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El se la godi
El Mato su in colina
Nisùn lo vedi.
Lu guarda el mondo giràr
Inquieto, soridendo.
BaoUtnaFèretWaka, Primo Aprile 2024 - 7.11, Kontowood.
Scuseme, Paul & John…
#baotzebao#valerio fiandra#haikyou#kontowood#ilrestomanca#ildopovita#wakabaotzebao#dopovita#BaoUtnaFèretWaka#april fool's day#the beatles#Fool on the hill#paul mccartney#john lennon#sorriso#Mato#dialetto triestino#dialetto#mondo#gira#collina#Youtube
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Pnlegge: Grisancich e il lato comico di Kafka
Testi di prosa e poesia, in lingua e in dialetto (triestino), con illustrazioni. Tutto dedicato al Franz Kafka. E’ “Franz Kafka ovvero:” (Vita Activa Nuova, pag. 160, euro 25, postfazione Laura Ricci) l’ultimo libro del poeta Claudio Grisancich (che a breve sarà tradotto anche in Francia). Lo ha presentato a Pordenonelegge e la congiunzione “ovvero” sta per un lato meno noto dello…
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Al via la 39esima stagione del Teatro in Dialetto Triestino
Al via la 39esima stagione del Teatro in Dialetto Triestino. Nella sala giunta del palazzo muncipale di Trieste, mercoledì 6 settembre alle ore 11.00, si terrà la conferenza stampa di presentazione della “39esima Stagione del Teatro in Dialetto Triestino” organizzata e promossa da L’ARMONIA APS Associazione tra Compagnie Teatrali Triestine F.I.T.A. Interverranno il vicesindaco e assessore ai Teatri Serena Tonel e per L'ARMONIA APS il presidente Paolo Dalfovo, il direttore artistico Riccardo Fortuna e Sabrina Censky Gojak, relazioni esterne e ufficio stampa. Presente anche anche Dario Marin, Banca Mediolanum, main sponsor della Stagione. ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Come dice Mattarella, l’evento delle così dette foibe (fosse) è un tragico momento della storia dell’umanità. In Italia è stato istituito il giorno del ricordo. È giusto ricordare, ma è giusto ricordare bene. Il numero delle persone estratte dalle foibe non è superiore a 600 e non sono tutti italiani. Il numero dei civili uccisi dagli slavi dopo la guerra, supera probabilmente i 6000 individui, è un numero enorme e non ha senso gonfiarlo, partiamo da qua. Scrive Predrag Matvejević nel 2005: In Istria e a Kras dalle foibe sono stati esumati fino ad ora 570 corpi (lo storico triestino Galliano Fogar ne riporta persino un numero minore, notando che nelle fosse furono gettati anche alcuni soldati uccisi sui campi di battaglia, non solo Italiani). Oggi possiamo sentire la propaganda che su svariati media italiani fa riferimento a "decine di migliaia di infoibati". Secondo lo storico italiano Diego de Castro nella regione furono uccisi circa 6.000 Italiani. Non serve aumentare o licitare quel tragico numero, come in questo momento sembrano fare i giornali italiani, con 30.000 o 50.000 uccisi. Bisogna rispettare le vittime, non gettare sulle loro ossa altri morti, come hanno fatto gli "infoibatori". Perché Matvejević scrive “gettare sulle loro ossa altri morti”? Perché non bisogna dimenticare (a questo serve il ricordo) che dagli anni 20 il fascismo eseguì in quella regione una enorme strage di slavi. A “inventare” il riutilizzo delle foibe (furono usate anche in passato allo stesso scopo) fu il fascismo. “Il ministro fascista dei lavori pubblici Giuseppe Caboldi Gigli, che si attribuì l'appellativo vittorioso di "Giulio Italico", scrive nel 1927: "La musa istriana ha chiamato con il nome di foibe quel luogo