#impronte di dita
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blacklotus-bloog · 2 months ago
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In chat...
... un fallo è insapore, inodore, un palo, un punto esclamativo privo di valenza che si frappone tra astuzia e intelligenza, tra coraggio e pochezza, è l'oggetto virtuale del desiderio che scorre sulle dita di formiche risparmiatrici di sostanza, intente a perseguire il primato nella strategia dell'irrelevanza nella propaganda del proprio sex appeal solo per approvazione sociale. In chat il fallo è immaginazione è un'app che si accende e spegne con chiunque. La realtà è diversa. Per alcune donne il fallo è un impersonale e disumano ingranaggio del godimento nel sadico esercizio del godimento individuale scevro da emozioni e/ o sentimenti, mero pezzo anatomico senza identità e unità, istericamente utilizzato da donne per lasciare traccia nel loro corpo allo scopo di creare dipendenza nell'uomo. Per altre Donne è estensione della propria mente, la costola che ha dato vita ad Eva, il punto di congiunzione pulsionale con l'Uomo, il midollo del piacere, fisicità della mente. La Donna che si prende cura del fallo non ha come scopo l'orgasmo dell'Uomo ma la sua Estasi, ovvero il viaggio attraverso il corpo mentale della Donna in cui UN UOMO si sente padrone, quel viaggio in cui l'orgasmo alla fine non è semplice scarica fisica ma approdo in una terra in cui essere differenza e non numero, avere identità e non anonimato, avere una casa e non un momentaneo giaciglio essere semplicemnte se stessi senza riserve con pregi e difetti, ma soprattutto difetti, apprezzati come segno distintivo di veridicità. Ci sono enormi differenze tra donne e Donne, uomini e Uomini, apparenza e sostanza, astuzia e intelligenza e consistono nella personalità di chi per indole non lascia tracce ma impronte!
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BLACKLOTUS
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smokingago · 11 months ago
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Gli innumerevoli granelli di sabbia
le stelle indomabili
e io lì dentro, e io
tra questi miliardi di esseri umani?
Guarda le linee della tua mano,
Guarda le impronte delle tue venti dita.
Nessuna è uguale. L'essere umano
è unico ogni volta.
L'aria è uguale per tutti
e l'acqua dei pozzi è la stessa
e la terra dove camminiamo.
Ma il fuoco che arde nel profondo
di te, finché ti terrà in vita,
è tuo, semplicemente tuo.
Liliane Wouters, Granelli di sabbia
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ma-pi-ma · 1 year ago
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Gli innumerevoli granelli di sabbia
le stelle indomabili
e io lì dentro, e io
tra questi miliardi di esseri umani?
Guarda le linee della tua mano,
Guarda le impronte delle tue venti dita.
Nessuna è uguale. L'essere umano
è unico ogni volta.
L'aria è uguale per tutti
e l'acqua dei pozzi è la stessa
e la terra dove camminiamo.
Ma il fuoco che arde nel profondo
di te, finché ti terrà in vita,
è tuo, semplicemente tuo.
Liliane Wouters, da L'aloe, 1983
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pollicinor · 11 months ago
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Un’insolita falla di sicurezza ha colpito i dispositivi dotati di lettori di impronte digitali, una delle tecnologie biometriche più diffuse e affidabili. Una ricerca congiunta di scienziati cinesi e americani ha scoperto che il suono prodotto dalle dita sullo schermo può essere usato per ricreare le impronte digitali e violare i sistemi di autenticazione. Il risultato è stato pubblicato in un articolo intitolato “PrintListener: Uncovering the Vulnerability of Fingerprint Authentication via the Finger Friction Sound“.
Dall'articolo "Hacker clonano le impronte digitali dallo swipe sullo schermo" di Tiziana Foglio
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lunamarish · 7 months ago
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IL 16 MAGGIO 1973
Una delle tante date he non mi dicono più nulla. Dove sono andata quel giorno, che cosa ho fatto – non lo so. Se lì vicino fosse stato commesso un delitto - non avrei un alibi. Il sole sfolgorò e si spense senza che ci facessi caso. La terra ruotò e non ne presi nota.
Mi sarebbe più lieve pensare di essere morta per poco, piuttosto che ammettere di non ricordare nulla benché sia vissuta senza interruzioni.
Non ero un fantasma, dopotutto, respiravo, mangiavo, si sentiva il rumore dei miei passi, e le impronte delle mie dita dovevano restare sulle maniglie.
Lo specchio rifletteva la mia immagine. Indossavo qualcosa d'un qualche colore. Certamente più d'uno mi vide, forse quel giorno trovai una cosa andata perduta. Forse ne persi una trovata poi.
Ero colma di emozioni e impressioni. Adesso tutto questo è come tanti puntini tra parentesi.
Dove mi ero rintanata, dove mi ero cacciata – niente male come scherzetto perdermi di vista così.
Scuoto la mia memoria – forse tra i suoi rami qualcosa addormentato da anni si leverà con un frullo.
No. Evidentemente chiedo troppo, addirittura un intero secondo.
