#fumetti liberi dal male
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riflussi · 1 year ago
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"Fumetti liberi dal male" - L. Califano
Ieri sono andata a un piccolo festival della letteratura e niente, ho comprato due cose perché, be', non potevo di certo lasciare tutto il mio stipendio in questo posto (anche se avrei voluto tantissimo). Ho deciso quindi di supportare un autore che ha autopubblicato il suo libro e un'artista che ha creato delle bellissime tote bag (io ancora non ho capito come si scrive tote/tot, bo).
Comunque, Fumetti liberi dal male è un po' una storia, un po' un'autobiografia, un po' una denuncia, un po' un manifesto queer femminista. Si legge velocemente, forse troppo, e nonostante ciò lascia il lettore con molti pensieri e porta a una riflessione profonda. Io, di certo, vorrò approfondire alcuni aspetti che sono stati toccati dalle "strisce" (dai riquadri direi). Inutile dire poi che i disegni sono adorabili, è uno stile che si addice perfettamente al tipo di racconto e non stancano (cosa che per me è fondamentale).
E niente, molto carino, sono contenta di averlo acquistato. Sono felice di andare ai festival e sono felice di aver incontrato persone bellissime.
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queerographies · 8 months ago
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[Fumetti liberi dal male][Lucas Califano]
Fumetti liberi dal male, scritto da Lucas Califano, esplora le esperienze personali e la lotta di Luke contro le discriminazioni intersezionali quotidiane. Lucas Califano si esprime tramite l'illustrazione con l'obiettivo di veicolare emozioni e aiutare g
La lotta quotidiana di Luke contro le discriminazioni nella raccolta Fumetti Liberi dal Male Titolo: Fumetti liberi dal maleScritto da: Lucas CalifanoEdito da: YoucanprintAnno: 2024Pagine: 76ISBN: 9791221472349 La sinossi di Fumetti liberi dal male di Lucas Califano Luke si sentiva fuori dal mondo. Ma se fosse il mondo a non essere costruito per lui? Incontrerà molte persone durante la vita…
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spettriedemoni · 3 years ago
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Suggerisci un libro per decadi
Il gioco che ha ideato quella mente vulcanica di @neltempodiuncaffe è il seguente: suggerisci tre libri per ogni decade, ovvero qual è, secondo te, il libro che va letto ai 20, quello ai 30 e quello a 40 anni.
Non è stato facilissimo scegliere, non tanto perché chissà quanti libri io abbia letto quanto per la difficoltà a collocarli temporalmente. Sono giunto al seguente verdetto.
A chi ha 20 anni suggerirei di leggere Molto Forte Incredibilmente Vicino di Jonathan Safran Foer. Un romanzo di sentimenti che trovo molto toccante e che arriva dritto al cuore, per quel che mi riguarda. Con l'attentato dell'11 settembre sullo sfondo, un bambino prova a mantenere un legame con il padre disperso nel crollo delle Twin Towers e questo suo pervicace tentativo di averlo vicino in qualche modo ferisce e intenerisce. Trovo appropriato leggerlo a questa età perché si è usciti ormai dall'adolescenza e si entra in un periodo in cui ci si rende conto che certe cose vanno lasciate andare, che arriva un momento in cui si deve crescere, che basta un attimo perché la vita cambi completamente e allora non resta che adattarsi. Mi piace vederla così.
A chi ha 30 anni suggerisco It di Stephen King. Un romanzo horror certo, ma che dice molto di più sull'uomo e sul suo cammino su questo "atomo opaco del male" come definì il mondo Giovanni Pascoli. Meglio leggere questo romanzo quando si è trentenni perché a 20 si rischia di apprezzarne solo il lato horror che è interessante e divertente ma è solo metà del libro. In fondo il mostro al centro della storia è solo un escamotage per parlare dei veri mostri che abbiamo dentro ognuno di noi, quegli spettri che ci portiamo dal passato e che si trasformano a volte in demoni quando raggiungiamo l'età adulta. Se una morale vogliamo trovare in questa storia magistralmente raccontata direi che è questa: prima o poi devi tornare indietro e affrontare il mostro da cui stai scappando. Potresti scoprire che basta non credere in lui per sconfiggerlo.
