#il duro mestiere dello scrittore
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Cos'è un Party Review?
In molti mi avete fatto privatamente questa domanda attraverso il mio indirizzo email, perché avete notato questa parola nei vari blog su cui sono apparse le recensioni del mio Ritorno a Breuddwyd e mi sembrava carino e soprattutto onesto da parte mia darvi qualche info in più, oltre ovviamente a quelle fornite da Google. Allora, sostanzialmente un Party Review è un accordo che si prende con un…
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In Biblioteca puoi scoprire autori e opere che non conoscevi o di cui avevi sentito parlare ma che ancora non avevi avuto modo di leggere. Ed è per questo che abbiamo deciso di dedicare un angolo alla scoperta di questi "tesori nascosti".
Oggi l'opera prescelta è "Il paradiso degli orchi" di Daniel Pennac.
Il libro narra la storia di Benjamin Malaussène, che di mestiere fa il capro espiatorio, mansione per la quale viene strigliato dai clienti per oggetti malfunzionanti. Anche se il lavoro è molto duro, Benjamin è costretto a svolgerlo poiché ha una famiglia molto numerosa alle spalle: Louna, Clara, Thérèse, Jérémy, il Piccolo e il cane Julius. La famiglia Malaussène vive nel quartiere di Belleville, accanto a un ristorante arabo gestito dalla mamma adottiva della famiglia, Yasmina, e da tutta la sua famiglia. Infatti, la vera madre dei Malaussène è uno spirito libero e molto spesso scompare per lunghissimi periodi, tornando incinta e abbandonata dal suo ennesimo grande amore. La storia ha inizio quando, nel Grande Magazzino dove Benjamin lavora, inizia ad esplodere una serie di bombe. L'uomo viene subito sospettato a causa del suo lavoro e per la sua presenza nell'edificio ad ogni esplosione.
Nonostante tutti questi inconvenienti, Ben riesce sempre a tenere di buon umore i suoi fratelli raccontando loro delle storie del libro che egli stesso ha scritto. Un giorno, a sorpresa, sua sorella Clara spedisce questo libro a undici case editrici. Per scoprire chi sia realmente il colpevole dello scoppio delle bombe, Ben, con i suoi fratelli e Theo, iniziano ad indagare sul caso. Si viene a scoprire che, durante la seconda guerra mondiale, proprio nel Grande Magazzino erano stati uccisi dei bambini per mano di alcuni anziani che attualmente vi lavoravano, da qui il nome "orchi". Grande aiuto viene dato da una giornalista, Julie, la quale ben presto s'innamora della disastrata famiglia Malaussène e dello stesso Benjamin. Infatti, nel finale, riesce a scrivere un articolo sul mestiere del capro espiatorio e, dopo che Benjamin è stato allontanato e assunto presso una nuova agenzia, le Edizioni del Taglione, i due si metteranno insieme.
È Stefano Benni che dobbiamo ringraziare se nel 1991 Pennac sbarca in Italia con la fortunatissima saga di Malaussène. Benni legge Pennac, rimane affascinato dalla sua scrittura e lo propone a Feltrinelli. Oggi, nel retro della copertina del Paradiso degli orchi troviamo la sua bellissima introduzione nella quale lo definisce “uno scrittore d’invenzione, un talento fuori dalle scuole”.
Il protagonista, Benjamin Malaussène, nel grande Magazzino, svolge una professione a dir poco singolare, il capro espiatorio; la sua mansione è quella di muovere a compassione i clienti furiosi che presentano i più svariati reclami. Trasformare la rabbia in clemenza, l’indignazione in commiserazione, ecco il vero lavoro di Benjamin. Il risultato? Il ritiro di ogni denuncia e reclamo da parte di ogni cliente inferocito. Questo stato di cose verrà appunto turbato dalle inaspettate, incomprensibili e ripetute esplosioni all’interno del Grande Magazzino. Gli ingredienti di una detective story ci sono tutti: cadaveri, indagini della polizia, indiziati, ma la contaminazione di generi fa sì che il noir si sposi con toni comici e ironici, con trovate intelligenti e leggere. Pennac mescola il crudo realismo con il magico. Le brutture che si stanno consumando al Grande Magazzino vengono trasfigurate e esorcizzate dai racconti che, la sera, Benjamin fa alla nutrita banda dei fratelli e delle sorelle. Il racconto e il raccontare spazzano via ogni genere di preoccupazione sulla proprio sorte, sulla realtà opprimente. Le esplosioni tragiche vengono viste attraverso una lente fantastica, giocosa e il tutto diventa un’avventura.
