#ho un viavai in testa
Explore tagged Tumblr posts
Text
L’unica persona che vorrei in questo momento
Tumblr media
Ho un viavai
Di idee in testa:
Se vuoi puoi essere
La sola che resta 🧠❤️
32 notes · View notes
t-annhauser · 5 years ago
Text
Alle Bande der Natur
Ci sono certi calabroni là fuori, nella natura, grandi come merli, possiedono ali dotate di penne remiganti e quando scendono in picchiata fanno il rumore dei Messerschmitt. Io pensavo che insetti del genere, di quelle dimensioni, esistessero solo nel carbonifero, che l'essere più pericoloso nei paraggi fosse la gatta dai denti a sciabola che gira di notte per il cortile con gli occhi luminescenti da diavola, ma mi sono dovuto ricredere. Io del resto con la natura non ho mai intrattenuto rapporti significativi, solo l'altro giorno, per esempio, notando un gran viavai di vespe sopra la mia testa, mi hanno reso edotto del ciclo dell'impollinazione, che io credevo ancora che i frutti nascessero prima dei fiori (e in un certo senso è vero quant'è vero che l'estate precede l'inverno e l'inverno l'estate, dipende da che capo la si guardi). Io credo che questa cosa della natura ci condurrà tutti alla fossa.
29 notes · View notes
persointraduzione · 4 years ago
Text
Coca-Cola
Il bagno della stazione. Mattino presto. Pungente odore di urina. Il buio interrotto da chiazze di luce gelata sul marciapiede grigio. L’altoparlante sbrodola avvisi e poi l’annuncio del mio treno. Osservo il binario, cerco i fari. Il grosso serpente d’acciaio apre i suoi fianchi ed entro in una luce intensa, mi accomodo e vengo trasportato di stazione in stazione, con brevi soste, vagamente consapevole dei tragitti che percorrevo vent’anni fa. Osservo le persone attorno a me, ciascuna nel suo mondo, dentro cellulari, giornali, musica e pensieri, mentre la campagna scorre fuori. L’alba mi sorprende poco prima dell’arrivo; il treno entra in città, rallenta, s’inclina e sussulta, si ferma ed apre le porte, vomitandoci fuori, nel viavai intenso dei pendolari e dei viaggiatori che si riversano nelle scale, nei sotterranei, verso le uscite o i binari dell’alta velocità. Sono confuso, pregno di anticipazione, inconsapevole e rapito dal mio sogno egoistico, non so decidermi ad uscire dalla stazione ed allora mi muovo verso l’atrio, mi infilo nel bar, in mezzo a una rumorosa folla e al profumo delle brioches e del caffè. Un cornetto ed un succo. Dovrei calmarmi. Esco in un mattino col cielo a chiazze, uno spiraglio di sole. Attraverso la strada su strisce incapaci di contenere il flusso di pedoni, imbocco i portici, sfioro l’edicola, i negozi chiusi, attraverso un piccolo parcheggio stracolmo, osservo gli autobus in coda e gli scooter che zigzagano. Più lontano, quel che resta di un vecchio parco, con alberi ingrigiti e chiome spogliate dall’inverno incipiente. Di colpo mi ricordo quello strano cappello verde e rosso, caldo, strano e comodo, lo indossavo anche su questa strada, nei miei giorni di ricerca, quando la città sembrava esotica e lontana. Cammino, mi soffermo davanti alle vetrine, guardo i passanti, un mendicante, un cane, una zingara, una bellissima ragazza diretta chissà dove, la bandiera del consolato greco che pende floscia e sporca sotto il portico. L’odore di pizza al taglio a quest’ora è un’offesa. Il sole si ostina a splendere tra le nubi. Ancora un semaforo, un negozio di dischi che non c’è più, una parete coperta di manifesti fotocopiati su fogli colorati, una coppia di studenti freak, una vespa malamente verniciata, Gli occhi profondi di una ragazza africana che mi incrocia con espressione impenetrabile, chissà cosa ci siamo detti. L’ingresso di un piccolo ristorante cinese, un kebab più in là. Ho voglia di Coca-Cola. Tremo e un fantasma del '98 mi attraversa. Mi sono fermato, sono sotto casa sua. Osservo il portone color bronzo, tremendamente anni ’60, col vetro scuro dietro cui s’indovina il piccolo ingresso. So che ci sono le scale sulla destra. Niente ascensore in questa piccola palazzina costruita sul limitare delle mura, a pochi metri dalla porta, tra edifici dissonanti. Sono trattenuto al marciapiede dalla forza della paura. Sto sbagliando, lo so. Il mio sguardo scorre i campanelli, non serve, so dov’è il suo...ma DEVO perdere tempo. Guardo l’ora, sono quasi le 8. E’ troppo presto, mi dico. Vigliaccamente decido che è meglio lasciar perdere. Non rischiare di incasinarsi la vita e di infastidire una persona. Proseguo lungo il marciapiede, raggiungo la porta, la osservo distrattamente e prendo per il viale, trafficato e rumoroso. Faccio un giro lungo, magari mi schiarisco le idee. Ho sempre più voglia di Coca-Cola. Imbocco un piccolo porticato moderno, senza fascino, cartacce a terra, colonne sudicie di smog, vetrine fitte. Suona il cellulare, un messaggio. Mi concentro nella lettura senza accorgermi di stare davanti all’ingresso di una panetteria. Un piccolo urto, una spallata. Alzo lo sguardo, sento una voce che si scusa, non sono attento, non rispondo, muovo gli occhi e mi pietrifico. Anche lei si pietrifica. In questo momento sono solo spaesato. Lei grazie a Dio inizia a sorridere e mi chiede come sto. Sto quasi per dirle che sono li per lei, ma non ce n’è bisogno. Lo sa. Per fortuna non ho citofonato. 
Passiamo de tempo in giro, a fare la spesa, chiacchierando del più e del meno. Il passato è un campo minato e a nessuno va di camminarci sopra. Nella mano tengo una busta con verdure e formaggio. Andiamo a casa sua e varcare quel portone mi riporta alla mente contrasti, ma il suo sorriso mi sorregge e non cedo alla voglia di scappare lontano. Seduti al tavolo della cucina ci guardiamo negli occhi e lei mi richiede come sto. Come sto? Non lo so. Sono confuso e nella confusione è come se ribollissero emozioni inconciliabili. Ho tanta paura, tanta ansia, vergogna, ma anche affetto, simpatia, complicità, tanti ricordi piacevoli disseminati negli anni. Ancche desiderio. Non voglio che ci sia, o forse si, o forse c’è a prescindere dalla mia volontà. Purtroppo sono sempre stato un libro aperto per chiunque e non mi rendo conto che l’espressione del suo viso sta cambiando. Quando lo capisco è troppo tardi, sento una sensazione di disagio tremenda impossessarsi del mio corpo, sudore freddo, agitazione, tachicardia. Non riesco a parlare. Mi sento dire che non cambio mai, che sono sempre lo stesso, che sono un egoista. La guardo ma non sta parlando. Le chiedo se posso avere dell’acqua. Mi gira tremendamente la testa. Lei mi risponde che come mi sento è fuori luogo, che non c’è più quello che c’era un tempo. Lo so come mi guardi, lo sento: Lascia la cosa sospesa. DEVO bere, datemi da bere! La mia fronte è imperlata di sudore, il respiro veloce. Lei si allarma e mi fa alzare, apre la finestra e mi fa accomodare su una poltrona del suo tinello. Finalmente posso bere, mi porta dell’acqua che ingollo senza respirare. Ad occhi chiusi sento la stanza girare, cerco di calmarmi, di respirare l’aria fredda che viene da fuori. Lentamente scivolo nel sonno. Riapro gli occhi,  rumori sommessi, luce soffusa, non riesco a mettere a fuoco. Impiego un po’ per capire dove mi trovo. Mi sento svuotato, non so, non provo neppure la vergogna che sento che dovrei provare. Mi accorgo solo dopo che lei è seduta nella stessa stanza, sta leggendo. Appena si rende conto che mi sono svegliato mi chiede con apprensione come sto. Non lo so. Non so che dire, neppure farfuglio, mi limito a guardarla e poi le dico di voler andare via, di voler prendere il treno. Treno? Ma lo sai che ore sono? No, che ore sono? Sono quasi le 22.30, impossibile prendere l’ultimo. E adesso come faccio? Dove vado? Che casino! Lo sapevo che non dovevo agire d’impulso e fare sta cretinata! Lei mi porta un altro bicchiere d’acqua e mi dice che per quella sera posso stare lì. Troppo stanco per discutere e pensare accetto e poco dopo mi trovo steso scompostamente sul divano, nel buio, con le orecchie ad inseguire i rumori degli altri appartamenti, con gli occhi a scrutare le ombre di quel soggiorno. Il lungo sonno del pomeriggio ha tolto da me ogni stanchezza e la mia mente comincia a ricostruire sentieri contorti disseminati di immagini evanescenti, ricordi, aspettative, incubi e mi sembra impossibile riuscire a farla tacere o riordinarla. Insofferente mi metto a sedere, scruto l’orologio del cellulare. L’una e dieci. Sento che l’ansia potrebbe tornare a montare. Mi alzo per andare in cucina a bere. Cerco di non far rumore, non accendo luci. Bevo due bicchieri avidamente e mi siedo al tavolo, fissando il vuoto ed aspettando di essere più calmo. All’improvviso si accende la luce e lei entra con una piccola vestaglia bianca, i corti capelli spettinati, lo sguardo vigile. Non dormiamo questa notte eh? No, io no. Si avvicina, resta in piedi, mi fa coraggio. Mi abbraccia forte. Quando si stacca da me mi accorgo che la vestaglia si è aperta e lei sotto indossa solo un babydoll bianco. Con un gesto rapido e silenzioso fa scivolare la vestaglia, nel suo sguardo ritrovo il filo rosso di un tempo. Un lieve bacio sulle labbra, un sorriso. Il babydoll raggiunge il pavimento. Il mio sguardo percorre quel corpo leggermente morbido dalla pelle chiara, nella luce di quella cucina. Lei mi prende per mano e mi conduce nel suo letto. Tutto ritorna come fu, ed allo stesso tempo nuovo e diverso. Il piacere ci coglie, poi la pace. Il sonno reclama corpi e menti. Il mattino seguente il mio sguardo si apre nella penombra della camera da letto. Lei dall’altra parte che dorme. Mi alzo a sedere. Mi guardo intorno. Vado in bagno, tengo la testa sotto il lavandino, bevo, mi lavo. Quando ritorno in camera la trovo sveglia a fissare il soffitto. Mi avvicino, ci abbracciamo in silenzio. Ci guardiamo a lungo, sorridiamo. Una fame incredibile mi afferra, ci alziamo. Sono le 11.30. Scendiamo a fare un pranzo greco. Guardo il cielo. E’ nuvoloso. A che ora parte il treno? Le chiedo. Non me ne importa oggi. Non ti ci abituare. Forse hai ragione, ma sai che c’è? Ho una gran voglia di Coca-Cola!
