#essere innamorati del mondo della Realtà questa è la sfida
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La sfida più elevata
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BEST OF 2020: I DIECI LIBRI PIÙ BELLI LETTI QUEST’ANNO
Il 2020 è stato un anno complicato, uno di quelli che rimarrà nella storia sotto più punti di vista. È stato un anno complicato anche dal punto di vista delle mie letture. Avevo fissato per la sfida di lettura su Goodreads un limite molto basso, 50 libri, certa che lo avrei ampiamente superato, e invece sono riuscita a centrarlo a stento. Ho vissuto uno dei blocchi del lettore più spaventosi di sempre che neanche credevo di poter vivere che mi ha lasciato abbastanza sconvolta. La lettura per me è sempre stata un conforto e una cura e scoprirmi incapace di leggere è stato un colpo durissimo da accettare. Ma per fortuna ne sono uscita. Per fortuna.
Per il prossimo anno ho settato lo stesso limite, con la stessa voglia di leggere libri belli che avevo lo scorso anno. Ho letto diversi saggi e ne vorrei leggere altri, e diversi libri di narrativa, e spero di replicare anche per il 2021.
Dal momento che ho letto pochissimi libri per i miei standard scegliere quelli che più mi sono piaciuti non è stato particolarmente difficile. Devo dire che sono stata abbastanza eclettica e ho fatto diverse scoperte che mi porterò dietro.
Enjoy!
Le disobbedienti: Storie di sei donne che hanno cambiato l'arte di Elisabetta Rasy
Che cosa unisce Artemisia Gentileschi, stuprata a diciotto anni da un amico del padre e in seguito protagonista della pittura del Seicento, a un'icona della bellezza e del fascino novecentesco come Frida Kahlo? Qual è il nesso tra Élisabeth Vigée Le Brun, costretta all'esilio dalla Rivoluzione francese, e Charlotte Salomon, perseguitata dai nazisti? C'è qualcosa che lega l'elegante Berthe Morisot, cui Édouard Manet dedica appassionati ritratti, alla trasgressiva Suzanne Valadon, l'amante di Toulouse-Lautrec e di tanti altri nella Parigi della Belle Époque? Malgrado la diversità di epoca storica, di ambiente e di carattere, un tratto essenziale accomuna queste sei pittrici: il talento prima di tutto, ma anche la forza del desiderio e il coraggio di ribellarsi alle regole del gioco imposte dalla società. Ognuna di loro, infatti, ha saputo armarsi di una speciale qualità dell'anima per contrastare la propria fragilità e le aggressioni della vita: antiche risorse femminili, come coraggio, tenacia, resistenza, oppure vizi trasformati in virtù, come irrequietezza, ribellione e passione. Elisabetta Rasy racconta, con instancabile attenzione ai dettagli dell'intimità che disegnano un destino, la vita delle sei pittrici nella loro irriducibile singolarità.
È una prospettiva molto interessante quella che regala la Rasy composta da aneddoti, sfumature, impressioni, contesto storico, dei ritratti di donne a tutto tondo che non si lasciano facilmente ostacolare, che nonostante le vite difficili, le difficoltà evidenti, la disperazione innata si ribellano a tutto anche a loro stesse.
La mia recensione
Kentuki di Samanta Schweblin
Buenos Aires, interno giorno. Ma anche Zagabria, Pechino, Tel Aviv, Oaxaca: il fenomeno si diffonde in fretta, in ogni angolo del pianeta, giorno e notte. Si chiamano kentuki: tutti ne parlano, tutti desiderano avere o essere un kentuki. Topo, corvo, drago, coniglio: all’apparenza innocui e adorabili peluche che vagano per il salotto di casa, in realtà robottini con telecamere al posto degli occhi e rotelle ai piedi, collegati casualmente a un utente anonimo che potrebbe essere dovunque. Di innocuo, in effetti, hanno ben poco: scrutano, sbirciano, si muovono dentro la vita di un’altra persona. Così, una pensionata di Lima può seguire le giornate di un’adolescente tedesca, e gioire o preoccuparsi per lei; un ragazzino di Antigua può lanciarsi in un’avventura per le lande norvegesi, e vedere per la prima volta la neve; o ancora un padre fresco di divorzio può colmare il vuoto lasciato dall’ex moglie. Le possibilità sono infinite, e non sempre limpide: oltre a curiosità e tenerezza, il nuovo dispositivo scatena infatti forme inedite di voyeurismo e ossessione.
Si tratta di una storia dai risvolti distopici che mi ha colpito immediatamente. Volevo leggerla da tempo ma ho continuato a rimandare finché non mi sono decisa a prendere il libro in mano. E non me ne sono minimamente pentita. Una storia con una vena distopica davvero inquietante dal ritmo serratissimo, che mi ha conquistato fin dalle premesse. In un mondo che diventa sempre più tecnologico e connesso, diventiamo sempre più facilmente controllabili, e mettere in gioco la nostra privacy per il brivido del possesso si scontra con la voglia sconfinata di preservarla a qualsiasi costo. E la linea sottile che ci divide dalla follia è sottilissima.