La presentazione dell’intreccio non rende giustizia al romanzo, la cui forza sta soprattutto nella straordinaria capacità narrativa dell’autore, nel ritmo veloce della sua narrazione, nelle innumerevoli sorprese che scandiscono la successione di eventi pieni di suspense. Daniel Pennac, pseudonimo di Daniel Pennacchioni (1944), è uno scrittore francese. Pessimo allievo, solo verso la fine del liceo ottiene buoni voti, quando un suo insegnante, nonostante la sua dislessia, comprende la sua passione per la scrittura e, al posto dei temi tradizionali, gli chiede di scrivere un romanzo a puntate, con cadenza settimanale. Ottiene la laurea in lettere all'Università di Nizza nel 1968, diventando contemporaneamente insegnante e scrittore. La scelta di insegnare, professione svolta per ventotto anni, a partire dal 1970, gli serviva inizialmente per avere più tempo per scrivere, durante le lunghe vacanze estive. Pennac, però, si appassiona subito a questo suo ruolo. Scommettendo contro amici che lo ritenevano incapace di scrivere un romanzo giallo, nel 1985 pubblica “Il paradiso degli orchi” (Au bonheur des ogres), primo libro del ciclo di Malaussène. Comincia così la fortunata serie di romanzi che girano attorno a Benjamin Malaussène e a un quartiere di Parigi, Belleville. Nel 1992, pubblica il saggio “Come un romanzo”(Comme un roman, in francese), manifesto a favore della lettura. Il 26 marzo 2013 è stato insignito della Laurea ad Honorem per il suo impegno nella pedagogia presso l'Università di Bologna. Nella Lectio magistralis in occasione della Laurea honoris causa, Pennac si sofferma a lungo nella spiegazione della parola “passeur”(letteralmente: facilitatore) per poi nella parte finale definire il “passeur supremo” colui che non fa domande su cosa si pensa del libro appena finito di leggere perché le nostre ragioni di leggere sono strane quanto le nostre ragioni di vivere. E nessuno è autorizzato a chiederci conto di questa intimità.
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“Spesso, nella vita, lo scrittore si presenta come una persona ridicola, e ad ogni modo è sempre un’ombra”: per capire come scrivere bisogna leggere Robert Walser. Ecco un brano di micidiale bellezza
Due cose hanno l’eseguita, esigua esemplarità di una icona. La prima è il corpo; la seconda la scrittura. Il corpo è in mezzo alla neve, il giorno di Natale del 1956, morto, certo, certamente nascosto. Dalla fotografia il corpo appare come il bacio di un incipit, un bisbiglio verbale, sulla pagina bianca. “Il morto che giace sul pendio nevoso è un poeta che amava appassionatamente l’inverno, con la sua leggera e gaia danza di fiocchi – un vero poeta che si struggeva come un bambino per un mondo di quiete, di purezza e d’amore”: così Carl Seelig, seguace di incredibili passeggiate per i monti svizzeri, ricorda l’ultimo istante di Robert Walser, lo scrittore impareggiabile.
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L’altra è la scrittura. Minima, incomprensibile, come una fatica di formiche. Come se non fosse importante la logica, ma il libero vagabondaggio dei verbi. Come se con minuzia, con la cima di uno spillo sotto le unghie, lo scrittore cominciasse delicatamente, con dedica, a sminuzzare se stesso. Morire nella neve, scrivere nell’incomprensibile. Lo scrittore si cela – è il lettore che deve svelarlo.
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Robert Walser – i cui libri importanti sono editi in Italia da Adelphi – è l’uomo che si è incenerito scrivendo, riconoscendo un valore mistico alla cenere. “La cenere rappresenta in sé l’umiltà, l’insignificanza, l’assenza di valore. E, ciò che è ancora più bello: essa stessa è pervasa dalla convinzione di non valere nulla. Si può essere più inconsistenti, più deboli, più inetti della cenere? È davvero difficile. Si può essere più arrendevoli e più pazienti della cenere? Certo che no. La cenere è priva di carattere, […] dove vi è cenere, non ci è in fondo proprio nulla. Metti il piede sulla cenere, e quasi non ti accorgerai di aver calcato qualcosa”.