2 notes · View notes
il-posto-a-tavola · 6 years ago
Text
Tumblr media
Guardaci: c'è tutta, tutta la guarnigione riunita.
Tu aspetti la tua guarigione. Ti analizzi: i piedi, le gambe, il piano della tua visuale destra.
Aspettavamo tutti assetati. Tutti impostati, tristi, agguerriti, stupiti. Non c'erano stati segnali.
Sì, invece. Ce n'erano stati. C'erano segnali avanzati, che avevamo buttati via come si scacciano le mosche. Erano stati ignorati, riposti, diffusi col passaparola e ancora ignorati nuovamente, assente qualsiasi bisogno di ricordare.
Avevamo più fame che sonno. In effetti, mangiavamo in continuazione.
Io ero lontana. Sentivo solo la tua voce che da bassa e vivace era di un metallo atroce.
Lasciavo tutto inespresso.
Ero addolorata ma di quel male sordo, che si agita in un angolo tutto strozzato e solo, e si consuma. Ne parlavo poco e con pochi. Tenevo tutto chiuso per i miei specchi e coprivo spesso anche loro.
si mangiava roba prelibata, al tavolo della cucina.
chi arrivava, portava. chi tornava a casa per cucinare.
chi arrivava a casa per capire, e chi, invece, per guardare.
chi guardava cercava di capire.
a volte taceva. a volte, invece, lo carezzava come si carezza il pelouche che hai sul comò, da piccino.
io mi ci arrabbiavo: 'non è un bambino, e nemmeno un pelouche. in vita sua lo avete mai accarezzato? ed allora, lasciatelo stare'.
c'era viavai in continuazione. si aspettava tutti.
si puliva, si cambiavano panni, lenzuola di lino bianco, belle lenzuola candide di percalle stese al sole ad asciugare.
chiesi: 'perchè, al sole? non si fa prima, a stendere nella sala accanto alla lavatrice?'. 'no' - mi rispondevano - 'c'è l'energia del sole, il profumo della roba stesa fuori'. 
ci si muoveva un un loop veloce, costante. il divano cedeva, sotto il tuo bacino, se ti ci mettevi sopra.
il divano era come lì per assorbire, per farti riposare.
io non avevo immaginato che quel divano rosso di pelle un po' scuro, messo accanto all'ingresso e rivolto alla finestra, potesse servire un giorno a quello scopo.
la casa era lì, immensa. la casa stava lì, tutta enorme e compressa di cose da fare, di solitudini e di dialoghi, piena di conversazioni.
il divano rosso era pieno di voci. di volti seduti.
le tende bianche alle finestre si muovevano appena.
fuori c'era un bel sole e tra le piante del giardino c'erano un sacco di uccellini.
un uccellino si era incastrato nella stufa, al piano di sotto, e poi era uscito indenne dal tubo.
succedevano cose anche un po' strane, un po' magiche.
la cucina era piena di vasetti delle razioni e delle preparazioni alimentari. era pulita, ma durante quei giorni fu ordinata e assunse quasi un aspetto razionale.
io capii perchè la cucina era piena di vasetti e perchè erano troppi e perchè non volevano buttarne nemmeno uno.
venivano preparati cibi apposta in attesa della guarigione.
il cibo serviva per guarire. il cibo aiutava la guarigione.
il frigo era ovviamente grande e ben illuminato.
tuttavia era in attesa nell'aria qualcosa di trascurato, qualcosa... di indefinito.
si sapeva e non si capiva, si percepiva e non si vedeva.
si capiva che c'era qualcosa.
c'erano tracce. c'erano libri sul controllo del dolore.
c'era, in quella casa, chi non riusciva ad avere pace.
c'era, in quella casa splendente, chi si rintanava nel garage con poca luce del sole e progettava motociclette e altre cose.
c'era la solitudine, appollaiata sul tetto della casa, e una stanza assolata piena di documenti interessanti.
i documenti raccontavano la vita delle persone  perchè quelle persone li ritenevano importanti. i documenti erano ritenuti più importanti delle parole nelle relazioni.
'ho sempre tenuto di più alle cose importanti, piuttosto che ai sentimenti'.
questa fu una considerazione che facesti ma successe che poi furono proprio i sentimenti, a portare a te le cose.
Erano i sentimenti, a muovere le dita che ti sventagliavano ed erano i sentimenti a portare a te coppette colme: fragoline di bosco e batuffoli di acqua inumiditi per bagnarti le labbra.
C'erano i tuoi cappelli, sparsi per la casa. In bagno, nel tuo bagno, c'erano le tue cinture. C'erano appesi ancora i tuoi asciugamani e c'erano tutti incasinati i tuoi prodotti per la rasatura. Erano nel mobile del bagno che era sempre quello di quando ero piccola, e anche il bagno era sempre quello, uguale. Eri così: facevi cose nuove ma poi ci mettevi le cose di tempo fa', le conservavi. A volte, le riparavi ed a volte, invece, ne fabbricavi di nuove.
Era la morfina a farti sognare, o più belli erano i sogni che la musica ti procurava?
Mio. Cosa c'era di mio, nella tua casa. Tutto.
Tutti i miei libri.
Ti circondavi delle mie cose, riposte come nuove tra gli scaffali.
il libro che ti avevo prestato e che ti era caduto nella vasca da bagno, che si era rovinato e che io mi ero arrabbiata, era ricomparso nello scaffale, nuovo. Lo hai ricomprato?
Mio, era il posto a tavola che rimaneva vuoto perchè tu non mi chiamavi, però sì che mi aspettavi.
Mio era quel posto, quel posto riservato.
Mi hanno detto che un giorno eri molto affaticato e ti è caduto il volto rivolto verso il piatto.
L'ho saputo dopo, perchè non mi avevano avvisato.
Sì, per un po' siamo rimasti taciuti, ma poi accadde: parlammo.
Parlammo. 
Parlammo seduti e tu, con l'occhio bendato.
No forse non ero seduta. Tu sì, per forza.
Mi guardavi stranito ma ci tenesti subito a chiarire: non eri stranito per nulla, era solo l'occhio che se ne stava su una vista ad un piano diverso. Quindi se affrontavamo il problema, andava solo bendato e il problema vista era sistemato.
Chiaristi pure che non ce l'avevi più con tua madre.
Fu lunga: respirare e resistere senza perdere la rotta.
La definizione - la parola esatta - fu: mantenendo la testa ferma.
E' questa la parola esatta. La testa ferma resta lì dov'è. Non se ne va.
Ho imparato questa cosa, che non è una cosa, ma un atteggiamento, su un'isola, d'inverno.