La mia recensione
Gli incendiari di K.O. Kwon
Cosí si dice: da giovane attivista John Leal aveva aiutato i dissidenti coreani a raggiungere clandestinamente Seul dalla Corea del Nord, fino al giorno in cui era stato rapito, gettato in un gulag e torturato. Scampato alla morte, ma non al ricordo degli orrori, era ritornato in America, aveva avuto una rivelazione e si era messo al servizio dell'umanità fondando il gruppo Jejah. Questa storia, o una versione sempre un po’ diversa di essa, racconta John Leal ai «discepoli» riuniti al suo cospetto. Ma Will non ci casca. La retorica della fede, i «giochi di magia», l'«abracadabra», come li definisce, gli sono ben noti, e per questo ne diffida. Lui stesso li ha praticati nella sua vita precedente, quando viveva in California e aveva abbracciato la religione e il proselitismo per tentare di salvare una madre sofferente. Un giorno poi si era inginocchiato in preghiera come d'abitudine, ma non aveva sentito niente. La voce di Dio era sparita. Aveva abbandonato la Scuola biblica, cambiato costa e vita e si era iscritto al prestigioso Edwards College. È all'Edwards che Will incontra Phoebe. La sua disinvoltura, la popolarità a scuola e con i ragazzi di quella bruna sottile dai tratti coreani accendono immediatamente il suo desiderio, cosí poco allenato, ma nascondono anche ferite profonde e mai rimarginate: il fantasma di un pianoforte a cui Phoebe ha rinunciato quando ha capito di non poter essere la piú brava, e il fantasma di una madre amorevole e protettiva, morta forse anche per sua colpa. Will e Phoebe si amano come fanno i naufraghi con la terra avvistata, bramosi e incerti, ma le acque che li circondano sono molto insidiose. John Leal subodora il vuoto quando lo incontra, e promette di saperlo riempire. Come in ogni forma d'amore, la battaglia che viene ingaggiata ha per posta l'anima. Quando in tv vede scorrere le immagini di un attentato ai danni della clinica Phipps, dove si praticano aborti, Will deve chiedersi chi infine si sia aggiudicato quella di Phoebe, e la propria.
Mi sono innamorata della copertina di questo libro. Quel blu notte così intenso, quel fuoco che divampa al centro, la sensazione di essere in costante pericolo. Soprattutto mi ha colpito perché la Kwon è una sudcoreana trapiantata in America e pensavo che se ne sentisse l’atmosfera, anche se la storia di per sé è un intricato castello di carte pronto a essere distrutto. Una storia terribile e avvincente, che scandaglia le vite di due giovani ragazzi innamorati e persi, investiti dal peso di un gruppo di fanatici religiosi. In un ritmo implacabile e duro la Kwon tratteggia la guerra privata di un’intera esistenza.
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Gli umani di Matt Haig
Per il bene dell'intero universo, il professor Martin deve essere eliminato. E con lui chiunque sia al corrente delle sue scoperte. Ma a causa di un contrattempo, l'alieno mandato sulla Terra si materializza ai bordi di un'autostrada, in una sera fredda e umida, completamente nudo, nonché privo delle più basilari nozioni della vita sociale. Inizia così una divertente commedia degli errori, in cui il finto professor Martin impara a vivere da terrestre. E ben presto, contro le previsioni aliene, la forzata vicinanza con la specie umana, soprattutto con i due esemplari (moglie e figlio) che compongono la famiglia del professore, lo costringe a rivedere il suo giudizio, passando dal più completo disgusto a un'inconfessabile simpatia. Certo, i terrestri sono tutt'altro che perfetti, eppure hanno inventato la poesia, la musica e persino il burro di arachidi…
Durante il blocco del lettore più spaventoso che abbia mai affrontato ho iniziato a leggerlo dietro suggerimento di una mia amica e devo dire che me ne sono innamorata immediatamente. È uno di quei libri che rifugge un genere di appartenenza e diventa universale, perché parla di sentimenti, di umanità, di vita. Una storia intensa e speciale, che supera i confini dello spazio-tempo e disegna un viaggio nel mondo degli umani, che accompagna il lettore nella scoperta di cosa rappresenti la vita umana, la convivenza di scienza e spiritualità, sentimenti e raziocinio, intelligenza e intuizione, amore e dolore, la perdita e la coscienza.
La mia recensione
Il morso della vipera di Alice Basso
Il suono metallico dei tasti risuona stanza. Seduta alla sua scrivania, Anita dattilografa le storie della rivista Saturnalia: detective dai lunghi cappotti che tra una sparatoria e l'altra hanno sempre un bicchiere di whisky tra le mani. Nulla di più lontano dal suo mondo. Eppure le pagine di Hammett e Chandler che il suo affascinante editore Sebastiano Satta Ascona traduce, le fanno scoprire il potere delle parole. Un potere che va ben oltre la carta. Anita ne rimane affascinata. Proprio lei che non ha mai letto nulla. Ma se Anita si trova ora a lavorare per una rivista di racconti gialli la colpa è solo la sua. Perché poteva accettare la proposta del suo amato fidanzato Corrado, come avrebbe fatto qualsiasi altra giovane donna del 1935, invece di pronunciare quelle parole totalmente inaspettate: ti sposo ma voglio prima lavorare. E ora si trova con quella macchina da scrivere davanti in compagnia di racconti che poi alla fine così tanto male non sono. Anzi, sembra quasi che le stiano insegnando qualcosa. Forse per questo quando un'anziana donna viene arrestata e tacciata da tutti come pazza perché afferma che un eroe di guerra è in realtà un assassino, Anita è l'unica a crederle. Eppure quelli non sono anni in cui dare spazio ad una visione obiettiva della realtà. Il fascismo è in piena espansione. Il cattivo non viene quasi mai sconfitto. Anita deve trovare tutto il coraggio che ha e l'intuizione che le hanno insegnato i suoi amici detective per indagare e scovare il bandolo della matassa. Perché una donna può tenere in mano un filo non solo per cucire e rammendare, ma per far sentire la sua voce.