A chi ha 40 anni suggerisco di leggere la trilogia di Vincenzo Malinconico ossia i tre romanzi di Diego De Silva: Non Avevo Capito Niente, Mia Suocera Beve e Sono Contrario alle Emozioni. Sono tutti e tre divertenti, però io ho preferito su tutti il secondo. Il protagonista è, come suggerisce il suo cognome, una persona malinconica, un avvocato di "insuccesso", fallibile e forse pure un bel po' fallito ma che riesce a tirar fuori perle di saggezza insospettabili grazie al suo essere così disincantato e disilluso dalla vita. Il protagonista di questi libri è una persona che narra le sue vicissitudini per prendersi, come dice lui, la rivincita sulle parole perché non tutti abbiamo la risposta pronta come gli eroi positivi dei romanzi e dei fumetti. Alla maggior parte di noi la risposta giusta arriva ore o giorni dopo una discussione perché le persone normali hanno mille dubbi.
Ho dovuto tenere fuori molti altri romanzi degnissimi come Kafka sulla Spiaggia e Norwegian Wood di Murakami, oppure Survivor e Invisible Monsters di Chuck Palahniuk, oppure Qualcuno con Cui Correre e Che tu Sia Per Me il Coltello di David Grossman (quest'ultimo lo ha già messo @myorizuru e lo sapevo lo avrebbe fatto, per cui va bene così) ma le decadi erano quelle per cui ho dovuto limitarmi (magari la prossima volta facciamo lustri, ok?).
Ho tenuto fuori volutamente i fumetti perché in fondo sono altro, qualcosa di diverso dai libri ma con pari dignità spesso. Avrei suggerito comunque Maus di Spiegelman su tutti e Una Ballata del Mare Salato di Hugo Pratt.
Arrivo ai tumbleri da taggare e poiché molti sono stati già stati taggati mi auguro di non fare un secondo tag nominando @lady--vixen, @surfer-osa, @darknya, @leonoraddio, @goolden (di cui credo di indovinare almeno un titolo) e the last but not the least colei che ritengo la massima esperta di libri (rullo di tamburi, please): @morganadiavalon.
Naturalmente se vi va di farlo, siete liberi di declinare o ignorare la proposta ma sappiate che vi scateno le rappresaglie se non lo fate.
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fishfingers--custard · 4 years ago
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Il fumetto seriale giapponese, per quanto seriale, resta un lavoro affidato ad un singolo autore che (con l’aiuto o meno di assistenti) tieni in piedi una produzione che, di media, si aggira attorno alle venti pagine settimanali. Questo è il ritmo che devono tenere i mangaka che vogliono farcela, i mangaka che hanno una serie di successo che però deve affermarsi sul serio e, spesso, anche i mangaka di grande successo, che vengono pressati dalle case editrici nel continuare a realizzare storie che permetteranno agli editori di fare sempre più soldi. Sono pochissimi i mangaka che, arrivati ad un certo livello di successo e indipendenza economica, riescono a sfilarsi da questo meccanismo. Quelli che ci riescono, qualche volta, si salvano la vita. Qualche volta, invece, no. Qui di seguito le dichiarazioni di Miura nel corso degli anni, messe come note ai suoi fumetti. Quel Miura che era “uno stronzo” perché non finiva Berserk è morto per una dissezione aortica.
“Mi è venuta la febbre a 40. Ripensandoci, ho avuto solo due giorni liberi quest'anno. (1993)
Ho perso 5 chili senza fare niente. Mi chiedo perché.” (1993)
“Negli ultimi due mesi, ho dormito in media meno di quattro ore a notte.” (1993)
“Compirò 27 anni in luglio. Guardando indietro, sono stati 27 anni di fumetti. È questo che voglio?”(1993)
“Da quando ho traslocato, le mie ore di sonno sono state meno di quattro. “(1994)
“È lo stesso ogni anno, devo lavorare a Natale e Capodanno. Vorrei festeggiare, una volta tanto.”(1994)
“Ho avuto un giorno libero per la prima volta in un mese e mezzo e quando sono uscito, ho avuto un colpo di calore.” (1995)
“Ho comprato scarpe e vestiti nuovi per Capodanno. Ho solo un paio di scarpe da ginnastica.” (1996)
“Sono stato a Okinawa per le mie prime vacanze da mangaka e per i primi due giorni e mezzo sono stato male per un colpo di calore.”(1998)
“Nell'ultimo mese e mezzo, sono uscito due ore per cenare in un locale.”(2001)
“Se non vedo gente per tanto tempo, la mia bocca non funziona più come si deve.” (2002)
“I miei giorni liberi sono una mezza giornata ogni due mesi. Non faccio due giorni di pausa consecutivi da quattro anni. Mi sto stancando.”(2004)
“Ho avuto un altro collasso per superlavoro.”(2005)“I miei trent'anni stanno per finire. La mia vita è un casino, fatta solo di manga. Ma non mi può essere restituita, quindi vado avanti! Starò chiuso in casa anche quest'anno.” (2006)
“Dopo tutto, non starò chiuso in casa, perché mi sento solo. “(2006)
“È da una settimana che non riesco a uscire e la cioccolata è diventata un alimento prezioso.” (2006)
“Due terzi del mio corpo sono fatti di barrette energetiche. Vuol dire che Berserk è sponsorizzato per due terzi dalla ditta produttrice?” (2009)
“Non sono riuscito a vedere i ciliegi in fiore dal vivo neanche quest'anno.” (2011)
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Autore: Roberto Recchioni
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levysoft · 6 years ago
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The dream job
“Ogni lettore, quando legge, legge se stesso”. Questo lo diceva Marcel Proust e ce ne rendiamo conto ogni volta che apriamo un libro o leggiamo un articolo. Persi in una storia, pagina dopo pagina, pensiamo che quelle parole parlino proprio a noi e vogliano dirci qualcosa.
