#juppystory
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Dieci anni
Mia nonna era seduta nella sua poltrona di sempre, dormiva. La svegliarono di soprassalto i miei passi, la mia corsa verso di lei e infine il mio abbraccio, così inusuale.
“Sono io, non volevo spaventarti!”
Ridevo, felice, come forse in vita mia con lei non ero mai stata. Da quanti anni non la vedevo? Almeno dieci.
“Come sei fatta vecchia!” aveva il tono divertito che raramente mi concedeva: il più delle volte era stanca, triste, e scoppiava in lacrime all’improvviso. Io non capivo, da piccola, che dietro una nonna c’era anche una persona. Una donna che aveva vissuto, amato, e che adesso era costretta su una sedia a guardare Rai Uno. Adesso però era felice, mi guardava fisso negli occhi, le braccia sulle mie.
Non mi offesi: risi più forte. “Ma io sono vecchia!” - e in quella frase mi fu chiaro che l’ultima volta che mi aveva vista ero una ragazzina. Avevo ventidue anni, era estate, studiavo ancora. In quei dieci anni era successo di tutto, e lei non c’era stata. Avrebbe avuto più di cento anni, se quell’incontro fosse stato vero.
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Ogni giorno ho scritto per te
La stanza è arancione come immagino fossero gli anni Settanta. Fluttuo a suon di disagio quando comincio a levare le tende, salutando con due rigorosi baci dell’imbarazzo i presenti.
Parole di circostanza con lei, che mi odia per ovvi motivi.
La tua presenza mi rassicura e mi devasta al contempo. Ti accompagno alla porta, e quando è il momento, senza bisogno di dire altro, sfidiamo la presenza del salotto là in fondo con una galassia di cose che non ci siamo potuti dire, soffocando con respiri brevissimi tutte quelle cose rimaste sopite per anni -
e quindi nonostante lo sguardo torvo di lei e tutto il resto siamo in macchina in una notte buia, e tu sbagli strada e la strada stessa finisce in un tripudio di segnali stradali e guard rail ben posizionati.
Una persona che non sono chiaramente io ha il coraggio di fare battute di serie C, col cuore in tumulto e altri malanni da adolescenza mai conclusa.
“Invece potremmo fare questo” dice una voce che non è la tua. Ma è la tua mano a prendere la mia, in una presa solida, con dita sottili, che non capisco come tu possa guidare così ma che importa. “Non ti riconosco più. Ti sento dire cose che non sono da te. Ma io in tutti questi anni ti ho pensato sempre, ogni giorno. Ogni giorno ho scritto un racconto per te”.
E qui il cliffhanger ci lascia in sospeso, la sceneggiatura da soap anni Novanta finisce, ed è da allora che non ho più notizie di te.
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Di quel tempo
L’ultima volta che ci siamo parlati eravamo in quel ricordo arancione e giallo della fermata del bus - non so se l’hai presente.
Così tanto tempo fa che parliamo di anni luce: ed è da allora che non sento qualcosa del genere esplodermi nello sterno.
Subito dopo abbiamo cominciato a vivere la migliore delle vite: alle sei e mezza c’era ancora un sole splendido sulla facciata del palazzo di fronte, e mentre bevevamo la nostra birra quotidiana la tua testa si alleggeriva piano piano.
Il nostro tempo insieme era chiaro e semplice. Suonava di chitarra scassata e odorava di luppolo annacquato, zeppo di battute sceme e di quella felicità che lo sai che non durerà a lungo: cosa faremo quando non ci vedremo più ogni giorno?
Ma a te la risposta non interessava: sapevi che anche senza di me avresti vissuto mille avventure. È stato così anche per me, all’inizio: ogni mattina mi sembrava una benedizione. Poi gli ingranaggi hanno cominciato a incepparsi, e quante cose ho capito di me a quel punto. In che modo mi tenevi in vita, anche se dietro non c’era nessuna storia d’amore del cavolo.
Avrei voluto dire al me di quel tempo quanto fosse fortunato, ma credo che in fondo lo sapesse anche lui.