Quando ho girato l’ultima pagina, ho sospirato stringendomi il volume al petto e un po’ ho imprecato perché appunto sono arrivata all’ultima parola. È una storia meravigliosa, che ti tiene incollato alle pagine, che si vuole fare leggere. È una storia come quella di J.D. Smith, che non può e non deve lasciare indifferenti. Come sempre i libri di Alice sfuggono da ogni definizione, anche questa è una storia che avvinghia e trascina, che lascia il lettore esaltato, che ovviamente ne vuole ancora. Si ride, si riflette, si investiga, si fa un giro immenso e ci si ferma di fronte alla verità universale che ci si riconosce sempre un po’ nei libri che si amano.
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L'intelligenza delle api. Cosa possiamo imparare da loro di Randolf Menzel, Matthias Eckoldt
Amiamo le api soprattutto perché producono il miele. Ma sono anche fra gli animali più importanti e più intelligenti del pianeta. Senza la loro attività di impollinatrici, in tutto il mondo ci sarebbero problemi per le risorse alimentari. Sono però in grado di fare di più: il loro minuscolo cervello pensa, pianifica, fa di conto e forse sogna. Le api possiedono, sorprendentemente, molte delle nostre capacità mentali. Come percepiscono i profumi e vedono i colori, come si forma la loro memoria, come apprendono regole e modelli, addirittura come riconoscono i volti, da dove derivano le loro conoscenze, che cosa sanno e come vengono prese le decisioni in quel superorganismo che è una popolazione di api: sono i grandi temi di questo particolarissimo libro. Randolf Menzel e Matthias Eckoldt parlano anche della moria delle api e del ruolo che questi insetti possono avere nel creare un sistema di allerta precoce contro gli effetti nocivi delle nostre tecnologie.
Si tratta di un saggio estremamente interessante sulla anatomia e fisiologia del cervello delle api, che analizza in maniera approfondita alcuni aspetti fondamentali dei loro organi di senso: olfatto e vista in maniera principali, ma anche tatto. Inoltre, analizza anche il funzionamento del loro apprendimento e della loro memoria. È un saggio molto tecnico, che da per scontate nozioni di zoologia e di fisiologia spinta (sapere come funziona un potenziale d’azione che permette i passaggi di impulsi elettrici nel cervello potrebbe aiutare nella comprensione) ma fornisce spunti molto interessanti. Da uno scienziato che ha trascorso tutta la sua vita immerso nel mondo delle api, un approfondimento ricco e speciale su degli insetti che sono fondamentali per noi.
La mia recensione
Il sussurro delle api di Sofia Segovia
Sono i primi anni del Novecento e gli echi della rivoluzione hanno raggiunto, insinuandosi tra campi e colline, la campagna fertile di Linares: un laborioso, coriaceo angolo di Messico dove sorge l’hacienda dei Morales. È in questa famiglia che vive la nana Reja, l’anziana nutrice che ha cresciuto generazioni di bambini e ora trascorre i giorni sulla sedia a dondolo. Finché una mattina, vincendo la sua leggendaria immobilità, Reja s’incammina e arriva al ponte, come svegliata da un richiamo. In un viluppo di stracci, proprio lì, e circondato da un nugolo di api, c’è un neonato. Lo chiameranno Simonopio, questo bambino magico che gli insetti non pungono, questo bambino dannato che al posto della bocca sembra abbia un buco. In silenzio, il piccolo impara a leggere i voli delle sue amiche api e da quelli a capire le oscillazioni della natura e i suoi presagi. Così, mentre l’epidemia di influenza spagnola colpisce la regione e tradizioni arcaiche si infrangono contro l’onda di un tempo nuovo, la famiglia Morales si affida all’intuito di Simonopio. E costruirà grazie a lui un nuovo futuro.
Mi sono innamorata della cover, ma quando ho letto la trama dovevo averlo. Le saghe familiari sono un’altra delle mie grandi passioni soprattutto quelle sudamericane e questa non ha fatto eccezione per la potenza delle descrizioni e la forza che ne deriva. Ho amato molto questo libro, anche se ci ho messo una vita a leggerlo. La storia della Segovia unisce monito e superstizione, realtà storica e personaggi di fantasia, gioia e dolore, la dolcezza del miele delle api e lo spavento del loro pungiglione e regala una storia piena di meraviglia da leggere con la consapevolezza che siamo sempre noi i fautori del nostro destino.
La mia recensione
L’Ora dei dannati di Luca Tarenzi
Dopo aver accompagnato Dante nel suo viaggio, Virgilio, che ha intravisto la luce divina sulla montagna del Purgatorio, non può tornare nel Limbo. È destinato a restare nell'Inferno, dove può muoversi liberamente, anche se sempre alla mercé della violenza degli angeli caduti, gli Spezzati. Per questa sua peculiarità diventa un ingranaggio fondamentale nell'ambizioso piano di Pier delle Vigne, che intende raccogliere un gruppo scelto di dannati - il Conte Ugolino, Filippo Argenti e Bertran de Born - per fuggire dall'Inferno. Un fantasy ambientato in un Inferno dantesco descritto magnificamente: un racconto carcerario; una storia di redenzione piena di colpi di scena e combattimenti appassionanti, fino all'incredibile finale che lascia aperto il destino dei cinque straordinari antieroi.