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In questo brano, riferito da un lettore dall’attenzione smodata, Walser, nel 1907, delinea l’attitudine dello scrittore, il suo orientamento. Lo scrittore, ridicolo agli occhi altrui, è mosso dal bene e si annulla, ammaliato, in ciò che vede e descrive. Alla luce, predilige la penombra, sta nascosto sotto la palpebra dei fatti. Non ha nulla da dire né da difendere, non ha alchemiche soluzioni per risolvere il dolore del mondo. Lo scrittore osserva e ama, con insostenibile dedizione, “cerca lo straordinario e il vero”. Lo scrittore ama così tanto ciò che descrive, da morire in quell’abbraccio – e risorgere già altro. Definendo le cose con la scrittura, lo scrittore le realizza, uccidendosi.
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…ma come è possibile sopportare questo amore che spossessa, che esilia dal club degli umani, che pretende ogni grammo di attenzione, inabili alla vita, indifferenti ai risultati e ai rilievi della fama? Il sanatorio è la via perfetta, quella già percorsa da Walser. E infine, insanabili, salvi, inabissarsi nella neve. (d.b.)
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Lo scrittore
Lo scrittore scrive su ciò che prova, vede e sente, oppure su ciò che gli viene in mente. Solitamente ha molti piccoli pensieri che non può affatto utilizzare, e questa è una circostanza che spesso lo porta alla disperazione. Gli accade d’altro canto di avere in mente molte cose utilizzabili, ma può succedere che il suo capitale resti inutilizzato per anni ed anni, perché non trova o perché nelle sue vicinanze non c’è nessuna persona benintenzionata che gli faccia disinteressatamente notare la sua ricchezza nascosta. Un bel giorno, ad alcuni stimati redattori di giornali può venire in mente di esortare un simile scrittore ad inviare una prova della propria arte. In un simile caso, lo scrittore si sente straordinariamente felice, ha sufficienti motivi per mostrare una gioiosa espressione del volto, e si dispone subito ad attendere nella maniera più precisa possibile ai desideri che hanno bussato alla sua porta. A questo scopo, si gratta anzitutto la fronte, poi si passa la mano tra i capelli, che possiede in enorme quantità, si sfiora il naso con il dito indice, forse si graffia anche, si mordicchia le labbra, assume un atteggiamento energico e nello stesso tempo apparentemente freddo e distaccato, pulisce la penna, siede al suo vecchio tavolo, sospira e comincia a scrivere.
La vita di un vero scrittore ha sempre due lati: un lato in ombra e un lato luminoso. Ha due posti: un posto a sedere e un posto in piedi. Ha due classi: una prima ma anche una deprimente quarta classe. Il mestiere dello scrittore, all’apparenza così allegro ed elegante, può anche essere molto duro, talvolta molto noioso, e spesso può addirittura essere pieno di pericoli. La fame e il freddo, la sete e l’aridità, l’umido e la siccità hanno notoriamente fatto parte, in tutte le epoche storiche e culturali, della mutevole vita dell’“eroe della penna”, e sarà probabilmente così anche in futuro. Ma è altrettanto noto che ci sono scrittori che fanno un sacco di soldi, si costruiscono ville a forma di castello in zone lacustri e vivono di buonissimo umore fino alla fine dei loro giorni. Beh, se lo saranno onestamente guadagnato…
Lo scrittore, così come deve essere, è uno che fa la posta, un cacciatore, un predatore, uno che cerca e trova: insomma, una specie di essere vestito di cuoio che sta sempre a caccia. Fa la posta alle cose che succedono, si mette a caccia delle stranezze del mondo, cerca lo straordinario e il vero, e aguzza le orecchie quando crede di udire dei suoni che annunciano non già l’avvicinarsi al galoppo di indiani a cavallo, quanto piuttosto l’avvicinarsi di nuove impressioni. È sempre sul chi vive, sempre pronto ad assalire di sorpresa. Se ad esempio vede passeggiare un’innocente e inconsapevole beltà femminile, ecco che lo scrittore sguscia fuori dal suo nascondiglio e infilza il cuore della signora che passeggia da sola con la punta acuminata della sua penna intinta nel terribile veleno della capacità di osservazione. Lo scrittore, di regola, è però in grado di dominare anche ciò che è odioso e terrificante, e non si sottrae nemmeno alla violenza descrittiva e poetica nei confronti dell’infanzia. Per la qual cosa, com’è noto oggi più che mai, viene punito col carcere. Lo scrittore, in qualsiasi tempo e occasione, ha sempre ficcato dappertutto