degno per la sepoltura di quelli che nella provincia dell'Istria danneggiano le caratteristiche nazionali (italiane) dell'Istria" ("Gerarchia", IX, 1927). Lo zelante ministro aggiungerà a ci�� anche dei versi di minacciose poesie, in dialetto: "A Pola xe arena, Foiba xe a Pizin" ("A Pola c'è l'arena, a Pazina le foibe"). “ Decine di migliaia di slavi furono fucilate dai fascisti italiani e Slavi; furono quasi 100.000 i deportati Slavi, i loro beni confiscati e dati ad italiani (molti anche del sud) che colonizzarono la zona. Quello che successe nelle foibe fu un’atroce vendetta. La vendetta va sempre stigmatizzata, ma non deve farci dimenticare ciò da cui è scaturita, soprattutto se un crimine come quello delle foibe, deriva da un crimine ancor più grande. Il negazionismo è ridicolo, ma la falsa storia che si mette in giro in Italia da decenni grida vendetta al cospetto della verità. 15 anni fa Matvejević scriveva queste parole: “Non siamo ingenui. Si tratta di una mobilitazione eccezionalmente riuscita del berlusconismo nello scontro con l'opposizione, con la sinistra e le sue relazioni col comunismo che, secondo le parole di Berlusconi, ha sempre e solo portato "miseria, morte e terrore", e persino anche quando sacrificò 18 milioni di vittime di Russi nella lotta per la liberazione dell'Europa dal fascismo. Questa campagna meditata è iniziata 5-6 anni fa, al tempo in cui fu pubblicato "Il libro nero sul comunismo", distribuito pubblicamente dal premier ai suoi accoliti. Essa è condotta, pubblicamente e dietro le quinte, abilmente e sistematicamente. Il suo vero scopo non è nemmeno quello di accusare e umiliare gli Slavi, ma danneggiare i propri rivali e diminuire le loro possibilità elettorali. Ma gli Slavi - in questo caso perlopiù Croati e Sloveni - ne stanno pagando il conto. Esiste una sorta di "anticomunismo viscerale" che secondo le parole di un mio amico, il geniale dissidente polacco Adam Michnik, è peggio del peggiore comunismo. Il sottoscritto forse ne sa qualcosa di più: ha perso quasi l'intera famiglia paterna nel gulag di Stalin. Ma per questo non disprezza di meno i fascisti.”
Natalino Balasso
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Irlanda: un viaggio culturale nell’Isola di smeraldo
Cosa consigliare di meglio ai nostri 6000 followers, se non di unire turismo e letteratura, paesaggi e cultura, vacanza e conoscenza? La nostra proposta di oggi è l’Irlanda e, per cominciare dalla capitale, “Dublino è una città che trasuda letteratura. Culla di scrittori di fama mondiale e romanzi che ne hanno fatto uno scenario universale, si può esplorare la città attraverso tour letterari”.
Nato a Dublino nel 1854, Oscar Wilde è un autore spesso citato nel nostro blog e talmente grande da essere continua fonte di ispirazione: prova ne sia il film Wilde Salomé del 2018 diretto e interpretato da Al Pacino. Se manca nel vostro carnet letterario, non fatevi sfuggire L’omicidio di Lord Arthur Savile del 1887, racconto quasi “buzzatiano” sul tema dell’assurdità della vita e del subdolo gioco del fato di cui siamo artefici e vittime allo stesso tempo, proprio come il soldato di Samarcanda della favola orientale cui si ispirò Roberto Vecchioni, che nel parossistico tentativo di sfuggire la morte, non fa che accelerare il compimento del suo destino. Originale e ironica, infine, la statua a colori posta a Merrion Square, vicino alla casa natale dell’artista, che lo ritrae, elegantissimo, in posa sdraiata e atteggiamento sarcastico.