Nella storia di Tarenzi invece la missione che si prefigge il poeta ha tutto tranne che approvazione. È un tentativo basato sul raziocinio di Pier delle Vigne e sulla cooperazione dei dannati che il suicida ha reputato necessari alla realizzazione. È un progetto ambizioso, folle, spericolato, l’unico possibile. La storia quindi si basa sugli incastri delle diverse personalità e sulle diverse aspettative che il gruppo ha, l’obiettivo, la fuga, è comune, ma nel frattempo ognuno di loro ha delle aspettative differenti. Una storia affascinante e complicata, contraddittoria e inquietante, che attraversa l’Inferno e lascia con il fiato corto e la voglia di saperne di più. Intensa e sorprendente, che tanto degli eroi buoni siamo stufi tutti, le mille sfaccettature umane del peccato sono molto più affascinanti.
La mia recensione
Invisibili di Caroline Criado Perez
In una società costruita a immagine e somiglianza degli uomini, metà della popolazione, quella femminile, viene sistematicamente ignorata. A testimoniarlo, la sconvolgente assenza di dati disponibili sui corpi, le abitudini e i bisogni femminili. Come nel caso degli smartphone, sviluppati in base alla misura delle mani degli uomini; o della temperatura media degli uffici, tarata sul metabolismo maschile; o della ricerca medica, che esclude le donne dai test «per amor di semplificazione». Partendo da questi casi sorprendenti ed esaminandone moltissimi altri, Caroline Criado Perez dà vita a un’indagine senza precedenti che ci mostra come il vuoto di dati di genere abbia creato un pregiudizio pervasivo e latente che ha un riverbero profondo, a volte perfino fatale, sulla vita delle donne. Perché nei bagni delle donne c'è sempre la coda e in quelli dei maschi no? Perché i medici spesso non sono in grado di diagnosticare in tempo un infarto in una donna? Perché, negli incidenti stradali, le donne rischiano di più degli uomini? Un libro rivoluzionario ed estremamente rivelatorio che vi farà vedere il mondo con altri occhi.
“Invisibili” è uno di quei libri che non puoi leggere senza provare emozioni forti, senza rimanere indifferenti. È uno schiaffo bello forte a tutte le nostre convinzioni, un saggio che dati alla mano, analizza la mancanza di dati di genere in moltissimi ambiti della nostra società, dalla salute all’edilizia, dalla topografia delle nostre città al mondo del lavoro, dal soddisfacimento delle necessità familiari alla gestione di intere comunità. Caroline Criado Perez è attentissima a ricostruire la falla nell’impianto che guida le scelte politiche e sociali di un mondo costruito a misura d’uomo, o per meglio dire a misura di maschio. Un saggio illuminante e irrinunciabile che dovrebbe essere letto da tutti.
La mia recensione
Centro di Amalia Frontali & Rebecca Quasi
Londra, 1908. La capitale britannica si prepara ai Giochi della IV Olimpiade. Miss Ina Wood appartiene alla squadra femminile di tiro con l’arco e Monsieur Pierre Le Blon è un valente schermidore belga. Si incontrano per caso, a seguito di un piccolo incidente automobilistico e scoprono di avere in comune un certo talento per la dissimulazione: Miss Wood guida un’auto non sua e Monsieur Le Blon non è chi dice di essere. Tra schermaglie sportive e romantiche gite tra i ranuncoli, si consuma quella che pare destinata a restare una fugace avventura. Ma il destino, lento e inesorabile, dispone che i nostri atleti si ritrovino a Vienna nel 1914, per affrontare il passato ed essere travolti dagli ingranaggi della Storia.
È un libro che mi ha incuriosito fin da quando le due autrici hanno iniziato a pubblicarlo a puntate riempiendo le loro pagine Facebook di estratti. È una storia di una storia d’amore senza tempo inserita in una cornice storica realistica e curatissima che mi ha emozionato fin dalla prima pagina. Rebecca Quasi e Amalia Frontali riescono nell’impresa di unire fantasia e realtà, emozioni e ricerca, storia e immaginazione, tra la Londra delle Olimpiadi del 1908 e una Vienna da Belle Époque, in un romance che sfugge le logiche del tempo e riempie il lettore di suggestioni.
La mia recensione.
Quali sono i libri che hanno segnato il vostro 2020?
Raccontatemelo in un commento.
#Rebecca Quasi#Amalia Frontali#Matt Haig#Elisabetta Rasy#Samanta Schweblin#K.O. Kwon#Alice Basso#Randolf Menzel & Matthias Eckoldt#Sofia Segovia#Luca Tarenzi#Caroline Criado Perez#Best of#2020#lista#varie#recensioni
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. ×× ─── ᴛʜᴇ ʙᴏʏʟᴇ 🏠🌳 oh, we're building a home with the mud and the stones & the branches we bind #ᴛʜᴇᴏʀɪɢɪɴᴏғᴜs ( 𝗖𝗔𝗠𝗘𝗥𝗢𝗡 ) « Come state? » « Bentornati a casa! » « Come vanno gli affari? » Frastornato, Cameron dispensa sorrisi a chi gli si avvicina, risponde e saluta. Finge di essere lì quando in realtà vive una lotta interiore, conteso tra passato e presente, tra quello che è stato e quello che è. La musica giunge soave da ogni direzione, accarezzato dai pregiati tessuti scelti da sua madre. Un bicchiere di champagne e un altro ancora. « Stai bevendo troppo, regolati. » La padrona di casa gli accarezza la spalla mentre gli passa accanto e poi lo supera. Hildegard Wallenberg è bellissima nell'abito nero che sfiora il pavimento e Malcolm Boyle le tiene testa nel suo kilt, profondamente legato a quella che è la storia e quale occasione migliore della festa in onore della nuova arrivata? Arya indossa l’abito di sua madre, lo ritrova nei ricami ripresi dalle abili mani dei sarti che ci hanno lavorato. Il bianco del tessuto risplende colpito dalla luce, le piccole pietre riflettono i fasci luminosi in un gioco di colori e risaltano il sorriso innocente della bambina che danza insieme alla sorella e poi ricerca Lady – il cucciolo che i nonni le hanno regalato.
