#disegno dal vero con modella a roma
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24hdrawinglab · 2 years ago
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Scuola libera di nudo con Gabriele Luciani
Scuola libera di nudo con Gabriele Luciani
Scuola libera di nudo con Gabriele Luciani. Con grande gioia 24H Drawing Lab ospita la scuola di nudo dell’artista Gabriele Luciani. Un’occasione per approfondire, oltre alla tecnica, anche lo studio della morfologia, e per chi desidera dedicarsi alla rappresentazione della figura umana. Entreremo nel vivo dello studio anatomico attraverso il disegno, esplorando diverse tecniche grafiche…
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scuoladiradiofonia · 4 years ago
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I documentari degli anni Cinquanta - Rai Radio Techeté
A cura di Edoardo Melchiorri, tre radiodocumentari di inizio anni ’50, quando la televisione era lontana da venire e la radio era ancora il principale strumento di comunicazione di massa. Una radio che, passate le ristrettezze del primissimo dopoguerra, dimostra di avere l’ambizione ed i mezzi per intrattenere ed informare in uno dei settori più difficili da divulgare, quello dell’arte.   
Il ciclo inizia con #1| Va Margutta documentario del 1954 di Renato Tagliani dedicato alla via di Roma che fin dal Seicento attira artisti da tutta Europa. Interviste ai pittori e agli scultori, ai modelli, ai personaggi di via Margutta: da Giovanni Omiccioli, rappresentante della storica Scuola Romana e simbolo della comunità artistica, al bulgaro Ilia Peikoff, dalla veneziana Beatrice Lazzari che si allontanerà via via da tecniche e materiali tradizionali diventando un'icona dell'arte moderna, al faentino Angelo Sabbatani. Lunga e disinvolta conversazione con la modella Ida Manfrin. Visita agli atelier e alla scuola di disegno dal vero: motivazioni e sogni degli allievi.    
#2 |  America oggi #3 |  Intellettuali stranieri in italia                
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iltrombadore · 4 years ago
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Katy Castellucci, la realtà e il sogno della pittura
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Conobbi nei primi anni Ottanta la persona di Katy Castellucci (1905-1985) per poco tempo, quasi di sfuggita: quella fu l’unica occasione, e non saprei dire se la vidi lungo la Via dell’Oca, dove lei abitava accanto a suo nipote Sandro Pagliero, mio caro amico, oppure durante una di quelle provvide esposizioni che all’epoca misero in evidenza le migliori qualità artistiche della Scuola Romana tra le due guerre mondiali, grazie all’opera di galleriste fuori del comune quali sono state Netta Vespignani e Lucia Stefanelli Torossi. Fu un breve incontro, certo, il mio: che tuttavia ricordo sempre vivido ed eloquente perché l’immagine di Katy Castellucci mi si stampò negli occhi come fosse il tipo di una presenza antica e, chi sa perché, a me del tutto familiare. Lei era una donna in età avanzata, e portava i capelli incanutiti affioranti appena dal copricapo che li raccoglieva, in modo impertinente e un poco, quasi, sbarazzino. Era una figura in ogni caso distinta e ben composta, la sua, figura discreta d’altri tempi, di una vanità giovanile raccolta e spiritosa, dal punto di sorriso piegato sui labbri appena mossi, fino alla fresca agilità di un corpicino minuto, esile, ma asciutto, sicuro e ben piantato.  