Il tempo, su un'isola, scorre in un modo particolare e più semplice. Il tempo passa, e tu resti con te stesso, e pochi altri.
Eccoci. E' quando resti con te stesso, che succede tutto.
Succede che si vede dove va la tua testa.
Resta ferma? Passeggia?
Padre.
ti guardavo lentamente, disteso su quel letto bianco, con la coperta azzurra addosso, l'espressione stanca, viva, differente dalla sofferenza. Era un'espressione piena di pazienza. 
Ti guardavo e cercavo di capire cosa mi aspettava.
Chi mi avrebbe portato e tutto l'azzurro della tua coperta.
Cosa avresti detto. Che cosa avresti fatto.
Quale parola avresti scelto, dopo tutto questo tempo che non parlavamo veramente.
Padre.
Quale parola avresti pronunciato, e quale sarebbe stato il suo significato - quale significato avrei dovuto attribuirle.
Ti osservavo inquieta ma me lo ripetevo: sei lì dentro e sei vivace, il resto non da' pace. Meglio scansarlo.
Scansiamo tutte le idee che si accavallano e spingono no, si affollano, no. Le idee che arrivano e si abbattono su quel tuo occhio coperto da qualcosa di bianco
Le idee che come un violento 
No
Quelle onde che arrivano e si ammassano tutte insieme e ti devi proteggere
perchè lì sotto invece c'è la calma
sott'acqua, e cerchi di respirare
l'onda che arriva e poi tu sei fuori
Ecco. Mi serve questo.
Parlami tu, che io non so se ti dico cose che potrebbero farti inquietare. Quali parole devo scegliere. Che cosa devo dire e che cosa è meglio che ti dico dopo, no, ora, no, tra un po' 
Mi serve guardare quel tuo respiro e quella coperta azzurra e capire che adesso sei così.
Ma io ti ascolto.
se resta tempo
certo che resta
no che non resta.
debbo uscire.
Esco dalla stanza.
Respiro.
Si piange in un corridoio.
Si resta lì e ci si calma.
Non ti si spaventa. Non ci si spaventa?
Si resta fermi, con la testa.
Si cerca un punto di guarigione da tutti quei pensieri messi uno sopra l'altro che poi diventano un pensiero solo, immenso, e ti arriva tutto addosso.
Arriva l'onda.
Caccio la testa sott'acqua: passa.
Ora passa.
Passa, e poi rientro in quella stanza.
Sono qui, son rientrata. Dai, riparliamo.
Ti ascolto.
Tumblr media
Mi parli con la tua voce con la erre arrotata. Anche questa voce, la riconosco. Mi è familiare.
La voce dice e parla con sillabe nuove e sempre le tue musicali, di quando ero piccola e si girava in bici: sì, eravamo felici
Tumblr media
1 note · View note
zeroluce · 2 years ago
Text
0:11
Ho un viavai di idee in testa se voi puoi essere una di queste!!
0 notes
apiccolisorsi-interrotti · 7 years ago
Text
Mi sento un’estranea quando osservo i volti degli altri, i pochi sguardi che incrocio sono fuggevoli e difficili. Non sono abituata a queste pareti di carta, dove la mia vita si mescola subito a quella del bambino che piange, del cane che abbaia, delle voci indistinte.
Ieri la mia amica ha voluto che andassi con lei ai giardini: la città ha subito iniziato a pesarle addosso e si vede, lei è costantemente con gli occhi bassi, ed io sempre con il naso per aria a guardare non so cosa, a imprimermi nella testa un continuo viavai di strade e gesti e persone che non ho mai visto. Fra gli alberi e il silenzio non riuscivo assolutamente a concentrarmi sulla lettura: il mio sguardo vagava senza una meta precisa, ovunque tranne che sulle pagine. Ed è in quel momento che sono stata presa da una malinconia senza nome, da una nostalgia di cose mai vissute, che ho sentito più forte che mai. Lentamente, ho pensato che sarebbe bellissimo condividere con qualcuno tutta la bellezza che conservano i miei occhi, guardarsi e capire tutto senza dire niente, imparare davvero a prendersi le mani in silenzio. Lentamente, un momento di tranquillità è diventato un momento di paura: la paura che tutto quello che ho nei gesti, nella testa, nello sguardo, vada sprecato, si dissolva in questo grigiore che cerco continuamente di allontanare.
4 notes · View notes
pettirosso1959 · 3 years ago
Text
Tumblr media
Questa è la fornace, la Nuova Lam di Altopascio, dove io ho lavorato per ben 22 anni a turni come fuochista, non racconto di come tutto sia finito miseramente, mi sento male solo a pensarci.
In tutti questi anni di esperienza lavorativa mi viene da dire che, proprio come Roy Batty in Blade Runner, e senza presunzione: "Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi...". Ecco, proprio in virtù dei turni di notte o i turni festivi, quando eravamo soli in tutta l'azienda, ne ho viste proprio di tutti i colori: prostitute che salivano in auto dei clienti, pestaggi notturni, viavai di droga nel parcheggio del laghetto a fianco, delinquenti inseguiti da carabinieri, un rom addirittura lo inseguirono anche fin dentro la fabbrica e lo catturarono a fianco della Mattoniera (La macchina di produzione), lo sdraiarono in terra e giù palettate nella testa come se non ci fosse un domani, al ché il mio collega si avvicinò a loro con un paranco in mano e disse ai carabinieri: "Perché non usate questo?". Una notte ci fu perfino un incidente purtroppo mortale nelle vicinanze.
Vi racconto, invece, un'altra storia...
Un pomeriggio di una domenica di giugno mi appresto a dare il cambio all'operatore che aveva finito il turno giornaliero, salgo sopra il forno dove avevamo la sala comandi e lui allarmato mi fa: "Vieni un po' a vedere!"
Andammo ai finestroni che danno sul piazzale che noi chiamavamo "dei travetti", dove ormai di travetti non ve ne erano più, ma lo usavamo per stoccarci macchinari ormai vecchi: ventilatori, tubazioni, ventilatori, vecchi bruciatori e anche pacchi di blocchi per muratura e pezzame vario. In quel piazzale vedo una macchina parcheggiata con una coppia dentro: lui mano fra le cosce e mezzo metro di lingua in bocca alla donna, la quale donna a lui rispondeva con cose indicibili... però, distanti non tanto, c'erano anche due bambini, un maschietto e una femminuccia, che giocavano pericolosamente fra i suddetti macchinari salendoci anche sopra.
A quella vista dico al collega, e gli faccio anche notare, che è molto pericoloso per l'incolumità dei bambini e bisogna porre rimedio mandandoli via.
Allora... Caschetto di protezione sulla testa, tuta da lavoro e guanti infilati prendiamo una carriola, ci sistemiamo sopra la cassetta degli attrezzi e ci si avvia verso questo piazzale. Alla vista di noi operai i due in auto smettono le loro pesanti effusioni e ci salutano, noi due, senza dare troppo peso alle loro discutibili prodezze amorose, contraccambiando il saluto ci sistemiamo dietro il piccolo magazzino e con i martelli facciamo finta di lavorare picchiando su un pezzo di tubazione, ma il bello arrivò in quanto meno ci si aspetti: i due bambini, curiosi per quello che stavamo facendo, ci seguono e la bambina ci dice: "Cosa fate?", "Lavoriamo, e voi?", "Noi siamo con la mamma e il suo amico.", "E il vostro babbo dov'è?", il bimbo, più piccolo della sorella, ci rispose: "Il babbo è a casa che fa le pizze!".
Quello che successe dopo ve lo potete anche immaginare: a quella risposta, data con l'innocenza che può avere solo un bambino, ci sdraiammo in terra piegati dalle risa!
Fine della storia.
P.s.: Il mio collega conosceva quello in macchina, era un muratore scapolo e senza figli di Montecarlo di Lucca, per questo domandò ai bambini dove si trovasse il loro babbo!