« Lo ricordi? » Una mano scivola alla base della schiena della sua donna, le dita accarezzano la pelle nuda e quelle libere s’intrecciano alle sue nel sollevarle il braccio e trascinarla al centro della pista, insieme a tutti gli altri. Le note sono lente, la guarda mentre si muove a tempo e nei suoi occhi ritrova la stessa Arlene di un tempo. @ ᴘᴀsᴛ « Non posso farlo, mamma. » Fino alla fine cerca di opporsi a quella decisione. Perché? Perché devono prestarsi ad una simile tradizione? « Vuoi lasciare Arlene da sola? Smettila di fare storie, Cameron. » Sua madre gli sistema il colletto della camicia e lo guarda con aria di sfida. « Se proprio non vuoi allora chiedo a qualcuno di sostituirti ma mentre lei si divertirà, tu resterai per conto tuo a fare non so che cosa. Sappi però che tengo molto a questa serata e anche Arlene, dovevi vederla mentre provava il suo abito! È bellissima. » Una buona manipolatrice, ecco come ha conquistato suo marito e quei successi in campo lavorativo, Hildegard sa toccare le giuste corde per vedere gli altri cedere sotto le innocenti considerazioni. « Va bene, hai vinto tu con questo ballo. » Lo scozzese non fa in tempo ad allontanarsi, i piedi si rincorrono in pochi passi prima di fermarsi davanti alle scale e ritrovare la sua dama. Le labbra si schiudono lentamente, la fronte si aggrotta e silenziosamente si ritrova a concordare con la svedese. Bellissima. La sua essenza è racchiusa nel modello bianco che le hanno cucito addosso. « Sei... perfetta. » Pronuncia con la voce bassa, attraversata da un tremito che non riesce a controllare. Deve ancora fare l’ultimo scalino e allora le si avvicina, un braccio si piega dietro la schiena e l’altro si allunga verso di lei per darle una mano. « Siamo pronti! Tutti in posizione. Voi due a capo fila. » Sua madre detta ordine e concede a loro l’apertura della sfilata. « Insieme. » Sussurra all’orecchio della giovane e le stringe la mano, conducendola davanti alle porte.
( 𝗔𝗥𝗟𝗘𝗡𝗘 ) L'abito supera ogni sua aspettativa. La venusta figura riflessa allo specchio quasi fatica a riconoscerla. Ha dei tratti delicati, un'acconciatura d'altri tempi e due pietre d'acquamarina incastonate negli occhi. Mai prima d'allora si è vista così bella, candida ed etera. « Allora? Non dici niente? » La voce di Hildegard Boyle riesce a percepirla a stento. Sfiora la propria spalla con il mento, voltandosi a guardare la padrona di casa. Potrebbe quasi giurarlo Arlene in quell'istante — nell'altrui sguardo vi è una strana scintilla, ed è forse emozione quella che vede? « Hai superato te stessa, Hildegard. » Quel filo di voce sembra sposarsi bene con l'allure soave che quella sera la contraddistingue dal resto. Le labbra si piegano all'insù in un sorriso e – giunta l'ora di incontrare il suo cavaliere – Mrs. Boyle sembra folgorata da un'dea. « Aspetta, volevo darti questa. E' una corona di diamanti, la indossavo al mio debutto in società. Non ho figlie, quindi qualcuno deve pur indossarla, no? » Nel maniero regna il silenzio, tutti sono radunati in sala da ballo in attesa delle giovani debuttanti e dei loro cavalieri. Si tortura le dita e i pallidi incisivi premono nelle dolci mezzelune poco truccate. Il richiamo dei passi dell'amato è forte, e quando si volta scorge l'altrui figura, bella come non l'ha mai vista. Ammantato di nero, Cameron Boyle le si avvicina ed insieme aprono le danze, seguiti da decine di giovani della loro età. La stoffa del guanto preme con decisione sull'altrui avambraccio, a cui si aggrappa più del dovuto — è nervosa. « Tu sei perfetto, e non ho la minima idea di cosa fare » Le porte si aprono e la platea applaude con gaudio, rendendo celebre l'arrivo dei debuttanti al ballo. Lo sguardo si sposta sul viso del giovane Boyle e si affida alle sue forti braccia in quella danza a lei sconosciuta. « Non posso credere che tua madre ci abbia permesso di partecipare insieme a questo evento. Sembrava così contraria quando ha iniziato a sospettare che provassimo qualcosa l'uno per l'altra. » Muove i passi a ritmo di musica, seguendo le arpe e i violini che quella sera suonano dal vivo. « Forse dovremmo essere grati per questa piccola tregua e darle meno filo da torcere nei prossimi giorni. Magari potrei trascorrere più tempo al campus e non farmi vedere in giro qui al maniero. » Ricerca lo sguardo del giovane padrone di casa, ma in quello altrui non vi è la complicità che ha sperato di trovare. La presa sul fianco quasi si rafforza e Cameron azzera le distanze fra i loro corpi. « O forse — dovrei baciarti qui davanti a tutti e gridare al mondo che sei mia. » È il ragazzo a proferir parola, sorridendo sfacciato, come solo lui sa fare. Prima ancora che possa replicare, le labbra della Donovan sono messe a tacere da quelle altrui. Le gente mormora : un cavaliere che bacia una lady in quel modo poco casto ad un simile evento? Indecoroso, ineccepibile, inaccettabile. « Dio, sei pazzo? » Sì, è pazzo. Lo sono entrambi. Pazzamente innamorati. @ ᴘʀᴇsᴇɴᴛ Il tempo sembra non esser mai passato per loro. Osservando il viso del suo uomo, scorge una ruga mai vista prima. Ogni giorno se ne somma una nuova sul volto di entrambi. Non c'è niente di più spaventoso e sorprendente del tempo che scorre. Ha visto anni passare, amici scomparire, parenti allontanarsi, ma Cameron resta il suo unico punto fermo, la sua Stella Polare. ( ... ) Adagia la fronte alla sua, danzando lentamente contro il suo corpo. Quando solleva lo sguardo, annuisce. « Non dimentico nulla di ciò che siamo stati e non vedo l'ora di scoprire ciò che saremo. È stato bello condividere la mia vita con te fino ad ora, Cameron Boyle e il futuro al tuo fianco non mi spaventa. »