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Poi, la chiave esplicativa di quel fascino che da lei emanava mi fu, a poco a poco, abbastanza chiara. Katy, nella persona vivente, era come lo stampo animato di uno di quei suoi personaggi femminili, di quelle signore e signorine che aveva saputo così bene ritrarre, dipingere e incastonare in effigie dalle pose diverse di quasi mezzo secolo prima: nude, vestite, azzimate o semi-discinte, con lo sguardo breve, il dialogo dell’ occhio spalancato e interrogante, la spalla enunciata in aggetto di movimento vibrante e sospeso. Presa dal vero, la pittura diventava sogno, e la vita a sua volta diventava sogno della pittura. Sopravviveva, nella presenza e nei modi di Katy Castellucci, lo spirito germinale di quella bohème romana che aveva animato gli studi di Via Margutta e tutto intorno le vie del Tridente, dall’Accademia di Belle Arti, alla salita di Ripetta, a piazza del Popolo, nel pieno degli anni Trenta fin lungo tutto il buio tunnel della guerra e le genuine e  fin troppo ingenue speranze di rinascita che ne seguirono. Una parziale suggestione, era forse la mia, assuefatta e attirata dall’occhio di Mafai e Ziveri penetrante nel mondo cantabile delle comari romane, stenditrici di panni al sole, o in quello abietto e disperato dei bordelli popolari, con le donne sulle scale di Pirandello, quelle popolane alla finestra di Guttuso, oppure le fanciulle velate dal mesto colorismo crepuscolare di Cavalli, e da tutto quel tesoro di immagini femminili ricavato dalla più intensa delle cronache familiari: era come la stenografia o la memoria di un racconto ininterrotto di esperienze vissute e trasposte sulla tela, coi volti e le trepidanti movenze delle adolescenti dipinte da Antonietta Raphael, l’elegante tratto luminoso delle vesti ricamate da Adriana Pincherle, certi corpi accucciati e torniti dal veloce pennello di Toti Scialoja, nei primi anni Quaranta, con una giovanissima Titina Maselli a fare da modella e figura emblematica di  espressività contenuta nelle volute fisiognomiche dei contorni e nell’implorante apertura dello sguardo. 
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Pure tra diverse maniere di vedere, ad inseguire varianti e regole di stile, lo spirito veramente originale della “Scuola Romana” di quel tempo si riconosceva nell’approccio narrativo e autobiografico, nel viatico  non retorico di una pittura moralmente intesa come pietra di paragone della vita: una naturalezza espressiva della generazione artistica che si allontanava dai moduli e precetti estetici del “Novecento”e dalle risultanze spettacolari del dinamismo futurista, per ripiegare invece sul crinale di un racconto figurativo più intimo e molto umano, legato ai valori emotivi della composizione d’immagine. Era il segno di una attenzione meticolosa per la formulazione del dipinto come testimone e contrassegno di un autentico “essere nel mondo”, un vademecum spirituale che andava ben oltre la tecnica e i rituali del professionismo e di ogni qualsivoglia retorica celebrativa e ufficiale. Di questo approccio alla pittura “come vita” -la cui lezione principale veniva da Scipione, e seguiva sul piano letterario il movente poetico delle “occasioni” montaliane- l’animo gentile di Katy fu tutto preso e determinato: la sua radice espressiva si circondò così dei sentimenti immediati e vivamente fissati sulla tela travalicando le più veloci traduzioni impressioniste per tornire a fondo l’impasto sintetico degli effetti cromatici  che miravano a modellare una forma sospesa, incantata, e pure fedele al vero, senza accorgimenti artificiosi, senza soverchie magìe, tutta aderente al motivo esistenziale e psicologico del soggetto figurato. 
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Della pittura di Katy avevo avuto notizia, all’epoca in cui la conobbi, solo per sommi capi: me ne ero fatta l’idea sommaria di una valida e meticolosa seguace della “scuola di Via Cavour”, per quell’impaginato semplificante tutto su di un piano e la stesura calibrata dei colori giunti a tono per condensare l’immagine in superficie, secondo che avevo visto in alcune sintomatiche tele di Mafai alla metà degli anni Trenta. Il tonalismo e la passione per il timbro del colore mi pareva allora lo scopo dominante la pittura di Katy. Ed era solo in parte vero, poiché era un giudizio approssimativo. Solo quando di lei si fece una prima retrospettiva, qualche anno dopo la sua scomparsa - promossa da Lucia Torossi, con gli scritti di Claudia Terenzi, Fabio Benzi, Romeo Lucchese e Federica Pirani- fu possibile, almeno a me, di avere una sensazione più esauriente di quella volontà d’arte condensata sulla tela, secondo un percorso che è assieme stilistico ed esistenziale.  Molta cultura visiva passa per le pitture di Katy; molta esperienza umana, molto vissuto. Siamo nel pieno degli anni Trenta. Roma trema al cospetto delle demolizioni, e si risveglia al clamore futuristeggiante di un gusto razional-classicista che rimodella l’Augusteo, la spina di Borgo, l’area dei Fori, i campi aperti all’atletismo, dallo Stadio dei Marmi alle palestre del Foro Mussolini. Sotto la traccia delle immagini ufficiali, costeggia in silente conflitto il profilo inquieto di una nuova generazione che tenta di riconoscersi chiusa in sé stessa,  sul filo di una vitalità pittorica che trasfigura il dato esistenziale in un ermetico lirismo della realtà.  