0 notes
thekitchentube · 4 years ago
Photo
Tumblr media
Cʜɪғғᴇʀɪ ᴄᴏɴ Dᴀᴛᴛᴇʀɪɴᴏ ɢɪᴀʟʟᴏ, Cᴇᴄɪ, Zᴇɴᴢᴇʀᴏ, Aɴᴇᴛᴏ ᴇ Gᴀᴍʙᴇʀɪ ᴘɪᴄᴄᴀɴᴛɪ⁣ ⁣ ⛱️Delle mie prime vacanze in Sicilia, nel profondo sud dell’isola - tanto a sud da essere più a sud di Tunisi - ricordo soprattutto la bellezza del territorio, i muretti a secco erti sulla terra arsa dal sole e le enormi carrube con le loro chiome verdissime che facevano ombra a sonnacchiose mucche ⁣ Ricordo lo sguardo divertito degli abitanti del piccolo paese quando ci avventuravamo fuori nelle prime ore del pomeriggio, quelle in cui il sole non perdonava qualsiasi testa si frapponesse tra i suoi raggi e il terreno, quelle in cui nessuno osava neppure lontanamente uscire. Quasi nessuno. E infatti fù proprio la mia prima volta di un colpo di sole, con febbre alta e brividi, vinta solo dalle formule pseudoreligiose di una vecchia guaritrice del luogo, che le recitava mentre mi appoggiava sulla pelle bicchierini rovesciati, dopo averli scaldati con una candela ⁣ ⁣ A volte dobbiamo inchinarci all’evidenza senza provare a capire, perchè anche da scienziato scettico qual sono devo prendere atto che funzionò immediatamente e meglio di 15 tachipirine. La scienza non è certamente il metodo giusto per comprendere tutto 🤷🏻‍♂️⁣ ⁣ Una delle cose più spassose (per me che sono abituato a svergliarmi presto al mattino, per altri peggio che un mignolo su uno spigolo) era il fatto che già dalle prime ore del mattino sotto le finestre di casa iniziava un viavai di Api (quelli della Piaggio 😁 però) carichi dei cibi più disparati, da cui dopo varie strombazzate uscivano dei venditori che urlavano qualcosa tipo lista di nomi in un incomprensibile dialetto. Praticamente capire cosa vendessero era impossibile a chi non era del luogo, ma ciò che c’era sempre era “Ammaru”. Solo dopo mooolte lezioni da un’esperta locale 😇 riuscii a capire che trattasi di Gamberi😂⁣ ⁣ In Sicilia non vai a fare la spesa, è la spesa a venire da te🤪 Ho imparato anche questo in quella vacanza, assieme a come pulirli e cucinarli in mille e uno modi ⁣ Qui, a 1500 km da Sampieri, ve li presento piccanti e speziati, con Ceci e Zenzero, da una ricetta sicula. Che bei ricordi ! Un pò di Sicilia in Tirolo non guasta 😉 no ?🙋🏻‍♂️🙋🏼😘 (presso Merano, Trentino Alto Adige, Südtirol) https://www.instagram.com/p/CMwEX9hlZuY/?igshid=12zvlbwy5zo2s
0 notes
giancarlonicoli · 4 years ago
Link
9 gen 2021 12:35
“RITRATTO DI FAMIGLIA CON DROGATO" – NATALIA ASPESI VEDE LA SERIE NETFLIX “SANPA” E SI CONFONDE. IL GIORNO DOPO ARRIVA LA PRECISAZIONE DI "REPUBBLICA". L’INTERVISTA DEL DICEMBRE 1980 NON ERA A ROMILDA BOLLATI DI SAINT-PIERRE, PROPRIETARIA DELLA CASA EDITRICE BOLLATI-BORINGHIERI, MOGLIE DEL NOTABILE DC TONI BISAGLIA E VECCHIO AMORE DI PAVESE, MA A PIERA PIATTI, COGNATA DI ROMILDA - VIDEO
-
Da professionereporter.eu
L’articolo esce giovedì 7 gennaio e occupa l’intera pagina 21. Titolo: “Quella madre che affidò a Muccioli il figlio perduto”. Parla della comunità di San Patrignano, tornata d’attualità in questi giorni in seguito a un’inchiesta di Netflix. Aspesi ricorda un’intervista che pubblicò su Repubblica il 10 dicembre 1980, intitolata “Ritratto di famiglia con drogato”: una madre dell’alta società raccontava la sua disperazione, i suoi dolori e le sue speranze per il figlio tossicodipendente, affidato alle cure di Vincenzo Muccioli, fondatore e animatore di San Patrignano.
Nel pezzo del 7 gennaio, solo nell’ultimo capoverso Aspesi rivela l’identità dell’intervistata: Romilda Bollati di Saint-Pierre, proprietaria della casa editrice Bollati-Boringhieri, responsabile della Carpano alla morte del primo marito, poi moglie del notabile dc Toni Bisaglia, amata diciottenne da Cesare Pavese, amica di Italo Calvino, Carlo Levi, Natalia Ginzburg. Morta a 80 anni, nel 2014.
Il giorno dopo, 8 gennaio, nella pagina dei commenti, sette righe in corsivo senza neanche un titolo: “Nell’articolo pubblicato ieri con il titolo “Quella madre che affidò a Muccioli il figlio perduto” veniva citata per errore Romilda Bollati. Ce ne scusiamo con la famiglia e con i lettori”. Citata per errore?
E’ proprio così. L’intervista del dicembre 1980 non era a Romilda Bollati, ma a Piera Piatti, cognata di Romilda, in quanto moglie del fratello Giulio Bollati, come è scritto chiaramente in una pagina di Repubblica del 29 ottobre 1981, proprio su Piera Piatti, firmata da Giampaolo Pansa.
Meglio in ogni caso sempre essere chiari fino in fondo, per rispetto dei lettori.
L'INTERVISTA DELLA ASPESI
Natalia Aspesi per “la Repubblica”
«Nessuno tranne chi ci è passato, può capire cosa si instaura tra i genitori e il figlio che si droga. Orrore, amore, paura, odio: lo odi perché tuo figlio sei tu, non puoi abbandonarlo e senti che lui ti porta a picco con sé. Lo odi perché lui ti odia ferocemente ogni volta che tu ti frapponi tra lui e la droga.
Lo odi perché non ti dà tregua, perché il tuo forsennato amore, il tuo bisogno di aiutarlo pesano come una condanna senza scampo». Chiedo scusa se cito una mia intervista fatta a Torino, pubblicata su Repubblica il 10 dicembre del 1980, titolo "Ritratto di famiglia con drogato". Vecchia di 40 anni.
L' avevo dimenticata e perduta, me ne sono ricordata con "SanPa, luci e ombre di San Patrignano", il documentario di Netflix, da me affrontato con la diffidenza di chi quegli anni li ha vissuti, e in cui invece mi ci sono ritrovata con sempre maggior partecipazione: un racconto appassionato e distaccato, con le immagini ormai storiche dei ragazzi di allora, i maschi ricciolini, le femmine corrucciate, i tossici disordinati, silenziosi, piegati, gli sguardi cupi e bugiardi di chi sognava solo la fuga e il buco, eppure lì su quella collina alle spalle di Rimini, a cercare calore nelle braccia di quell' omone che pareva un' invenzione di Fellini, con quei baffetti, con quei capelli, con quelle guance rosse.
La lunghissima intervista, sei pagine di testo, avvenne due anni dopo la fondazione della comunità di San Patrignano e tre anni prima del primo processo a Vincenzo Muccioli, e smontava ogni mio pregiudizio su quel luogo considerato un lager dei più brutali. Negli anni '70 quando in Italia succedeva di tutto, noi cronisti buonisti quindi scemi, fra tanto fragore rivoluzionario, stragi fasciste, brigate rosse assassine, morte della famiglia, stavamo dalla parte dei giovani asceti silenziosi e apparentemente pacifici, che come si diceva allora si facevano: poverini, vessati dalla società, dai genitori, talmente di sinistra (o di destra, ma meno) da rifiutare il vivere borghese compreso lo studio, il lavoro, la doccia, non parliamo il pettine; sognando di fare come i Beatles e dedicarsi alla contemplazione nullafacente in qualche ashram se non in India, almeno nel Monferrato.
Però morivano, o si fracassavano il cervello, e già da poco prima del processo di Rimini, si cominciava a diffondere una strana orribile malattia che ti copriva di piaghe e ti uccideva (poi la chiamarono Aids, e il contagio avveniva tramite il sesso ma soprattutto lo scambio delle siringhe dell' eroina e altra porcheria).
Alla fine di quell' incontro durato ore, così sincero, così spietato, così sfrenato, senza un attimo di sosta, di ripensamento, persino di commozione, ero talmente provata che mi venne un mal di testa lancinante, insopportabile, mai sentito neppure davanti agli orrori di piazza della Loggia a Brescia o della stazione di Bologna.
Quella madre dalla forza indistruttibile era una delle più belle, importanti e agiate signore di Torino, con tutte le conoscenze giuste, laureata in psicopatologia, colta, di sinistra, impegnata contro le violenze manicomiali dell' epoca. Da nove anni combatteva una guerra feroce contro la volontà altrettanto feroce di suo figlio di vivere con la droga.
Già si deprecavano luoghi come San Patrignano, dove si usavano metodi coercitivi, illegali, per tenere lontani i tossici dalla droga ma la signora lo difendeva perché «per tentare di salvare il tossicomane non c' è altra strada che obbligarlo.
Certo sono stati commessi degli errori e non c' è un controllo ufficiale, ma rappresenta in Italia l' unico tentativo di affrontare la tossicodipendenza in modo diverso da quello istituzionalizzato o delle comunità aperte a un viavai di sbrindelloni e improvvisatori».
