#il guardiano del frutteto
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Se n'è andato Cormac McCarthy
Cormac McCarthy, forse il più grande romanziere americano del tempo, è morto a 89 anni.
De Ficchy Giovanni Cormac McCarthy, forse il più grande romanziere americano del tempo, è morto a 89 anni. Dal ; Il guardiano del frutteto (1965) a La strada (2006), I primi romanzi disordinati e ornati di Mr. McCarthy su disadattati e grotteschi hanno lasciato il posto alla lussureggiante taciturnità di “All the Pretty Horses” e al minimalismo apocalittico di “The Road”. Come lui, i suoi…
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Il Green Fly Inn bruciò il ventun dicembre del 1936, e una grande folla accorse nonostante il freddo e l'ora tarda. Cabe se la svignò con l'incasso e all'ultimo minuto autorizzò i clienti in fuga a prendere tutto quello che potevano, e così, con il calore dell'incendio e le bottiglie e i barattoli che circolavano, l'avvenimento assunse l'aria di una festa
Cormac McCarthy, Il guardiano del frutteto
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Se n'è andato Cormac McCarthy
De Ficchy Giovanni Cormac McCarthy, forse il più grande romanziere americano del tempo, è morto a 89 anni. Dal ; Il guardiano del frutteto (1965) a La strada (2006), I primi romanzi disordinati e ornati di Mr. McCarthy su disadattati e grotteschi hanno lasciato il posto alla lussureggiante taciturnità di “All the Pretty Horses” e al minimalismo apocalittico di “The Road”. Come lui, i suoi…
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A est, oltre la città, un'alba grigia e monotona saliva a corrodere la forma dell' orizzonte.
Cormac McCarthy, Il guardiano del frutteto
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A est, in basso sull'orizzonte, una luna rossa sorgeva fra le nubi, un sorriso sghembo, un frammento di conchiglia appeso all'orecchio scuro di una zingara.
Cormac McCarthy, Il guardiano del frutteto
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“Saranno gettati nella tenebra, là fuori”. Viaggio infinito nei romanzi di Cormac McCarthy
Il titolo viene dalla Bibbia, Nuovo Testamento, Vangelo di Matteo, capitolo 8, versetto 11. L’episodio è quello del “servo del centurione”: il tema è la fede come milizia, l’umiltà, il potere della parola di Gesù. “I figli del regno saranno gettati nella tenebra, di fuori, e lì sarà pianto e denti che digrignano”. La differenza sembra essere quella tra i fedeli che ascenderanno al regno dei cieli e i quelli dell’altro regno, mondano, cacciati. Un travaso di potenze, un capovolgimento è in atto – tutto è regno e regicidio. Skótos è l’oscuro, la tenebra; exóteron significa “di fuori” (la parola dirige a essoterico, ciò che è a tutti visibile, l’esterno, ciò che è divulgato, rispetto a esoterico, il taciuto, l’interiore). Divulgare la tenebra.
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In inglese il gergo evangelico è tradotto come Outer Dark, in italiano fa Il buio fuori (brutto titolo), è il secondo romanzo di Cormac McCarthy, dopo Il guardiano del frutteto. Edito nel 1968, arriva in Italia nel 1997, per Einaudi, nella traduzione, possente, di Raul Montanari. Il libro è nitido, cattivo. Siamo in un’era imprecisa, in un luogo ignoto, lungo gli Appalachi. Un ragazzo, Culla, mette incinta la sorella, Rinthy. Lei si sgrava. Sono ai margini di una natura nuda e feroce. Lui prende il bambino e lo abbandona, nel niente. “Il bambino urlava la sua maledizione al mondo tenebroso e maleodorante in cui era nato, piangendo e piangendo, mentre l’uomo giaceva a terra farfugliando con le mascelle paralizzate, e con le mani respingeva la notte come un folle paracleto assediato dalle suppliche dell’intero limbo”. Appresa la sorte del figlio, Rinthy lo vuole riscattare dall’esilio, lo cerca. Culla si mette alla ricerca della sorella, ma il suo viaggio, una sequela, è un tunnel senza viatico, una coltelleria di visi: deve scontare il peccato. Alcuni uomini anonimi, retti dalla crudeltà bianca, fanno razzia, falciano gli umani, assolti, simili a gramigna.