Per descrivere William Butler Yeats (nato a Dublino nel 1865, premio Nobel nel 1923) bastano questi pochi versi:
Samuel Beckett, di Foxrock, piccolo centro vicino a Dublino, premio Nobel nel 1969. Due curiosità: ebbe la fortuna di accedere al Port Royal School, lo stesso istituto superiore frequentato da Oscar Wilde e adorava Dante Alighieri al punto da diventare un vero esperto di studi danteschi. Un suo aforisma: “Ho provato, ho fallito. Non importa, riproverò. Fallirò meglio”. Anche del suo grande amico e mentore, James Joyce, non mette conto parlare: tutti infatti sanno che nacque a Dublino nel 1882, ma forse non tutti ricordano che visse molto tempo a Trieste al punto da impadronirsi del dialetto triestino e che fu molto amico di Italo Svevo.
Se poi volete compenetrarvi nell’atmosfera mitica e favolosa delle tradizioni celtiche, lo scrittore più esperto è sicuramente James Stephens, profondo conoscitore del gaelico, divenuto celebre per il romanzo La pentola dell’oro. Riguardo la scrittrice Edna O’Brien citeremo l’abstract che trovate nel nostro catalogo: “La piú talentuosa tra le donne che scrivono in inglese in questo momento” (Philip Roth); “Quale autore al mondo sta alla pari di Edna O’Brien nell’esplorare il cuore degli uomini? Nessuno, secondo me” (Frank McCourt); “Qualcuno ha detto che se cresci in Irlanda impari il peccato dai preti, il latino dalle suore e la passione da Edna O’Brien” («The Atlantic»). Per Flann O’Brien (pseudonimo di Brian O’Nolan) si è fatto addirittura il confronto con Joyce, per la sensibilità del linguaggio, l’attenzione nella resa del parlato di Dublino, l’abilità nel ritrarre la società irlandese contemporanea e il suo provincialismo, sempre con una certa ironia dissacrante, che gli deriva dalla lunga esperienza come giornalista dell’«Irish Times».
Tra i classici tutti ricordano Jonathan Swift, Bram Stoker, nato in un villaggio costiero vicino a Dublino, e il commediografo George Bernard Shaw (Dublino, 1956), l’unico, fino a Bob Dylan, ad aver vinto sia il Nobel sia l’Oscar; su di lui un fulminante aforisma di Oscar Wilde: “Fino ad ora, Bernard Shaw non è diventato sufficientemente illustre da avere dei nemici ma non piace a nessuno dei suoi amici”; citiamo anche il poeta Seamus Heaney (Nobel nel 1995); il drammaturgo John Millington Synge; William Trevor, scrittore e drammaturgo scomparso nel 2016; la prolifica Catherine Dunne, che ha appena dato alle stampe Come cade la luce; Joseph O’Connor ha pubblicato il suo ultimo romanzo, Il gruppo, nel 2015. Una curiosità: il romanzo Star of the Sea in Gran Bretagna e Irlanda è stato il libro di narrativa più venduto in assoluto nel 2004. Inoltre, Frank McCourt, dal cui libro più celebrato, Le ceneri di Angela, è stato tratto un commovente film con Emily Watson e Robert Carlyle; Roddy Doyle, scrittore e sceneggiatore, dai suoi libri sono stati tratti numerosi film, e John Banville, romanziere e giornalista, noto per il suo “umorismo nero”. Una curiosità: Pietro Citati («Corriere della Sera», 23 marzo 2017) ha definito il suo romanzo, L’intoccabile, il più bello degli ultimi quarant’anni.
Inoltre, da bravi bibliotecari non possiamo non citare la Old Library, una delle più importanti biblioteche d’Europa. Nella foto la Long Room, una sala di 65 metri che ospita circa 200.000 volumi fra i più antichi del Trinity College, la più prestigiosa università d’Irlanda, che conserva il prezioso Book of Kells, uno straordinario evangeliario miniato, redatto probabilmente attorno all’anno 800 “nel monastero dell’isola di Iona, piccola isola lungo la costa scozzese. Fu poi trasferito nella chiesa di S. Colombano, a Kells, in Irlanda, dove i monaci si erano rifugiati per sfuggire alle incursioni vichinghe e qui fu custodito finché, all’arrivo delle truppe di Cromwell (1653), fu portato a Dublino. Dopo la Restaurazione fu donato al Trinity. È il più ricco di tutta la produzione insulare e le pagine iniziali dei Vangeli sono come il punto d’arrivo di un intenso processo di sviluppo artistico” da Manoscritti e miniature. Il libro prima di Gutemberg di Giulia Bologna (Mondadori 1988, pp. 62-63). “In questo codice la scrittura semionciale, rotondeggiante e strettamente legata alla decorazione, è tracciata in forme sfarzose e mostra non di rado variazioni piene di fantasia” da Bernhard Bischoff, Paleografia latina, p. 124. L’esterno, di fronte alla Berkeley Library, è impreziosito da un tocco italiano: la scultura Sfera con sfera di Arnaldo Pomodoro.