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Universo parallelo
Quella visita non faceva parte del programma della sua giornata, ma le fitte allo sterno si erano fatte più frequenti e intense. Dopo una serie di monologhi ad alta voce, nell’abitacolo dell’auto, decise di deviare, girare a sinistra e percorrere la strada silenziosa che conduceva dal profeta Park.
Suonò brevemente il campanello e il portone si aprì quasi senza far rumore. Nell’atrio l’aria era più fresca, e Park stava aspettando davanti alla sua porta.
«Devo sapere se esiste un altro universo, un’altra realtà, in cui le cose sono andate diversamente».
Si sedettero davanti a un bicchiere di acqua e anice - in cui Park avrebbe preferito sciogliere un po’ di tranquillante per il suo ospite dalle mani sudate - e il ragazzo dai capelli neri cominciò a raccontare la sua storia.
Il profeta l’aveva sentita già altre volte, ma oggi c’erano nuovi dettagli che il ragazzo non aveva mai raccontato prima. Il modo in cui lui aveva sepolto sotto spesse coltri quello che provava veramente per Portia, fino a lasciarla andare. Il loro ultimo bacio, su un marciapiede tappezzato di fiori rosa puzzolenti, la forza di volontà che lo aveva convinto a non scriverle mai più.
«Ho bisogno di sapere» e sembrò quasi singhiozzare «Se da qualche parte, se in un altro tempo, io ho deciso di rimanere. Se adesso io e lei siamo insieme. Se quello nelle foto in un campo di grano sono io, se le mani con anelli di rubini sono le nostre».
«Credi che una sola decisione avrebbe potuto creare un altro universo?» domandò Park.
«Non è quella che ha cambiato tutto?»
«Forse sì, ragazzo. Riesci a vederla quella vita? Quella che non hai avuto tu?»
«Riesco a sentire il profumo dei nostri figli, la sua voce mentre mi chiede di svuotare la lavastoviglie. So benissimo che in un’altra galassia la sua felicità è la mia, io lo so».
«Allora credo di sì. Credo che finché nella tua mente c’è spazio per questa vita, probabilmente in un altro tempo, in un tempo parallelo, sia andato tutto come dici tu. Ti fa sentire meglio?»
Gli occhi del ragazzo si fecero acquosi, nascosti da un velo salato. Il profeta si alzò, e cominciò a innaffiare le piante.
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Uno di quegli addii #2
Parte #1
Annaspava più di quello che avrebbe voluto: in quei pochissimi minuti che ci vollero perché lui salisse quei ventidue gradini (li aveva contati mille volte, lei, arrivando al mattino) non era stata in grado di fare niente. Togliere dal tavolo le cartacce, accendere il bollitore, truccarsi o almeno mettere un po’ di burro cacao. Aveva addosso una felpa oversize che sulle modelle era estremamente cool, ma che su di lei aveva solo il lato positivo di abbassare drasticamente la sua età apparente (da trentatre a tredici, più o meno). Teneva le mani dentro la tasca della felpa, la testa appoggiata allo stipite della porta.
Ciao!
Ehy.
Niente da fare. Quando, una volta ogni diecimila anni, a mo’ di stella cometa compariva nella sua vita, lei regrediva, perdeva certi filtri. Per cui, incurante della giacca fradicia, lo abbracciò.
Lui fece cadere l’ombrello grondante e ricambiò l’abbraccio, includendo in quello strano saluto anche il sacchetto di calzini in poliestere.
L’ultima volta che si erano abbracciati era stato in un’altra città, sotto lampioni giallo bottiglia. Si erano giurati senza nemmeno dirlo un eterno amore impossibile, e non avevano nemmeno compiuto trent’anni. Sapevano però con estrema lucidità che si sarebbero portati dietro questo fardello per sempre o qualcosa del genere, una promessa ironica di legame imperituro, osteggiata dal destino che li voleva entrambi felicemente accasati con due brave persone eccetera eccetera. Non era mai stato il loro momento, e probabilmente non lo sarebbe mai stato. Era questo che li rendeva speciali.
Che si dice, che ci fai qui, blablabla.