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Ancora mancanza
Da: Olympia Orlando [email protected] Date: 17 luglio 2019 21:20 Oggetto: Ancora mancanza A: jean-marie marsiglia [email protected]
Animo, cuore e spirto gentil, vorrei tornare sul tema della mancanza, dell’assenza e della gentilezza. Ora posso affermare che “tu mi manchi, amore mio”? È una mia convinzione che può essere vera per chiunque. Mancanza e assenza si intrecciano l'assenza è una presenza costante: ti sfida in un corpo a corpo quotidiano, ti assedia. Ti vuole nella lotta, misura il tuo respiro. La nostalgia è fisica, poi. È proprio impossibile colmare la mancanza di un corpo vivo: quell'odore, quella morbidezza della pelle, quella voce quando ti chiama. Quel tipo di resistenza docile all'abbraccio, quel modo di piegare il collo. Non c'è niente, nessuno che possa sostituire l'assenza di qualcuno. Solo il sogno. (Concita De Gregorio). Affermi che solo nell’eccezione totalitaria di “mi manchi amor mio” è mancanza, in tutti gli altri casi è un modo di dire “illegittimo” o non corretto e/o abusato cascame delle insoddisfazioni consumistiche. Ma non mi convinci. Sentire la mancanza di un figlio non è mi manchi amore mio e neanche modo di dire “abusivo”. Mancano certe giornate con la luce tersa delle città sul mediterraneo, i profumi dell’estate, l’aria calda sul viso e sulla pelle, l’odore e il silenzio della nebbia, l’attesa e la gioia di un incontro. Con nostalgia ritornano momenti vissuti e manca quella sensazione di appagamento che è difficile ritrovare. Il suono di una risata, uno sguardo complice, una voce suadente, una mano che si sofferma più del dovuto, un viso che si avvicina al tuo, preludio di un bacio o di altro, questo manca. Come lo definisci? La risata, la voce, lo sguardo è di una persona e se quella persona non c’è ne senti la mancanza. E può non essere innamorata di te. Póthos, personificazione del dolore nostalgico per la lontananza della persona amata, non rappresenta questa mancanza? In fondo serve solo trovare un altro termine che definisca quelle che indico con “mi manchi (amore mio)”, e qual’è? Per Massimo Recalcati la mancanza non è un “meno” ma è un “più” potenziale. Perché è proprio la consapevolezza di una mancanza che mette in movimento il desiderio e con il desiderio tutto l’umano... Lacan affermava che la sola vera colpa dell’uomo è quella di venire meno al proprio desiderio. Donare la propria mancanza - la propria insufficienza e la propria vulnerabilità - ha lo stesso valore inestimabile dell’offrire le proprie mani e il proprio volto. Si tratta per Lacan della definizione più alta dell’amore: amare è dare all’Altro quello che non si ha. La mancanza non è afflizione, pena, mutilazione della vita. È generativa, perché costituisce il nutrimento vitale del nostro desiderio, che non è solo rimpianto nostalgico per una pienezza irraggiungibile, ma una potenza, una forza, un’energia trasformativa che rende la mancanza condizione di un’apertura verso l’Altro ricca di vita e di mondo, capace di colmare, come scrive il poeta Mario Luzi, il cuore dell’uomo. Il desiderio manifesta la mancanza che abita l’essere umano, né è la sua espressione più pura. Come accade agli innamorati che si incontrano dopo un certo periodo di lontananza: non si chiede all’amato cosa ci ha portato, non lo si investe con una domanda rivolta all’avere. La domanda d’amore è sempre la stessa: ti sono mancato? La mia assenza è stata per te una presenza? Dunque, alla fine di questo lungo discorso ti manco? Da persona gentile qual sei non hai che una risposta. Una volta mi hanno detto che la gentilezza è una forma di narcisismo: siamo gentili perché ci gratifica, le persone gentili in realtà si auto compiacciono. Non ci ho mai creduto, invece tu concordi dicendo che si, la gentilezza è narcisismo anche se tra tutte le forme è la più accettabile. Compiacersi della propria gentilezza è una forma minore o degenerazione dell’altruismo? Un po’ come compiacersi della propria intelligenza è una forma di stupidità? Compiacersi in ogni caso è pensarsi centro del mondo, il benessere ovvero il minor malessere, forse, è sentirsi fuori di se ossia parte del tutto, proiezione e riflesso della complessità dell’altro vale a dire della natura mai solo gentile o benigna, anzi prevalentemente no. I teorici dell’evoluzione dicono che il dna delle persone gentili ha grandi possibilità di riprodursi. “Un indicatore della salute mentale”, scriveva Donald Winnicott nel 1970, “è la capacità di entrare nei pensieri, nei sentimenti, nelle speranze e nelle paure di un’altra persona. E di concedere a un’altra persona di fare lo stesso con noi”. Continuo a essere certa che amabilità, garbo e belle maniere possano cambiare il mondo e so che in fondo è anche il tuo pensiero. Ti voglio bene, sempre, tanto, tua O. ps. La ricetta dei peperoni verdi fritti potrà colmare la mancanza …