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La pittura non è documentazione. Altro è la pittura, altro la fotografia. Il vero diventa fantasma dipinto, prensile immagine, sintesi di forma e colore. Ecco Scipione, ecco Raphael e Mafai, ecco Marino Mazzacurati e Ziveri, ecco Cavalli, Cagli e Capogrossi, Afro, Mirco e Janni, mentre si fanno strada Fazzini, Montanarini, Savelli e De Felice, Omiccioli, Scialoja e tutti gli altri, assai sensibili alla versione formale di una pittura da cui possa traboccare un contenuto emotivo, fin troppo umano, anche quando presentato in forma di mitologema “primordiale”. Abbinando il vezzo femminile alla forza di carattere, con il beneficio di una grazia spontanea, il vocabolario estetico di Katy trasfigurava così l’esperienza del quotidiano nello smalto di un armonico cammeo, il cui effetto visivo travalica il tempo storico conservandone i lineamenti. Alle eleganze tonali raggiunte nel 1935-1936 (al tempo in cui espose alla Cometa di De Libero le sue opere insieme a quelle di Adriana Pincherle) si affiancano le vibranti e scabre pulsioni sentimentali di certi nudi raggomitolati, e i successivi autoritratti, l’accento realistico ed espressivo nel dialogo intimo intrecciato con il volto di sua sorella Guenda, compagna di vita e prove morali, mettendo a frutto un bagaglio stilistico (Ziveri, soprattutto) per conferire al dato narrativo l’incanto della pittura. Katy viveva così il sogno della pittura tanto quanto viveva la sua vita di donna moderna immersa nei fragori del secolo. E d’altra parte che non fosse solo un mondo inventato, ma piuttosto un diffuso tessuto di umanità e di vita culturale, ce lo ricorda Romeo Lucchese, quando descrive per esempio la comunità di “piccola Atene, lontana dal regime”situata ai bordi del Tevere sul galleggiante a due  passi dalla salita di Ripetta dove si incontravano quasi tutti gli artisti che sarebbero stati  associati alla “Scuola Romana”, assieme ad architetti, galleristi, scrittori e poeti. 
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Forse, il garbuglio di stili e personalità emerse con i cento fiori della “Scuola Romana” trova il suo epicentro espressivo nel comune bisogno di testimoniare, l’accento di vitalità che si racconta incastonata nella pittura e in un disegno febbrile di corpi, volti, brani di scenario e paesaggio urbano immersi nella luce di Roma, quando limpida, quando corrusca, come tela di fondo di drammatiche, inesauste e impredicabili attese esistenziali. Era così tratteggiato il clima culturale di quella sovrabbondante inquietudine “ermetica” d’anteguerra, che si sarebbe risolta per diverse diramazioni espressive e riduzioni stilistiche dopo le prove morali del traumatico crollo del regime fascista, nella attività di resistenza, di cui molti artisti furono interpreti appassionati, e anche Katy ne fu partecipe, col tratto di una fedele e costante attenzione, quando fece la spola per collegamenti informativi tra Roma e Milano, dove il marito Corrado De Vita era impegnato nella clandestinità. Il segno della fedeltà alla pittura intesa come sogno della realtà era la conferma di un’adesione alla vita intesa come sogno della pittura. 