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McCarthy ha esordito a 32 anni, pubblicato da Random House, con Il guardiano del frutteto: era il 1965 e il romanzo gli consente il premio intitolato a William Faulkner per l’opera prima (poco prima di lui era andato a V di Thomas Pynchon). Sono anni belli e tumultuosi: durante un viaggio in Irlanda, che si paga con i soldi del premio, McCarthy incontra Anna DeLisle, che diventa la sua seconda moglie. Grazie a una borsa della Rockefeller Foundation, lo scrittore può ritirarsi a Ibiza, dove scrive Il buio fuori. Il romanzo possiede la specifica grana linguistica di McCarthy, tratta dai profeti biblici, legioni di lingue messe a essiccare insieme a lucertole e selci. È una lingua che desertifica. Per McCarthy “le tenebre là fuori” sono il regno di questo mondo, questi sono gli inferi, qui è la tenebra che dobbiamo decrittare (concetto, gnostico, cruciale nel capolavoro, Meridiano di sangue) e scontare. Scaglie di innocenza sono barbaricamente sacrificate – il figlio, il bambino senza nome – o si barcamenano, come cuciture, come strappi di lebbra, tra umani indiavolati (la madre, Rinthy). Quasi nessuno capì questo libro: “McCarthy non ha scritto soltanto una storia gotica. Ombre e spicchi di oscurità creano l’atmosfera. In questo romanzo vive una società impenetrabile e disumana, che speravamo scomparsa da tempo. In questo romanzo vengono rappresentati gli antichi scemi di criminalità, punizione, sacrificio”, ha scritto, all’epoca, Thomas Lask, sul “New Yorker”. Me li immagino, poveretti, in pieno Sessantotto, fare i conti con uno scrittore che aveva le rocce del Sinai conficcate nelle pupille. Magari vi fosse il rito della punizione, del sacrificio, al posto di assolverci, tutti, tuffandoci in un apericena. L’autentico precedente di questo romanzo scabro, scabroso, è Palme selvagge di papà Faulkner: anche lì, ci sono due fuori dal mondo, ai bordi di un allucinato Mississippi che inonda i regni dell’uomo, il tentativo di un aborto, una scrittura vischiosa, rischiosa, ripida. Tutto, anche lì, è tenebra, e la scrittura è fuoco tra gli oscuri.
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È detto che i romanzi di Cormac McCarthy sono potentemente maschili, fitti di patriarchi, di tormentati Caino. Il romanzo che segue Outer Dark s’intitola Child of God – il vigore evangelico è storpiato in un mondo irredento –, è del 1974, scritto in predicata povertà (McCarthy sta a Louisville con la moglie, acquista un granaio semidistrutto, lo mette a posto, scrive, “per lavarci andavamo al lago, mangiavamo quasi sempre fagioli, arrivava uno a offrirgli del denaro per parlare di letteratura all’università e Cormac lo mandava via, quello che ho da dire lo scrivo, diceva”, ha detto la DeLisle: finirono per separarsi). In scena c’è un serial killer, Lester Ballard, tocco, che uccide vestito da donna. In questo romanzo, il cuore è Rinthy, madre estorta dal merito, storpiata in un tempo immeritato. “Non avrete pace, gemette lei. Mai, mai. Come ogni anima al mondo, ribatté lui”. L’incesto è la sola cosa che c’è, che resta, ai simili, al resto del creato.