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Ecco le 10 canzoni da imbarcare sull’arca di Noè: da “Space Oddity” di David Bowie ai Pink Floyd passando per Shigeru Umebayashi. Fate il vostro gioco boys…
Le lezione americane sono sei, e su questo non ci piove. Le ha dette (e scritte?) Italo Calvino, proprio agli sgoccioli della vita. Il resto – Coca Cola, patate, “Baywatch”, wrestling, basket, tabacco, pomidori, Dan Peterson e il burro di arachidi – è solo un corollario, qualcosa di superfluo. Anche nella poesia, poca roba. Per non dire della musica: ok Elvis e quattro altri saltimbanchi, ma niente a confronto con quello che è nato in Europa.
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Lei è statunitense ovviamente. Né bella né brutta: semplicemente statunitense. È italiana, in realtà, ma per via che fa la musicista, passa diversi mesi all’anno negli USA e quindi i suoi connotati sono cambiati: è yankee. Ha gli zigomi americani. E mi augura di annegare: non toccategli Elvis, il burro di arachidi, le trasmissioni televisive, Central Park, Broadway e tanto altro ancora che non sono riuscito a tradurre. Perché quando si incazza, quando ci si incazza, si parla velocemente e l’italiano diventa sempre dialetto. Ci si arrabbia in vernacolare, non ci sono santi che tengono. Una crasi tra americano, pugliese e qualcos’altro che non riesco ad afferrare. Un rubinetto aperto, una diga, un Vajont di parole liquide, che scivolano via.
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Chi fa l’artista ci crede, ed è perlopiù permaloso, e spesso poco obiettivo. Una forma di solipsismo incurabile: la sua verità, le loro verità sono sempre più vere e onniscienti di quelle degli altri. Ho ascoltato il suo cd, eseguito in lingua anglofona. La dovrei intervistare, ma trovo più interessante – sempre – quello che non viene scritto sul bloc notes. Quello che accade nei fuori onda, quando escono le cose più vere.
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Mi augura, in italiano, un accidenti meraviglioso: io e la mia Venezia dobbiamo essere sommersi dall’acqua alta. Sa che ci ho vissuto, due o tre vite fa, più o meno dal 3 al 17 anni. E sa che l’antica Serenissima, assieme ad Asiago, sono le mie due “matrie”. Ma non un temporale: un diluvio vero, tipo quello di Noè. Le dico che i veneziani fanno le regate e vogano. E che, per stringente necessità di sopravvivenza, sanno nuotare. Le chiedo se mi concede un’arca.
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Il suo viso si fa acuto, si allunga come quello di un levriero. “Va bene, ma non pensare di occuparla tutta con le tue cose inutili: libri, pieghevoli di spettacoli teatrali che vedi solo te, mug, sciarpe, eccetera”. Concordo per l’indispensabile. “Un po’ di musica?” le chiedo. Accetta. “Ma solo 10 canzoni” mi dice, con aria di sfida. Ovviamente il suo cd, i suoi cd, non li salvo. Lo sa bene. Sa che non mi piace quello che fa. “Sei troppo snob, troppo di nicchia per capire certa arte” aggiunge. “Troppo borghese”. Vorrebbe che la chiusa avesse l’effetto dell’iceberg sul Titanic. Mi scanso un poco, ma senza farmi vedere. Mancato in pieno. Ora la priorità è quella di caricare solo l’indispensabile, che in questo caso sarà anche invisibile agli occhi ma deve essere ben sentibile alle mie orecchie. E alle sue.
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Niente musica americana. Lo sa e glielo ripeto. La tentazione è forte: come lasciare in pasto ai pesci Bob Dylan, Jim Morrison, Bob Marley, i Beach Boys, i Velvet Underground? Ma mi devo salvare, e soprattutto non voglio che lei mi lanci un salvagente. Ci penso, tergiverso, poi lancio l’àncora. Ancòra una volta a cercare un insulto in più, una provocazione. Perché anche lei, prima o dopo, su un’arca ci deve salire. Per salvarsi, o per andare in America. Tipo il “Virginian” di Alessandro Baricco, “Novecento”, roba buona. Le suggerisco di leggerlo. Lei abbassa gli occhi, cerca su Google qualcosa. Poi mi snocciola una frase: “Io sono nato su questa nave. E qui il mondo passava, ma a duemila persone per volta. E di desideri ce n’erano anche qui, ma non più di quelli che ci potevano stare tra una prua e una poppa. Suonavi la tua felicità, su una tastiera che non era infinita. Io ho imparato così. La terra, quella è una nave troppo grande per me. È un viaggio troppo lungo. È una donna troppo bella. È un profumo troppo forte. È una musica che non so suonare. Perdonatemi. Ma io non scenderò”.
