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Maria Mercader ne Il Prigioniero di Santa Cruz (1941) di Carlo Ludovico Bragaglia
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In questi giorni del mese di gennaio Cesare Battisti è di nuovo prigioniero, mentre vent'anni fa, nella bottiglia d'orzata, moriva per la prima volta Fabrizio De André. Poi, è andata a finire che De André è morto e rimorto, quasi quotidianamente. Nella normalizzazione che ne è stata fatta. Nei monumenti, nelle strade e nelle piazze che gli sono state dedicate, quasi altrettante che a Cesare Battisti (quello impiccato nel 1916 a Trento). Nella sua costante e capillare neutralizzazione come una sorta di poeta nazionale, quando era ed è stato quanto di meno “nazionale” si possa immaginare (la qualifica di “poeta”, così tanto amata quanto vuota, non mi interessa). Nella rassicurante imposizione che è stata diffusa: deve piacere a tutti, bovinamente e in quanto tale. Nella sua pressoché sacralizzazione. In origine, quando si veniva dichiarati sacri (sacer esto, “sia fatto sacro”, si leggeva nelle Leggi delle XII Tavole dell'antichità romana) significava essere messo a morte in sacrificio a un qualche dio, in esecuzione di una ben precisa condanna. In queste ore sta girando, in una serie di ghetti della ���grande Rete” (siti, blog, pagine Facebook...), un'immagine, quella che si vede sotto il titolo (che riprendo dalla Militant). Un giovane Cesare Battisti dietro alle sbarre, e dei versi di Fabrizio De André (da “Nella mia ora di libertà”, album Storia di un Impiegato, 1973). Nulla da dire sull'immagine; qualcuno la avrà materialmente prodotta, ma sono certo che sarà venuta in mente a chiunque condivida, in tutte le diversità, gli amori e gli odi possibili e immaginabili, uno straccio di percorso, un brandello di storia, un grido di ribellione strozzato nella repressione, nella standardizzazione, e sovente nella solitudine e in destini più o meno ridicoli. Per questo parlo di ghetti. Ghetti personali, ghetti di piccole organizzazioni, ghetti di singoli frequentati da altri singoli sparsi, ghetti di qualsiasi genere che la “Rete” ha fabbricato a migliaia e migliaia, e che non di rado vengono chiamati “oasi”. Un'oasi, come si sa, è circondata dal deserto. Si tratta, appunto, di una perfetta desertificazione. Anche questo blog, per quello che possa valere, è un ghetto dove, da stamani, gira conseguentemente l'immagine di Cesare Battisti coi versi di De André. Ci girerà, tra un po', anche un grido di libertà scritto perbene, in tutte maiuscole come da prassi o da consuetudine. C'è una sola cosa con la quale non mi riesce proprio essere d'accordo: la primavera. Tante le grinte, le ghigne i musi, ma non c'è, purtroppo, nulla da spiegare. Non è primavera. Occorrerebbe, forse, spiegare bene che è un lungo e duro inverno di cui non si vede la fine. Un inverno che può avere anche i trentadue gradi di Santa Cruz de la Sierra, Bolivia. Un inverno che si twitta e si fa i selfie. Un inverno che ha mille e mille facce, grinte, ghigne, musi; e non solo quelle che, più o meno, ci si aspettano. Non ha solo la faccia di Salvini, di Trump, di Bolsonaro, di questo o quel fascista. Ha anche la faccia di Evo Morales. Ha la faccia dei queruli pennaioli e tastieranti di “Repubblica” che infilano tra gli articoli le tiratine sulla “libertà di stampa”, sulla “scomodità” e sulle “fake news”, quando la menzogna informativa e servile è oramai generalizzata ed eletta a necessario sistema. Ha la faccia di tutti gli zombies chini sui telefonini -che, tra le altre cose, a parecchi servono pure per accedere ai propri ghetti e a diffondere le immagini di Cesare Battisti, di De André e del gattino miao, gli appelli, i filmini raccapriccianti, edificanti, divertenti, interrogativi. Le verità rivoluzionarie e le morali. Gli insulti e le “condivisioni”. Non c'è mai stata un'epoca come questa, quando si “condivide” ogni cosa e non esiste più nemmeno un milligrammo di solidarietà, di empatia, di assunzione reale di ciò che si dice e si fa. Per questo, o anche per questo, è inverno pieno. E' inverno quando ti propinano che l'accanimento su Cesare Battisti