A volte a "parlarci", a catturare in punta di piedi la nostra attenzione, può essere un breve racconto. Qualcosa che doveva essere una piccola pausa dopo il lavoro, letto così, di sfuggita, tra una mail e l'altra, ma che ha il potere di farci riflettere tutto il giorno, tutta la settimana o un mese intero.
Racconti del genere, potete trovarli, per esempio sul "The New Yorker", il magazine statunitense che è anche online, molto attento alla narrativa contemporanea.
È strano, ma spesso le risposte che aspettavamo da un po', arrivano quando ormai ci avevamo rinunciato, un po' come il lavoro dei sogni.
Probabilmente, il lavoro è proprio l'argomento più gettonato ai pranzi in famiglia e alle rimpatriate scolastiche. Croce e delizia davanti ad un caffè con un'amica. Motivo di esodo della maggior parte dei giovani. Parametro di giudizio per inquadrare qualcuno.
Quante volte capita di essere giudicati (e di giudicare) in base al lavoro che svolgiamo ogni giorno? Conosciamo una persona e la prima domanda che ci pone riguarda il nostro lavoro. È più forte di noi, vogliamo inquadrare subito chi abbiamo davanti, pretendiamo di conoscere qualcuno attraverso quello che fa e non per quello che è.
Il lavoro che facciamo, definisce ancora chi siamo?
Dicevamo, le risposte che attendevamo con impazienza arrivano quando ci avevamo ormai rinunciato da tempo, ma quando poi finalmente arrivano ci mostrano chiaramente il quadro della situazione.
Il lavoro che fai, la persona che sei
Una serata tranquilla, dopo una giornata interminabile, finalmente comincia. Sorseggiamo, per inerzia, l'ennesimo caffè, sgranocchiamo dei biscotti senza glutine, senza lattosio, senza voglia. Le parole sullo schermo scorrono veloci, un'immagine cattura il nostro sguardo, ci avviciniamo al pc.
Leggiamo con attenzione il titolo del racconto:  " Il lavoro che fai, la persona che sei". Continuiamo a leggere, tutto, fino in fondo. Restiamo immobili.
Smettiamo di sgranocchiare gli insipidi biscotti.
Toni Morrison è una scrittrice statunitense e una sera decide di raccontarci una storia. Parte da qualcosa di intimo, personale, un ricordo. Ci racconta di una bambina povera, che vive in un periodo di grande instabilità per lei, per la sua famiglia e per l'umanità in generale. Il periodo della seconda guerra mondiale. Una ragazzina che deve imparare presto ad essere più grande dell'età che ha, perché c'è la guerra e tutti devono dare una mano, anche i bambini.
Lavora, dopo la scuola, per una famiglia molto diversa dalla sua, in una casa e in un quartiere differenti da tutto ciò a cui è abituata. La sua realtà è quella che, in certi versi, consociamo anche noi. Precaria, incerta. La casa in cui va a svolgere le pulizie, invece, è accogliente, piena di comodità. Ne è, inizialmente, affascinata. Il lavoro le dà soddisfazione. Non è più una bambina qualunque. Può comprare i fumetti, le caramelle e tante altre cose, con quei 2 dollari. Ma non solo. Può contribuire alle piccole spese quotidiane.
Lei non è come quei bambini delle favole, abbandonati nel bosco perché visti come "bocche da sfamare". Ha un ruolo nella sua famiglia, un ruolo nella società. L'infanzia è finita, ed è bello.