Lo scrittore tedesco Heinrich Böll (più volte citato nei nostri post), premio Nobel nel 1972, fu a tal punto rapito dal fascino di questo paese da acquistare una casa a Dugort, splendida località costiera, e da pubblicare nel 1957 il Diario d’Irlanda che, proprio nello spirito di questa terra misteriosa, magica, estrosa creatrice di saghe e leggende, non si può definire un vero e proprio libro di viaggi, ma, a sua volta, “una bella favola arcaica”.
Vogliamo concludere con le parole di Joyce:
“Quando morirò Dublino sarà scritta nel mio cuore”.
#percorsidilettura#irlanda#Dublino#Oscar Wilde#George Bernard Shaw#William Butler Yeats#Jonathan Swift#James Joyce#Samuel Beckett#Roddy Doyle#Edna O'Brien#Flann O'Brien#John Banville#Heinrich Boll#John M. Synge#Bram Stocker#James Stephens#Seamus Heaney#William Trevor#Catherine Dunne#Joseph O'Connor#Frank McCourt#Book of Kells#Trinity College
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Tramonto a teatro r... Estate in Armonia, divertente rassegna di commedie in dialetto triestino, all'aperto nella cornice del Giardin Pubblico a Trieste Articolo su www.moonlightloren.wordpress.com #whatawonderfulworld🌙 . #fvglive #trieste #friuliveneziagiulia #teatro #tramonto #giardinpubblico (presso Giardino Pubblico Muzio Tommasini) https://www.instagram.com/p/Bz3lrzdCGMu/?igshid=ksy24d8lvg1x
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28/08/21 - “R…Estate in Armonia 2021” - "Tuti ogi?!?" da "Tom, Dick e Harry" di Ray e Michael Cooney - COMPAGNIA DEI GIOVANI APS – F.I.T.A.- Teatro Basaglia - Trieste
28/08/21 – “R…Estate in Armonia 2021” – “Tuti ogi?!?” da “Tom, Dick e Harry” di Ray e Michael Cooney – COMPAGNIA DEI GIOVANI APS – F.I.T.A.- Teatro Basaglia – Trieste
Vi informiamo che sabato 28/08/21, ore 21.00, presso Teatro Basaglia – Trieste, vi sarà la rappresentazione de “Tuti ogi?!?” da “Tom, Dick e Harry” di Ray e Michael Cooney, nell’ambito della rassegna “R…Estate in Armonia 2021”. dettagliR…Estate in Armonia 2021Presentata l’ottava edizione della Rassegna estiva di spettacoli in Dialetto Triestino “R…Estate in Armonia 2021 – Teatro al Giardino…
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“Non piangere, non è niente morire”: indagine dentro “La coscienza di Zeno”, il romanzo più rivoluzionario (e sapienziale) della letteratura italiana
Il più grande romanzo del Novecento italiano è stato scritto da un autore che non parlava italiano. E questo è soltanto uno dei paradossi che accompagnano la nascita della «Coscienza di Zeno» e la vita di Ettore Schmitz, lo scrittore triestino che volle ribattezzarsi con lo pseudonimo di Italo Svevo. La lingua, dunque. La sfida che, a differenza di tutti gli altri scrittori del mondo, lo scrittore italiano si è trovato ad affrontare ogni volta che ha progettato un romanzo è stata questa: come lo scrivo? In che lingua? L’italiano è, infatti, come si sa, un’invenzione tutta letteraria. Basti pensare al travaglio linguistico che accompagnò per decenni Manzoni nella stesura dei «Promessi sposi», che aveva appunto sottesa un’unica, inesausta domanda: «In che lingua lo scrivo»? Per non parlare di quell’altro capolavoro che è «I malavoglia» di Verga (o «Quer pasticciaccio» di Gadda, o «Il partigiano Johnny» di Fenoglio). Come se ogni romanzo italiano, per essere grande davvero, avesse dovuto inventarsi una propria lingua, o meglio una propria personale soluzione alla perenne «questione della lingua».