Mentre parlava pendeva letteralmente dai suoi occhi verdi: ne era gelosa, avrebbe sempre voluto un paio di occhi così, che non hanno nemmeno bisogno di un ingente quantitativo di mascara o eyeliner. Accese il bollitore per non rimanere imbambolata.
Una parte di sé sapeva benissimo quale fosse il motivo della sua visita. Scintillava al dito di lui come un occhio di bue in un teatro troppo piccolo. Ma lo aveva anche intuito da alcuni commenti inopportuni di una delle zie di lui, postato sotto a una foto di un cane buffo che lui aveva condiviso dimenticando di impostare la privacy su “Servizi Segreti”.
Mi hanno incastrato, rise lui. Proprio ieri.
Ah, le battute misogine. Investita da una missione di credibilità assoluta, lei si prodigò nel recitare la sua parte migliore: l’entusiasta super cool, come quelle modelle che non sfiguravano con indosso la sua felpa. Che meraviglia, congratulazioni, bravo, me l’aspettavo. Aha. Quando parti?
Ma soprattutto che diamine vuoi, si chiese in silenzio.
Domani! E si tolse il giubbotto bagnato, cercando un posto per appoggiarlo senza inondare d’acqua le scartoffie di quello studio.
Lei glielo prese dalle mani e lo appese a un gancio a forma di cervo.
Fantastico. Australia?
Eh già. Come lo sai?
Niente, una sensazione. Anche detta “atto di spionaggio sui più moderni social network���. L’Australia va forte per ora, ci vanno tutti.
Mentre gli porgeva una tazza del suo Earl Grey preferito, lui le raccontò della sua visita. Che era lì da pochi giorni, e chissà quando sarebbe tornato, per cui voleva dirle questa cosa di persona, salutarla, eccetera.
Negli ultimi anni si erano parlati a malapena. Nonostante la sua irrazionale felicità nel vederla (e per lei, naturalmente, era lo stesso) quell’imboscata era fondamentalmente priva di senso, e lo sapevano entrambi.
Beh, allora mi pare un’occasione più che buona per dirti che non sono solamente ingrassata. La voce si incrinò leggermente. Contribuirò alla crescita di questa valorosa nazione, yei. Sarà una femmina, credo. O forse un alien.
Avevano due sorrisi da paralisi veramente brutti da vedere. Lui aspettò per capire se la stesse buggerando, ma poi tornò ad abbracciarla. Sono felice per te, davvero. Non sapeva nemmeno lui se fosse sincero, in quel momento: dal suo punto di vista un figlio era una specie di malattia terminale.
Pochi secondi ed entrambi, a turno, cominciarono a lacrimare in modo maldestro, sempre con i sorrisi inquietanti di prima addosso.
Io allora vado. Questa gita alla ricerca di calzini sintetici si è protratta un po’ troppo.
Le prese la mano e la baciò. Il tocco di quelle dita sottili le risvegliò ricordi in slow motion che pensava di aver relegato per sempre a un vecchio diario qualche anno prima. Ricordi così antichi e polverosi che potrebbero essere rivisti in VHS. Sprofondarono tutti nel suo stomaco come un sasso lanciato con poca convinzione da un ponte.
Poi ci fu un secondo in cui entrambi immaginarono di concedersi il lusso di una sciocchezza, ma non accadde nulla. Lui prese il giubbotto, l’ombrello, trafficò con la serratura per capire come aprire quella vecchia porta blindata e uscì.
Ciao ciao. Ciao, ciao. Ciao.
Diceva sempre una marea di ciao quando si congedava. Lei non parlava più, aveva gli occhi rossi e un sorriso fasullo pronto a rovesciarsi, insieme a un ettolitro di lacrime.
Ciao ciao.
Chiuse la porta, si girò. Aveva dimenticato i calzini.
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Uno di quegli addii #1
La giornata non era delle migliori e trovare una scusa per uscire fu più difficile, ma col viaggio imminente una buona scorta di calzini è un alibi eccellente.
Col suo sacchetto pieno di tessuti sintetici che mai avrebbero giovato alla sua sudorazione, fece due svolte a destra, una a sinistra, e si ritrovò lì, dove una cosa come dodici anni prima l’aveva aspettata in silenzio, in un mercoledì di luglio piuttosto spettrale.