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Quel sintomatico scambio di arte e vita venne messo ancora più alla prova nel tumultuoso secondo dopoguerra che moltiplicò le energie artistiche e l’incanto narrativo autobiografico -temperie distintiva della “Scuola Romana”- si venne ad affievolire cedendo il passo alle prevalenti tendenze del neo-formalismo astratto e del realismo ideologico, con la minuta compagine dei “pittori fuori strada”(Scialoja, Sadun, Stradone, Ciarrocchi) a tentare la via d’uscita di un palpitante esistenzialismo figurativo. Katy Castellucci, dal canto suo, restò legata alla scelta originaria di una pittura pervasa di sognante “figuratività” che sembrò riemergere quasi intatta quando nel 1951 si presentò come quasi vent’anni prima ad esporre con Adriana Pincherle  presso lo Zodiaco di Linda Chittaro. Di quella mostra, l’ occhio arguto di Alfredo Mezio colse soprattutto il “bagaglio romano e marguttiano” rilevandone la “cartavelina tonale, neopicassiana, purista”, accanto alle sentite derivazioni da Mafai e Ziveri. Quella occasione fu, che io sappia, l’ultima impegnativa  comparsa pubblica dell’ opera di Katy, che non mutò di stile, se non per poche varianti, vicine alla parallela attività di insegnante, costumista e scenografa. Era la conferma di un comportamento morale oltre che estetico: poche in vita furono le esposizioni, poche le sortite, ma costante fu l’impegno  custodito, come messaggio di serietà e sincerità, nella bottiglia della pittura. Peccato, ma non è forse un caso, se  Katy non compare nel film-melodramma “Le modelle di Via Margutta” girato da Giuseppe Scotese nel 1945 dove altri suoi amici artisti -Fazzini, Montanarini, Tamburi, Guzzi, Tot, Scordia- si avvicendarono a recitare la parte di sé stessi negli studi del n.51. In quel clima di nascenti speranze nate dopo il trauma della guerra, avremmo visto volentieri la sua elegante figuretta, così emblematica della “Scuola Romana”, in movimento sullo schermo. Eppure oggi anche quell’assenza ci dice molto, ci racconta di lei, della sua discrezione e gentile ritrosia, e suggerisce sul suo temperamento artistico molto più della presenza.
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carmenvicinanza · 4 years ago
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Maria Lai e l’arte relazionale
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https://www.unadonnalgiorno.it/maria-lai/
Maria Lai è stata una delle voci più singolari dell’arte italiana. È, senza dubbio, l’artista più importante della Sardegna.
Nacque a Ulassai, in provincia di Nuoro, il 27 settembre 1919.
Di salute cagionevole, durante l’infanzia visse a casa di zii senza figli, e saltò vari anni scolastici. Nell’isolamento forzato, scoprì la sua attitudine per il disegno. Erano anni difficili vissuti in una terra isolata, caratterizzati da grande miseria e sofferenza. Varie tragiche vicende familiari sconvolsero la sua infanzia, il suicidio dello zio accusato di omicidio, la morte della sua sorella minore Cornelietta, nel 1933. In quest’occasione, in mancanza di foto della piccola defunta, la giovane Maria posò come modella per la statua sulla lapide fatta da Francesco Ciusa, famoso scultore sardo. Fu allora che vide per la prima volta la bottega di un artista e rimase profondamente affascinata da quell’atmosfera.
Frequentò le scuole secondarie a Cagliari, dove il suo maestro d’italiano scoprì la sua sensibilità artistica instradandola probabilmente a quella che sarebbe stata la sua carriera futura.
Nel 1939, nonostante le grandi difficoltà economiche della famiglia, si iscrisse al Liceo Artistico di Roma, dove si distinse per il suo segno maturo, estremamente essenziale e rapido.
Dopo il liceo frequentò l’Accademia di Belle Arti di Venezia, unica donna a studiare scultura con Arturo Martini, esperienza non certo facile ma che si riscoprirà in futuro molto fruttuosa. La seconda guerra mondiale le impedì il ritorno sulla sua isola natale.
Nel 1945 tornò in Sardegna in modo rocambolesco, su una scialuppa di salvataggio dal porto di Napoli a quello di Cagliari.
Si trasferì a Roma nel 1956, dove fu a contatto con le ricerche artistiche sue contemporanee, prima l’Informale e poi, nel decennio successivo, l’Arte Povera e Concettuale. Filtrò queste suggestioni elaborandole con la sua individuale sensibilità.
Nel 1957, tenne la sua prima mostra personale alla galleria L’Obelisco.
Gli anni sessanta furono un periodo di intense collaborazioni ma cominciò gradualmente a allontanarsi dagli ambienti artistici per avvicinarsi sempre più agli ambiti della letteratura e della poesia. Fondamentale fu l’incontro con Giuseppe Dessì, grande scrittore sardo, che ricoprì un ruolo fondamentale nella sua formazione artistica, facendole riscoprire il valore delle leggende e della storia della Sardegna.