il suo naso avido e curioso, e non smette di annusare. In questo, esattamente in questo, si ritiene generalmente che consista il compito più nobile di un solerte e coscienzioso scrittore. Tiene le narici costantemente aperte, è uno che fiuta e che annusa, e considera come un dovere il fatto di affinare fino alla massima perfezione le capacità sensoriali del suo naso. Uno scrittore non sa tutto. Soltanto gli dei, com’è noto, sanno tutto. Lo scrittore, però, sa qualcosa di tutto, e intuisce delle cose che nemmeno l’imperatore in persona si immagina. Approdando su questa terra, lo scrittore ha ricevuto in dote dei cartelli segnaletici, che si trovano nella sua testa e gli indicano sempre la direzione verso la quale devono volgersi i pensieri, se si vuol riuscire ad osservare ciò che è pieno di presentimenti o che addirittura è già quasi indefinibile. Lo scrittore si occupa di tutto quanto al mondo è degno di essere conosciuto e imparato, ed è sempre profondamente convinto che la cosa sia di giovamento per se stesso e per gli altri. Non appena ha provato un sia pur lieve arricchimento interiore, si crede nell’obbligo di mettere nero su bianco questo incremento e questo ampliamento. E per giunta lo fa immediatamente, senza lasciar passare nemmeno un’ora. Questa io la trovo una bella cosa, perché mostra come lo scrittore sia un uomo mosso da una sincera tensione verso il bene, un uomo che troverebbe ingiusto accumulare delle esperienze senza comunicarle nemmeno in minima parte al mondo che lo circonda. Di conseguenza, è il contrario di uno spilorcio che si arraffa tutto. Quale uomo, se non lo scrittore, si sente un servitore dell’umanità e un volenteroso amico dei poveri in questo secolo dominato dal carrierismo e dalla ricerca del piacere? E ne ha le sue buone ragioni, perché si rende conto che nel momento in cui dovesse cominciare a pensare solo al proprio tornaconto, il suo desiderio di creare qualcosa di vitale si spegnerebbe. È un misterioso qualcosa che lo spinge a dimenticare se stesso, un qualcosa che gli sta continuamente attorno. Si sacrifica, perché in fondo che cos’ha dalla vita? Quando gli altri ridono, al punto tale che arrivano perfino a piangere belle e chiare lacrime, ecco che lo scrittore se ne sta appartato nella penombra, tutto preso dal senso del dovere, che gli sussurra: Studia questa allegria, imprimi a fondo nella tua mente i toni di questa gioia, di modo che, quando tornerai a casa, tu li possa descrivere e dipingere con le parole!
Spesso, nella vita, lo scrittore si presenta come una cosiddetta persona ridicola, e ad ogni modo è sempre un’ombra, è sempre discosto; mentre gli altri godono dell’indicibile piacere di trovarsi sotto le luci, lo scrittore svolge invece il proprio ruolo quando tiene in mano la sua operosa penna, e quindi di nascosto. È questa pressappoco la scuola dove, tra mille dolorose offese e privazioni, ha imparato la modestia. Nel rapporto con le donne, ad esempio: lo scrittore, che volge seriamente i propri sforzi verso un unico fine e che si sente del tutto compreso nel proprio servizio, si vede costretto ad una prudenza che spesso ha effetti umilianti per la sua immagine di uomo. Adesso comincio a capire perché non si ha paura di definire lo scrittore un “eroe della penna”. Questa definizione sarà forse banale, però è vera. Lo scrittore, con le proprie sensazioni, vive tutto: è carrettiere, oste, attaccabrighe, cantante, calzolaio, dama da salotto, mendicante, generale, apprendista di banca, ballerina, madre, figlio, padre, mentitore, creatore, amante. È il chiaro di luna, è il mormorio della fontana, è la pioggia, il caldo nella strada, la spiaggia, la barca a vela. È l’affamato e il sazio, lo spaccone e il predicatore, il vento e il denaro. Quando scrive, mette il proprio tesoro sul tavolo, e lei (una contessa polacca) conta il denaro. Lo scrittore è il rossore sulla guancia della donna che si accorge di amare, è l’avversione che prova una persona grettamente dominata dall’odio. In breve: lo scrittore è tutto e deve essere tutto. Per lui c’è solo una religione, solo un sentimento, solo una visione del mondo, e questa consiste nel nascondersi con amorevole attenzione nella visione del mondo, nei sentimenti e nella religione degli altri, forse di tutti. Ogni volta, quando scrive la prima parola, non ha più nulla a che fare con se stesso; e quando ha dato forma alla prima frase, non si riconosce più. Penso che tutto questo glielo si possa consigliare.