Il lavoro aumenta e lei diventa sempre più brava, ma qualcosa comincia ad andare storto. Inizia a barattare parte della sua paga per dei vestiti usati. Per una bambina che staa crescendo così velocemente, iniziare a collezionare abiti, rispetto ai due soliti e noiosi vestiti, è meraviglioso. Ma la madre lo nota e la rimprovera, accusandola di lavorare per ottenere in cambio degli scarti.
Una lezione che le fa aprire gli occhi e capire che non deve accettare compromessi da qualcuno che la paga in cambio di un lavoro svolto duramente. Ma certamente, non è facile, a volte si sente in dovere di mostrarsi disponibile per paura di perdere il proprio lavoro.
Il disagio ormai è forte e la piccola lavoratrice si sente alle strette. Non vuole parlarne con la madre, perché non vuole sentirsi di nuovo una bambina e tornare indietro. Un giorno però, qualcosa succede. Si trova in cucina con suo padre e tutto viene fuori. È più forte di lei. Si lamenta della sua situazione. Suo padre ascolta attentamente ogni parola. Non un minimo cenno di comprensione nei sui occhi, né di biasimo. Non le mostra una via di fuga, ma le mostra la cosa migliore che una persona dovrebbe avere, nel momento del bisogno, una soluzione. Le sue parole sono chiare, lapidarie: “Ascolta, tu non vivi lì. Vivi qui. Con la tua gente. Vai a lavorare. Prendi i tuoi soldi. E torna a casa”.
Possono sembrare parole dure, possono sembrare svilenti, ma sono la risposta che lei attende da tempo e che, in fondo, attende ognuno di noi quando è posto di fronte a un bivio. Non una via di fuga, ma la soluzione.
Come finisce questa storia? La bambina fa sue quelle parole e quello che capisce e tutto ciò che non dovremmo mai dimenticare sul nostro lavoro. Perché il nostro lavoro non dovrebbe definirci totalmente.
1. Qualsiasi sia il lavoro che fai, fallo bene, non per il tuo capo, ma per te stesso
Nel momento in cui la nostra giovane, instancabile ape operaia migliora nel suo lavoro, mostra di essere all'altezza della situazione, svolgendo anche i lavori più faticosi alla perfezione. La proprietaria di casa, ossia il capo, avanza altre richieste, barattando, addirittura, la paga con dei vestiti usati.
Ha sfruttato una sua debolezza, la vanità di una bambina che non ha mai avuto nulla, e che, improvvisamente, può comprare tutto quello che ha sempre desiderato.
Il lavoro nobilita l'uomo e la donna, ma non dovrebbe renderli schiavi dei propri impulsi e il datore di lavoro non dovrebbe mai approfittarsene.
Il lavoro va rispettato, non solo perché ci permette di esaudire i nostri bisogni, ma perché è qualcosa fatto da noi, per noi, prima di tutto. Un lavoro fatto bene appaga tutte le ore, le giornate e gli anni di studio, di gavetta, di sacrifici perpetuati da noi stessi.
Se non lo facciamo per noi, se non ci fa sentire liberi, ma succubi, allora è il caso di porsi le domande giuste e cambiare rotta.
2. Sei tu a fare il lavoro, non viceversa
Siamo onesti, ci hanno inculcato da bambini dei concetti sbagliati. “Prima il dovere, poi il piacere”, ossia, lavora e poi divertiti. Tradotto, il lavoro è noioso, è faticoso.
Oppure “Fai quello che ami e non lavorerai un solo giorno della tua vita”. Tutto questo è riduttivo. Sembra quasi che “ lavorare ” sia la cosa più orribile del mondo e che per rendere piacevole un mestiere, sia necessario amarlo per forza. E inoltre amare un lavoro non vuol dire creare necessariamente un valore per se stessi e per la società.
Semplicemente non dovremmo sottovalutare mai che siamo noi a fare il nostro lavoro e non viceversa, siamo noi a metterci la forza, la voglia e la competenza. Potremmo amare il nostro lavoro e farlo male e allora sarebbe tutto inutile.
3. La vita reale è con noi, la tua famiglia
Le persone che non riescono mai a staccarsi dal proprio lavoro, sono quelle che lo amano a dismisura o si sono così identificate in esso tanto da annullarsi definitivamente? Amore e ossessione, la linea di confine può diventare sottile, a volte invisibile. La necessità di lavorare senza mai smettere, da cosa nasce? Ansia da prestazione? A volte è paura, tanta. Rifugiarsi nelle scartoffie invece che tra le braccia della propria famiglia, è evadere dalla realtà.
