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“Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto”. Luglio 1947: 44 bambini muoiono in mare, ad Albenga. Gianni Rodari scrive il suo primo, straziante articolo per “l’Unità”. Eccolo
Tutte le mamme di Milano hanno pianto. È una tragedia feroce quella che abbraccia in una morsa il giovane Gianni Rodari, all’epoca ventisettenne, agli esordi della sua carriera giornalistica. La tragica morte di oltre quaranta bambini fu infatti la prima collaborazione di Gianni Rodari con l’edizione milanese dell’Unità; in quelle stesse concitate ore anche Dino Buzzati inaugurava la sua collaborazione con il Corriere della Sera (il 17 luglio 1947 usciva il suo pezzo: Tutto il dolore del mondo in quarantaquattro cuori di mamme). Doveva seguire il fatto terribile di cronaca nera: erano annegati quarantaquattro bambini milanesi della colonia marina di Loano. La motonave su cui viaggiavano colata a picco, dopo l’urto contro un palo, ad appena cento metri dalla spiaggia di Albenga, il maledetto 16 luglio. È quasi impressionante che lo scrittore più amato dai bambini, premio Andersen nel 1970, abbia scritto, per «L’Unità» quel 18 luglio 1947, a due giorni dalla disgrazia, un articolo così profondamente tragico e di una tale bellezza angosciosa. La delicatezza e la profondità della descrizione dell’animo umano con cui Rodari riporta alla luce il dolore disumano della madre orfana del piccolo Enzo e del papà che ricordava di aver riempito d’acqua una bottiglietta sono straordinarie. La vitalità dei bambini riflessa nel ricordo delle bucce d’arance disseminate sul marciapiede, le cartacce delle caramelle, la carta stagnola di qualche cioccolatino. Il chiacchiericcio dei bambini paragonato a uccellini svegliati dal sole fra i rami, le madri che vestono i bimbi, che sistemano i capelli con il pettine bagnato, allacciano i sandali. Solo uno scrittore di razza come Rodari può far piangere disperatamente con queste poche, familiari, nitide descrizioni. Leggendo questo pezzo sembra di comprendere, in un lampo, la sua vocazione di narratore di storie per bambini. Quei morticini bianchi, il dolore senza pace di genitori impotenti di fronte al destino crudele, quelle piccole mani che non saranno più sporche di vita e di fango pesano come una pietra sul cuore del sensibile Rodari, che ne rimane impressionato. Sgomento. Ferito di fronte alla vergogna di sapersi vivo. Infatti si piange per la “vergogna di sé, per l’oscuro agitarsi di antiche memorie, per aver amato troppo poco la propria madre”, ma soprattutto “per essere lì vivo e goffo mentre la morte si era posata sui visi dolci, sui visi troppo belli che ormai non avevano più nome”. E i nomi che Rodari inventerà nelle sue storie saranno moltissimi, lieti e leggeri: Alice Cascherina, Giovannino Perdigiorno, il signor Fallaninna… Penso, con mestizia, al bambino bianco di questo articolo contrapposto al suo famoso “bambino di gesso”. Ma soltanto nella sciagura più profonda nasce la letteratura più grande. La vocazione autentica è una cura contro il dolore, è il bel vestito che copre la ferita, la sua cicatrice. Era l’estate 1947, la guerra iniziava ad essere un ricordo, pochi mesi prima, Rodari aveva lasciato (l’8 marzo 1947) “L’Ordine Nuovo” ed era approdato all’edizione milanese dell’“Unità”. Il caporedattore di cronaca era allora Fidia Gambetti che ne tracciava il ritratto. «“Ultimamente sono arrivati in redazione colleghi giovani e meno giovani. Dalle province della Lombardia, dell’Emilia, del Veneto; da altri giornali; dall’attività politica”. Con Crosti, Panozzo, Montesi, Pancaldi, Signori, “un altro ‘personaggio’, fra i nuovi è Gianni Rodari. Lavora in cronaca, allegro, pronto alla battuta, con quel suo viso da ragazzo, un ciuffo di capelli renitenti al pettine, sempre sugli occhi pungenti e arguti. Quando lui è presente, in cronaca è spettacolo: fa discorsi o recita in vari dialetti, imita o fa il verso a questo o a quello; improvvisa originali e divertenti filastrocche che talvolta si ritrovano scritte qua e là sui tavoli e sui muri”». Quel pettine bagnato dalla mamma, forse lui cercava di sfuggire. Ma il giovane Gianni Rodari per dipingere così umanamente il dolore altrui, conosceva bene il proprio, vissuto precocemente, anzitempo.