Anche Vincenzo Muccioli, e il documentario lo racconta, era un improvvisatore circondato da sbrindelloni, ma nella sua ignoranza e presunzione e megalomania aveva capito ciò che gli esperti avevano rinunciato a capire rifugiandosi nella loro scienza troppo estranea a quello sradicamento giovanile e quindi impotente, inutile: in tempi di massimo disordine, allora e probabilmente solo allora, dicevano altri pensosi, bisognava ritrovare il Padre, il genitore e l' organizzazione sociale rifiutati ma anche perduti: il Padre, o la Madre, amano e puniscono, dettano le regole e impongono un ordine, schiaffeggiano, chiudono in casa, ma anche amano.
E "SanPa" mostra questa folla stralunata e giovane bisognosa di abbracci, di corpi in cui rifugiarsi, che si stringe attorno al guru improvvisato, disordinato, avventato, e quelle catene talmente enormi da avere persino una funzione simbolica. Anche le cliniche private costosissime in Svizzera, dove la madre trascinava il figlio, non erano diverse da un luogo punitivo: per i drogati stanzette a due letti senza bagno, reparto chiuso, porte chiuse a chiave, finestre senza maniglie.
«Mi sentii gelare, e il medico durissimo mi disse, se vuole essere curato suo figlio dovrà stare qui fino a quando noi lo riterremo opportuno, se no se lo riporti via». Del resto in Svezia «dove la libertà dell' individuo è sacra, dopo una permissività nefasta, lo Stato costringe al ricovero coatto per tre anni in comunità molto isolate nel nord del paese ».
L' ultima puntata del documentario è forse un po' sfilacciata nell' ansia di pareggiare il bene e il male di una comunità che rispecchia l' angoscia e la violenza e la follia del suo tempo. C' è anche la voglia di confermare l' omosessualità di Muccioli e la morte per Aids, che nulla tolgono o aggiungono alla sua figura.
Io ho un ricordo che poi non divenne un articolo perché sentivo pena per quell' uomo che mi aveva ricevuto fuori di sé dalla disperazione, nella stanzetta dove era morto di Aids il suo protetto più caro (c' è una sua veloce immagine nel film), un bel ragazzo dall' aria angelica: da giorni Muccioli conservava il letto sfatto della sua ultima notte, apriva i cassetti e baciava la sua biancheria. Forse ci si può spegnere anche di dolore.
San Patrignano adesso è una istituzione, come le tante altre comunità che silenziosamente si occupano dei tossicodipendenti la cui morte raramente fa notizia. Si parla di droga quando fa parte del bel vivere, come i vassoi di cocaina nelle case dei ricconi tipo lo stupratore sadico Alberto Genovese, dagli inviti molto attesi. Nel 2019 in Italia i morti per droga sono stati 339, il giro di affari ha raggiunto i 16 miliardi, soprattutto per cocaina, eroina e un mercato di 39 nuove sostanze psicotrope sintetiche sconosciute.
0 notes
pangeanews · 7 years ago
Text
Vitaliano Trevisan: subisco il presente, sopravvivo, ma soprattutto, non sono un contemporaneo
Il suo volto pare estratto dall’Edda, inscritto in una saga nordica. Sì, è vero, c’è un gemellaggio tra l’opera di uno scrittore e il suo viso. Lo diceva anche Iosif Brodskij, “m’innamorai di una fotografia di Samuel Beckett molto prima di aver letto una riga scritta da lui”, perché uno con quella faccia lì non poteva scrivere altro. Vitaliano Trevisan ha un viso indimenticabile almeno da Il primo amore (2004) il film di Matteo Garrone – il più bello – che ha scritto e interpretato. Faceva un tizio che è sapiente nell’arte della sevizia, che è sedotto dagli abissi. In effetti, l’opera di Trevisan, da I quindicimila passi (2002) a Wordstar(s) (2004) a Works (2016) è un precipizio nell’ossessione. Narratore tra i più forti di oggi, dichiaratamente fuori tempo, radicalmente selvatico, al di là dei palazzi dove si celebra, tra intellettuali incensi, il rito della letteratura contemporanea, Trevisan si è portato a casa, tra l’altro, l’ultima edizione del Premio Riccione per la drammaturgia. Dopo due ‘finalissime’ perdute ai rigori (nel 2011 con la riscrittura goldoniana La bancarotta o sia Il mercante fallito, nel 2015 con Il cerchio rosso. Studio per un affresco, onorato con la menzione consolatoria ‘Franco Quadri’) Trevisan vince quella più importante, quest’anno, quella del settantesimo del Premio andato, alla prima edizione, nel 1947, a Italo Calvino.
Vitaliano Trevisan premiato dal Sindaco di Riccione
Salito sul palco, era fine settembre, aria audace di fine estate, come da copione, Trevisan non ha spicciato parola, forse tentato di maledire il premio, come il suo padrino spirituale, Thomas Bernhard, insegna. Il testo con cui ha vinto, Il delirio del particolare, di claustrofobico fascino, conferma che Trevisan è il più ispirato scrittore per il teatro di oggi (già autore di testi potenti come Una notte in Tunisia, sul “noto politico” Bettino Craxi, in disfacimento, interpretato da Alessandro Haber, e Solo RH tradotto in scena da Roberto Herlizka, attualmente è in giro il suo adattamento de Il giocatore di Dostoevskij). Nel Delirio del particolare il centro del mondo è una Vedova, stordita dal viavai dei ricordi, che s’inoltra nella morte: quella del marito, quella del grande architetto Carlo Scarpa, morto nel 1978 in Giappone, a Sendai, scivolando sulle scale dell’albergo in cui soggiornava (“Una di quelle morti casuali con cui uno sembra avere un appuntamento”) e quella di Goffredo Parise, che muore a Ponte di Piave, nel 1986 (“Era malato ma non si curava. Ha smesso di bere e di fumare quando è entrato in coma. Forse se avesse seguito le indicazioni dei medici sarebbe vissuto ancora qualche anno ma il fatto è che non voleva”). La morte di Parise, in particolare, è un fatto eclatante e definitivo, è “come se fosse calato un sipario… su questa casa, su un’epoca”. “Oggi tutti si prendono terribilmente sul serio meno valgono più si prendono sul serio”, sussurra la Vedova al “suo badante”, Cecchin, che in Una notte in Tunisia badava agli ultimi istanti di Craxi. A questo punto, contatto Trevisan.
Ci introduca nella parola ‘scandalo’. Ha senso questo termine nella narrativa attuale, le appartiene? Che cosa dà ‘scandalo’, oggi?
“Certo che ha senso, e mi appartiene pienamente. Lo scandalo è non tanto essere ‘politicamente scorretti’, atteggiamento che mi disgusta almeno quanto quello contrario, ma riuscire a non essere né l’uno né l’altro – ovvero insistere nel chiamare le cose col loro giusto nome”.
Che tipo di assoluto è possibile oggi, tramite la parola? Che cosa, ancora, tocca, di intoccabile, la parola scritta?
“Sull’assoluto non saprei rispondere; sulla seconda parte, anche se non si dovrebbe, rispondo con una domanda: che cosa non tocca?”.
Tra i morti, che scrittori legge; tra i vivi, riconosce dei ‘compagni di strada’, degli scrittori affini?
“Tra i morti leggo molto, ma solo memorie o lettere (mi è appena arrivato il quarto e ultimo volume delle lettere di Samuel Beckett, e ho da poco letto le lettere dalla Scandinavia della signora Mary Wollstonecraft); tra i vivi seguo Eyal Weizman (il suo ultimo, The Roundabout Revolution, è un interessante saggio sul ruolo delle rotatorie negli ultimi moti di piazza cinesi e poi arabi; sembra che le rotatorie abbiano sostituito le piazze, il che è interessante); poi seguo con interesse Mark Ravenhill e in generale la drammaturgia inglese, che sento affine”.
Perché scrive? Per indagare le proprie ferite? Per una forma di conferma? Perché non ne può fare a meno?
“Ormai da un bel po’ posso dire che scrivo per guadagnarmi da vivere; e tanto mi basta”.
Cosa sta scrivendo, ora?
“Al momento, sto pensando”.
Che tipo di rapporto c’è tra la sua scrittura in prosa e quella per la scena? Una cannibalizza l’altra o si autoalimentano allo stesso fuoco?
“Direi che una alimenta l’altra; con una sostanziale differenza: scrivere prosa mi deprime; scrivere per la scena mi alleggerisce l’animo”.
Che rapporto sente con la sua epoca? Specifico: che rapporto ha la sua scrittura con la storia, con il tempo presente? Lo scrittore simula il presente, giudica il presente, lo soffre o lo combatte?
“In senso artistico non credo di essere un contemporaneo – drammaturgicamente parlando, scrivo nel solco di una tradizione che credo non si sia mai interrotta; lo stesso per la prosa. Il presente lo subisco, come molti (o forse tutti), e cerco di sopravvivere il meglio possibile”.