Per molto tempo l’italiano di Svevo (un cognome scelto per dimidiare, non a caso, la propria nazionalità e cultura) è stato giudicato approssimativo: un «italiano fortuito e avventizio» secondo la celebre definizione di Giacomo Debenedetti. Ettore Schmitz, difatti, l’italiano non lo parlava mai: come Zeno Cosini usava solo il «dialettaccio» triestino, quello «strano e personale dialetto intimo» che lo stesso Debenedetti notava nei suoi personaggi, prima di venire alla luce come lingua tradotta in toscano. Ma l’italiano di Svevo – un italiano tecnico, commerciale, pratico, perfino burocratico a volte – è la dimostrazione che si possono scrivere capolavori anche senza infiorettare la lingua, senza specchiarvici dentro, senza ammirarsi nel bello scrivere, senza formalismi dannunziani, senza slanci lirici e descrittivi, ma semplicemente rendendo la propria lingua prensile, facendola aderire alle cose, ai fatti e ai pensieri. In tal senso l’anomalia sveviana è figlia del suo dilettantismo: totalmente estraneo alle conventicole e alle scuole letterarie, Schmitz lavora come impiegato di banca per diciotto anni (dal 1880 al 1898), durante i quali pubblica due romanzi che passano sotto silenzio, benché il secondo, «Senilità», sia già di livello altissimo. Dopo il matrimonio, deluso dal fallimento di pubblico e critica delle sue opere, decide di abbandonare la letteratura e dedicarsi anima e corpo all’amministrazione dell’azienda del suocero, un’importante società produttrice di un colorante anticorrosivo per gli scafi delle navi. Ma in realtà Svevo continuò a sopravvivere a Schmitz, e seguitava a redigere i suoi diari, a prendere appunti, a stendere lavori teatrali e racconti. E soprattutto a progettare il romanzo più importante e rivoluzionario della letteratura italiana del Novecento.
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Una volta, da ragazzi, un mio caro amico mi disse una frase che non ho più dimenticato: «La vita è un compromesso con la mediocrità». Me la disse, questa frase, mentre eravamo in Vespa, lui avanti e io dietro, vagando per la città senza una meta precisa, come si fa spesso da giovani, e non ricordo più parlando di che cosa. Fu una frase che mi colpì come una sferzata. Certo era inadeguata e inaccettabile per la nostra età (non avevamo ancora diciott’anni all’epoca) e soprattutto per me, che ero tutto teso verso l’assoluto e il rifiuto sdegnoso di ogni compromesso. Ma avevo già letto e amato «La coscienza di Zeno», un romanzo anch’esso totalmente inadeguato alla gioventù, il romanzo senile per eccellenza, la cui grandezza si riesce a comprendere in maniera direttamente proporzionale al passare dei nostri anni. E per questo subito colsi in quella frase un accento sveviano. Certo Zeno Cosini sostiene che «la vita non è né brutta, né bella, ma originale!», eppure nel dichiarare che in quel compromesso con la mediocrità si nasconde l’essenza della vita, il mio caro amico fece sfoggio di un’ironia degna di Zeno, ovvero l’inetto più amabile della letteratura italiana (e forse mondiale) del Novecento. In una lettera a Valerio Jahier del dicembre 1927, Svevo scriveva: «Noi siamo una vivente protesta contro la ridicola