Robert Walser
(Traduzione di Mattia Mantovani; da ‘Berliner Tageblatt’, 21 settembre 1907, ristampato in ‘Feuer’, di Robert Walser, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 2003. Copyright: Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main – Carl Seelig Stiftung, Zuerich, 1978)
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“Sputare sangue, a questo punto, è l’unico vezzo che m’interessa”: il romanzo di Giorgio Anelli, “Mirabilia Dei”
A, arriva ogni mattina, zoppicando. Sa il fatto suo e la sa molto lunga. Mi vuol bene come a un figlio, ma con lo sguardo da duro e la lingua pungente di chi ha attraversato gli spettri dell’alcol e l’ironia della sorte, con dignità e furore. Di certo non le manda mai a dire. Un giorno, quando ha capito che mi lamentavo troppo, mi ha raccontato di lui. ‒ Avevo il mio bel lavoro, dice. Poi, mi sono fatto male alla gamba, e l’ho perso. Se non c’era mia zia, sarebbero stati guai. Lei mi ha permesso di tirare avanti, fino a quando ho trovato qui, in cooperativa. Ti capisco, G. È dura! A, me lo dice con sincerità, per la prima volta, dopo cinque anni che ci conosciamo. Il mio amico sa bene che con cinquecento euro di paga, non si arriva alla pensione, né a fine mese né tanto meno a prospettarsi un futuro, una volta che dovrò cavarmela totalmente da solo. Con una casa tutta mia: quale ‒ casa ‒ tutta ‒ mia? A sessant’anni suonati, A provoca tutti, ma in fin dei conti è un buono. Gli manca così poco alla pensione, che già non vede l’ora di stare con i suoi nipoti, e magari più in là, di tornare come volontario da noi. Per il suo ultimo giorno di lavoro, lo abbiamo festeggiato. Il presidente della cooperativa gli ha regalato un orologio. E lui, anche se non lo dava a vedere, era contento. I duri non danno mai a vedere niente. Si tengono tutto dentro. O quasi. Era tipo giovedì o venerdì. Sabato, mi arriva una fucilata alla gola. La telefonata della mia responsabile fa esplodere la giugulare. ‒ Cosa succede?!, le chiedo immediatamente. G!, è morto A, all’improvviso, ieri pomeriggio…, dice lei, sprofondando in un ottuso silenzio.
Il mondo certe volte ti crolla addosso, come quando scopri che una donna ti tradisce. All’improvviso. Certo! All’improvviso si disintegra tutto. Lunedì mattina ho dato venti euro per la famiglia. Non ci ho pensato due volte. Si stavano raccogliendo i soldi. Chi poteva, dava ciò che voleva. Abbiamo tentato di lavorare per un paio d’ore. Ma chi riusciva a lavorare! Ero devastato e sconvolto. Il mio amico e collega se n’era andato alla stessa maniera di mio padre. Un infarto, e bon… Poi, siamo andati tutti al funerale…
*
Se vuoi saper di me quanto ho sofferto, chiedilo alla buriana, al chiasso, allo scompiglio, alla sommossa. Loro ti risponderanno: che c’importa di un cristo o l’altro. Noi spaventiamo, spacchiamo, devastiamo. Se vuoi tentar di capire chi sono, chiedilo alla poesia, alle foglie della foresta, alla valanga, al tormento, all’assiolo e al pettirosso. Ti diranno che uno straniero ha vissuto con i Walser.