A suo avviso, in che stato vive, oggi, la letteratura italiana? Sta bene, è in coma, risponde all’esigenza minima di testimoniare il mondo, l’uomo?
“A questa domanda non so rispondere – a rigore, non mi occupo di letteratura, italiana e non”.
*
Per gentile concessione dell’Associazione Riccione Teatro pubblichiamo un brandello da “Il Delirio del Particolare. Ein Kammerspiel”, con cui Vitaliano Trevisan ha vinto l’edizione numero 54 del Premio Riccione per il Teatro.
  Prima parte
  Aprile, pomeriggio
Grande soggiorno con vista sul lago; parete di vetro;
uliveto digradante; binocolo su treppiede
Penombra; tende a pacchetto completamente abbassate
Tutti i mobili sono coperti da teli bianchi
  VEDOVA (fuori scena) Faccia attenzione Cecchin
È la prima volta che viene qui
Non conosce questa casa
Si posizioni fuori asse rispetto alla serratura
Un delicato sistema di contrappesi
proprio sopra la sua testa Cecchin
Tutto a vista naturalmente
un tempo – chiave che gira nella toppa; lama di luce
Il più delle volte funziona perfettamente
Ha sempre funzionato perfettamente
a dire la verità
a parte una volta
Un piccolo difetto di lavorazione
Ricaduto sul colpevole
per così dire
Il fabbro Zaccaria ce la stava aprendo davanti tutto orgoglioso
e il contrappeso gli è caduto sulla testa
Pensavamo che fosse morto sul colpo
Lei capisce Cecchin non è bello avere un morto in casa prima ancora
di entrare in casa
E poi l’inchiesta
i sopralluoghi
il cantiere bloccato per mesi
  Vedova con bastone sorretta da Cecchin
entrano in casa, cioè in scena
  VEDOVA Per fortuna era solo stordito
  pausa
  VEDOVA Del resto
chi non fa non sbaglia
mio marito lo diceva sempre
un tempo
Chi non fa
non sbaglia un tempo
Quest’odore di muffa è insopportabile
Apra le finestre Cecchin
  Cecchin apre tende e finestre (con grande cautela)
  VEDOVA E stia in guardia
I contrappesi
Per chi non la conosce
questa casa è una trappola
Ed è sempre stata umida
anche da nuova
figurarsi ora
che è rimasta chiusa per anni
un tempo; esamina un preventivo
I migliori artigiani della tradizione veneta
Una somma astronomica naturalmente
Al giorno d’oggi sono diventati tutti megalomani
Si rende conto Cecchin
Decine di migliaia di euro per restaurare una
tomba dove non sarò sepolta
Glielo dissi da subito
Fai pure il tuo cimitero
ma il mio sepolcro rimarrà vuoto
Vicini anche nella morte
Fianco a fianco nell’arcosolio
Ah!
Non abbiamo mai dormito insieme da vivi
ho detto
non vedo perché dovremmo riposare insieme
dopo morti
In una catacomba
Mi immagina Cecchin
sepolta in quella catacomba
accanto a mio marito
per l’eternità
  CECCHIN …
  VEDOVA In quel sarcofago così finemente disegnato
così perversamente disegnato
con tutti quegli studenti di architettura che ti girano intorno continuamente
tutti i giorni
che fanno foto
e schizzi a mano libera
e ci misurano il sarcofago
e noi siamo dentro il sarcofago
Si immagina Cecchin
Dentro il sarcofago
Con tutti quegli estranei che le girano intorno
continuamente
A mio marito non bastava una tomba
o una cappella di famiglia
voleva un cimitero
che già allora era una cosa ridicola
un tempo
Che bella luce
L’avevo dimenticata questa luce
Che ore sono
  CECCHIN Le cinque e quattordici minuti
  VEDOVA E già è verso il tramonto
VEDOVA (al binocolo, che scopre personalmente)
La vede Cecchin
Quella villa con l’accesso al lago
quella scala che scende a zig-zag
scavata nel fianco della montagna
La vede
  CECCHIN A ore tredici Sì signora la vedo chiaramente
  VEDOVA Ci abitava un famoso attore americano
Feste grandiose
Fuochi artificiali
Gli anni settanta
Divertirsi era ancora possibile
un tempo
Sembra abbandonata da anni
pausa
VEDOVA Sono stanca Vorrei sedermi
Tags: Craxi Haber, Goffredo Parise, Italo Calvino, Letteratura, Premio Riccione, teatro, Vitaliano Trevisan, Works
L'articolo Vitaliano Trevisan: subisco il presente, sopravvivo, ma soprattutto, non sono un contemporaneo proviene da Pangea.
from pangea.news http://ift.tt/2A1PYcE
1 note · View note
poetadellaserra · 5 years ago
Text
Tumblr media
Ho un viavai
Di idee in testa
Se vuoi puoi essere
La sola che resta
151 notes · View notes
283sworld · 6 years ago
Text
42/365
' Cobain. Più pesante del cielo'.
Che libro è stato quello, penso l'unico ad aver inciso la mia memoria, in ambito letterario/musicale. Sarà che leggo poco, sarà che per me i libri son troppo statici, non mi emozionano, ho bisogno di movimento io. Ho bisogno della musica che mi faccia allenare, sorridere, ballare, ho bisogno di un film, ho bisogno di immagini che scorrono, non ho tempo di ricrearmele nella mente, dopo aver letto qualche pagina. A me piace scriverle le pagine, leggerle è per i sedentari, per gli eremiti e forse quando sento la necessità di scrivere, divengo anche io, un po' eremita. Se ho qualcosa da scrivere e perché forse ho vissuto, se ho qualcosa da leggere e perché forse ho bisogno di vivere parole che non mi appartengono ma che in un certo qualmodo mi sottraggono a un mondo che non mi capisce, ed è la finta necessità di trovare una soluzione, alla mia depressione, che mi spinge ad esser sedentario.
Non rinnegego la lettura, rinnegego me stesso per non saperla apprezzare, forse.
Tranne quella volta, 'Cobain, più pesante del cielo'. Pesante come il periodo di longeva solitudine, arricchita da molteplici notti bianche e fantasma di un amore adolescenziale perso. Ho apprezzato quel libro dopo averlo finito e l'ho amato dopo, grazie a una dea della quiete, che tanto quiete non è, se la si paragona al Mito di 'Medusa' . Mi ero completamente immerso nella wave anni 90, tra punk grunge rock e capelli da fricchettone, forse ci volevo essere in quegli anni, forse mi sarei anche visto un concerto di Kurt. Ma ciò che mi colpì di più di quella biografia... Fu la genuinità e verità che si respirava, nonostante il viavai di droghe in costante crescita. Ero preso, ero immerso negli anni di Axl e Curt, pensando che una volta uscito da quel mondo, mi sarei sentito meglio e meno solo, ma non fu così. Una volta uscito, finito il libro, mi resi ancor di più di quanto mi sentissi diverso e alienato da un mondo che mi aveva lasciato con qualche soldo bucato e una fisarmonica da poter suonare sotto un ponte, con una melodia in testa che cantavo alla luna ogni sera, pregandole di portarmi su con lei.
E poi bham! Quella genuinità e verità la trovai non in quel mondo, come speravo, ma in una persona. Arrivò come un fulmine a ciel sereno. Quella persona, quel fulmine, quella dea, non era una semplice raffigurazione della mia salvezza... Quella persona era il punk, la libertà, la genuinità, la verità e la bellezza che trovai in quel libro. Quella persona odorava come quelle pagine ed era quelle pagine. Quella persona era bella era dannatamente bella, era bella e dannata, e dannazione, io son sempre stato attratto da qualcosa che possa essere più bello del peccato. E lei lo era, era più bella del peccato, più di ogni peccato che il diavolo avesse inciso nella sua carriera. Non vi sto parlando del diavolo con corna e pelle rossa, ma del diavolo con serpenti al posto dei capelli e un sorriso che ti distraeva, mentre i suoi rettili ti divoravano il cuore e allo stesso tempo ti rendevano vivo, come solo un atroce dolore sa fare. L'avevo trovata, avevo trovato una dea che vestisse punk, avevo trovato una bambina con dei serpenti velenosi sul capo, avevo trovato il paradosso, avevo trovato l'introvabile.
E quell'introvabile è stato la vanificazione più potente del sesso e dell'amore.
Ho preferito dimenticare come si bacia qualcuno, piuttosto che baciare qualcun altro e dimenticare come baciavo te.
Non avevamo paura del mondo, eravamo io e te, Medusa, potevamo decidere, in qualsiasi momento, di tornare a casa spogliarci senza vergogna e farci quello che volevamo. Leccarci cio che volevamo. Toccarci ciò che volevamo. Vanificare ogni nostra singola goccia di sudore, cadute sui nostri corpi e asciugarcele, bloccare ogni tuo forte ansimo con un bacio che urlava ancor più della tua voce. Quei baci che sapevamo darci solo noi, quei baci che erano già sesso ancor prima di iniziare.