Wisława Szymborska
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basically-im-a-clown · 2 years ago
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Se fossi stato mio amico, ti avrei detto di non aver paura di scoprire chi sei.
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Il ragazzo nella foto si chiama Andrea Spezzacatena. Andrea è un ragazzo sensibile, gentile, buono, Andrea è speciale, è diverso, è avanti con i tempi e questa sarà la sua più grande tortura. Andrea ha una famiglia che lo ama, è un figlio dal cuore d'oro e un fratello maggiore amorevole, ma Andrea ha anche le sue paure, le sue fragilità, i suoi dubbi. È solo un ragazzo di 15 anni ed ha tutta la vita davanti a sé per scoprire quanta bellezza c'è là fuori, quanta bellezza è in lui, ha ancora tanta strada da seguire, se solo qualcuno quella strada non gliela avesse bloccata con la forza dell'odio. Andrea viene bullizzito per lo smalto sulle unghie e perché indossa un pantalone rosa, inoltre i suoi bulli creano una pagine Facebook nella quale si prendono gioco di lui. Andrea ha 15 anni da soli 6 giorni, 15 anni li avrà per sempre, tutta quella vita a lui promessa non saprà mai cosa sia perché Andrea un giorno torna a casa e si toglie la vita.
Il bullismo uccide, la cattiveria uccide, le parole dette per ferire uccidono. Teresa, la madre di Andrea, da anni va di scuola in scuola a raccontare la storia di suo figlio, "è un modo per aprire e chiudere la bara di Andrea." Non si è lasciata morire da tanto dolore per far vivere Andrea e per ricordare ogni giorno che il bullismo è merda. A voi la lettura di un post Facebook di Teresa, post che mi ha fatto gelare il sangue, lacrimare, provare rabbia e fermarmi a pensare per trovare un perché di tanto odio, ma un perché non esiste, fa solo male. Oltre a quel pantalone rosa scolorito in lavatrice c'era un mondo di colori, la promessa di bellezza non mantenuta. L'educazione la si insegna, ma sensibilità è un dono e non ci sono esempi per insegnarla, la si applica e basta.
Teresa Manes:
Quando all'obitorio quel giorno ritrovai il corpo di mio figlio, in parte mi sentii risollevare.
Avevo di nuovo il suo corpo, in fondo.
Ricordo ancora quella teca, al centro della stanza, dove ci fu concesso di ritrovarlo, disteso in una sacca.
Pareva che stesse dormendo, sudato.
Allungai e strinsi tra le dita il polsino della maglia che tenevo addosso.
Passai e ripassai quel piccolo lembo così ricavato sui vetri della teca, di cui vi ricordo ancora impresse altre impronte di dita straziate.
Io ero lì che volevo solo asciugare il suo volto.
Ma chissà quanti altri occhi intrisi di dolore avrà ospitato quella teca.
Poi arrivò una donna a ritirare quella barella.
Lo fece con un amorevole lentezza che solo una mamma sa concedere ad un'altra mamma.
Un piccolo gesto, caritatevole di cui mi fece dono.
E in quell' ultima frazione di secondo, prima che quella porta si richiuse, strappandomi via mio figlio, ci fu uno sguardo, scambiato tra me e lei che fu intenso.
Ecco, se mi si chiedesse di descrivere un momento di empatia, io racconterei questo.
Un momento in cui due estranee hanno capito e accolto le necessità dell'altra.
Lei, donandomi il tempo di lasciarmi dire addio con la delicatezza che richiedeva la circostanza.
Io, di ringraziarla per aver compreso per poi lasciarla andare al suo lavoro.
Scrivo tutto questo perché credo che se la cattiveria avesse modo di respirare l'odore acre che quel giorno mi è rimasto impresso nelle narici, forse, le verrebbe un rigurgito di bene.
Ciao Andrea (1997 - 2012)
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princessofmistake · 10 months ago
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“Ti amerò per sempre”. Non ci rendiamo conto di dirlo sempre a persone diverse che di volta in volta si succedono. Allora siamo proprio incapaci di amare. Che tristezza. Forse è meglio che accettiamo il fatto e ci rinchiudiamo in prigioni di morbido silenzio. Più onesto. Oppure lasciarsi scivolare lungo i secoli, che non durano poi che una manciata di secondi. Pensare che tra poco le tue labbra apparterranno a qualcun altro, e qualcuno che non conosco giocherà con te in un giardino di dolce carne, tutto questo è così insopportabile quanto logico. Non sono geloso. Non lo sono proprio. Ma è così triste questo. Non è forse meglio aspirare alla gioia degli eremiti, i compagni dell’anima, sfiorati solo da un alito di vento – puri. Ci hai mai pensato? E se io fossi veramente un angelo? Allora sì, potrei raggiungere le profondità del mare, specchiarmi nella sabbia e scoprire – il cielo. Ricordati. L’anima rimane pura. Ma la tua carne è macchiata dalle impronte delle mie dita e delle mie labbra. Non dimenticartelo mai, per favore. E ora non voglio fare altro che dimenticarti negli occhi di qualcun altro. Perché se penso a te e la tua immagine non è accompagnata dall’amore, allora è meglio annegarla – o scolpirla. Voglio essere guardato solo da occhi innamorati. Gli altri sono ciechi per me. Voglio solo essere sommerso di nuovo dall’amore. Voglio far assaporare la mia carne a qualcuno che mi desideri e apprezzi (e tu? sei così lontano ormai da non sentire più il mio profumo? A volte vorrei ancora te nel mio letto). Forse allora sarò in grado di guardarti, e vederti di nuovo, e provare qualcosa. Qualche cosa che non sia questo silenzio. Perché è stato cancellato l’amore. E dove mi trovo ora? L’aria è calma. Perché sarei solo uno dei tuoi amici, e io mi nutro solo di qualche cosa di assoluto. Solo poche gocce. E se non sono indispensabile non riesco a stare accanto a nessuno. Amo solamente chi mi ama. E non ti voglio bene abbastanza da giungere a negarmi. Mi pesa la testa. Sento come un fruscio d’ali nella mia mente. Gli angeli. Ricordi? Forse esistono.
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disagiadaa · 1 year ago
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Come sei arrivata fin qui?
Una domanda tanto scomoda quanto dolorosa. Hai camminato sempre in punta di piedi tra cocci di vetro , guardando attentamente di non pestarli, e non ti bastava fermarti a raccoglierli, non andavi ne avanti né indietro, ti fermavi con le tue mani , inginocchiata dentro tutto quel vetro, di rimettere insieme i pezzi, con le dita scoperte, insanguinate. Il più delle volte il vetro ha vinto, spaccandosi in mille pezzi tra le mani o ancora prima di inginocchiarsi, eri così sicura di aver guardato bene prima di mettere il piede, eppure hai iniziato a pestare cocci fino a non sentirne più il dolore.
Lasciavi tracce di te, impronte di sangue così che tutti potessero vedere i tuoi passi , il tuo dolore. Assaporarlo, godendo nelle tue ferite ma allo stesso tempo incitandoti ad uscirne, man mano che andavi avanti, non potendo più andare avanti con i piedi in quello stato. Ti affidi alle ginocchia e hai gomiti. Gattonando in quel mucchio brillante che da lontano sembravano diamanti. Ti avvicini e sono sempre più taglienti.
Ti aspettavi che qualcuno ogni tanto ti portasse una coperta per avvolgerti e portarti via.
Ma chi passava,si vantava di poterti portare via nei migliori dei modi, ma il vetro aumentava e nonostante tu abbia aspettato, sei dovuta andare avanti.
Andavo avanti e sì ripresentavano sempre più con queste coperte, coperte che avvolgevano pieni ricordi e le vedevo li di fronte a me. Come una preda al macello. Inerme senza propendere le mani come una madre fa con il proprio figlio. Trovavo compassione nella mia desolazione . Ritrovandomi con mille persone a fianco . Ma che allo specchio vedevo soltanto me stessa.
Avrei voluto una vita senza cuore e senza anima. Da poter comprendere tutti quelli che ti hanno fatto soffrire e vedere da quell inquadratura se sei così biasimabile come sembri.
Ti chiedi se ne vale la pena. Di continuare con le tue domande devastanti e le tua ossa rotte. Ti ripari in quella piccola desolazione che hai perché ormai quella è la tua casa.
“Ha senso?” Ti chiedi continuamente. Nella tua testa cigolante.
Se potessi solamente alzarmi in piedi senza usare le mani. Se riuscissi ad andare avanti senza voltarmi indietro.
Se potessi non piangere nel cuore della notte senza chiedere a dio perdono.
Se riuscissi a ricucirmi da sola, senza più aspettarmi una coperta che mi salvi e mi porti in salvo. Come una principessa nel castello che attende il suo principe. Ma se la mia storia non fosse come se io fossi il sole? Ma che sono un sole nero, che risucchia il mondo e lo vomita? Come vomito delusioni?
E ad ogni ferita non piangere. Trattieni il fiato ,non farti vedere vulnerabile. Ma la domanda è da chi?
Mi inchino nell angolino al buio della stanza.
Seduta al freddo, sperando che l’oscurità venisse e prendesse il sopravvento. Che la mia pelle d’oca si scaldasse e facesse da scudo. Nell’oscurità i mostri fanno visita credendosi di potermi terrorizzare. Loro stessi ora mi cullano , capendo che non sono loro i veri mostri di cui io debba affrontare. Se ne stanno li , lieti osservatori delle mie cadute e dolorose camminate sui vetri, in silenzio. “Perdonami”. Rimbomba nella testa con lacrime ambigue, senza un significato deciso o preciso, ti chiedi il motivo del perdono che chiedi. Eppure non riesci a chiedere altro che questo.
Potrei lasciarti andare e amarti lo stesso. Ma continui a sbattere contro le cose come se avessi perso le capacità motorie e razionali. Ti senti che non sarà mai più come prima,fino al punto di chiederti. Come era prima?
Ti sciogli i capelli, gettandoteli indietro. Mento alto sempre anche con il collo sporco.potrei? Potrei essere quel corpo con qui fai l’amore? Quel desiderio che nasce da un profumo di sangue. Di sete o di fame. Un calore forte di quelli che ti soffocano l anima. Riesci a dare il tuo corpo per un atto così grande? Ma in tutto questo sguazzi nel vetro. Pensi di essere speciale o diversa, ma ti rendi conto di essere solo di passaggio, il ricordo o il disagio di qualcuno, una novità per altri, e ciò che ti rimane in mano e un mucchio di pezzi di vetro insanguinanti tra le mani. Ti rendi conto di stare soffrendo, ma non riesci a distogliere lo sguardo dal tuo sangue pieno di brillanti del vetro che quasi ti ipnotizza. Come a scuola, durante l ora di matematica rimanevo ipnotizzata nei ricordi delle mie giornate tralasciando i compiti e le tabelline. Guardavo il soffitto e le sfuriate di mia madre, il sangue che colava e le bendature per le braccia.
Ti dicono che non vogliono ferirti, che non possono darti quello che per te sarebbe meglio.
Preghi e supplichi l’amore è l’attrazione prende il sopravvento. Ma torni a casa e non ti lavi. Hai il suo odore nelle mani e nella pelle. Non vuoi lavarti perché sarebbe un ulteriore abbandono. Abbandoni le tracce che ti hanno lasciato e rimanere vuota di quello che pretendi ,che credi che non sia una pretesa ma quello che è giusto. Ti innamori a secondo. Millesimo, senza una conoscenza professi amore e sofferenza innata. E ti senti di non voler essere cosi.
Ti infili nelle coperte e hai addosso questo odore. Ti guardi allo specchio e il tuo trucco
Cola, ti fai una foto per ricordarti questa sofferenza come promemoria.
Non è quanto, ma è quando alcuni attimi di felicità diventano veri ed estasianti. Ti credi migliore,addirittura la persona più felice. Ti credi di poter finalmente vivere con una persona al tuo fianco dove ogni volta che ne guardi le mani, cambia la mano .
Ti dimentichi di imbottigliare i primi momenti. Perché se potessi, li tirerei fuori di nuovo per quando il tutto diventa aperto o smascherato come le carte sul tavolo.
Ti dici che la vita prima aveva un senso senza di lui. E poi ti chiedi come farai senza. Ti chiedi perché non poteva rimanere sconosciuto o in quel limbo piacevole di cui nessuno vorrebbe uscire.
In quel momento dove vorresti che tutto fosse eterno e felice , credi che tu sia perfetta e che lo sia anche lui.
Ci messaggi tranquillamente senza alcun problema. Mentre invece dopo hai il terrore di toccare il testo o il tasto giusto o sbagliato. Credi che siete legati e preferisci essere infelice, che perdere quell idea
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colorfulprincewombat · 1 year ago
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Ho saziato il mio corpo e la voglia
che avevo su di te...
Sazia la sete della mia pelle
e bevuto della tua acqua pura
ho trasformato il deserto del mio
corpo in una giungla esplorata
dalle tue mani lasciando le
impronte sulle mie dita.
Ho mangiato la tua bocca, come una prelibatezza
in ogni bacio che ti ho dato... divertirsi
l'angolo di loro e assapora
il dolce sapore del tuo respiro nel
scambio di saliva.
Le tue labbra con la mia lingua
Camminai dolcemente...
e ho completato il percorso che ho disegnato
tutto il tuo corpo, la tua durezza ho sentito e senza
più a te anima mia ti ho dato in una consegna
Dove...
Il mio ventre ha sentito la tua forza e
la mia vulva esposta lascia per te
l'essenza della tua bocca, lingua
e dita mi hai lasciato aprendo
il mio inguine e il succo della vita
Ti ho permesso di sentire, avresti dovuto tutto di me
la mia pelle ti ho fatto sentire e il tremore di
Il mio corpo ti ha fatto rivivere.
Hai mangiato del frutto proibito
fino a farmi gemere...
Hai acceso il fuoco dell'inferno
solo per me e in risposta a
i miei demoni hai fatto più di una volta
Vieni.
Passione e desiderio sono solo traboccati tra
queste lenzuola proprio quando i nostri
corpi fusi e in uno scoppio si
hanno tremato.
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passione-e-follia · 1 year ago
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Le dita affusolate del sogno chiudono i miei occhi chè la realtà senza di te perde la sua magia Oltre il buio delle palpebre, invece, l'immagine tua mi ispira una promessa di felicità So che non mi basterebbe guardarti Non mi basterebbe inebriarmi del profumo della tua pelle, né toccarti mi appagherebbe. Solo se fossi parte di te, se mi sussurrassi il tuo nome sulle labbra, solo allora si placherebbe la mia anima. Il mio fuoco è inestinguibile, dimora nell'onirico, a un solo passo dalle tue ultime impronte sulla sabbia di un mare lontano. Riaprirò i miei occhi perché devo, e il riverbero del mio desiderio più profondo di te, mi renderà tollerabile il mondo ancora per un po', finché il tuo incanto non verrà a cercarmi ancora. ---- Antonio... Ti devo un sorriso, una carezza e un abbraccio, intanto grazie di cuore! Ancora una volta hai dimostrato di essere una persona di gran cuore e non finirò mai di ringraziarti per questa bellissima poesia.❤️❤️
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scrivosempreciao · 2 months ago
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Short story: Legno e Sangue, pt.2
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Ogni albero aveva il suo carattere e così anche il legno. Non ne esisteva uno che fosse uguale a un altro. Erano le impronte digitali del mondo. Erano come bambini. Erano come sentinelle sempre in attesa.
Il Rovere era saggio, con tante storie da raccontare. A volte diventava un po' noioso. Il Noce mi ricordava Zio Francis, un bohémien gioviale ma insidioso, con i suoi baffi arricciati e quella voglia immortale di stupire e raccogliere tutte le attenzioni. Il Mogano era forza e bellezza, ma anche così arrogante da far tremare le ossa. L'Acero era uno dei miei preferiti: vitale, modesto, affidabile, come un cagnolino dagli occhi lucidi e speranzosi. Il Ciliegio sognava un mondo colmo solo di musica, amore e mani gentili; nella villa c'era una pianola di ciliegio e quando nessuno guardava mi appisolavo vicino a lei. Mi faceva fare sogni dolcissimi.
Il Pioppo era come il maggiordomo Bernard; servizievole, quieto, generoso. Dava senza chiedere e non sapeva mai come prendere i complimenti. L'Ebano era energico e flessibile, sensuale e potente. Amava le sfide e le scommesse, forse fin troppo. Raro e prezioso, proprio come un segreto sussurrato nelle orecchie giuste. Il Frassino affrontava il tempo e le ingiustizie con una neutralità quasi commovente.
Io parlavo con il legno e il legno parlava con me. Io ero legno e il legno era me. Toccare una corteccia o la superficie di un mobile era come toccare me stessa. Eppure, spesso il legno era come uno sconosciuto ostinato e sospettoso. Mi chiedeva cose che non capivo, mi diceva parole che non avevano significato, mi incoraggiava a fare scelte che non osavo fare. A volte mi ubbidiva, molte altre no. A volte ci capivamo, molte altre no. A volte sapevo cosa fare con lui, molte altre no.
Ciò accadeva perché alle Streghe non si insegnava mai nulla che avesse a che fare con la loro maledizione. Avevamo dei poteri, sì, ma non sapevamo come usarli. Non conoscevamo l'infinito delle nostre capacità, solo i limiti. Ciascuna di noi apprendeva da se stessa, usando l'istinto e poco altro.
Eppure, non era per nulla facile togliere il marcio dai nostri corpi, anche se eravamo noi le prime a non capire davvero i poteri. Non era facile e il Collegio lo sapeva. Luminari — uomini innamorati della propria voce — del passato e del presente avevano speso molte energie a studiarci, vivisezionarci, spogliarci, torturarci, aprirci, maltrattarci e stuprarci per capire come curare la maledizione. Ci avevano rotte ancora di più nel tentativo brutale e ottuso di aggiustarci.
Si diceva che il potere delle Streghe traesse la sua forza dalle mani, dagli occhi e dalla voce. Toccare, vedere, ordinare. No, non ordinare: chiedere. Pregare, supplicare, sedurre, conversare.
Al Collegio non era possibile né toccare, né vedere, né parlare. Alle nuove arrivate, come me, venivano cuciti sulle mani dei lunghi guanti bianchi, che coprivano tutte le dita e arrivavano fino al gomito. Il colletto delle tuniche — bianche pure quelle, ovvio — era alto, aderente e stretto, fatto per stringere la bocca e impedire al suono di uscire. Attorno alle orbite veniva applicata una maschera che ci permetteva di vedere almeno un poco da due sottili fessure orizzontali — per farle aderire alla pelle del volto venivano adoperati dei punti di sutura più fini di quelli grossi e grezzi che ci lasciavano sulle braccia.
I primi giorni furono un inferno di dolore e confusione. Chi mi aveva messo tutta quella roba addosso alla pelle aveva fatto un pessimo lavoro e i punti tiravano come se volessero squarciare in mille pezzi la mia carne. Muoversi, mangiare o prendersi cura di se stesse era un'impresa; ci pensavano gli assistenti delle donne alte che mi avevano portata via e che avevo scoperto essere chiamate le Due Dame.
Gli assistenti aiutavano le nuove arrivate a prendere confidenza con quella condizione costretta. No, dire che ci aiutavano è dare loro troppo credito. Semplicemente, si assicuravano che non schiattassimo di fame o per una qualche infezione. A volte fallivano.
Agli assistenti piaceva molto assisterci durante i lavaggi o i momenti di igiene: eravamo come bambole cieche e rallentate nelle loro mani e potevano divertirsi un po'.
Volevo fare una strage. Volevo entrare in sintonia con ogni singolo pezzo di legno presente in quel Collegio — e ce n'era parecchio — e schiantarlo addosso agli assistenti e alle Due Dame. Volevo che soffrissero di tutto il male del mondo, volevo vedere le schegge impazzite lacerare i loro occhi e martoriare le loro facce prive di emozioni, lasciando solo grovigli di sangue, nervi, vene e ossa.
Prima di allora, prima di aver quasi fatto esplodere la villa e di essere stata gettata in quel baratro oscuro, non avevo mai pensato ai miei poteri come qualcosa di davvero pericoloso o violento. Ma più la mia pelle sanguinava sotto i capricci delle suture, più sentivo una scintilla brutale accendersi nel mio petto. Quel luogo esisteva per togliere il male da dentro di noi, eppure stava accadendo esattamente il contrario.
Ma io non ero più legno e il legno non era più me. Senza poterlo toccare davvero, quelle superfici che prima mormoravano sotto le mie dita erano diventate fredde e silenziose. Senza la mia voce, non potevo corteggiare neanche il più timido dei Pioppi. Senza la vista, i miei occhi non potevano più essere la finestra sul mondo per nessun Ciliegio curioso.
Il processo di normalizzazione era ormai iniziato. Al Collegio non serviva che le studentesse parlassero o dicessero la loro. Non potevamo fisicamente, ma ci sarebbe comunque stato impedito anche senza colletti alti. Eravamo lì per ascoltare e per essere ripulite da ogni marciume.
Ci lasciavano da sole in camere buie e umide per ore e ore. Altre volte facevano lo stesso, ma in stanze di un bianco così chiaro e candido da far venire la nausea. Spesso ci picchiavano, bacchettandoci le dita o il collo. Non sapevo con che criterio scegliessero chi punire e quando, ma era pressoché impossibile passare più di due giornate senza aver ricevuto una generosa dose di botte. Assistevamo anche a delle lezioni tenute da maestri barbuti; mi interessavano poco, erano dei lunghi sproloqui su Dio, sulla moderazione, sulla scienza e sul progresso.
Dopo qualche settimana, avevo ormai capito che la mia vita sarebbe stata un susseguirsi di giornate confuse, vuote e noiose, almeno finché non fossi uscita di lì. Non succedeva nulla; non volevano davvero educarci a una vita diversa, volevano solo soffocare i nostri poteri. Ci trattavano come piante infestanti da isolare, affamare ed estirpare, nella speranza impaziente che il prato tornasse pulito e immacolato. Era un gioco perverso di attesa e oblio: prendi una Strega, chiudila in una stanza, toglile tutto e attendi che il marcio se ne vada.
Conciata com'ero, facevo pure fatica a capire bene dove mi trovassi e chi fossero le altre maledette come me. Eravamo forse in un castello? Da quello che riuscivo a intravedere, non sembrava essere molto diverso dalla villa di Padre e Madre, solo immensamente e inutilmente più grande. No, grande non è la parola giusta. Più labirintico. Era tutto un aggrovigliarsi di corridoi, scale, camere, stanze, stanzette, ripostigli, saloni, aule, refettori, dormitori. Non riuscivo mai a trovare dei punti fermi a cui aggrapparmi per disegnare una mappa di quel posto nella mia mente; gli assistenti giocavano con noi come se fossimo state delle trottole, continuavano a spostarci da un posto all'altro. Non dormivamo per più di qualche giorno nello stesso letto e anche i tavoli dove mangiavamo sembravano cambiare di frequente.
Ma perché? Io non lo capivo, era tutto troppo assurdo. Quello che avevo capito era che quel posto urlava. Quel posto soffriva. Quel posto non era nato per il Collegio e ne aveva abbastanza. Aveva visto troppo. Aveva ospitato troppo. Aveva permesso troppo. Il legno non mi apparteneva più e io non appartenevo più al legno, ma potevo comunque sentirlo urlare tutto attorno a me.
Urlava di giorno, urlava di notte. Era un coro di grida strazianti che faceva vibrare le mie ossa e mi provocava un senso continuo di nausea. Vomitavo diverse volte al giorno e venivo anche punita per lo sporco che creavo sulla mia tunica o sul pavimento. Era come sentire il pianto di un neonato e non poter fare nulla di nulla.
Tra un conato e l'altro, mi chiedevo se ci fossero altre Streghe tra le mie compagne che soffrissero come me. Soffrivamo tutte, tutte noi maledette e guaste, questo era ovvio — "Vieni con noi e non soffrirai mai più". Ma mi chiedevo se ce ne fossero altre che sentivano il posto dove eravamo rinchiuse. Magari c'era una Sorella legata alla pietra o una che poteva parlare con i tessuti.
Non avevo idea di chi fossero le altre ragazze. Passavano davanti alle fessure della maschera come piccole nuvolette bianche prive di forma. Gli assistenti tendevano a dividerci in gruppi e a volte capitava di essere assieme alle stesse Sorelle per più occasioni. Avevo imparato a riconoscerle usando quel poco che potevo sapere di loro. Ce n'era una che uggiolava come un cucciolo bastonato — nella mia testa era stata rinominata Cucciola. Un'altra che sudava molto e odorava di pelle bagnata — lei era Sudore. Una aveva i gomiti appuntiti — Ossa. Una faticava a stare ferma e tremava sempre — Vibra. E poi ce n'era una che faceva "mmh-mmh" ogni volta che vomitavo o stavo male. Era un verso strano, come un colpo di tosse.
Lo faceva quando io rischiavo di soffocare nei miei stessi succhi gastrici fino a che un assistente non abbassava il mio colletto per permettermi di svuotare lo stomaco, lo faceva quando le urla del legno diventavano insopportabili e io vibravo. Non capivo se lo facesse perché le davo fastidio o perché anche lei sentiva quello che sentivo io.
"Mmh-mmh", mormorava, e basta. E quindi lei era Mmh-mmh.
Il Collegio non esisteva per educare, questo ormai lo avevo capito, ma dopo un po' — settimane? Mesi? Non mi era chiaro, il tempo aveva perso consistenza e le giornate erano diventate un grumo di confusione e oblio — iniziai ad avere il sospetto che il suo vero scopo non fosse solo toglierci i poteri. Il Collegio esisteva per condurre esperimenti sulle maledette.
Tutto ciò che subivamo doveva certamente far parte di qualche sperimentazione. Essere lasciate da sole per ore e ore. Picchiarci senza logica. Spostarci in continuazione. Rimbambirci con monologhi privi di senso. Ma se quelle torture potevano anche essere scambiate per semplici punizioni, c’era comunque la questione del cibo.
Ci davano da mangiare, sì, ma non erano dei pasti normali, né regolari. Quella faccenda mi aveva ricordato fin da subito ciò che Padre faceva con i suoi levrieri, un po’ per divertimento e un po’ per vero interesse. Somministrava ai cuccioli carni e sbobbe diverse, così da poter osservare il modo in cui certi cibi influivano sulla crescita dell’animale. La carne di cervo, di cavallo o di gallo li rendeva rapidi e reattivi. Le uova di quaglia e il coniglio di solito generavano cani timidi e docili. Padre ammazzava sempre questi ultimi.
E lì al Collegio, avessero solo voluto punirci, ci avrebbero dato ogni giorno il solito pasto insipido e scarno. Perché variare? Perché tanta fatica? Era un esperimento, chiaro. A volte ci davano delle zuppe caldissime e dal sapore orrendo; andavano giù a fatica in gola, sembrava di bere fango bollente. Altre venivano servite delle cene luculliane, roba da fare invidia a un re. Antipasti, primi piatti, secondi, dolci e digestivi; per me era una tortura, perché in quei casi vomitare era anche peggio. Sembrava mi dovesse uscire fuori l'intero stomaco, insieme ai pezzi di abbacchio.
Certi giorni ci davano solo frutta. Altri carne cruda. Altri solo carote o ravanelli. Altri solo acqua. In alcuni ci imponevano un digiuno feroce, privandoci di tutto. Se il digiuno durava troppo poteva anche accadere che una delle ragazze si sentisse male o svenisse. Un giorno capitò a me e fu il giorno in cui riuscii a parlare per la prima volta con Mmh-mmh.
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enkeynetwork · 6 months ago
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lapoesianonsimangia · 9 months ago
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Nel testo che segue, l’autore paragona l’arrivo del pensiero poetico all’incedere misterioso e inarrestabile di un animale selvatico. Tu a che cosa paragoneresti l’ultima intuizione o idea creativa che ti ha fatto visita? *** Immagino la foresta a mezzanotte: qualcos’altro è vivo oltre la solitudine dell’orologio e questa pagina bianca dove si muovono le mie dita. Non vedo stelle dalla finestra: qualcosa di più prossimo seppure più profondo nella tenebra sta penetrando la solitudine: freddo, delicatamente come la neve scura, il naso di una volpe tocca un ramoscello, una foglia; due occhi seguono in movimento che ora e ora di nuovo, e ora, e ora stampa nitide impronte sulla neve fra gli alberi, e con cautela l’ombra distorta di un corpo avanza lentamente presso un ceppo e baldanzoso nel vuoto viene attraverso radure, un occhio, spalanca il suo profondo verde, brillante, concentrato, va intorno come niente fosse finché, con guizzante caldo penetrante odore di volpe entra nel buco nero della mente. Ancora senza stelle è la finestra; l’orologio ticchetta, la pagina è pronta. Ted Hughes (Mytholmroyd, Regno Unito, 1930-1998), da "Poesie", Mondadori, 2008,
°ascoltando Tangerine Dream – Tangram
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gaetaniu · 9 months ago
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Rinvenute in Cina le impronte di un gigantesco dinosauro troodontide
Ricostruzione illustrata del Fujianipus yingliangi track-maker. I paleontologi hanno scoperto le tracce di un troodontide lungo 5 metri nella località di Longxiang, nella provincia cinese del Fujian. Il sito di Longxiang comprende dodici impronte di due dita che rientrano in due morfologie, differenziate per dimensioni e forma. Le tracce più piccole, lunghe circa 11 cm, appartengono…
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lareginadelmondomarcio · 9 months ago
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Cammino a piedi scalzi calpestando viscere, ossa, teschi. Mi sporco i piedi lasciando impronte sulle piastrelle bianche. Le mani sporche di terriccio e le unghie spezzate.
Sento i piedi sprofondare.
Il pavimento diventa lingua e calpesto ogni muscolo scivolando sulla muccosa, attraverso le papille gustative e sento i villi solleticarmi i piedi come caminassi su un tappeto erboso.
Mi guardo attorno e cerco di uscire da questa gabbia.
Spingo contro porte bianche, rompendomi la pelle e consumandomi le nocche. Urlo e sbatto con la spalla, poi con la schiena scivolo in terra.
Sono prigioniera e sento un battito, di mani, piedi o cuore?
Io e te non siamo uguali.
Amore, caro amore mio.
Ti chiedo ancora chi sei.
Tu non lo sai.
Ma sai, mille persone ci chiamano e demoni da cui provengo urlano il nostro nome.
Io taglio reti, quelle di Calzedonia.
Ti mostro gambe, cosce, glutei.
Tu apri bocca.
Rimani di stucco.
Io salto, scappo, ma mi volto indietro e tu mi afferri.
Divento molle e scivolo tra le tue dita.
Piccoli brividi sulla schiena percorrono la loro marcia dinanzi all'orrido che di fronte a te ritrovi.
Prendo forma.
Divento umana.
Un corpo nudo, bagnato e ferito ti guarda tra i capelli luridi di bava e c'ho fame da cent'anni e sono stanca di stare a dieta.
Ti afferro fuori controllo e con il veleno nelle unghie mando il tuo cervello in pappa.
Mi guardi negli occhi scuri e non puoi fermare questa rabbia eterna covata in fondo alle tue corde vocali.
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keikko · 1 year ago
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Catastrofi Innocenti #6
Quando si destò dal torpore della lettura erano già le cinque, allora si rimproverò per aver perso la cognizione del tempo e si alzò dal letto per tentare di studiare. Prese il libro di letteratura latina e lesse il capitolo su Giovenale, sottolineando le informazioni sulla vita e sulla sua poetica e inorridendo di fronte alle sue invettive contro le donne nella VI satira. Guardò la pagina con senso critico e giunse alla conclusione che agli uomini del tempo facevano paura le donne intelligenti e informate, e le venne in mente la Medea di Euripide che affermava apertamente ciò. Chiuse il libro dopo due ore di studio forzato e riguardò l'orologio. Come potevano essere le nove? Si strofinò gli occhi e controllò il telefono. Le cifre che si illuminavano beffardamente sotto i suoi occhi erano le stesse. Si alzò un po' confusa e uscì dalla sua stanza. Sentì la porta sbattere dietro di sé e proseguì nel corridoio guardando nelle stanze dei due fratellini e non trovando nessuno. Iniziò a chiamarli, a chiedere se ci fosse nessuno in casa, mentre un leggero brivido le saliva lungo la schiena e le gelava le dita. Nascose le mani tremolanti sotto le ascelle e si meravigliò del freddo che faceva, andando persino a ricontrollare le camere dei suoi fratelli e la sua per vedere se aveva dimenticato la finestra aperta, ma trovò tutto chiuso. Entrò finalmente in salotto e vide delle scarpe infangate da uomo vicino al camino acceso, accanto alle scarpe di sua mamma e dei suoi fratelli. Rimase agghiacciata. Si voltò di scatto a destra e a sinistra, adesso con le braccia e le ginocchia tremanti che la scuotevano tutta, ma non vi trovò nessuno. Entrò di corsa in cucina e prese un coltello per avventurarsi fuori. Non c'erano macchine per la strada, non c'erano impronte fangose di fronte alla porta, eppure sapeva che aveva piovuto, lo sentiva nell'aria, lo vedeva sull'erba e ne aveva la prova in casa. Si girò ma trovò la porta chiusa, quindi lasciò il coltello sul tappetino di ingresso e si avviò verso l'ospedale. O almeno così ricordava di aver fatto, perché quando arrivò stava già sorgendo il sole. Si avvicinò alla reception mentre infermiere e medici volavano da tutte le parti nella stanza e parenti aspettavano ansiosi informazioni e possibili diagnosi. Le venne indicata una scala e lei la seguì senza ringraziare. Non le sembrava di aver parlato, né di aver cercato di approcciare nessuno, ma apparentemente era evidente dove dovesse andare perché la scala la portò in un corridoio verdognolo e poco illuminato completamente vuoto e silenzioso. Era quello il corridoio dove si doveva trovare. Non c'erano porte laterali e l''andito culminava, dove normalmente si sarebbe trovato un ascensore, in una grande porta bianca a doppia anta che al centro presentava dei pannelli di vetro sabbiato che lasciavano solo intravedere delle ombre sfocate che si muovevano disordinatamente all'interno. Fiamma attraversò il corridoio a rallentatore, sentendo ogni passo riecheggiare per il vano, udendo il rimbombo del suo respiro e il suono dello sbattere dei suoi denti, con la mascella tremante, rimbalzare da una parete all'altra. Quando finalmente si trovò la porta davanti non riusciva ad alzare la mano verso la maniglia per la trepidazione. Rimase per un periodo indeterminato a contemplare le sue stesse dita e a darsi coraggio per aprire la porta, ma appena riuscì a muovere il braccio questa si spalancò, e Fiamma venne investita dalle braccia di sua madre che se la tirava contro il petto.
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