concezione del Superuomo come ci è stata gabellata». Ecco, dunque, che in quell’inettitudine, in quell’inerzia, in quella mediocrità, proprio come l’uomo senza qualità di Robert Musil, vi è nascosta una vitalità sotterranea, una protesta, appunto. Di fronte ai ridicoli vaneggiamenti sul Superuomo dannunziano, Zeno Cosini (in nomen omen) con le sue debolezze, i suoi tradimenti, i suoi tic, i suoi lapsus, i suoi continui patteggiamenti con la propria coscienza, quanto ci appare vicino e fraterno e adorabile. Quando vede un uomo zoppicare per strada, al solo prendere coscienza dello sforzo che i muscoli devono compiere per camminare, comincia a zoppicare anche lui. Quando muore il suo rivale antagonista Guido Speier, si accoda al funerale sbagliato. Quando decide di smettere di fumare, accompagna qualsiasi evento con il proposito, sempre vanificato, di fumarsi l’ultima sigaretta (quell’U.S. che comincerà a scrivere ovunque nei suoi appunti di diario). Perfino la scelta della moglie è il frutto di un equivoco, di un ridicolo errore, e di un forzato accomodamento con la mediocrità. Zeno è un personaggio agito (in questo profondamente freudiano), un uomo che non ha più in mano il suo destino, ma che si lascia trasportare dagli eventi senza opporvi la minima resistenza. Ma è proprio così? O in questo naufragio (che egli chiama malattia) riesce a trovare la sua – e la nostra – salvezza?
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Dopo aver ascoltato la lettura di ‘The Dead’ la moglie di Italo Svevo, Livia Veneziani, commossa, andò a raccogliere dei fiori per James Joyce…
In fondo Aron Hector Schmitz è un italiano per caso. Nasce a Trieste nel 1861 da famiglia ebraica, padre tedesco e madre italiana, nell’allora impero austro-ungarico. Studia in Baviera, parla il tedesco, legge Nietzsche, Schopenhauer, più tardi Freud. Del tradizionale letterato italiano non ha nulla. Né la lingua, né la cultura, né l’istruzione. Non ha nemmeno un diploma liceale. Proprio per questo il suo ultimo romanzo, scritto a quasi sessant’anni, cadrà come un meteorite sul panorama letterario nazionale, sconquassando il suo ecosistema. A scoprirlo, come si sa, fu James Joyce. Il giovane scrittore irlandese si trovò per caso a dare lezioni di inglese, nel 1907, mentre viveva a Trieste, a questo maturo amministratore di una importante società internazionale. Svevo ne aveva bisogno per facilitare i suoi rapporti di affari con lo stabilimento che l’azienda aveva aperto nei pressi di Londra e cominciò a prendere lezioni tre volte alla settimana nella fabbrica di Servola, alla periferia di Trieste, da questo geniale «mercante di gerundi», come lo soprannominò, che ancora doveva pubblicare i «Dubliners», ma che lasciò a bocca aperta il suo allievo e la moglie quando gli lesse un giorno il suo racconto «The dead» appena finito, al punto che Livia Veneziani, la signora Schmitz (alla cui bionda chioma Joyce si sarebbe ispirato per un celebre passo del «Finnegan’s Wake») scese nel giardino della sua villa, che sorgeva accanto alla fabbrica, raccolse un mazzo di fiori e lo portò in omaggio allo scrittore irlandese. Si sa che Ettore Schmitz fu uno dei principali modelli per