La relazione con le tradizioni della sua terra natale divenne centrale nel lavoro di Maria Lai. Il suo percorso fu il recupero del passato per indagare il futuro.
Accanto al disegno, la sua produzione si arricchì di soggetti e materiali vicini alla cultura millenaria e popolare, come nel caso delle sculture di pane, elemento deperibile e legato alla quotidianità e al lavoro femminile.
Negli anni settanta, realizzò anche una serie di opere centrali per lo sviluppo del suo linguaggio, i Telai, opere in cui pittura e scultura si incontravano e dove la tradizione della tessitura si aprì a nuove potenzialità. La struttura stessa del telaio, i filati e la disposizione della trama e dell’ordito furono gli elementi che l’artista interpretò rielaborandole con assoluta libertà compositiva, evocando l’intimità e la cura quotidiana di un mondo di gesti femminili, producendo opere in cui astrazione e paesaggio, colore e materia, gesto e composizione si fondono tra loro.
Seguirono le Geografie alla fine degli anni settanta. Un racconto organizzato intorno a ampie composizioni realizzate con stoffe e ricami che rappresentano pianeti, geografie e costellazioni immaginarie. I Libri rappresentano uno degli aspetti più noti della sua produzione artistica.
Nel 1978, presentò il famosissimo Libro Scalpo alla Biennale di Venezia. Il legame tra tessitura, ricamo e scrittura, intenso e profondo, era l’eco di una relazione antica che evocava gli albori della narrazione.
In tutta l’opera di Maria Lai, il gesto della tessitura è una meditazione condotta in solitudine, una riflessione intima sul senso della comunità, della storia e della tradizione, il tentativo poetico di ricostituire un legame tra un passato arcaico e un presente in cui la memoria e la sua trasmissione appaiono perdere valore.
La sua percezione con la comunità, il ricordo e le relazioni trovò una summa nei suoi interventi ambientali.
La sua opera più importante è stata l’installazione Legarsi alla montagna (Ulassai, 1981), opera-azione che univa un’intera comunità attraverso esili fili colorati. Il progetto nacque a partire da una leggenda del paese secondo cui una bambina si era salvata la vita afferrando un nastro azzurro. L’evento, della durata di tre giorni, consistette nel legare fisicamente, con dei nastri dalla lunghezza complessiva di 27 chilometri, gli abitanti di Ulassai, alle case, alle porte e alle vie del paese stesso.
Collegando l’intero paese dimostrò che l’arte era riuscita là dove religione, interessi e politica non erano mai riusciti.
A partire dagli anni Novanta diede vita a una serie di interventi di arte pubblica che, grazie a una visione programmatica, riuscirono a trasformare Ulassai, il suo paese natale in un vero e proprio museo a cielo aperto, recentemente riconosciuto sito di interesse culturale. Realizzò installazioni effimere e opere in molte città italiane, il suo lavoro cominciò a essere molto apprezzato a livello internazionale.
Nel 2006 ha inaugurato il Museo Stazione dell’Arte, dedicato alle sue opere che ne raccoglie una parte considerevole. Dopo il successo del museo, i suoi lavori oggi sono nelle collezioni permanenti delle istituzioni di tutto il mondo, New York, Roma, Venezia, Parigi.
Negli ultimi anni della sua vita ha vissuto e lavorato nella casa di campagna a Cardedu, dove è morta il 16 aprile 2013.
Maria Lai è stata una grande artista che ha saputo creare, in anticipo sulle ultime ricerche di arte relazionale, un linguaggio capace di coniugare sensibilità, tradizioni locali e codici globali.
La sua arte era pubblica, spesso effimera, con l’obiettivo di creare relazioni, di unire le persone alla loro storia per un futuro differente e migliore.
Gli elementi più importanti della sua ricerca sono stati: la poesia, il linguaggio, la parola, la cosmogonia, la vocazione pedagogica del “tenere per mano”.
Negli ultimi anni la visibilità internazionale dell’artista è quadruplicata sia da un punto di vista dell’attenzione dei curatori e delle istituzioni che del mercato e dei collezionisti.
Nell’arte di Maria Lai traspare un radicale attaccamento alla sua regione, al suo territorio così come alla mitologia sarda. Il coinvolgimento della collettività e il rapporto con la comunità sono tratti caratteristici della sua ricerca e poetica.
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