‒ …ora che sono cieco, devo continuare a lavorare, perché che giustificazione ha la mia vita se non lavoro?, diceva Jorge Luis Borges a Liliana Heker… Se vuoi saper di me, questa è la risposta. Non deve interessarti il perché ho sofferto, invero il come voglio affrontare la mia vita, adesso. Io devo mantenermi, in qualche modo. E voglio pure realizzarmi. A testa alta. Non so cosa accadrà domani. Sappi che sono perennemente in viaggio.
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Dire la verità, non è cruccio né dispetto. Il dispetto, semmai, te lo fanno gli altri. Dopo. Ho sempre pagato lo scotto di dire le cose come stanno. L’ho sempre pagata, come Eduardo, e non mi dispiace affatto. Andrò avanti per la mia strada, senza voltarmi all’ipocrisia dei mestatori. Il controllo, il potere, li lascio a loro. A me interessa essere povero e libero. Il poeta è fuori controllo ‒ si sappia. Mi hanno pure detto che sono una voce fuori dal coro: lo sono sempre stato, stolti… Mi incuriosisce leggere un libro, parlare con uno sconosciuto, fare l’amore, scrivere una poesia. Che m’importa dell’invidia. Vorrei per lo meno essere contraccambiato in qualcosa. La diceria più vera, riguarda i desideri. Si sobilla che se sogni forte, se ci credi veramente in quello che vuoi fare, allora potrebbe accadere. Crollano muri, si omaggiano amici, si scrivono libri dal nulla. Nessuno ti darà mai una mano. O, quasi. È la legge non scritta del mondo. Però, una volta, il mio amico Sandro Bonvissuto mi ha detto che: “non c’è peggior nemico dello scrittore, che lo scrittore stesso”. Sante parole. In sogno, sono andato a trovarlo. Mi ha portato nel quartiere della Magliana. Da quel sogno, ho cesellato un racconto di rapina; non ditelo a nessuno, è un segreto.
La verità è avere lo sguardo da clandestino. Due occhi magnetici e la ferocia che ti avvita il corpo. La verità rischia di scoprire un’abnegazione a te sconosciuta. Però. A volte sbotto. Sfondo la porta della mia stanza. Ho bisogno di tuffarmi nella massa di Milano, o nell’ardire di qualche lago. La poesia non può nascere solamente dal buio e freddo interno di una cella. La poesia ha bisogno di incontri, di pugni, corse, baci, vecchi mulini a acqua. Lo sguardo ‒ squarcio del cuore ‒ ha bisogno di vedere battelli attraccati al molo, per dire… la verità però, è che è tutta una questione di soldi. Possiamo stare qui giorni interi a filosofeggiare sulla fantastica vita del poeta e dello scrittore. Ma, come mi ha sempre detto il mio amico & fratello Sandro, gli scrittori sono gli altri: noi siamo camerieri o impiegati. Gli scrittori sono quelli che c’hanno i soldi, che fanno questo di mestiere, che viaggiano, che possono buttare via giorni e giorni alla lettura e alla scrittura. Poi, solo dopo, veniamo noi. Dopo aver sgobbato ore e ore per i clienti della trattoria o della cooperativa, allora sì possiamo permetterci di prendere in mano un libro, iniziare a leggerlo; oppure, aprire il taccuino e sperare di iniziare a scrivere qualcosa di buono. Solo in quel momento possiamo riparlarne. Noi, non abbiamo una vita fantastica. Noi proviamo il sacrificio sulla nostra pelle. Non fraintendetemi. È fantastico aver l’onore di rischiare nella vita, ogni giorno. Perché ogni soldo è sudato, come ogni parola letta e a mala pena scritta. Sputare sangue, a questo punto, è l’unico vezzo che m’interessa. Mi attira salire su un ring, se non lo avete ancora capito, come Rubin Hurricane Carter… e iniziare a fare gioco di gambe, guardare dritto negli occhi in atto di sfida, il mio avversario, il mastino.
Giorgio Anelli
*In copertina: Robert De Niro e Martin Scorsese all’epoca di “Toro scatenato” (1980)
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