Se la mia Medusa non veste punk, non è la mia Medusa.
youtube
0 notes
ilsoleesistepertutti · 6 years ago
Text
Amarti è l’immenso per me
Fino a te
Ho aperto i miei occhi e vedo
Fino a te
Amarti è l'immenso per me
Anche se
In fondo io non ci credo
Penso che
Amarti è l'immenso per me
Cosa cerco non lo so
Ma so che adesso
Sei tutto ciò che trovo io
Fammi camminare lungo gli argini
Di una certezza
Calmami le rapide del cuore
Dammi una partenza per rispondermi
Di quanta notte c'è
Per raggiungere te
Fino a te
Raggiungerti in ogni senso
Fino a che
Amarti è l'immenso per me
E anche se qualche volta
So di esagerare un po'
Quando corro la mia vita
Che più forte non si può
Anche se la mia testa
È un viavai di fantasie
Troppo perse troppo mie
Posso farcela con te
Fino a te
Io voglio arrivarti dentro
Ora che
Le mani mi portano
Fino a te
Raggiungerti in ogni senso
Fino a che
Amarti è l'immenso per me
Solo per te sono questi versi ♥️D
0 notes
theadrianobusolin · 8 years ago
Text
“Hanno aggredito due agenti della polizia municipale. Li hanno assaliti perché volevano togliere delle lenzuola che occupavano il marciapiede”, racconta una commerciante. Comincia anche così una giornata al Vasto, il quartiere di Napoli incastrato tra piazza Garibaldi, il Centro direzionale e la zona di Porta Capuana. Le sue strade prendono il nome delle città italiane, ma ad occuparle c’è il mondo intero. Via Firenze, via Milano, via Bologna, via Torino, via Palermo, via Venezia, piazza Principe Umberto sono invase da immigrati. Tra coloro che vengono dai Paesi esteri, ci sono persone tranquille e oneste, che lavorano e rispettano il posto in cui hanno deciso di stabilirsi. Poi c’è l’altra parte, quella dei migranti che bivaccano, persi in quei luoghi diventati punto di riferimento per tutti gli stranieri presenti in città e nella sua provincia. Rimasti senza nulla, hanno fatto della strada la loro casa o il posto in cui trascorrere la giornata al di fuori dei centri di accoglienza. Alcuni girano a vuoto, a far nulla. Altri passano il tempo ad ubriacarsi. Poi ci sono quelli che delinquono. “Qui loro sono diventati i padroni” sostiene qualche residente esausto. Fino a un paio di anni fa si conviveva pacificamente. Poi il degrado, la violenza, gli episodi delinquenziali sono aumentati vertiginosamente. “Fino al 300 % negli ultimi 10 mesi”, è la stima di Vincenzo, gestore di un bar. Nel quartiere ci tengono a precisare che “non sono razzisti”, il problema è che non si sentono più al sicuro. Oggi la situazione è sfuggita di mano. Anche le forze di polizia presenti sul territorio subiscono aggressioni, di cui talvolta si preferisce non parlare. “Ho il video, ma mi hanno chiesto di non divulgarlo, per tutelarli e non delegittimare la loro figura”, dice una esercente che pochi giorni fa ha assistito a una scena di violenza contro due uomini della polizia municipale. Ciononostante, i caschi bianchi sono presenti sul territorio. Ci sono, si vedono, sia a piedi che in macchina. E continuano a fare il proprio lavoro in un contesto molto difficile da gestire. Gli abitanti e i commercianti, in questa zona molto popolosa a un passo dalla stazione centrale, si sentono prigionieri a casa loro. E lo urlano da mesi. A giugno scorso è nato il Comitato Quartiere Vasto. Oggi conta circa 780 membri. Tra gli iscritti ci sono anche degli immigrati. Nelle settimane scorse il gruppo si è reso promotore di una petizione con cui sta chiedendo più controlli al sindaco Luigi De Magistris, al prefetto di Napoli Carmela Pagano e ai presidi delle forze di polizia presenti sul territorio. Purtroppo, però, ad oggi non è cambiato nulla.I disagiPer i residenti uscire di casa significa rischiare ogni giorno di trovarsi nel bel mezzo di una rissa, o davanti a un folle che brandisce un coltello. Non sono rari i casi in cui le bottiglie di alcolici vuote diventano armi: le spaccano e usano i cocci di vetro per colpire gli avversari nel corso di zuffe, talvolta col cervello annebbiato dall’alcol. Affacciarsi alla finestra spesso significa assistere a scene di sesso all’aperto. La prostituzione sulla via pubblica prende il via alle 23. “Quando la sera rientro con i miei bimbi provo imbarazzo, mi trovo davanti delle prostitute che provano in ogni modo ad attirare l’attenzione dei passanti. Per entrare nel palazzo dobbiamo farci spazio tra loro e i venditori abusivi di prodotti rubati o scovati nell’immondizia. Ai miei figli non permetto più di mettere la testa fuori al balcone, perché da sopra assistiamo spesso a scene di sesso tra le macchine”, racconta Ciro. La sera i marciapiedi, poi, si trasformano in un dormitorio: cartoni, lenzuola e materassi diventano letti di fortuna per chi non ha un alloggio. Lo spaccio di droga, invece, è un’attività che non ha orari, va avanti 24 ore su 24 sotto gli occhi di tutti: i negozianti, i residenti, sanno spiegare nei dettagli tutti gli stratagemmi che usano i pusher per cedere le dosi. Gli schiamazzi sono all’ordine del giorno. La gente del quartiere riferisce anche della presenza di luoghi di culto abusivi, moschee sorte all’interno dei palazzi: “La mattina spesso ci svegliamo con i cori delle loro preghiere”, raccontano. Siamo riusciti a raggiungere uno degli stabili dove si riunirebbero i musulmani per la preghiera. Siamo entrati. Superato l’atrio, c’è uno scantinato esternamente fatiscente. Una moschea si troverebbe lì. Ma era tutto chiuso.[video 1438657]La disperazione degli immigrati accampati al VastoQuando si varca il confine del quartiere l’impressione è che si entri in un ghetto multietnico isolato dal resto della città, pur trovandosene al centro, al suo ingresso. Scattare foto e registrare video con un cellulare è complicato. “Che fai? Cosa hai filmato?”, chiede vis-à-vis con tono minaccioso un ragazzone del Gambia alto due metri. Sosta con un gruppo di coetanei africani all’angolo tra via Firenze e via Milano, uno dei tanti che si notano lungo il tragitto. “Devi chiedere il permesso per fare i video”, pretende un amico. Ne nasce un colloquio, in cui si raccontano. Un paio di loro hanno gli occhi persi nel vuoto: la marijuana li rende poco lucidi, l’odore dell’erba ce l’hanno impregnato addosso. Quasi tutti sono gambiani e dicono di dormire per strada. “Io sono da due anni e mezzo in Italia e da quando sono arrivato qui, vivo per strada”, afferma Sanusi, che riferisce di avere 25 anni. Gli altri gli fanno eco. Mosè, di tre anni più grande, spiega che “di notte beve per riuscire a prendere sonno a terra”. Mentre parlano delle condizioni disumane in cui campano, di lato qualcuno dal mucchio cede una dose di sostanze stupefacenti. È uno scambio fulmineo, che avviene di passaggio lungo quel tratto di marciapiede. “Voi spacciate droga?”. A questa domanda non rispondono. Sostengono di non conoscerne il significato. Il più piccolo, 18 anni, l’italiano lo parla bene. Dopo due anni passati in un centro di accoglienza in provincia di Napoli, anche lui ora non ha più un tetto sotto cui ripararsi. “Siamo stanchi”, dice Sanusi con i suoi occhi carichi di rabbia. “Quando chiamo i miei familiari gli dico che sto bene e loro si sentono tranquilli, ma io non ho nemmeno un posto dove riposare, non so che fare. Riesco a mangiare grazie agli amici del posto che di sera mi invitano a prendere un boccone”, spiega in inglese, provando a usare quelle poche parole in italiano che finora ha imparato. Intanto Notorious già sfatto dall’erba, si arrotola un’altra cartina. Dice di avere 21 anni e, senza un’occupazione, afferma di potersi permettere un’abitazione in piazza Carmine, dal lato opposto di piazza Garibaldi.La testimonianza di un conoscitore dello spaccio di droga al VastoChe quei ragazzi smercino sostanze stupefacenti, lo conferma anche un loro coetaneo napoletano che frequenta quel posto. Lui non li perde un attimo di vista. È un soggetto conosciuto nell’ambiente dello spaccio, reato per il quale rivela di aver passato qualche anno in carcere. “Ormai pure la camorra ci ha rinunciato a gestire gli immigrati. Loro non volevano piegarsi alle regole del sistema e un paio di anni fa gli spararono contro. Una raffica di colpi. Ma ciò non bastò ad intimorirli. Loro erano in trenta, dopo quell’agguato raddoppiarono”. Di quell’episodio ancora ci sono le tracce su una serranda abbassata. Secondo quanto svela: “La camorra si è scocciata di stargli dietro, ci ha rinunciato. Ha abbandonato il mercato della marijuana, di hashish, e eroina, che ormai controllano loro. Ora si concentra sulla cocaina e su affari più grossi”. Sostiene, poi, che “è un africano a rifornire di droga quegli immigrati che spacciano”.