il Leopold Bloom dell’«Ulysses» (oltre che fonte della maggior parte delle informazioni sul mondo ebraico che Joyce utilizzò nel suo capolavoro). Ciò spiega la somiglianza, e l’amabilità, di Poldy e Zeno. Così era Schmitz: cordiale e semplice con tutti, con gli amici e anche in fabbrica con i suoi operai, e ai ricevimenti sapeva essere sempre al centro dell’attenzione senza protagonismi, facendosi semplicemente ammirare per la sua ironia, che rivolgeva soprattutto verso se stesso, segno inequivocabile di grande intelligenza. Così quando Svevo pubblicò «La coscienza di Zeno» nel 1923, scoraggiato dall’ennesimo fiasco cui stava andando incontro il libro, scrisse all’amico Joyce per dirgli che aveva capito d’aver commesso una sciocchezza, per giunta a un’età in cui non è decoroso fare brutte figure. Ma Joyce, che stava leggendo il romanzo, lo incoraggiò: «Perché si dispera? – gli rispose – È di gran lunga il suo miglior libro». Due cose della «Coscienza» avevano colpito Joyce: il tema del fumo e il trattamento del tempo. In effetti il tema freudiano dell’incapacità di dominare il proprio inconscio, sviluppato in quel modo così semplice e apparentemente banale come l’incapacità di smettere di fumare, era nuovo. Così come rivoluzionario era l’uso del tempo: i riferimenti cronologici sono sparsi nel romanzo con apparente casualità, dal 1870 al 1916, e il tempo viene così polverizzato, disarticolato in un tempo misto, che è poi quello della coscienza: gli stessi avvenimenti non esistono più come struttura di un intreccio tradizionale, ma come semplici reperti della nevrosi, e a differenza di Proust, che attraverso la letteratura recupera il tempo perduto, Svevo dissipa continuamente il presente. Nel romanzo tutto è già avvenuto, e Zeno è come imprigionato in un tempo circolare. Tutto ciò impressionò favorevolmente Joyce al punto che il già celebre scrittore volle farsi promotore del romanzo a Parigi: parlò di Svevo al poeta e romanziere Valéry Larbaud, collaboratore della prestigiosa NRF e a Benjamin Crémieux, critico italianista che morirà nel lager di Buchenwald, definendolo l’unico scrittore italiano moderno che lo interessasse. La risposta positiva dei due intellettuali francesi fece scoppiare il «caso Svevo» anche in Italia, complice Bobi Bazlen che lo consigliò a Eugenio Montale. Nel 1926 la rivista francese «Le navire d’argent» dedicò allo scrittore un intero fascicolo. E nel marzo del 1928 a Parigi, in una riunione del Pen Club, Svevo venne festeggiato con una serata in suo onore, alla presenza di importanti scrittori, come Isaak Babel’ e G.B. Shaw (e naturalmente lo stesso Joyce). Ma la gloria fu quasi postuma. Con un paradosso tipicamente sveviano, Ettore Schmitz riuscì per poco tempo a godersi quel successo che la vita gli aveva fin lì negato, perché il 12 settembre di quello stesso anno fu coinvolto in un incidente stradale a Motta di Livenza, e morì 24 ore dopo in ospedale, a 67 anni. Poco prima, consolò la figlia dicendo: «Non piangere, Letizia, non è niente morire». Poi vide il nipote accendersi una sigaretta e chiese di poterne fumare una. «Questa sarebbe davvero l’ultima sigaretta», disse, con un’estrema, folgorante battuta.