non sarebbe “vendetta, ma giustizia” (ancora una volta, farina del sacco di “Repubblica”, come dubitarne). No, no, è proprio vendetta, vendetta cieca e assai mirata. Capillare e ben al di là di Cesare Battisti e delle sue vicende. Dietro a quelle sbarre, quelle dell'immagine, non deve stare soltanto lui; ci deve stare chiunque abbia, nei modi più disparati possibili, condiviso realmente qualcosa, che abbia o meno impugnato le armi per un periodo della sua vita in una guerra che ha avuto dei vincitori e dei vinti. Gli appelli a “liberare gli anni '70”, così come si legge in queste ore, sono giocoforza destinati a cadere nel vuoto. Al massimo, a girare tra i luoghi dove già girano da tempo, vale a dire nei ghetti fisici e virtuali (che, oramai, si confondono appieno). Prova ne sia che qualsiasi tentativo di parlarne, con la presenza o meno di qualche “protagonista” (o deuteragonista, o tritagonista, o nullagonista), viene stroncato e delegittimato a colpi di grancassa mediatica, “social” e poliziesca (a tutti coloro che si sono infilati a orgasmico capofitto nei “social” mi premerebbe ricordare la primaria funzione di controllo e di polizia che hanno, specie quando ripetono come automi “dipende dall'uso che se ne fa”). L'inverno consiste nel fatto di non avere, attualmente, nessun'altra possibilità che esporsi con dei mezzi che permettono un controllo e una repressione immediata e capillare. Secondo quanto si legge, persino Cesare Battisti è stato beccato mentre cercava un wi-fi per le strade di Santa Cruz. E probabilmente, ciò è avvenuto perché attualmente, in una fuga, non si hanno altri mezzi per cercare in qualche modo di sfuggire: uscire da un luogo più o meno sicuro per cercare di mettersi in contatto con qualcuno che ti aiuti e ti sostenga. Si tratta di un'impasse nella quale ci troviamo tutti, attualmente, anche chi non è certamente costretto a fuggire e a nascondersi. Anche chi non è braccato da uno Stato, dall'Interpol, dai fascisti mediatici e dal “popolo”. Anche chi non ha mai toccato un'arma in vita sua. Anche chi desidererebbe esprimere un semplice pensiero, un'idea, una proposta che vada contro a ciò che, oramai, non si può più nemmeno definire “maggioranza”: è, realmente, una massa planetaria ben plasmata e felicemente intrappolata in dèi, legalità, telefonini, sport, cuochi, vittime, ammòre, fiction e razzismi. E' inverno, e occorre andare a spiegarlo in modo a mio parere assai brutale e chiaro, perché la primavera è morta. Cinguettiamo come uccellini, ma coi “tweet” e coi cinguettii di Whatsapp. Per il resto siamo pienamente in gabbia, e non cantiamo per amore, ma per rabbia. Liberare gli anni '70? Bisognerebbe liberare la Storia, tutta quanta, e invece ce la facciamo raccontare in TV da Paolo Mieli, mi scappa da ridere. “Assaltare il cielo”, come si legge sulla Militant? Dai ghetti si assalta poco o punto, i ghetti sono fatti di mura, di chiusura, di ingressi rigidamente controllati a chi vuole entrarvi, e di uscite impossibili per chi è dentro. Viviamo quindi tranquilli e beati nei nostri ghetti, nel blogghino, nella paginetta Facebook, in qualche “spazio libero” che tanto fra due o tre giorni verrà chiuso e sgomberato con tante belle denunce fresche fresche, nella stanzetta o nella baracca, nell'oasi e nell'illusione di sfuggire. Stiamo anche noialtri cercando un wi-fi. Fra poco ci estradano. In quel Cesare Battisti dietro alle sbarre ci siamo tutti, in dei casi senza nemmeno rendercente conto. In altri casi, sotto sotto forse nemmeno del tutto scontenti perché di “compagni” che ho sentito dire che “se l'è andata a cercare” ne ho sentiti più di uno. CESARE BATTISTI LIBERO! LIBERIAMO GLI ANNI '70.
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Maria Mercader con Giuseppe Rinaldi, attore e voce storica del doppiaggio italiano, in una scena del film Il Prigioniero di Santa Cruz (1941) film drammatico sentimentale diretto da Carlo Ludovico Bragaglia
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Maria Mercader nella co-produzione italo-spagnola Il Prigioniero di Santa Cruz (1941) diretta da Carlo Ludovico Bragaglia
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