Linda Terziroli
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Tutte le mamme di Milano hanno pianto
Fin dal mattino grigio la notizia ha pesato sul cuore di Milano, quasi incredibile, quasi assurda. Le voci degli strilloni erano quelle di tutti i giorni: gridavano alle fermate dei tram le cifre spaventose della tragedia con accento stanco, professionale. Dal balcone del Municipio penzolava inerte la bandiera listata a lutto. A quell’ora i milanesi si recavano al loro lavoro. La prima inesprimibile sensazione di sgomento, ognuno se la teneva in petto, la sentiva ingigantire d’ora in ora, mentre la cifra non si fermava e ognuno ripeteva meccanicamente i gesti di ogni giorno.
Ma in tutte le case di Milano, ieri, si è pianto. Le madri hanno vestito i loro bimbi, come ogni mattina hanno ravviato i cari capelli col pettine bagnato, hanno ascoltato il loro chiacchiericcio di uccellini che il sole sveglia tra i rami, hanno piegato il ginocchio ad allacciare le fibbiette ai sandali: i bimbi sono scesi nei cortili, le madri li hanno uditi giocare, si sono affacciate alle improvvise risse subito dimenticate, si sono sentite stringere indicibilmente il cuore.
Tutte le mamme di Milano ieri hanno pianto. Come non è vero che si può piangere solo per egoismo, per la gioia distorta di saper salvi i propri cari da una sciagura che è piombata invece terribile su altri! Le mamme di Milano hanno pianto per i quarantaquattro morticini di Albenga: ogni mamma si è sentita ieri madre di quarantaquattro piccoli annegati, ha sentito le invocazioni strozzate dalle onde, ha pianto le sue lacrime sui teneri petti dove il cuore ha taciuto per sempre.
E le altre mamme, quelle che nel cuore della notte furono destate dal colpo battuto alla porta da un vigile, o piuttosto da un crudo destino, le mamme che sono accorse al Castello coi visi stravolti, anche queste mamme non hanno pianto solo per il proprio piccolo, per quello che le ha chiamate morendo, senza che lo potessero udire. Nell’atrio della Torre del Filarete, senza conoscersi, si gettavano una nelle braccia dell’altra, mescolando le grida disperate e le lacrime, fatte sorelle dalla sventura, trasformate l’una nell’altra nello stordimento della sofferenza.
«Il mio Enzo» chiamava una donna con voce disumana. Nessuno conosceva il suo Enzo. Ognuna di quelle madri aveva un «suo» Enzo, o Pierluigi, o Carlo, che aveva portato nel grembo, sorridendogli ancora prima che egli ne uscisse per vivere. Un suo bimbo, di cui aveva sognato il nome molti mesi prima di poterglielo sussurrare.
Un brivido correva freddo nel sangue dei presenti. E forse invece ognuno ha pianto per vergogna: per vergogna di sé, per l’oscuro agitarsi di antiche memorie, per aver amato troppo poco la propria madre, per essere lì vivo e goffo mentre la morte si era posata sui visi dolci, sui visi troppo belli che ormai non avevano più nome. Dal finestrino d’uno degli autobus pronti a partire per Loano un uomo tese le braccia piangendo a qualcuno che giungeva sorretto dai parenti. «Signora», gridò: «eravamo alla stazione, assieme, si ricorda? Sono andato a prendere l’acqua per tutt’e due, si ricorda? Erano insieme, il suo bambino e il mio!».
Era andato a riempire d’acqua una bottiglietta, l’aveva porta ai ragazzi dal finestrino. Ed essi l’avevano posata sul sedile, erano tornati subito ad affacciarsi. I ragazzi sono imprevidenti. Dopo dieci minuti d’attesa in treno, ecco che essi avevano esaurito la piccola scorta di arance: vedevi le bucce disseminate lungo il marciapiede, e le carte delle caramelle, e la stagnola d’un cioccolatino. Poterle ridire adesso quelle affettuose parole di rimprovero e di raccomandazione: «Tieni da conto per il viaggio, e non stare in piedi sul sedile, non sporgere le mani!».
E quelle manine, adesso, doverle pensare bianche, rigide, dure. Che cosa non hanno toccato quelle mani, ottantasei mani di bimbi: la palla di gomma, le palline, i quaderni, e pezzetti di vetro, e chiodi, e giocattoli. Poterle baciare, adesso, sporche d’inchiostro, di fango, sporche di vita, d’allegria, di salute. Uno dopo l’altro gli autobus si sono allontanati col loro tragico carico umano. Mamme e papà non hanno visto sfilare al loro fianco le strade di Milano, le case, le piazze della loro città: essi non vedevano più ormai che un piccolo morto bianco, immobile e chiuso nel suo breve spazio, due labbra pallide su cui pesa il bacio silenzioso della morte.