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«La Coscienza di Zeno» è un capolavoro di letteratura sapienziale, uno di quei libri, cioè, che ci insegnano ad accettare i limiti della natura umana. Come Shakespeare e Cervantes, come Montaigne e Goethe, come Proust e Freud, anche Svevo ci mostra la saggezza con cui affrontare la vita. E lo fa attraverso un’ironia – retaggio di un ebraismo abiurato – traboccante di umanità: un’ironia che è la valutazione distaccata dello scarto che esiste tra la realtà e la nostra coscienza, e del necessario compromesso che dobbiamo trovare tra i due estremi. Un compromesso con la mediocrità, appunto. Nel senso di un’aurea via di mezzo, perché nella mediocrità, nei meandri della medietà, l’umanità vibra più che altrove, ed è più riconoscibile. Zeno Cosini non ambisce a rappresentare alcunché, se non la propria sconfitta, il suo fallimento di uomo precipitato nella casualità della vita, in una contingenza senza redenzione né dannazione. Senonché, come Freud ci ha insegnato, il caso non esiste. La saggezza più profonda del libro è allora nascosta nei fatti, laddove tutte le scelte apparentemente casuali o perdenti di Zeno si rivelano, a ben guardare, vincenti: la moglie che è stata l’ultima scelta obbligata dopo il rifiuto dell’amata sorella Ada e della seconda sorella Alberta, si rivela la donna giusta per lui, quella che riesce ad accoglierlo maternamente e ad amarlo con tutte le sue debolezze, mentre Ada con gli anni si imbruttisce, affetta dal morbo di Basedow. Il rivale e cognato Guido a cui Zeno sembra soccombere per tutta la vita, si rivela invece un fallito e finisce suicida per sbaglio. E in generale la nevrosi predispone Zeno a una condizione di disponibilità che i cosiddetti sani non hanno, irrigiditi nelle loro convinzioni. L’inettitudine del protagonista (evidente maschera autobiografica dello scrittore) è, dunque, tale solo in apparenza: o meglio, diventa strumento di indagine e di analisi che procura uno scacco della conoscenza ma non della coscienza. Una coscienza della debolezza che si fa forza.
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Il mio caro amico, che mi disse quella frase sveviana quel giorno di tanto anni fa, durante un giro in Vespa, era stato cacciato da più scuole perché apparentemente inadatto allo studio. Nessuno avrebbe scommesso su di lui, ma poi ha superato esami e concorsi, e oggi è diventato un professionista ricco e affermato, dimostrando così che la predisposizione al fallimento può trasformarsi in successo, che la consapevolezza della propria malattia può rivelarsi salute. Non che abbia superato le nevrosi della sua psiche o risolto i suoi conflitti, ma chi ci riesce? Io, comunque, non ho mai dubitato della sua intelligenza, delle sue capacità, e soprattutto della sua umanità. Un’umanità che è la sua vera ricchezza. La vita è un compromesso con la mediocrità, quasi per tutti, certo, adesso che ho rinunciato all’assoluto lo capisco molto meglio che a vent’anni, ma è un compromesso nel quale possiamo adattarci anche bene, se vogliamo. La lettura di Svevo, e la saggezza profusa nella «Coscienza di Zeno», un libro dalle profondità inaspettate, a cui ancora continuo ad attingere, mi ha aiutato in questo difficile percorso verso la maturità. Forse, anzi ne sono sicuro, anche il mio amico potrebbe dire oggi, alla fine dei conti, che «la vita non è né brutta né bella, ma originale!».
Fabrizio Coscia
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Virgilio Giotti, il poeta del dialetto triestino
Virgilio Giotti, il poeta del dialetto triestino
Un poeta che raccontò la Trieste tra due guerre… Virgilio Giotti nacque a Trieste, quando era parte dell’Impero austro-ungarico, il 15 gennaio 1885, da Riccardo Schönbeck, di origini boeme, e di Emilia Ghiotto, veneta. Continue reading
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L’Italia cantata dal basso, un libro che anticipava questa epoca 8 anni fa
Nel 2011 pubblicavo per Coppola Editore “L’Italia cantata dal basso - finestre sbieche sul Belpaese”. Già all’epoca si intuiva cosa stava accadendo al nostro paese, quali pulsioni lo stavano attraversando. Qui un brano...
Sono padano e porco. Sono nato a uno sputo dal Po, ma sono cresciuto a Roma. Cucino la pasta con le sarde, adoro i cappellacci di zucca e vado pazzo per la coda alla vaccinara. La pajata mi fa un po’ senso, ma del resto la salama da sugo la mangio solo per dovere patriottico. Ho delle belle vocali aperte, eredità di una nonna che parlava emiliano stretto con qualche inflessione veneta, e mi “smoscio” per pigrizia e abitudine nella cadenza “de Tormarancio”. La pianura padana mi deprime un po’, come la nebbia, e spesso mi sento a casa mia solo nei vicoli di Garbatella o alla Kalsa cercando un posto che faccia pesce. