#il cammino dell’uomo
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"Iridescenze" di Tommaso Cevese. Un viaggio poetico tra luce, pensiero e spiritualità
"Iridescenze", raccolta antologica di Tommaso Cevese, pubblicata da Guido Miano Editore nel 2024, rappresenta un percorso poetico intenso e filosofico, dove la parola diventa riflesso della ricerca interiore e dell'esplorazione del senso dell'esistenza
“Iridescenze”, raccolta antologica di Tommaso Cevese, pubblicata da Guido Miano Editore nel 2024, rappresenta un percorso poetico intenso e filosofico, dove la parola diventa riflesso della ricerca interiore e dell’esplorazione del senso dell’esistenza. L’opera, arricchita dalle prefazioni di Enzo Concardi, Floriano Romboli e Gabriella Veschi, offre una panoramica completa della produzione…
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Il guscio della lumaca
Quali che siano le ragioni profonde del tramonto dell’Occidente, di cui stiamo vivendo la crisi in ogni senso decisiva, è possibile compendiarne l’esito estremo in quello che, riprendendo un’icastica immagine di Ivan Illich, potremmo chiamare il «teorema della lumaca». «Se la lumaca», recita il teorema, «dopo aver aggiunto al suo guscio un certo numero di spire, invece di arrestarsi, ne continuasse la crescita, una sola spira ulteriore aumenterebbe di 16 volte il peso della sua casa e la lumaca ne rimarrebbe inesorabilmente schiacciata». È quanto sta avvenendo nella specie che un tempo si definiva homo sapiens per quanto riguarda lo sviluppo tecnologico e, in generale, l’ipertrofia dei dispositivi giuridici, scientifici e industriali che caratterizzano la società umana.
Questi sono stati da sempre indispensabili alla vita di quello speciale mammifero che è l’uomo, la cui nascita prematura implica un prolungamento della condizione infantile, in cui il piccolo non è in grado di provvedere alla sua sopravvivenza. Ma, come spesso avviene, proprio in ciò che ne assicura la salvezza si nasconde un pericolo mortale. Gli scienziati che, come il geniale anatomista olandese Lodewjik Bolk, hanno riflettuto sulla singolare condizione della specie umana, ne hanno tratto, infatti, delle conseguenze a dir poco pessimistiche sul futuro della civiltà. Nel corso del tempo lo sviluppo crescente delle tecnologie e delle strutture sociali produce una vera e propria inibizione della vitalità, che prelude a una possibile scomparsa della specie. L’accesso allo stadio adulto viene infatti sempre più differito, la crescita dell’organismo sempre più rallentata, la durata della vita – e quindi la vecchiaia – prolungata. «Il progresso di questa inibizione del processo vitale», scrive Bolk, «non può superare un certo limite senza che la vitalità, senza che la forza di resistenza alle influenze nefaste dell’esterno, in breve, senza che l’esistenza dell’uomo non ne sia compromessa. Più l’umanità avanza sul cammino dell’umanizzazione, più essa s’avvicina a quel punto fatale in cui progresso significherà distruzione. E non è certo nella natura dell’uomo arrestarsi di fronte a ciò».
È questa situazione estrema che noi stiamo oggi vivendo. La moltiplicazione senza limiti dei dispositivi tecnologici, l’assoggettamento crescente a vincoli e autorizzazioni legali di ogni genere e specie e la sudditanza integrale rispetto alle leggi del mercato rendono gli individui sempre più dipendenti da fattori che sfuggono integralmente al loro controllo. Gunther Anders ha definito la nuova relazione che la modernità ha prodotto fra l’uomo e i suoi strumenti con l’espressione: «dislivello prometeico» e ha parlato di una «vergogna» di fronte all’umiliante superiorità delle cose prodotte dalla tecnologia, di cui non possiamo più in alcun modo ritenerci padroni. È possibile che oggi questo dislivello abbia raggiunto il punto di tensione massima e l’uomo sia diventato del tutto incapace di assumere il governo della sfera dei prodotti da lui creati.
All’inibizione della vitalità descritta da Bolk si aggiunge l’abdicazione a quella stessa intelligenza che poteva in qualche modo frenarne le conseguenze negative. L’abbandono di quell’ultimo nesso con la natura, che la tradizione filosofica chiamava lumen naturae, produce una stupidità artificiale che rende l’ipertrofia tecnologica ancora più incontrollabile.
Che cosa avverrà della lumaca schiacciata dal suo stesso guscio? Come riuscirà a sopravvivere alle macerie della sua casa? Sono queste le domande che non dobbiamo cessare di porci.
23 maggio 2024
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Buongiorno...
Prenditi tempo per pensare,
perché questa è la vera forza dell’uomo.
Prenditi tempo per leggere,
perché questa è la vera base della saggezza.
Prenditi tempo per pregare,
perché questo è il maggior potere sulla terra.
Prenditi tempo per ridere,
perché il riso è la musica dell’anima.
Prenditi tempo per perdonare,
perché il giorno è troppo corto per essere egoisti.
Prenditi tempo per amare ed essere amato,
è il privilegio dato da Dio.
Prenditi tempo per essere amabile,
questo è il cammino della felicità.
Prenditi tempo per vivere!
Pablo Neruda

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Ragioniamo con la mente, amiamo e odiamo con il cuore.
Questa è la condizione dell’uomo, attratto dalla mente che esercita il suo controllo sulle passioni, ma anche sedotto dalle passioni che sfuggono al controllo della mente.
Questa condizione è stata descritta da Platone nel mito dell’auriga,che guida verso il cielo un carro alato trainato da due cavalli, uno bianco e uno nero.
L’auriga rappresenta l’anima razionale che con le sue redini tiene a bada il cavallo bianco che rappresenta l’anima irascibile, e il cavallo nero che rappresenta l’anima concupiscente.
Ogni uomo possiede tutte e tre le anime. Se a prevalere è l’anima razionale, questa controlla sia l’irascibilità, che può essere convertita in coraggio, sia la concupiscenza che può essere tenuta a bada con la temperanza. A un certo punto il cavallo nero sbanda e fa precipitare con sé tutto il carro e l’auriga che lo governa.
Ciò accade, secondo Platone, quando ci si lascia guidare dai sensi invece che dalla ragione, e in questo modo il carro perde il suo equilibrio e manca la sua meta, che è quella di raggiungere il cielo dove sono le idee, modello e misura di tutte le cose, senza le quali naufraga la conoscenza e con essa la retta conduzione della vita.
Platone invita a privilegiare la mente razionale capace di governare le passioni del cuore. Ma noi non possiamo dimenticare che anche il cuore ha le sue ragioni.
Anzi, prima che la mente giungesse a guidare l’uomo, per i nostri antenati la vita era governata dal cuore, che con le sue sensazioni arrivava a capire, come peraltro fanno gli animali, in modo rapido e senza riflettere, che cosa è vantaggioso e che cosa è pericoloso per il mantenimento della vita stessa. Il cuore promuove le azioni più rapidamente della ragione e senza troppo indugiare sul da farsi, perché il mondo non è ospitale e i pericoli, che sono a ogni passo, richiedono decisioni immediate.
I nostri antenati, che ancora non disponevano di una mente razionale, con il loro giudizio intuitivo promosso dall’emozione del cuore potevano sbagliarsi, e anche morire se di fronte al pericolo non avessero agito immediatamente.
In questo senso è possibile dire che le emozioni del cuore sono state indispensabili per evitare che il genere umano si estinguesse, e concordare con Daniel Goleman là dove dice che “le emozioni ci hanno guidato con saggezza nel lungo cammino dell’evoluzione”.
Umberto Galimberti
Il libro delle emozioni
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Da: L’INEDITO CARAVAGGIO - di Gianpiero Menniti
IL DESTINO DELL'UOMO
«…Ricordi “L’incredulità di San Tommaso”, quel dito infisso nella carne di Gesù? La scena rivela lo spirito dell’uomo, diviso tra la percezione razionale e la fede nell’invisibile. L’alea, oscillante tra la ricerca esigente del vero e la speranza salvifica, rimane uno spazio insopprimibile. È il dramma dell’essere umano, è il buio che si staglia sullo sfondo della vita: il dubbio, anche nel credente più fervido, non si può scacciare. Nel tempo fa la sua comparsa, s’insinua, permane, fino all’ultimo istante, fino all’attimo estremo, quando il senso e il nulla sono di fronte e nessuna domanda può essere posta e nessuna risposta può essere invocata. Questo è il destino: attesa di giungere sulla soglia che è necessario attraversare. Nessuna esitazione. Nessuna certezza. Questo fato è la realtà. Poiché l’esistenza, qualunque sia la vicenda di ciascun essere cosciente, è un cammino segnato da un’attesa. Si vive per la morte. Per quanto la speranza possa essere forte, la morte è uno scandalo, il “perché” rimasto strozzato in gola: perché vivere per essere salvati? O essere nati per diventare nulla? Il buio è il nostro vero destino.»
- Caravaggio (1571 - 1610): "Incredulità di san Tommaso", 1601 - 1602, Bildergalerie, Potsdam
- In copertina: Maria Casalanguida, "Bottiglie e cubetto", 1975, collezione privata
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LA FILASTROCCA DEL MAGO EREMITA
Accanto alle rive segrete di un lago lontano dal mondo viveva un Mago. Grazie agli studi e tanta esperienza aveva raggiunto una vasta sapienza, o è meglio dire che il suo sapere gli aveva donato un grande potere. Passarono gli anni, più di duecento, e lui si stancò di parlare col vento, fu stanco di avere la sola risposta del proprio eco nella valle nascosta. Seppur gli uccellini udiva ogni giorno che lieti fischiavano a lui tutt’intorno, seppure ogni foglia a lui sussurrava e persino l’acqua del lago parlava, sentiva nel cuore tristezza e dolore per essere solo a tutte le ore. Sapere i segreti della natura, conoscere ogni più antica scrittura, fare magie, volare o guarire, a cosa serviva apparire e sparire, se poi nessuno di tutto quel fare poteva realmente beneficiare? Per quale motivo vero e profondo aveva deciso di lasciare il mondo? Capire se stesso e capire la vita era l’intento e divenne eremita. Le leggi dell’uomo e dell’universo voleva scoprire ma si era perso di tutte le cose la più importante, la più bella e la più appagante: solo l’amore che sia condiviso è un volo diretto per il paradiso. Avvenne allora che il grande vecchio nell’acqua del lago come uno specchio guardò ridendo il suo vecchio volto e ridendo disse: sono uno stolto! Dopo l’ironica rivelazione, che dentro al petto fu un’esplosione, lasciò il suo rifugio, spense il camino e a passo spedito si mise in cammino. Poi come un bimbo allegro e giocondo corse a giocare di nuovo nel mondo. Grazia Catelli Siscar art by_jeffdoute ********************** THE HERMIT WIZARD'S NURSERY RHYME
Next to the secret shores of a lake far from the world there lived a Wizard. Thanks to my studies and a lot of experience he had achieved vast wisdom, or it is better to say that his knowledge had given him great power. Years passed, more than two hundred, and he got tired of talking to the wind, he was tired of having the only answer of its own echo in the hidden valley. Even though he heard the birds every day who happily whistled at him all around, even though every leaf whispered to him and even the water of the lake spoke, he felt sadness and pain in his heart to be alone at all hours. Knowing the secrets of nature, know every ancient writing, do magic, fly or heal, what was the point of appearing and disappearing, if then none of all that do could he really benefit? For what true and profound reason had he decided to leave the world? Understanding yourself and understanding life he was the intent and became a hermit. The laws of man and the universe he wanted to find out but he was lost of all things the most important, the most beautiful and the most satisfying: only love that is shared It's a direct flight to heaven. It then happened that the great old man in the water of the lake like a mirror he looked laughing at his old face and laughing he said: I am a fool! After the ironic revelation, that inside his chest there was an explosion, he left his refuge, turned off the fireplace and at a brisk pace he set off. Then like a cheerful and playful child he ran off to play in the world again. Grazia Catelli Siscar art by_jeffdoute
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In onore della Festa di Maria Maddalena condivido alcune riflessioni sul valore del Matrimonio Alchemico tra la Donna e Uomo, come frutto del percorso verso l'Unità Interiore e l'acquisizione dello stato di coscienza dell'Androginia, maschile e femminile in perfetto equilibrio:
La donna è il contenuto dell’uomo, lui è il contenitore, la protegge e fa in modo che lei possa fiorire. Lei si sentirà vista, amata, apprezzata, si fiderà e porterà i frutti del mutuo amore alla massima manifestazione
Le donne sono portatrici sane di Vuoto, il grande Vuoto creativo contenuto all’interno del loro ventre. Questo è l’athanor, il laboratorio alchemico dove avviene la piccola esplosione nucleare che dà inizio alla Vita
Gli antichi alchimisti erano sempre affiancati da una donna, la Sorella Mistica, cosicché nell’unione delle due metà complementari si formasse il sacro cerchio.
La donna è l'angelo del focolare, custode del fuoco che mantiene viva la relazione; l’uomo agisce affinché nulla e nessuno metta in pericolo la donna nella sua meditazione interiore.
L’uomo e la donna creano allora un’unione sacra tra i cuori in una promessa di cura e presenza reciproca.
La donna è anche il contenitore del cuore dell’uomo, che viene trasformato dal calore del sacro fuoco dell’athanor, il laboratorio alchemico interiore.
L’uomo protegge la donna e si sente protetto da lei nella sua parte più fragile, quella di cui spesso egli stesso si vergogna.
Ogni volta che l’uomo permette alla donna di accoglierlo tra le braccia portandole la propria parte vulnerabile, quell’uomo è nell’amore totale perché smette di avere paura.
La comunione raggiunta in quel momento dai due cuori è sublime e lì avviene la fusione profonda; entrambi si disfano delle proiezioni reciproche, diventano adulti, si accettano per ciò che sono e si abbandonano all’altro.
Lei danza e lui protegge la sua danza, imparando da lei i passi dell’ardore del sognare. A sua volta lui le insegna ad essere cauta e coraggiosa come un guerriero affinché possa andare sicura nel mondo.
Mutuo sostegno nel cammino dell'incontro con l'Altro all'interno del sé, per sollevare il velo dell'illusione del senso di separazione
Stefania Marinelli
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È solo Cristo che rende appassionata la mia vita
(Ermes Ronchi giovedì 24 agosto 2023)
XXI Domenica Tempo ordinario - Anno A
In quel tempo, Gesù, giunto nella regione di Cesarèa di Filippo, domandò ai suoi discepoli: «La gente, chi dice che sia il Figlio dell’uomo?». Risposero: «Alcuni dicono Giovanni il Battista, altri Elìa, altri Geremìa o qualcuno dei profeti».Disse loro: «Ma voi, chi dite che io sia?». Rispose Simon Pietro: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». (...)Dopo due anni e mezzo passati con Gesù, in cammino per sentieri e villaggi, i discepoli vengono coinvolti in una sorta di sondaggio d’opinione: cosa si dice in giro di me? L’opinione della gente è bella: Rabbi, sei uno che allarga i cuori, uno bravo, un innamorato di Dio, uno che guarisce la vita. Gesù lancia una seconda provocazione, stringe il cerchio: ma voi, voi dalle barche abbandonate, voi dei cammini con me, voi amici che ho scelto a uno a uno, che cosa sono io per voi? Le sue domande assomigliano a quelle degli innamorati: quanto conto per te? Che posto ho, che importanza ho nella tua vita? Gesù non ha bisogno della risposta dei discepoli per sapere se è più bravo degli altri rabbini, ma per sapere se si sono innamorati di una almeno delle sue parole, se Pietro gli ha aperto il cuore. Non è facile rispondere: il primo passo è quello di chiudere i libri e i catechismi, e di guardare dentro le mie esperienze. Come dire chi tu sia per me Signore? Sei il mio rimorso, la mia dolce rovina; voce che sale, dice e ridice, e non tace mai, vento nelle mie vele, disarmato amore. Sei un maestro d’ali. Il secondo passo per una risposta vera è uscire dall’ovile rassicurante e immobile delle frasi fatte; via dal prontuario delle affermazioni non sofferte, che sono la rovina della comunicazione della fede. Perdersi invece nei campi della vita: “in Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini” (Gv 1,4). La Vita è teologa, è la prima catechista. Pietro risponde: Tu sei il Messia, la mano di Dio, il suo progetto di libertà. Sei il figlio del Dio vivente, Colui che fa viva la mia vita, il miracolo che la fa potente, inesauribile e illimitata. La domanda adesso rimbalza fino a me: perché io gli vado dietro? La risposta è semplice: per essere felice. Cristo è stato l’affare migliore della mia vita. Che non vuol dire avere una vita senza problemi o ferite, ma più piena, accesa, appassionata, vibrante, proiettata: in avanti, attorno, in alto.Nella seconda parte del brano Gesù capovolge la domanda, in un bellissimo contrappasso: “Pietro adesso sta a me dire chi sei tu per me: sei pietra e su questa pietra.... La beatitudine di Pietro (beato te, Simone!) raggiunge noi tutti. Forse anch’io sono nella lingua di Gesù “kefà”, piccola pietra. Non certo una macina da mulino, ma una pietruzza solamente. Eppure, per lui, nessuna piccola pietra è inutile, nessun coccio è da buttare. Dio non adopera macine da mulino, ma pietre scartate; non ha scelto l’oro per fare le sue creature, ma la creta. Le sue sono mani di vasaio che premono per dare alla mia argilla la forma migliore, mani di orafo che preparano una carezza di luce da posare sulle mie ferite.(Letture: Isaia 22,19-23; Salmo 137; Romani 11,33-36; Matteo 16,13-20)© riproduzione riservata
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Gli uomini hanno parlato di come il cuore si spezza, ma non hanno mai parlato di come l’anima resta sospesa, muta, nella pausa, nel vuoto terrificante tra la vita e la morte; di come, strappati e gettati via tutti gli abiti, l’anima entra nuda nella bocca dell’inferno.
Una volta entrati non si esce più: una volta dentro, l’anima si ricorda, anche se il cuore qualche volta dimentica. Perché il mondo si rivolge al cuore, che balbettando risponde; la vita, e l’amore, i piaceri e, più falsamente, la speranza, chiamano l’immemore cuore dell’uomo. Solo l’anima, ossessionata dal cammino percorso e da quello ancora da percorrere, persegue il suo misterioso e terribile fine; e trascina con sé il cuore, gonfio di pianto e di amarezza.
James Baldwin
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Lande devastate
Tum tum, il cuore che batte nelle tenebre seguendo il ritmo del pendolo dell’orologio posto in alto sulla torre lasciata alle spalle, città in rovina o quasi. I fantasmi che vengono evocati in questi tempi, segnati da continui malefici, marciano sospinti dai venti freddi provenienti dalle lande desolate, ove solo la secchezza dei piccoli arbusti produce un flebile scricchiolare disordinato, l’unico rumore della natura, ormai morta, che è permesso.