Per una serie di coincidenze fortuite lei era tornata al punto di partenza. Lavorava di nuovo lì, in quella strada dagli alberi bassi che di notte schermano la luce dei lampioni trasformando il paesaggio in uno scenario creepy a due passi dal centro.
Non era più una cameriera allo squallido bar MERI, ma aveva un suo studio proprio di fronte, in un ammezzato di inizio secolo (scorso) troppo caldo d’estate e troppo freddo d’inverno.
Con l’ombrello gocciolante lui cercava il balcone esatto. Non era molto sicuro sul da farsi, controllava il cellulare, provava a inghiottire residui di cuore che risalivano imperterriti su per la gola.
Poi, visto che le scene da film non accadono mai, le scrisse un messaggio. Vide un vetro agitarsi, una porta-finestra aprirsi e lei, con un cappuccio in testa, uscire fuori.
Scala A, primo piano!
Poi il portone fece un BZZZ rumorosissimo e si aprì.
Parte 2.
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Sei tu?
Avrei chiuso gli occhi al buio per qualche momento, tenendoti la mano con tutte e dieci le mie dita e perdendo per pochi secondi il filo del discorso.
Non ho capito, loro sono fratelli?
Sarebbe sempre troppo vicina la mia voce al tuo orecchio, ma non mi sentirei di definirlo davvero un problema. Sbircerei il riflesso delle cose sulle tue pupille e tornerei ad appoggiare la mia testa troppo pesante sulla tua spalla, ma solo per alcuni scomodi secondi.
Gli occhi mi si chiudono da soli mentre penso a tutte queste cose. Una parte di me spera di scivolare in un sonno senza sogni, senza profumi o ricordi, ma so già che le tue dita gelide mi sveglieranno. A un certo punto, nella notte, dirò: sei tu?
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Forse
[Disclaimer necessario: avevo bisogno di scrivere. Lo so che starete ridacchiando, ma vorrei giurare al mondo che avevo solo bisogno di immaginarmi delle cose. Pesco da quello che vedo nella mia vita ma queste storie non sono la mia vita. Excusatio non petita, certo. Ma per delle vicende personali sento il bisogno di giustificarmi, di dire: sto solo scrivendo. Ho ripreso a leggere e adesso scrivere è una necessità, un bisogno fisico. Ciao, ora potete pure sorbirvi la mia poltiglia melensa.]
Forse ho perso quel dono che mi permetteva di sintetizzare come in un processo chimico le cose che credevo accadessero nella mia vita. Lo so, non mi sto spiegando. Se fossimo insieme, adesso, sono sicura che mi capiresti.
Ti ricordi di certo l’ultima volta che ci siamo visti: avevo un vestito inguardabile e delle scarpe che mi facevano male. La gente non faceva che chiedermi cosa avessi di diverso, perché finalmente con quell’abito brutto e l’andatura incerta avevano cominciato a notarmi.
Quella sera, nella folla, ci siamo persi per qualche minuto. Te lo ricordi sicuramente perché eri stato fermato da quella tipa bellissima che vive a Londra. Mentre mi alzavo sulle punte alla ricerca del tuo maglione azzurro le persone mi urtavano e io stringevo fortissimo il mio telefono, che a quei tempi valeva più della mia stessa vita. Stavo per sprofondare in uno stato di freak out irreversibile quando senza nemmeno sentirti arrivare mi sono girata e tu eri lì, un bicchiere di vino pessimo in mano e lo sguardo annoiato di sempre.
Credo di averti assillato per almeno un quarto d’ora, per lo spavento e il timore che qualcuno in tua assenza mi molestasse, mi rapisse, mi rubasse i miei ultimi venti euro e i biglietti dei Mumford and Sons che avevo nel portafoglio. Che concertone quello, peccato te lo sia perso.
Mentre mi trascinavi via per raggiungere gli altri mi chiedevo se anche tu mi amassi in quel modo disordinato in cui pensavo di amarti io. Scansavo le persone e senza mollare mai la presa mi chiedevo mi amerà di più? Non mi amerà affatto? Ma in realtà non potevo nemmeno prendere in considerazione l’idea che fossi pazza nel mio provare un affetto incontenibile da sola, tutto qui.