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C’è un’altra donna, clamorosa, nei romanzi di McCarthy: Alejandra, il cuore mobile, il prisma mistico di Cavalli selvaggi. Siamo nel 1992, McCarthy va per i sessant’anni, con quel romanzo, il primo della “Trilogia della frontiera”, ottiene il National Book Award. La consacrazione. Alejandra è l’opposto di Rinhty: tutto le è possibile, la sua bellezza è avventata, è la figlia del ricco proprietario di un ranch, in Messico, dove lavora John Grady, il giovane protagonista. Il ragazzo s’innamora di lei, l’unione è impossibile (così in un dialogo tortuoso con la nonna di Alejandra, la voce ultima: “Fece un gesto astratto con la mano per significare che s’era improvvisamente ricordata di non aver chiarito una cosa. No, disse. No. Non è questione di giustizia astratta. Qui la questione è: a chi spetta decidere cos’è giusto?”). Sganciato dalla ragazza, John Grady è preda del delirio del mondo, precipita nella tenebra della prigionia, “ed ebbe paura che l’anima potesse non avere alcun limite”.
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I romanzi di McCarthy sono annodati da implacabili ricorrenze. Il buio fuori termina con un dialogo tra Culla, l’uomo, e un cieco. “Perché non pregate per riavere i vostri occhi?, gli fa; e lui: “Credo che sarebbe un peccato. Quei poveri occhi possono solo farvi vedere ciò che accadrebbe comunque. Se un cieco avesse bisogno degli occhi, avrebbe gli occhi”. Anche Città della pianura, pubblicato trent’anni più tardi, si chiude con un dialogo con un cieco. Molto più articolato, tortuoso. “Tu puoi chiamare a te il mondo che Dio ha creato, nient’altro che quel mondo. E questa tua vita alla quale dai tanta importanza non è opera tua, qualunque sia il nome che decidi di darle. La sua forma è stata imposta al vuoto fin dall’inizio del mondo, e tutto ciò che si può dire di come sarebbero potute andare altrimenti le cose è senza senso, perché non si dà nessun altrimenti… Il fatto che possiamo immaginare storie alternative non significa nulla”. Spigare la tenebra, spiegare la gola di serpe della storia, scollinare dal destino, di ogni viso intendere la fine, senza finalità che questa corsa, nella lebbra dell’alba. (d.b.)
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“Grazie a lui i falliti diventano angeli dannati di proporzioni mitiche”: dialogo intorno a Denis Johnson con la sua traduttrice, Silvia Pareschi
Quest’anno ne farebbe 70. 70 anni. Non ci è arrivato. Denis Johnson è morto due anni fa, è stato un poeta della disperazione, ha scritto il romanzo allucinato sul Vietnam, Albero di fumo – ne scrissi, con la consueta tracotanza retorica, così: “Prendi Joseph Conrad, drogalo a dovere, e fagli fare un giro a Las Vegas. Il risultato ti darà Denis Johnson, il Lord Jim della letteratura contemporanea, duce nel sottosuolo del romanzo americano” – ha edificato una Iliade dei reietti, una epica degli alienati, con un talento obliquo che stordisce. L’anno scorso, dai cassetti mortuari, hanno cavato dei racconti inediti di DJ, pubblicati come The Largesse of the Sea Maiden; contestualmente, Einaudi ha fatto ritradurre il libro-culto di DJ, Jesus’s Son, pubblicato in origine nel 1992, diventato film – bruttino – nel 1999, atterrato in Italia nel 2000. Novanta pagine, undici racconti, bellezza che dilania, scrittura come coltello alla gola e iena sul petto, le memorie dal sottosuolo del nostro tempo, come se ti gettassero un leopardo nella vasca da bagno, mentre stai lì, beato, in una Gerusalemme celeste di spuma. A metterci mano, in questa nuova versione, Silvia Pareschi, un fenomeno – ha tradotto, tra le tante cose, Il guardiano del frutteto di Cormac McCarthy, poi molto Jonathan Franzen, Alice Munro, Don DeLillo, la studiate qui, ad ogni modo –, a cui ho chiesto di DJ, per capire. Il resto è quello che scrivo sempre, più una cosa. Primo: Johnson esordisce come poeta – nel 1969, con The Man Among the Seals, nel 1981, per The Incognito Lounge, incassa gli applausi di Mark Strand – e gli resta addosso l’odore di bestia in fuga con la lingua d’argento del poeta. Traducete le sue poesie, cavolo. Secondo: Jesus’ Son era l’altare privato su cui Simone Cattaneo raffinava le sue poesie. Senza Simone, non conoscerei DJ – ora i due, assieme, si berranno San Pietro sciolto nel rum. Una cosa in più. “Da sotto la porta chiusa si è sprigionata una lastra di fulgore, come se, grazie a qualche stupefacente processo, lì dentro stessero incenerendo diamanti”. Primo racconto di Jesus’ Son. S’intitola Incidente durante l’autostop. Così DJ descrive l’urlo di una donna, “magnifica, ardente”, a cui dicono, in ospedale, che il marito è morto. Che devastante e meravigliosa descrizione dell’urlo e del dolore. Il dolore come mucchi di diamanti inceneriti. Onore a Denis. (d.b.)
Denis Johnson. Come si entra in quel linguaggio lucido e cruento? Che valore ‘elettrico’ ha Johnson nella letteratura statunitense contemporanea?
In una recensione a Mostri che ridono, Joy Williams scrive che DJ si avvicina per sensibilità al grande Robert Stone, anche se di Stone gli manca la padronanza della trama e della struttura. “Tuttavia”, prosegue, “non leggiamo Johnson per il suo metodo, ma per l’effetto perturbante e le luminose sorprese”. Un libro come Albero di fumo, per esempio, alterna pagine a volte sconnesse e oscure a illuminazioni di scrittura potente e cristallina, come il folgorante incipit o la straordinaria morte del sicario raccontata in prima persona. È una scrittura che viene dalla poesia (perché Johnson è stato prima di tutto un poeta), e nella quale meglio si entra lasciando fuori le questioni, appunto, di metodo. Perché DJ era uno scrittore discontinuo, certo, eppure anche i suoi libri meno riusciti vibrano di una voce profondamente e unicamente americana, vivida, spesso intrisa di humor nero e di un’acuta immediatezza fisica ed emotiva, di descrizioni estatiche, di una capacità di osservazione così compressa che in poche frasi riesce a ottenere una qualità visionaria. Ci sono modi alternativi di guardare il mondo, ci dice DJ, e alcuni di essi sono più vicini alla verità di quanto possano esserlo i fatti nudi e crudi.
Certo, tra Jesus’ Son e Albero di fumo, pur in una coerenza esistenziale, si avverte un diverso approccio linguistico: è così? Spiegaci.
Fra i due libri sono passati quindici anni: Jesus’s Son è del 1992 e Tree of Smoke del 2007. Il primo – libro culto della letteratura americana contemporanea – è scritto in una lingua spoglia e luminosa che ricorda per certi versi Hemingway e Carver (il quale era stato insegnante di DJ all’Iowa Writer’s Workshop). È proprio che grazie a questa lingua che DJ riesce a trasformare una serie di personaggi falliti e marginali in angeli dannati di proporzioni mitiche. Le loro disavventure sono raccontate con una prosa diretta e disadorna, il prodotto di una mente annebbiata che attribuisce la medesima importanza a ogni cosa, che sia una nuvola o un cadavere. E ogni tanto, in questa prosa imperturbabile, spuntano senza preavviso momenti di intensa poesia. Albero di fumo è un romanzo lunghissimo, ambizioso e caotico, coinvolgente pur nella sua fondamentale mancanza di trama, costruito con segmenti di vita di alcuni personaggi coinvolti nella guerra del Vietnam. Ma al di là della lunghezza trovo che in realtà non sia cambiato molto dal DJ dei racconti a quello di questa epopea psichedelica. La differenza si nota più che altro fra la compattezza dei racconti e la discontinuità del romanzo di cui parlavo prima, ma le caratteristiche della sua scrittura rimangono immutate.
Che libro vorresti tradurre? E poi, qual è stato il libro che hai faticato di più a tradurre. E quello che più ti ha divertito tradurre.
Uno dei libri più difficili che ho tradotto, che però mi ha dato grande soddisfazione, è La breve favolosa vita di Oscar Wao, di Junot Díaz. In un libro del genere, la ricerca linguistica è la chiave di tutto. Díaz gioca di continuo sull’interazione tra inglese e spagnolo (il cosiddetto spanglish) e cambia continuamente codice, passando dal colloquiale al letterario, creando un melting pot lessicale fatto di frasi caraibiche, gergo dei neri americani, slang di strada. Inoltre alla narrazione tradizionale si mescolano continuamente richiami alla fantascienza ai fumetti al fantasy, con una creatività linguistica davvero vorticosa. Il libro che mi sono più divertita a tradurre è, di nuovo, Oscar Wao. I momenti di massimo divertimento per un traduttore sono quelli in cui può giocare con la lingua, addirittura inventare parole nuove (come nel caso della parola ‘strizzacervelli’, introdotta da Marisa Caramella nella sua traduzione di Paura di volare per rendere il termine shrink, contrazione di headshrinker, restringiteste), e il libro di Junot Díaz pullula di parole inventate, soprattutto parolacce (le parolacce sono un campo molto fertile di invenzione linguistica). Prendiamo per esempio la frase: “He had the worst case of no-toto-itis I’d ever seen”. Toto, nello spagnolo dominicano, vuol dire fica. In italiano, usando l’alfa privativo per dare una connotazione pseudo-scientifica, la traduzione diventa “Soffriva del peggior caso di aficasia che avessi mai visto”. Per quanto riguarda il libro che vorrei tradurre, be’, sono un’ammiratrice di Margaret Atwood da tempi non sospetti, cioè da molto prima della serie Tv che l’ha trasformata da autrice molto nota a fenomeno mondiale (il suo libro che ho più amato è L’assassino cieco). Perciò confesso che sarei molto felice di tradurre il seguito del Racconto dell’ancella.
Cosa si muove, oggi, nella letteratura americana contemporanea? Su quale ‘nuovo’ autore punteresti alto, quello che tra 50 anni sarà un ‘classico’?
Ogni dieci anni, la rivista “Granta” pubblica una lista dei 21 migliori scrittori americani sotto i 40 anni. Come succede ormai da tempo, molti degli scrittori emergenti sono immigrati di prima o seconda generazione, specchio di un paese fatto di molte culture e molte etnie. Penso alla ghanese Yaa Gyasi, all’ucraina Sana Krasnikov, all’indiano Karan Mahajan, all’etiope Dinaw Mengestu, alla nigeriana Chinelo Okparanta. Tra gli scrittori non citati nella lista di “Granta”, vorrei ricordare soprattutto Jesmyn Ward, l’unica donna ad avere vinto due volte il National Book Award (e ha solo 42 anni!), con Salvare le ossa e Sing, Unburied, Sing.
Ultima. Ti piace la letteratura italiana contemporanea? Qual è il libro, da lettrice, che ti ha sconvolto, che ti ha mutato, se esiste?
Confesso di non leggere moltissima letteratura italiana contemporanea. Mi piace Michele Mari, e l’ultimo libro che ho letto e mi è piaciuto è Resto qui di Marco Balzano. Per il resto leggo e rileggo soprattutto i classici del Novecento, da Sciascia a Calvino, da Vittorini a Morante, ma anche Palazzeschi, Busi, Buzzati, Landolfi, Ortese, Brancati… Il libro che mi ha cambiata non esiste, nel senso che ogni libro che leggo mi cambia un po’. È anche per questo che si legge, no?
L'articolo “Grazie a lui i falliti diventano angeli dannati di proporzioni mitiche”: dialogo intorno a Denis Johnson con la sua traduttrice, Silvia Pareschi proviene da Pangea.
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