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Io sulla nave ci devo salire. Mi devo salvare. Sorride, le piace questo gioco. Prendo “Novecento” in edizione cartacea, quello che Eugenio Allegri e Alessandro Baricco mi hanno firmato. “Il mondo, magari non lo aveva visto mai. Ma erano ventisette anni che il mondo passava su quella nave: ed erano ventisette anni che lui, su quella nave, lo spiava. E gli rubava l’anima”.
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Il cielo tuona, allampa. Temporale di settembre, Rimini. Saluto con il fazzoletto in mano e in tasca dieci canzoni. Gliele scrivo in un foglietto. “Leggilo quando torni a casa”. “Lo farò in volo, promesso. Parto tra tre giorni, il tempo non mi manca”. Ci salutiamo in maniera normale, l’intervista gliela farò quando ha finito il suo nuovo cd: prima lo voglio ascoltare.
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“La prima me l’aspettavo: ‘I’m the walrus’ di John Lennon è un gran pezzo. Te la concedo anche se non mi tolgo dalla testa che ti piaccia per i riferimenti a Lewis Carroll e per il non-sense. Alice è un’invenzione, il tricheco no. Alice è una tua fantasia. Solo una tua fantasia”.
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“Hai giocato facile con ‘Shine on you crazy diamond’ dei Pink Floyd. Per me puoi portarla sull’arca perché l’hai sentita dal vivo quando i Pink Floyd hanno fatto il concerto a Venezia nel 1989 e poi perché è lunga, così il tempo ti passa meglio”.
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“Nick Drake? Insolito. Però ‘Nothern sky’ è bella anche se malinconica. Io non l’avrei scelta, però quello che si deve salvare sei tu. Un consiglio, Ale: esistono tanti altri posti bella da visitare e ascoltare, oltre (al)la Gran Bretagna”.
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“Appunto: ‘Space oddity’ di David Bowie. Sei per mare, non nell’universo-spazio. Avrei detto ‘Life on Mars?’, ma evidentemente non ti conosco abbastanza. Apprezzo la scelta comunque, e te la faccio salire sull’arca così puoi immaginare le stelle”.
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“Una scontata, finalmente: ‘Stairway to heaven’ dei Led Zeppelin. Sai che non l’hanno mai fatta dal vivo? O quasi mai, e se l’hanno fatta io non ero ancora nata. Comunque a calare assi, alla fine in mano ti rimangono le scartine, le carte che valgono poco e che servono per prendere tempo”.
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“Onesta: ‘Angel of the air, part 2’ dei Popol Vuh non la conosco. L’ho cercata, e ti dico boh. Nei hai dieci da salvare, e mi scrivi di un pezzo di musica progressive, tedesca perlopiù, degli anni Settanta. Discrete sonorità ma tristi come le stradine d’inverno quando piove. Non è mia ma di Pessoa. C’è di meglio, molto di meglio”.
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“Intanto Shigeru Umebayashi non è europeo ma orientale: non barare. ‘Yumeji’s theme’ del film ‘In the mood for love’ è il tuo lato sensuale, che hai quando parli anche se non si vede. Ti servirà sull’arca, credimi: sei a rischio di estinzione”.
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“Jun Miyake è nato il 7 gennaio come te: è un caso? Anche lui giapponese quindi non sono sicura che tu possa portartelo dietro. È contrabbando allo stato puro, e non pensare che la canzone ‘Lilies of the valley’ possa passare come ‘europea’ solo perché è stata inserita nello spettacolo ‘Vollmond’ di Pina Bausch”.
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“Fabrizio De André è una cosa che ti appartiene, come le sciarpe che indossi tutto l’anno, o il tuo profumo, ‘Le male’ di Gualtier. A me non piacciono entrambi, però ‘Bocca di rosa’ è una bella storia, come ‘Il gorilla’, che poi, come mi hai spiegato tu, è di George Brassens. Quindi scegli: Sant’Ilario o il giovane giudice con la toga. Tutti e due no, anche perché ti ho detto dieci canzoni, non una di più”.
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“Anche ‘I due fiumi’ di Ludovico Einaudi fanno parte del tuo outfit. Non sono d’accordo con te sull’interpretazione che gli dai, quella della storia di due innamorati che si cercano ma non si incontrano mai. Ogni fiume arriva al mare, e tu dovresti saperlo”.
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Mi ha scritto che è atterrata e che ha sorvolato l’Oceano Atlantico in aereo. Chissà se in volo ha visto un puntino nel mare, un’arca che batte bandiera veneta. “Vedi cara”, la risposta soffia ancora nel vento. E il vento spinge le vele delle barche.
Alessandro Carli
L'articolo Ecco le 10 canzoni da imbarcare sull’arca di Noè: da “Space Oddity” di David Bowie ai Pink Floyd passando per Shigeru Umebayashi. Fate il vostro gioco boys… proviene da Pangea.
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