[gallery 1438523]Lo stato di anarchia e i problemi del commercioAl Vasto vige l’anarchia. “Qui i documenti si comprano come se andassi dal tabaccaio”, svela un libico che trova riparo in una tenda messa su, da qualche parte, in piazza Garibaldi. Sul dove i documenti si possano reperire illegalmente, la sua bocca resta cucita. Lungo il tragitto, tra lo spaccio di droga, i mercatini di rifiuti, i venditori ambulanti autorizzati e non, e il continuo viavai dei passanti, delle donne africane vendono prodotti alimentari in carretti fermi al sole. Al Vasto si possono aprire negozi, trattorie senza alcun rispetto per le regole. Girando tra i vicoli ci si imbatte in un ristorante africano completamente abusivo. Le insegne dei negozi parlano ormai in arabo. Le condizioni igienico-sanitarie di alcuni locali commerciali sono evidentemente precarie. Ci sono internet point ovunque. Il commercio è prevalentemente in mano agli immigrati, soprattutto africani e cinesi. Sono pochi gli esercizi commerciali gestiti da italiani che ancora resistono, si tratta di quelli storici, per i quali gli affari sono notevolmente calati. Qualcuno ha annunciato la chiusura dopo decenni di attività. “A breve penso che chiuderemo, non ce la facciamo più”, ha dichiarato la titolare di un panificio in via Firenze. Presente dal 1949 al Vasto, Renato, invece, è un parrucchiere in pensione. Il figlio ha ereditato il suo salone, con ben 51 anni di storia alle spalle: “La gente che prima si spostava per arrivare da me, oggi, con tutto il rispetto che ha per Renato, non viene più, perché ha paura”. I direttori di ristoranti e alberghi il cui ingresso affaccia su piazza Garibaldi assistono continuamente a scippi e devono fronteggiare i reclami dei clienti per i numerosi disagi che ne derivano. “La sera – racconta il responsabile di una pizzeria – sono costretto ad accompagnare i clienti negli alberghi. Alle 23 chiudiamo perché non entra più nessuno. La gente ha paura di venire a mangiare qui”.La voce degli immigrati perbeneDel degrado in cui versa la zona si lamentano gli stessi immigrati, quelli perbene, per i quali Napoli è diventata casa loro, e la rispettano. Paolo – il suo vero nome è Mamad – è un senegalese arrivato in città 26 anni fa. È il capo del mercatino multietnico di via Bologna. È un uomo stimato da tutti tra i palazzoni del Vasto. Dicono che faccia anche da paciere: interviene per sedare risse, riuscendo a riportare tutto alla calma. “Io non voglio vedere né persone soffrire, né persone che fanno cose brutte davanti ai cittadini italiani. Si ubriacano, sporcano, accoltellano qualcuno: questo non mi piace. Come rispetto il mio Paese, devo rispettare anche il paese italiano dove vivo”, afferma Paolo. Riconoscendo i problemi di cui soffre il Vasto in questo periodo, si schiera con il resto dei residenti: “Questo è il mio quartiere, io sono da 26 anni qua. Il giorno in cui loro usciranno per manifestare questi problemi io sarò davanti, perché io vivo qua, questa è la mia casa. Per me i cittadini hanno ragione: si sta esagerando”. Per le condizioni in cui è piombata quell’area, Mamad punta il dito contro i gambiani: “Sono nuovi arrivati e non hanno un presidente che gli spieghi come si devono comportare. Sono loro la causa di tutto il casino che c’è. Io ho vergogna quando vedo delle persone comportarsi così male. È tutta colpa del Governo, li lascia abbandonati in mezzo alla strada. Perché non viene a controllare i centri per gli immigrati che stanno qua? Alcuni abitanti attaccano il sindaco per questi problemi, ma lui ha fatto cose buone per Napoli. Per me devono andare dalla Prefettura”. La comunità senegalese risulta ben integrata a Napoli, dove è presente da circa 30 anni. A rappresentarla oggi c’è Omar Ndiaye El Hadej, mediatore culturale della onlus Less, per il quale “Il quartiere vive un disagio. Qua ci sono alberghi pieni di ragazzi abbandonati, parcheggiati. Sono persone che devono avere al minimo un’accoglienza, che non esiste”. Poi accusa: “Il problema non sono gli immigrati, non sono i cittadini, ma il Governo italiano, che non ha la capacità di gestire l’accoglienza. Butta denaro nelle mani di persone che non sono quelle che devono gestire il fenomeno degli immigrati, come i camorristi. Perché non si parla degli alberghi che prendono un sacco di soldi e non hanno nemmeno un mediatore culturale? ”. Si sofferma poi sullo spaccio di sostanze stupefacenti. Lui sostiene che dietro i pusher africani ci siano degli italiani. Mentre Omar parla, un bambino di etnia rom, alto poco più di un metro, prova ad aprire uno zaino, incurante della folla. Gira e rigira intorno a noi con la furbizia di un uomo di 30 anni e la semplicità di un piccolo della sua età. La sorellina, intanto, cerca le offerte tra le bancarelle del mercato di via Bologna.L'abbandono delle istituzioniFurti, scippi e rapine rappresentano un altro problema che colpisce la zona. Gli autori non hanno colori. Spesso sono tossicodipendenti. “Sono italiani, algerini, persone di ogni nazionalità, non è una questione di razza – dice Francesco, componente del direttivo del Comitato Quartiere Vasto – Però questo problema è aumentato con l’aumento di questi ragazzi immigrati. Noi siamo disposti ad ospitarli, ma non c’è controllo. Loro sono stati abbandonati dalle onlus. Sono stati abbandonati dal Prefetto, come lo siamo stati anche noi cittadini. Noi non ci dobbiamo occupare della sicurezza del nostro quartiere, e invece lo stiamo facendo. Persone anziane non escono più di casa. La domenica a messa non va più nessuno, il parroco a volte non apre nemmeno la chiesa in via Milano, e qualche volta è stato costretto a fermare la celebrazione della funzione religiosa per uscire a chiedere di fare silenzio agli extracomunitari che bevono fuori. È stato minacciato, lui ha paura. Non denuncia, perché qui c’è paura. Le istituzioni non ci aiutano». Al Vasto si sentono soli, tutti. I residenti, sia napoletani di nascita che di adozione, i commercianti, gli immigrati disperati che sono finiti a delinquere e che non riescono a trovare una via d’uscita al di fuori della strada. Sono tutti vittime di un sistema che non funziona. Il ripristino della sicurezza e della legalità è quanto invocano per ricominciare a vivere serenamente il quartiere. Ma anche dare una possibilità a quei giovani arrivati da lontano, molti dei quali oggi per lo Stato sono solo dei fantasmi.
Napoli, la casbah nel centro della città “Hanno aggredito due agenti della polizia municipale. Li hanno assaliti perché volevano togliere delle lenzuola che occupavano il marciapiede”, racconta una commerciante.
0 notes
testimusicali-blog · 8 years ago
Text
ZUCCHERO - SPICINFRIN BOY
ZUCCHERO – SPICINFRIN BOY
ANNO: 2010 ALBUM: Chocabeck DURATA: 3:55 minuti
  Flying angel in the sky
Cosa vedi, cosa sai
Flying angel in the sky
Vedo un Pino tra i rosai
Nel tramonto bello assai
E un bambino, che ha gli occhi suoi
  Ancora non ti ho persa
Stai soltanto dormendo nella mia testa, oh mia
  Flying angel in the sky
Non ci credi, capirai
Vedo i giorni, gli anni tuoi
Visi persi nel viavai
Flying angel…
View On WordPress
0 notes
federico-blasi-blog · 8 years ago
Text
ZUCCHERO - SPICINFRIN BOY
ZUCCHERO – SPICINFRIN BOY
ANNO: 2010 ALBUM: Chocabeck DURATA: 3:55 minuti   Flying angel in the sky Cosa vedi, cosa sai Flying angel in the sky Vedo un Pino tra i rosai Nel tramonto bello assai E un bambino, che ha gli occhi suoi   Ancora non ti ho persa Stai soltanto dormendo nella mia testa, oh mia   Flying angel in the sky Non ci credi, capirai Vedo i giorni, gli anni tuoi Visi persi nel viavai Flying angel in the sky…
View On WordPress
0 notes