Fuggire dal contatto umano perché la pratica non è stata ancora archiviata o il progetto non è pronto, non sarà mai la soluzione. Fermiamoci, un bel respiro e ripartiamo.Restiamo umani. Non dovremmo mai scegliere tra lavoro e famiglia.
Lo stesso Jeff Bezos, CEO di Amazon, crede fortemente che la vita personale e quella lavorativa non dovrebbero essere separate, ma integrate tra loro. Devono collaborare insieme, altrimenti si crea un continuo contrasto.
4. Non sei il lavoro che fai, ma la persona che sei
Charles Bukowski, probabilmente uno degli scrittori più letti e amati da intere generazioni, una volta disse: “Avevo solo due scelte, quella di restare all'ufficio postale e impazzire, o quella di uscire dall'ufficio postale, scrivere e morire di fame. Ho deciso di morire di fame”.
Qui arriviamo alla risposta che la bambina del racconto e noi, giovani lavoratori, indecisi se vivere per lavorare o lavorare per vivere, stiamo cercando, dai tempi della fine della scuola.
Non siamo il lavoro che facciamo, ma la persona che siamo. Non è un lavoro a definirci, a murarci in uno stereotipo vivente. Siamo noi a scegliere di raccontarci attraverso le nostre passioni e i nostri sogni.
Tu Non sei il tuo lavoro. Non sei la quantità di soldi che hai in banca. Non sei la macchina che guidi. Né il contenuto del tuo portafogli. Non sei i tuoi vestiti di marca - Fight Club
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in-the-uncertain-hour · 6 years ago
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Certo, i cinghiali causano danni all’agricoltura, i barboni al decoro cittadino. Tutto il problema sta qui, nell’avere qualcosa da difendere, di cui preoccuparsi: il denaro, l’ordine delle cose, la propria vita. Questa è la radice di ogni male, per questo si uccide, si opprime, si attua la forza. Invece la santità è esattamente non avere più nulla, ridere in faccia al ladro, al funerale che passa, al plotone d’esecuzione. Questo non ci hanno detto, che santità e libertà sono la stessa cosa, e nessuna delle due è possibile. 
E poi, ti ricordi dei miei bislacchi piani per eliminare il dolore dal mondo, architetture da cattivo dei fumetti, ma buono. Sì, ecco, dovremmo sterilizzare tutti gli animali carnivori, ovvio, togliere i figli alle madri, trascendere i sentimenti, ecco, dovremmo credere solo negli assoluti. Al diavolo, dovremmo bruciare i libri. Morire, no, non morire: essere morti, vivere essendo morti. E mi dicevi, cosa faremo del porcospino? Guarda il suo muso.
Tu eri il principe Myskin, io ero Lenin. Perché, dopotutto, soffrivamo insieme di questa malattia, questa pretesa di salvare il mondo, la malattia che infine ci ha spezzato. Ma quale mondo? Tu dicevi questo, io dicevo un altro, irriconoscibile, fabbricato nuovamente a partire dai più minuscoli atomi di cenere. E i santi, loro abitano un mondo già salvo.
Non avere niente ed essere liberi. Oh, il denaro, l’ordine delle cose, persino la mia vita, quella è una faccenda facile. Ma ho ancora te, anche adesso, come si ha un colore degli occhi, una voce, un osso cicatrizzato, qualcosa di inseparabile dalla mia identità. E si potrebbe descrivermi attraverso di te, così, come un elenco di generalità: ci sarebbe ovunque il tuo nome ripetuto in molteplice copia, poi gli scarabocchi del mio pensiero, solo poche righe bianche per gli attimi in cui il cielo offuscava questo disperato sentimento di mancanza.
#s.
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yoonsuin · 5 years ago
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La Gigantesca Barba Che È Male
“Per quanto tempo hai intenzione di lasciare il vostro barba ottenere?” Mi sono chiesto spesso. Non ho una risposta. “Voglio solo vedere cosa si può fare,” a volte mi dico che è vero, suppongo; sto ancora vedendo cosa si può fare, e io non sono sicuro di quello che soglia. I motivi per la crescita della vostra barba sono proprio. Forse hai sempre avuto uno, o forse davvero sono solo a seguito di “tendenza” come beardsmen sono così spesso accusato ultimamente. Indipendentemente da ciò, hai le tue ragioni e i tuoi crescita della barba è la vostra scelta. Ma se invece non lo fosse? Che cosa succede se, invece di scegliere la barba, la barba scelto voi? Attenzione: “non ho scelto io la barba la vita; la barba vita mi ha scelto” non è mai una valida giustificazione, quindi si prega di non utilizzare–a meno che non si sono Dave di Stephen Collins’ graphic novel La Gigantesca Barba Che È Male.