E quando ti chinavi per sentire quello che provavo a dirti in mezzo alla folla mi dicevo è questo quello che intendo, eccolo qui! Niente mi avrebbe fatto immaginare la serie di disastrosi eventi che ci ha portati lontani.
Se l’avessi saputo forse qualcosa te l’avrei detta. Forse ti avrei terrorizzato a morte. Ma l’avrei detto piano, a bassa voce, forse te l’avrei anche dovuto ripetere qualche volta.
Eccoti qui, è questo quello che intendo.
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Newbie
Ho immaginato di sedermi lì, e aspettare mentre ti lavi i denti di scegliere un film insieme. La notte sarebbe già calata, come un velo sottile e umido, rendendo mute le tue finestre.
I miei occhi non sarebbero ancora abituati alle tue pareti, alle stupide magliette da casa e alle porte da aprire - sarebbe tutto incredibilmente nuovo.
Nell’attesa guarderei ogni oggetto e immaginerei le storie. Vorrei avere più tempo ma il tempo non esiste: è troppo che non ci sei più, e io con te, in un universo lontano.
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Il ritorno della Nutria
La signora Fleccer stava scroccando l'ennesimo aperitivo di terra quando il sole aveva deciso di spalmarsi dentro al mare donando agli astanti un panorama in technicolor degno di citazioni di Coelho attribuite a Hemingway o viceversa. Il giovane Liutprando che non era più giovane come un tempo ma che conservava intatti i suoi occhi verdi come conchiglie di paguro (no, quelle hanno altri colori) si chiedeva come fosse possibile produrre uno Spritz imbevibile a quei livelli, ma nel dubbio ne aveva ordinati già tre. Nel palco lì vicino si esibiva tristissimo Daniel Powter che nessuno più ricordava anche se poi alla sua famosa hit bad day dondolavano la testa uniformi. Al suo arrivo gli universi collassarono l'uno sull'altro quando la Nutria fece smuovere le pietre sotto i suoi piedi in un rapido tac tac. Occhi verdi incontrarono altri occhi verdi e si dissero un miliardo di rapide parole. Liutprando le sfiorò le braccia, la insultò a dovere, e tornò al suo terzo Spritz, mentre la signora Fleccer guardava tutto e prendeva nota.
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Torturous electricity
Non sapeva perché fosse sempre la casa dei nonni l’ambientazione di certi sogni. C’era un senso di accoglienza, di casa, ma anche di posto lontano e straniero in quelle stanze abbandonate.
Questa notte lui dormiva poco distante, ma era sveglio e lei lo capiva; e si alzava, lei, per guardare dei fuochi d’artificio, col cuore in esplosione e le mani sulle orecchie.
C’era un’elettricità da tormento, lo diceva una vecchia canzone, un richiamo che attraversava le loro orecchie ma che non si riusciva a tradurre: se solo avessero superato quel confine non ci sarebbe stata più traccia di vita sulla Terra.
Tutti, però, riuscivano a vedere. Come se i loro corpi fossero stati trasparenti, ogni meccanismo, ogni filo elettrico aveva un nome e uno scopo - i suoi per lei, quelli di lei per lui; e vivevano con questo peso, questa energia indissolubile, e niente alla fine li poteva turbare - era solamente un sogno.
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Se potessi, forse
Se potessi, forse ti farei un regalo ogni giorno. Se potessi, forse, ti scriverei tutto il giorno, e sussulterei a ogni tua risposta, fino all’ultima buonanotte.
Sarei una presenza ancora più ingombrante e maldestra, e il mondo forse mi guarderebbe ancora più storto.
Se potessi conoscerei a memoria le tue mani, i tuoi denti, i tuoi colpi di tosse nel sonno; saprei in che modo preferisci svegliarti, se vuoi parlare oppure no - secondo me no - e a che ora inizi a fumare.
È patetico e inquietante, e allora lascio a qualcun altro questi privilegi. Tu perdonami se ogni tanto ti guardo da lontano, spiando nei riflessi delle vetrine uno dei tuoi strani modi di fare. A volte mi serve per orientarmi nel mondo, per capire cosa ne è di me, dopo tutto questo tempo.
