forza della sua utilità lucrativa? A ristabilire la nostra animalità e non a domarla, come domiamo i nostri fratelli presunti inferiori?
Non incito qui alla sempiterna buona volontà etica e psicologica, punto il dito contro il mercato della paura del quale il sicuritario annuncia il rumore degli stivali. Richiamo l’attenzione su questa manipolazione delle emozioni che abbrutisce e rincretinisce le folle, metto in guardia contro la colpevolizzazione che si aggira in cerca di capri espiatori.
Dagli ai vecchi, ai disoccupati, ai clandestini, ai senza tetto, agli stranieri, ai gilet jaunes, agli esclusi! Questo ringhiano quegli azionisti del nulla che fanno negozio del coronavirus per propagare la peste emozionale. I mercenari della morte non fanno che obbedire alle ingiunzioni della logica dominante.
Quello che dev'essere sradicato è il sistema di disumanizzazione messo in campo e ferocemente applicato da coloro che lo difendono per sete di potere e di denaro. Il capitalismo è stato giudicato e condannato da gran tempo. Stiamo crollando sotto la massa delle prove a carico. Ora basta.
L’immaginario capitalista identificava la sua agonia con l’agonia del mondo intero. Lo spettro del coronavirus è stato, se non il risultato premeditato, quanto meno l’esatta illustrazione del suo assurdo maleficio. La causa è nota. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, di cui il capitalismo è un avatar, è un esperimento finito male. Facciamo in modo che il suo sinistro fascino da apprendista stregone sia divorato dal passato dal quale non avrebbe mai dovuto uscire.
Vi è solo l’esuberanza della vita ritrovata che possa spezzare al tempo stesso le manette della barbarie del mercato e il carapace caratteriale che imprime sulla carne viva di ognuno il marchio dell’economicamente corretto.
La democrazia autogestionaria annulla la democrazia parlamentare
Non possiamo più tollerare che, asserragliati a tutti i piani delle loro commissioni nazionali, europee, atlantiche e mondiali, i responsabili giochino davanti a noi la parte del colpevole e dell’innocente. La bolla dell’economia, che hanno gonfiato di debiti virtuali e di denaro fittizio, implode e muore sotto i nostri occhi. L’economia è paralizzata.
Prima ancora che il coronavirus rivelasse l’estensione del disastro, gli “alti gradi” hanno ingrippato e fermato la macchina, di sicuro più degli scioperi e dei movimenti sociali che, per quanto contestatari fossero, si sono rivelati comunque poco efficaci.
Basta con queste farse elettorali e queste diatribe di ciarlatani. Di questi eletti, imboccati dalla finanza, ci si sbarazzi come dell’immondizia e spariscano dal nostro orizzonte com’è scomparsa in loro quella molecola di vita che ne manteneva l’apparenza umana.
Non vogliamo giudicare e condannare il sistema oppressivo che ci ha condannati a morte. Vogliamo annientarlo.
Come non ripiombare in questo mondo che si disfà, dentro di noi e davanti a noi, senza edificare una società con l’umano che resta a portata della nostra mano, con la solidarietà individuale e collettiva? La coscienza di una economia gestita dal popolo e per il popolo implica la liquidazione dei meccanismi dell’economia di mercato.
Nel suo ultimo colpo di coda, lo stato non si è contentato di prendere i cittadini in ostaggio e imprigionarli. La sua non-assistenza per ogni persona in pericolo li uccide a migliaia.
Lo stato e suoi mandanti hanno devastato i servizi pubblici. Non funziona più nulla. Lo sappiamo con certezza: la sola cosa che riesce a fare funzionare, è l’organizzazione criminale del profitto.
Hanno fatto i loro affari a danno del popolo, il risultato è deplorevole. Al popolo spetta ora di fare i suoi rovinando a sua volta i loro. A noi di fare ripartire tutto su binari nuovi.
Più il valore di scambio s’impone sul valore d’uso, più s’impone il regno della merce. Più noi accorderemo la priorità all’uso che desideriamo fare della nostra vita e del nostro ambiente, più la merce perderà il suo mordente. La gratuità le darà il colpo di grazia.
L’autogestione segna la fine dello stato di cui la pandemia ha messo in luce tanto il fallimento quanto la nocività. I protagonisti della democrazia parlamentare sono i beccamorti di una società disumanizzata a causa della sua redditività.
Abbiamo invece visto il popolo, posto davanti alle carenze dei governi, dare prova di una solidarietà infaticabile e mettere in opera una vera autodifesa sanitaria. Non è forse questa un’esperienza che consente di augurarsi un’estensione di pratiche autogestionarie?
Nulla è più importante di prepararci a prendere in carico i servizi pubblici, un tempo assolti dallo stato, prima che la dittatura del profitto li distruggesse.
Lo stato e la rapacità dei suoi mandanti hanno bloccato tutto, paralizzato tutto, salvo l’arricchimento dei ricchi. Ironia della storia, la pauperizzazione è ormai la base di una ricostruzione generale della società. Chi ha affrontato la morte, come potrà avere paura dello stato e della sua sbirraglia?
La nostra ricchezza è la nostra volontà di vivere
Rifiutare di pagare tasse e imposte ha smesso di appartenere al repertorio degli incitamenti sovversivi. Come potrebbero farvi fronte, quei milioni di persone che mancheranno dei mezzi di sussistenza, quando il denaro, calcolato in miliardi, continua a essere inghiottito nell’abisso delle malversazioni finanziarie e del debito da esse accumulato? Non dimentichiamolo, è dalla priorità riconosciuta al profitto che nascono sia le pandemie che l’incapacità di trattarle. Resteremo all’ombra della mucca pazza senza trarne lezione? Ammetteremo infine che il mercato e i suoi gestori sono il virus da sradicare?
Non è più il tempo dell’indignazione, dei lamenti, delle constatazioni dello smarrimento intellettuale. Insisto sull’importanza delle decisioni che le assemblee locali e federate prenderanno “con il popolo e per il popolo” in materia di alimentazione, di abitare, di mobilità, di sanità, d’insegnamento, di cooperazione monetaria, di miglioramento dell’ambiente umano, animale, vegetale.
Andiamo avanti, pur se a tentoni. Meglio sbagliare sperimentando che regredire e reiterare gli errori del passato. L’autogestione è in nuce nell’insurrezione della vita quotidiana. Ricordiamoci che ciò che ha distrutto e interrotto l’esperienza dei collettivi libertari della rivoluzione spagnola, è l’impostura (della burocrazia, NdT) comunista.
Non chiedo a nessuno di approvarmi, e meno ancora di seguirmi. Vado per la mia strada. Libera ciascuna e libero ciascuno di fare altrettanto. Il desiderio di vita è senza limite. La nostra vera patria è ovunque dove la libertà di vivere è minacciata. La nostra terra è una patria senza frontiere.
Raoul Vaneigem, 10 aprile 2020
[visualizzazione grafica del progetto di monumento ai contadini vinti di Albrecht Dürer (in Unterweisung der Messung, Trattato della misura, 1525)]
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