Gianni Rodari
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Era nato a Omegna, sul lago d’Orta, il 23 ottobre 1920 (nel 2020 ricorrerà il centenario) e vissuto a Gavirate, nella provincia di Varese, all’età di 9 anni, era, infatti, rimasto orfano di padre. Parla di sé, in una preziosa “Autobiografia”, all’interno del volume biografico Storia del giovane Rodari a cura di Pietro Macchione, scritto in collaborazione con Chiara Zangarini e Ambrogio Vaghi (edito da Macchione). “A 11 anni entrai in Seminario e ne uscii a 13: non saprei ricostruire per quale processo vi sia entrato, ne sono uscito perché trovavo umiliante la disciplina”. Leggere era già la sua passione, una passione ben alimentata: “Dall’età di quattordici anni leggevo di tutto, soprattutto filosofia, letteratura, storia dell’arte e delle religioni”. La poesia fu il primo – e forse il suo più congeniale – strumento, della precoce vocazione letteraria: “Facevo la terza elementare a Omegna, quando scrissi su una carta assorbente i miei primi versi. Quell’anno scrissi moltissime poesie su un quadernetto da disegno, e un mio compagno di scuola le illustrava. La maestra le mostrò al direttore. Ne venne pubblicata una sul giornale dei commercianti”. Ad una fervida fantasia si aggiungeva la passione per la musica, ascoltata e riascoltata, come l’inno di Garibaldi e la Marsigliese, che il giovane poeta ascoltava dalla sveglia di zia Marietta, che contribuì alla sua “educazione musicale e civile”. Un estro che si declinava in giocose invenzioni, non solo in versi: “il primo strumento musicale, me lo feci di mia mano, a nove o dieci anni, servendomi di vecchie scatolette odorose del lucido da scarpe”. Oltre alla musica, la curiosa esperienza di burattinaio che si intravede nei simpatici personaggi delle sue filastrocche: “tre volte in vita mia sono stato burattinaio: da bambino, agendo in un sottoscala che aveva una finestrella fatta apposta per assumere il ruolo di boccascena; da maestro di scuola, per i miei scolari di un paesetto in riva al lago Maggiore, da uomo fatto per qualche settimana, con un pubblico di contadini che mi regalavano uova e salsicce. Burattinaio, il più bel mestiere del mondo”. La scrittura per ragazzi, favole, fiabe e filastrocche è senz’altro parte più rilevante e più famosa della sua produzione, di cui le Favole al telefono, un best seller ancora oggi e Filastrocche in cielo e in terra (Einaudi) sono due titoli estremamente conosciuti tra il pubblico più tenero. “Debbo aver già raccontato o confessato da qualche parte, non ricordo dove, che spesso, per esercizio, vado in cerca di personaggi, situazioni, storie da raccontare, negli orari ferroviari, nell’elenco telefonico, introducendo nelle aride colonne di nomi di persona, di città la semplice provocazione di una rima. Ottengo in pochi istanti la notizia, assolutamente inedita, che “una mucca di Vipiteno/aveva mangiato l’arcobaleno”. Lo scrittore di Omegna (e di Gavirate) ha affrancato il genere della letteratura per l’infanzia, grazie alla profonda ironia, a volte stravolgente e un po’ dissacrante, ma non troppo, con un gioco mai banale e sempre volto all’uscita dagli schemi e dal conformismo della realtà, da quei luoghi comuni che ci imprigionano, ieri come oggi. Per volgere lo sguardo alla libertà, con un sorriso giocoso e una lieta malinconia, per giocare con il nostro quotidiano, ripensando alle tradizioni che un po’ ci assomigliano. Quanto quei morticini della tragedia di Albenga sono all’origine dei suoi scritti più riusciti? I bambini che hanno letto le sue filastrocche sono ormai diventati grandi adulti, in corpi e anime ormai segnati dal tempo. I piccoli bambini di Loano saranno bambini per sempre. “Si può parlare degli uomini anche parlando di gatti e si può parlare di cose serie e importanti anche raccontando fiabe allegre” dichiarò quando ricevette il premio “Hans Christian Andersen per la fiaba inedita”, nell’ormai lontano 1970, quasi cinquant’anni fa. (L.T.)
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