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Dal tuo recinto dei denti
Mi restano pochi minuti per dirti tutto. Ogni volta che inspiro mi fa male il petto, e di solito non è un buon segno.
Vorrei che dal tuo recinto dei denti (l’hai studiato anche tu Omero? non me lo ricordo) - vorrei che non fossero mai uscite certe parole. Le hai liberate con leggerezza, pensando di lusingarmi, di liberarti di un peso, e invece noi siamo qui seduti in un bar hipster per poche ore, e questo è tutto l’orizzonte che ci è concesso.
Non riesco più a guardarti, Leo, a sorridere sinceramente. Inspiro con dolore e non passerà più questo peso opprimente, nemmeno quando avrò varcato la soglia senza guardarmi più dietro.
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Ho paura che sia così
Seduti sulle sedie sgangherate del nostro bar preferito ci prendiamo in giro a vicenda come sempre, ma con una certa approssimazione direi che il nostro sguardo è cambiato.
L’aereo che ho preso, il tuo avermi aspettato, il libro che ti ho regalato e la breve dedica, ogni cosa ha detto a te e a me quello che ci sta succedendo da un numero imprecisato di mesi.
Fino a un po’ di tempo fa ne avrei avuto paura. Ho avuto paura per mesi, Liz, anche solo guardandoti. E non perché avessi un aspetto orripilante, anzi, ci sarebbero cose da dire su di te che mi farebbero diventare un autore di best seller per adolescenti; il timore era quello di cadere in una delle mie fissazioni romantiche e - addirittura - essere ricambiato.
Ho scritto pagine e pagine su quel timore, magari mi pagassero per quello. Ora penso di poterci convivere. Mentre bevo tè Earl Grey in una tazza che dice All You Need is Bread, credo che il timore sia addirittura sparito.
Mi sento più al sicuro sapendo che a nostro modo ci siamo detti quello che ci succede. Non so neanche definirlo. Anche se non ci porterà da nessuna parte - o forse in un posto pieno di acciacchi sentimentali - non mi spaventa nemmeno tanto.
E forse alla fine ho paura che sia così.
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Ritorno
Ti spio da questo vetro mentre il bus rallenta per accostare. Quando vedo qualcuno che mi aspetta vorrei subito sbracciarmi, gridare, dire sono qui, non devi attendere un secondo di più. Ma non posso farlo, devo avere pazienza. Ti guardi intorno con finta indifferenza, e nel frattempo sulla mia faccia si sta aprendo un sorriso che i più definirebbero ebete.
Da quando sono partito ho ripensato spesso a tutto quello che ci è successo. Sono scivolato nel vizio di pensarti almeno cento volte al giorno, così per smettere ho ripreso a fumare. Mentre scendo le scale di velluto anni ottanta di questo pullman mi rendo conto che non è servito a granché.
A un vizio - che banalità - ne ho aggiunto un altro, e nonostante mi sembri che il mio corpo si stia per disintegrare atomo per atomo di fronte alla tua schiena e alle tue mani, la sensazione che tutto ciò sia una specie di sogno delirante mi si presenta come opzione plausibile.
«Liz!»
Quando ti volti lo vedo. Il sorriso ebete si sta aprendo pure sulla tua faccia. Il borsone mi cade dalla spalla quando mi salti al collo e mi ritrovo a stringerti come se stessi per volare via, lontana da me.
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Brilla stasera
Venere brilla in modo anomalo da quel cielo, e mi sembra perfino strano che si possa dubitare della sua identità
- è Venere, cosa vuoi che sia? Sta sempre lì, da più o meno sempre.
Mi appoggio al finestrino dell’autobus che ci deposita a piccoli sorsi per i marciapiedi stretti, e nel frattempo penso che sarebbe bello se anche io a piccoli sorsi riuscissi a dire tutto, a piangere con la faccia nascosta in una manica, o a lasciarti andare ogni volta che mi chiedi di farlo.
Intanto Venere mi accompagna per tutto il percorso, brilla anche da questo vetro sporco, toglie la scena a quello spicchio di luna lucidissimo.
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