Vincitore della prima edizione di 9 Art Award per il 2013 e un recente New York Times Best Seller, La Gigantesca Barba Che È Male racconta la storia di Dave e la sua barba. Dave vive sull'isola di Qui. La sua esistenza, insieme agli altri cittadini di Qui, vive e sostenuta dalla perfezione e ordine: case perfette perfette strade; vagamente importante lavoro su dati grafici, di routine, e la prevedibilità; completamente rasato facce. Questa perfezione è una forza che tiene qualcosa a bada: il caos e l'ignoto di Lì. Ma il disordine di trovare un modo attraverso, e che il gateway è Dave volto. Cresce la barba prolifico, colossale, rasoio a prova di metafisica, di cultura, di spostamento di barba. Dire molto di più, avrebbe attraversato il confine con spoiler territorio.
Quello che posso dirvi, però, è che questo libro è bello. Stephen Collins è un pluripremiato illustratore e fumettista, e La Gigantesca Barba Che È Male è una forte prova della sua arte. Attraverso una scala di grigi spettro, Collins offre illustrazioni che sono divertente, ma nel profondo dell'ombra e l'umore quando necessario, una sorta di “fumetto noir” che ricorda di Tim Burton, ma in nessun modo un'imitazione. La soffice come una nuvola bianchi e grigi giustapposti il profondo e fibroso neri di arrivo, barba dà le illustrazioni di una texture ricca di qualità che è spesso bella. Mi sono trovato in pausa spesso nel corso della storia per portare il lavoro a un soffio dal mio naso per esaminare la precisa hashing e sorprendentemente i dettagli intricati. Ci sono molti fotogrammi e pieno spread che non esiterei a bloccarsi sul mio muro. A differenza di altri romanzi grafici che ho vissuto, quello che mi piace di Collins è il lavoro di integrazione del testo in arte. Il tradizionale discorso di bolle e altamente stilizzato testo del mainstream graphic novel (o “fumetti”, se si preferisce) spesso può essere difficile o addirittura una distrazione di intrusione, prendendo un lettore di focus lontano dall'arte. Il testo di Collins’ di lavoro, tuttavia, è sottile e minimale, che serve per tirare e diretta attenzione alle illustrazioni–in cui la storia è veramente detto.
La Gigantesca Barba Che È Male possiede il divertimento comfort e la fantasia di una favola, mentre portano la tematica gravitas della grande letteratura. Non è veramente una barba, né di male. È una meditazione sull'imperfezione della perfezione e una riflessione sulla solitudine e la solitudine. È sulle nostre paure, la paura di cambiare e di individualismo. Si tratta di circa l'inevitabilità del cambiamento portato dalla necessità di espressione. La Gigantesca Barba Che È Male, più che altro, è di circa accettazione. Nei primi giorni di Dave crescita della barba, vuole sapere come–perché?–come le persone spesso fare quando cambiamento li sceglie. “E ' la legge delle cose, Dave,” ha detto, “è soppressa...deve essere espressa”. Che è il cuore di ciò che significa essere un beardsman, non è vero? La barba, qualunque siano le vostre ragioni personali sono per la coltivazione, è un'espressione del tuo personaggio. E se non ho espresso abbastanza chiaramente: Avete bisogno di questo libro in libreria.
Circa l'AutoreCresciuto sulla riva di un fiume tra le montagne del North Carolina, Benjamin Cutler è un insegnante, lettore, scrittore, escursionista, rafting guida, pescatore con la mosca, il marito e padre. Egli gode inoltre di sottoporre i suoi figli e gli studenti per la sua amatoriale riff di armonica. Si può leggere di più del suo lavoro al ABookishBum.wordpress.com e sentitevi liberi di contatto su Twitter: @Bookish_Bum.
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incontripiccanti-blog · 6 years ago
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Non sono masochista, ma…
(Cleis Ende)
Se c’è una cosa che Anna non sopporta, è il dolore. Eppure potrebbe scoprire che a volte non è così male…
I miei piedi nudi affondano nel tappeto. Le librerie a sinistra raggiungono il soffitto e incombono con i loro scaffali traboccanti fumetti, libri e paccottiglia. Arrivano fino in fondo al corridoio, dove si bloccano per lasciare spazio a una porta.
Lui la apre e mi fa cenno con una mano di entrare.
«Prego, madame.» Sorride e mi segue con lo sguardo.
Entro. La porta si chiude.
Le pareti a sinistra e a destra sono coperte da altre librerie, tutte piene. Di fronte a me una finestra si affaccia sulle vie di Milano e sotto, in piena luce, c’è una scrivania con un computer e una sedia da ufficio.  
Una stanza normale, come ti aspetteresti fosse quella di una persona normale. Che cosa pensavo di trovare? Un dungeon con le pareti nere e catene che pendono dal soffitto? Oppure una stanza dei giochi alla Cinquanta Sfumature?
Faccio qualche passo in avanti, la testa stretta tra le spalle. Mi raddrizzo: schiena dritta, ha detto.
Gli angoli accanto alla finestra sono immersi nell’ombra, eppure qualcosa lì in mezzo riflette la luce del primo pomeriggio. Poggiate in ordine su uno scaffale a sinistra ci sono cinque o sei maschere a gas. Gli occhi vuoti di vetro luccicano sulla superficie opaca color verde militare. I bocchettoni per l’aria sbucano come tante proboscidi.
«Belle, vero?» Dice alle mie spalle.
Mi giro. Si è seduto su un divanetto e mi osserva, le gambe allungate in avanti e le braccia incrociate sul petto.
Indica gli scaffali. «C’è altro: guarda ancora.»
Sotto lo scaffale ci sono dei ganci da cui pendono delle corde. Uno di questi ospita qualcosa di tondo. È frusta arrotolata su sé stessa: le estremità pendono per conto proprio ai due lati. È color cuoio, ma alcune parti del manico sono più scure delle altre. Deve averla usata parecchio.
Nell’angolo c’è un portaombrelli, da cui sbucano le punte di frustini neri e marroni. In mezzo a tutti svetta il profilo color avorio e arrotolato su se stesso di un nerbo.
«Vedi qualcosa che ti interessa?»
È proprio dietro di me. Mi volto appena e il suo viso mi sovrasta. Sorride a bocca aperta, i denti scoperti in un ghigno da predatore.
«No, io��» Ho la gola chiusa. Tossicchio, ma la voce rimane comunque roca. «Non sono masochista. Mi piace il bondage, roba così.»
Le cinghie che mi stringono, i respiri che si accorciano e la testa che diventa leggera.
Come sarebbe se mi colpisse con il nerbo mentre non posso fare nulla per reagire?
Ho la faccia bollente e la testa di nuovo incassata tra le spalle. Mi raddrizzo: fa freddo in questa posizione. Sono troppo scoperta.
Alza un sopracciglio. «Ah sì, il bondage. Ho qualcosa qui.»
Tira fuori un trolley di metallo dall’angolo a destra della finestra e lo sdraia per terra. Vi si accoscia davanti. Lo imito. Lo apre e rivela dei compartimenti simili a quelli di una cassetta per gli attrezzi. Dentro vi luccicano morse e pinzette; un paio sono grandi quanto un’unghia, mentre quella nell’angolo potrebbe ingoiarmi tutta la mano.
Afferra una maniglia laterale e il vassoio con i comparti si sposta di lato, rivelando un altro scomparto. Dentro ci sono manette di acciaio, un paio di collari, cinghie e polsiere. Tira fuori un rotolo di cinture nere di pelle. Qualcosa cade a terra in mezzo a noi.
«Intenti qualcosa del genere?»
Annuisco.
L’oggetto caduto è accanto al mio ginocchio. È un’asta di metallo, con dei gommini neri alle estremità. La prendo. No, sono due aste di metallo e i gommini le tengono insieme. A cosa serve una cosa del genere?
La alzo davanti al viso e la giro tra le dita.
«Sai cos’è?»
Stringe un’altra barra, identica a quella che ho in mano io.
Faccio cenno di no con la testa.
Il suo sorriso si allarga. «Se vuoi te lo mostro.»
Farà male, ci scommetto: a lui piace il dolore e io non sono masochista.
Il cuore batte tanto da far male dentro il petto, ho la gola secca. Dovrei dire di no, lo conosco appena. E se andasse troppo oltre? No, non lo farebbe mai.
A lui piace il dolore. E il godimento. E l’unione tra le due cose.
Non sono masochista, ma davvero il dolore e il piacere possono diventare una cosa sola? Chi può mostrarmelo meglio di lui? Lui sa quello che fa.
Annuisco e gli porgo la barra.
Allarga le due astine che la compongono e ci infila dentro un polpastrello. Vi si stringono intorno, tenute insieme dai gommini alle estremità. Avvicina il dito al mio viso: la carne intorno alle aste è bianca e la punta del polpastrello è già porpora a causa della stretta.
«Questo è quello che farò con i tuoi capezzoli. Sempre che tu me lo chieda per favore.»
«Ripetilo guardandomi in faccia.»
Alzo la testa.
Stringe gli occhi dietro gli occhiali e mi fissa.
«Per favore.» Mi trema la voce.
Alza un angolo della bocca. «Per favore cosa?»
Abbasso gli occhi. Li rialzo. Le parole sono bloccate in gola. «Per favore, p-p-posso provare quelli?»
«Provare dove?»
Mi manca l’aria. «Posso provarli s-sui mie ca-capezzoli?»
Poggia le barre a terra accanto a sé. Si sfila gli occhiali, li osserva in controluce e li pulisce con un lembo della felpa. Se li risistema sul naso.
Magari mi stava solo facendo un dispetto e adesso mi dirà di no.
«Come rifiutare, dato che insisti così.» Fa cenno con il dito al mio maglione. «Quello è il caso che tu lo tolga.»
Lo sfilo e lo lascio cadere accanto a me. Ho la pelle d’oca. Stringo le braccia intorno al corpo e le strofino.
«Via le braccia e schiena dritta.» Scivola più vicino a me. «Mi serve che tu tolga anche il reggiseno.»
Slaccio e sfilo anche quello.
«Guardami.»
Regge una delle due barre all’altezza del mio viso. La abbassa e la punta di gomma mi sfiora la gola, l’incavo dei seni, l’ombelico.
Allarga le due astine e le tiene aperte con una mano. Con l’altra afferra la punta del mio capezzolo destro e la tira verso di sé. La passa tra le due aste, lascia che vi si chiudano intorno. Ripete l’operazione con l’altro capezzolo.
Fastidio. Calore. E il dolore?
Sfioro la punta del capezzolo e un brivido parte da lì e scende fino alla figa.
«Fa male?»
Faccio cenno di no con la testa.
«Rimediamo subito, allora.»
Ci sono due elastici alle estremità delle barre: li avvicina al centro e le aste si stringono.
Una fitta di dolore mi sale alla testa. Sgrano gli occhi. Alzo una mano, ma lui la afferra per il polso.
«Se vuoi che vada avanti devi stare ferma.» I suoi occhi passano dal mio seno al mio viso. «Se ti muovi sarò costretto a fermarmi e tu non vuoi che mi fermi, vero?»
La fitta di dolore ha lasciato il posto a un pulsare costante. Il calore si muove in onde dai seni al resto del corpo, mi avvolge. Faccio cenno di no con la testa.
Snuda i denti in un ghigno. «Molto bene, ma se permetti non mi fido.»
Infila una mano nella cassetta e tira fuori un paio di polsiere in pelle. Fa cenno con il mento alle mie mani.
Le sollevo di fronte a me.
Le barre ondeggiano e una nuova fitta di dolore mi attraversa. Boccheggio: il pulsare dei capezzoli preme contro il petto, come se qualcuno ci si fosse seduto sopra. Prendo un grosso respiro. Il dolore si stempera.
Apro la bocca per respirare, ma i polmoni sono stretti, il corpo è contratto. Non ho più aria e non ne ho più bisogno.
Le sue mani si chiudono sulle barre, le tirano. Dà uno scossone e i capezzoli sono liberi.
Il dolore riempie il mondo di macchie colorate che punteggiano il bianco dell’orgasmo. Tremo una volta, due. La figa si contrae sulla gamba.
Crollo in avanti, poggiata contro di lui. Il tremito scema, il calore si dirada. Una mano mi accarezza i capelli e l’altra mi passa un fazzoletto sul viso: ho pianto? Ho gli occhi appiccicaticci, quindi è probabile.
Si sfila da sotto di me e ricado contro il bordo del divano. Armeggia dietro di me. Ho le braccia libere.
«Preparo un tè caldo. Ti va?»
È sulla soglia della stanza. Ha i capelli scompigliati e gli occhiali un po’ storti.
«Io…» Ho la voce roca. «Io non sono masochista.»
Alza un sopracciglio. «Non oserei mai insinuare una cosa del genere.»
Le guance mi diventano bollenti. «Non sono masochista, ma non è stato male. Potrei anche rifarlo.»
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