Ecce homo! Proprio lì! Colui che condensa in se stesso il genere umano, figlio di generazioni di peccatori alla ricerca di ben più alto mistero. Lo vediamo camminare perso nei suoi pensieri con il cielo grigio sopra di lui, presagio di un diluvio universale. Lui che annegherebbe con un bicchiere d’acqua perché il rospo in gola, sintomo di rimpianti passati, non si vuole spostare o l’uomo stesso non gli permette ciò. Desideroso di soffrire, l’uomo ha sempre goduto in questo sadismo autodistruttivo perché è l’unico essere che necessita per natura della risposta alla domanda fondamentale… Essendo stupido non ha ancora capito che la risposta è che la domanda stessa non si sarebbe dovuta porre. Lo lasciamo camminare, noi che possiamo osservare la vita dalla platea, lasciando il palcoscenico agli altri. Gli attori sono coloro che non sanno vedere oltre al loro punto di vista della realtà, gli spettatori sono quelli che non hanno bisogno del corpo per vivere perché la loro stessa esistenza si snoda tra quegli arbusti che il l’uomo vede nel suo cammino. Guardano incuriositi quello strano animale che alza la polvere nella landa desolata.
Giunge la pioggia.
Nel più totale contrasto tra la polvere che si alza per amalgamarsi al fluido che discende, l’uomo è partecipe della novità che lo sconvolge. Spaventato continua a camminare, infondo quello è il suo mestiere. E le vesti da viandante si fanno pesanti e sporche da un’acqua che finora ha portato solo distruzione. I fantasmi strapazzati dai venti ora si fermano, non riescono a muoversi e paiono piombo, freddo. L’uomo li nota, loro lo notano. L’uomo cammina. Loro aspettano il termine del temporale. Loro erano il passato dell’uomo stesso, stravolto dai ricordi, che per quanto uno si possa sforzare non ricorderà mai esattamente. Il passato non esiste più nello stesso momento in cui esso diventa tale. Girandosi indietro le orme sono già state cancellate dalla pioggia e si notano solo dei leggeri solchi destinati a scomparire. Il viandante non saprà più dire quale granello di sabbia aveva calpestato lungo la sua vita, il passato è perso. L’uomo è perso. Il temporale finisce. I fantasmi riprendono la marcia seguendo il vento.
Tutto si ripete.
Ancora.
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«Gesù passò all’altra riva del mare». Non è raro nei vangeli trovare Gesù e i suoi in movimento tra le sponde del lago di Galilea che – non di rado e non a caso – viene chiamato mare. Perché il mare, nel codice biblico, è un’immagine chiara: evoca quanto ha a che fare con la morte e il negativo. Quanto può improvvisamente minacciare la vita dell’uomo. E capita, non di rado, che Gesù sia in cammino lungo la riva; oppure sosti, lo sguardo rivolto all’altra riva, quasi nostalgico. Lui è venuto per rendere possibile un viaggio impossibile; per una traversata fatta in ascolto della voce del Padre, che lo chiama a fare ritorno «a casa». Portando con sé l’umanità.
«Passare all’altra riva» diventa così immagine potente della Pasqua. E seguire Gesù in questa traversata significa per noi entrare dentro una novità di vita che già abita questi giorni. Accogliere una logica capovolta, che fa a meno dei segni di potenza (il denaro per acquistare il pane o l’acclamazione delle folle) per dare spazio alla potenza dei segni: un po’ di pane offerto e condiviso e spezzato benedicendo.
Entriamo anche noi, con pazienza, dentro la vita del Risorto; assumiamone la stessa logica rovesciata. Quella che si esprime sulla Croce e che ci nutre nell’eucaristia. Perché anche la nostra vita prenda la forma di quella del Figlio passato all’altra riva.
(PAN DI VIA)
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«Il pane – spiega l’artista Matteo Lucca – è carico di simboli e significati che toccano la vita dell’uomo nella sua storia, nelle tradizioni popolari, nella cultura dei popoli, fino ad arrivare alle tradizioni religiose e spirituali. Così per me usare il pane è un modo per raccontare l’uomo nei suoi diversi aspetti, come corpo e come cammino esistenziale».
«
Dall’arte moderna ad oggi si possono trovare vari artisti che hanno utilizzato il pane nella loro ricerca: da Picasso a Marc Quinn, passando per Antony Gormley a Maria Lai. Di recente ho scoperto che anche César riprodusse il suo volto in pane nel ’72: fu la figlia di un panettiere parigino a scrivermi per raccontare di quando suo padre e l’artista fecero il pane insieme.
Ad ogni modo non sono tanti i casi di artisti che utilizzano il pane nella scultura ed ognuno lo fa in modi diversi.
Prima dell’esperienza nelle foreste casentinesi del 2016 ho realizzato un paio di figure intere per altre mostre, dopo di che è stata una cosa che sentivo di dover fare, così è stato. Due o tre volte a settimana andavo da un fornaio per preparare insieme l’impasto, che poi cuocevo nel mio studio. In realtà il mio modo di operare lascia molto spazio al caso, e anche per questo mi sento di sperimentare continuamente.
Come il pane, la terracotta è la materia semplice, arcaica, archetipica. Il corpo in argilla è anche Golem, che si vivifica nel momento in cui il pane lo anima. Come dicevo, parte del mio lavoro è ispirato ad una meditazione buddista in cui si immagina il proprio corpo che diventa contenitore dell’offerta e offerta stessa. Sono partito dalla realizzazione del calco del mio corpo per trasformarlo, in vari passaggi, in contenitore in terracotta, risolvendo alcuni aspetti tecnici. Per questo lo stampo è diviso in varie parti distinte, che ogni volta devo assemblare e poi smontare a cottura ultimata, come a voler comporre e scomporre la propria identità tutte le volte che le si da vita.
All’inizio vedevo le strutture in terracotta come semplice mezzo di lavoro. Ora sono sempre più parte integrante dell’opera stessa, indipendentemente dal fatto che siano esposte o meno. La terracotta è per me elemento centrale, quanto il pane.
Dopo alcune ricerche mi son reso conto che l’unico modo per cuocere le mie figure in un pezzo unico era quello di costruirmi un forno abbastanza grande da poterle contenere. Il primo tentativo è stato quello di scavare una buca a terra e fare un letto di brace con sopra una capanna di lamiere dentro la quale si cuoceva il pane. In seguito, grazie a Oscar Dominguez (artista di origine argentina che vive e lavora a Faenza) più di una volta indispensabile per la crescita di questo lavoro, ho fatto un salto di qualità. Abbiamo studiato insieme un sistema più evoluto, ma anche estremamente spartano: si tratta di un forno a legna realizzato con bidoni, mattoni e lamiere. Mi fa pensare alle favelas e trovo qualcosa di poetico anche in questo.
Fin dal primo esordio il pane era opera e cibo allo stesso tempo. Quando l’opera viene consumata come cibo, essa si compie nella sua profonda autenticità: ha a che fare con l’offerta del corpo, sul come essere di nutrimento per l’altro, sull’accoglienza e la condivisione. A volte i miei “pani” vengono offerti alle persone, a volte agli animali, altre alla natura. Per certi aspetti è il mio modo di praticare quella meditazione di cui accennavo prima, e ho intenzione di rendere questi momenti di fruizione sempre più frequenti.
»
Che tipo d’impasto hai preparato? Che caratteristiche dove avere? Sono andato dal mio fornaio di fiducia e mi sono fatto consigliare. Scelgo di fare la cosa più classica: l’impasto salato del pane montanaro. Uso il sale per la conservazione. A volte le opere vengono consumate e quindi uso farine di qualità di grani antichi e lievito madre.
Come vengono conservate le sculture in mostra? Le immergo in una resina a base di acetone che entri in profondità. Si impregnano e diventano resistenti. Le prime opere del 2016 sono ancora in perfetto stato di conservazione.
Cosa ne fai delle sculture una volta conclusa la mostra? Valuto se è un’opera che continuerà la sua strada oppure diventa cibo per le galline. Anche in questo caso il dualismo è: vincere il tempo ed essere effimera. Penso comunque che le mie opere, per compiere la loro natura, debbano essere consumate.
Ripeterai in futuro l’esperienza con altri tipi di alimenti? Non ci ho mai pensato. Sono legato ai simboli e alla parte archetipa degli alimenti, il pane è ideale. Non so se esiste un altro elemento simbolico come il pane. L’alimento deve avere un senso. Ora non ho necessità di cambiare.
CONCEPT
La ricerca di Matteo Lucca nasce da una riflessione sul darsi all’altro come nutrimento. Il processo creativo nasce da una serie di suggestioni tratte da una Meditazione del Buddismo Tibetano nella quale il superamento del proprio ego avviene facendo offerta del proprio corpo. Ripercorre le tappe di quell’immaginario visivo reinterpretandone i simboli attraverso il suo personale vissuto.
L’intento è di voler replicare e moltiplicare il suo corpo in pane e distribuirlo come opera da consumare. Al tema spirituale si affiancano altre tematiche: la madre, il femminile che nutre, le riflessioni sulla natura dell’uomo; manifestare l’effimero, il conflitto, il non risolto, un umano che manifesta anche il lato debole di se stesso. Dare forma umana al pane significa raccontare l’essere umano attraverso l’insieme dei significati, storie e culture, di cui il pane si è caricato nel tempo. La figura femminile è Nourhan. una ragazza Siriana. Il pane unisce i popoli. Al tempo stesso lei, é lei stessa simbolo di emancipazione.
BIOGRAFIA
Matteo Lucca nasce a Forli nel 1980. Si laurea in scultura all’Accademia di Belle Arti di Bologna nel 2007.
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Popoli che hanno perduto la lingua
Che ne è oggi dei popoli europei? Ciò che non possiamo oggi non vedere è lo spettacolo del loro perdersi e smemorarsi nella lingua in cui si erano un tempo trovati. Le modalità di questo smarrimento variano per ogni popolo: gli anglosassoni hanno già compiuto l’intero cammino verso un linguaggio puramente strumentale e obiettivante – il basic English, in cui ci si possono solo scambiare messaggi sempre più simili ad algoritmi – e i tedeschi sembrano avviati per la stessa via; i francesi, malgrado il loro culto della lingua nazionale e forse anzi per questo, perduti nel rapporto quasi normativo fra il parlante e la grammatica; gli italiani, furbescamente insediati in quel bilinguismo che era la loro ricchezza e che si trasforma ovunque in un gergo insensato. E, se gli ebrei sono o almeno erano parte della cultura europea, è bene ricordare le parole di Scholem di fronte alla secolarizzazione operata dal sionismo di una lingua sacra in una lingua nazionale: «Noi viviamo nella nostra lingua come dei ciechi che camminano sull’orlo di un abisso… Questa lingua è gravida di catastrofi… verrà il giorno in cui essa si rivolterà contro coloro che la parlano».
In ogni caso, quel che è avvenuto è la perdita del rapporto poetico con la lingua e la sua sostituzione con un rapporto strumentale in cui colui che crede di usare la lingua ne è invece senza avvedersene usato. E dal momento che il linguaggio è la forma stessa dell’antropogenesi, del diventare umano del vivente homo, è la stessa umanità dell’uomo che appare oggi minacciata.
Decisivo è però che quanto più un popolo si smarrisce nella sua lingua, che gli diviene in qualche modo estranea o troppo familiare, tanto meno è possibile pensare in quella lingua. Per questo vediamo oggi i governi dei popoli europei, divenuti incapaci di pensare, imprigionarsi in una menzogna di cui non riescono a venire a capo. Una menzogna di cui il mentitore non è consapevole è in realtà semplicemente una impossibilità di pensare, l’incapacità di interrompere almeno per un istante il rapporto puramente strumentale con la propria parola. E se gli uomini nella loro lingua non possono più pensare, non ci si dovrà stupire se si sentiranno obbligati a trasferire il pensiero all’intelligenza artificiale.
Va da sé che questo smarrimento dei popoli nel linguaggio che era la loro dimora vitale ha innanzitutto un significato politico. L’Europa non uscirà dal vicolo cieco in cui si sta chiudendo se prima non ritroverà un rapporto poetico e pensante con le sue parole. Solo a questo prezzo una politica europea – che oggi non esiste – diventerà eventualmente possibile.
Giorgio Agamben, 11 ottobre 2024
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Nella storia delle storie dove tutto scorre. Su Danubio, di Claudio Magris
La struttura è data dal corso stesso del Danubio, con i luoghi che hanno ospitato storie, biografie e vicende esemplari attraverso i secoli. Il metodo e l’invenzione scelta da Claudio Magris, al lettore di oggi potrebbero quasi sembrare ovvie, dato il proliferare di ibridi oggetti editoriali in cui il pretesto narrativo per un saggio proviene da viaggi e esperienze di «scrittura sul campo». A ben guardare, invece, «Danubio», antesignano per scritture ulteriori nella nostra letteratura, sembra invece accogliere e proseguire proprio quella tradizione tedesca e anglosassone per la letteratura di viaggio, il risultato è con molta probabilità un classico della nostra letteratura recente, uno di quei libri che resistono ai secoli.
È un raccontare la storia del Danubio attraverso gli stati e i periodi storici, i primi effimeri, affidati alle vicende degli uomini, i secondi che si assottigliano man mano che si approssima il presente, in un continuum dialettico dal quale di cerca sempre di salvare qualcosa del passato.
Gli anni, i giorni, le ore di un cammino di conoscenza si uniscono a una struttura leggera, il non-romanzo di un gruppo di amici, un gruppo informale i cui nomi vengono evocati al bisogno, come “spalle” del narratore-viaggiatore. Il pretesto è dato da un incarico di relazionare un viaggio. Le figure evocate divengono specchi per riflettere sé sulle bontà o sciagure del genere umano, sulla condizione del rapporto uomo-animale, ad esempio, sul rapporto con la Storia, sul nazifascismo, sull’Impero Absburgico. Il Danubio attraversa i luoghi dove nel cuore della Vecchia Europa si sono consumati tutti i drammi possibili, dove le battaglie hanno segnato confini di cui spesso il fiume si riappropria. Le estremità dell’umano albergano latenti in ogni punto, pronte a emergere dalla quiete di un’ansa. A tratti sembrano parabole, alla maniera di Kafka, o veri e propri «minima poetica» per citare Adorno, che pure ispira la forma di alcuni frammenti, che racchiudono un messaggio che cerca di allontanare il vuoto che affiora dall’essere parte di un disegno senza trama, l’ordito di nessuna superficie.
Frammenti che compongono un quadro evenemenziale, una storia che ha luogo nel cuore del corpo di un mondo che viene raccontato descrivendo il suo sistema sanguigno. Il Danubio, come oggetto di studio, è stato descritto in opere che raggiungono una perizia e ridondanza di particolari, quasi copie cartacee conformi all’originale acquatico, come in un racconto borgesiano. Qui si deve fuggire anche alla meticolosità e al puntiglio, per viaggiare leggeri. È un’opera che evoca le «Metamorfosi», qui è il Danubio il tempo che scorre, tramutando di luogo in luogo, di storia in storia, come accade con il ritmo mutevole che il poeta Ovidio inventa nel transito di racconti per uomini, divinità e semidei. La mutevolezza delle storie che scorrono è frutto della maestria narrativa di Magris nella materia fluente di una vita.
Quest’opera si interroga anche su una questione fondamentale che potrebbe essere così riassunta: dato che il mondo dell’uomo è dominato dal caos, anche laddove il razionalismo sembra imprigionare tutta l’esistenza nei suoi legacci, come possono coesistere queste due anime senza sfociare nella crisi, nel disordine, nella follia? La questione emerge e resta latente, percorre l’opera in modo carsico. La cieca obbedienza mascherata da senso del dovere e la pianificazione e messa in opera dell’Olocausto sono la macchia di sangue più nera che tinge il Danubio.
Ci sono individui, luoghi, letterature, in cui è più insito il dilemma della forma, fra libera espressione pulsioni e ordine. Il fiume scorre, si mostra uguale ad ambedue le sponde.
Pur raccontando storie e micro-storie che si innervano nella Storia attraversata dal fiume, incontriamo in più luoghi, da parte dell’autore, l’amara consapevolezza che non c’è spazio nella narrazione odierna per un mito così poetico come lo erano stati i miti che hanno dato vita all’Iliade e all’Odissea.
La terra resta terra ferma, spostarsi sulla terra è costoso. Così come spostarsi nell’aria. Spostarsi su un fiume è più economico. Il Danubio per l’Europa ha svolto un ruolo analogo a quello del Mare Mediterraneo per i paesi che si affacciavano su esso, per l’importanza che l’acqua riveste nella storia dei popoli che unisce, l’acqua come mezzo di trasporto e strumento di comunicazione.Tutta acqua.
Un occhio preveggente su quello che di lì a poco meno di cinque anni sarebbero stati mutamenti per l’Europa dopo la Caduta del Muro.
«Danubio» è un libro che ci insegna un modo differente rispetto al comune sentire per percepire il mondo, insieme a un’idea di confine. Il fiume è un confine labile, mutevole, e allo stesso tempo transitabile. Quando sei nel fiume, anche se questo costituisce un confine fisico tra due regioni, e sei dentro o e sei fuori, nello stesso tempo ti trovi dall’una e dall’altra parte. Anche per questo motivo, dalle sorti dell’Impero Absburgico, passando per quelle della Prima e della Seconda guerra mondiale, fino alle vicende della (ora) ex-Jugoslavia, ricordando quelle dell’Impero Romano, il mondo militare e le guerre giocano un ruolo importante, perché è in esse che si attua quel ruolo di ridefinizione dei confini, incessante, che da materia alla storia dei popoli.
«Danubio», il viaggio del fiume diviene un viaggio alla ricerca di tutte le storie minime che pur non appartenendo alla storia, anzi spesso lasciandosi annientare da essa, sono riuscite a salvarsi, a ritagliare un posto per il proprio essere nel mondo coniugando l’umano sentire, all’agire con il prossimo. Interessante, dal punto di vista storico, come si affrontano le vicende del nazismo, man mano che si presentano storie e luoghi che ne sono stati partecipi, interessante notare come in Bulgaria e Romania, il comportamento antisemita all’indomani della presa del potere da parte dei Nazisti, non abbia mai attecchito, e di come fossero esistiti chiari episodi e prese di posizione collettive, di vera e propria riluttanza e ostacolo alla deportazione degli ebrei. «Danubio» è un libro che ci fa conoscere paesi che sarebbero entrati nella Comunità Europea, che lo sono da quasi venti anni, e che sotto certi aspetti non legati al turismo o alla cronaca internazionale, ancora tardiamo a conoscere.
Il viaggio termina con il raggiungimento della foce del Danubio, in Romania, ripensando a come è iniziato, col desiderio di guardare il mondo con gli occhi del fiume che scorre.
La lezione di «Danubio» coincide con la grande letteratura, capace di evocare allo stesso modo fantasmi e sorrisi, poesia e filosofia, storia passata e cronaca presente. Gian Luigi Beccaria in chiusura della prefazione, suggerisce che «Danubio» non è un libro da «consumarsi» in un week-end, da esso provengono «riflessi d’infinito». L’impressione dopo la lettura – questo è il tipo di opera su cui fa piacere ritornare – è di avere compiuto uno dei viaggi letterari più importanti della nostra vita.
Danubio - Claudio Magris (Garzanti, 1986)

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\Passeranno i cieli e la terra ma le mie parole non passeranno\Passano il sole e la luna, si sbriciola la terra, ma le mie parole sono un sole che non tramonta, perché scolpite nel cuore dell’uomo|Gesù ci convoca tutti a dare fiducia al futuro, a credere che il cammino della storia è, nonostante tutte le smentite, un cammino di salvezza\Il Vangelo parla di stelle che cadono, il Profeta Daniele parla di stelle che salgono a ripopolare il cielo\Ermes Ronchi\
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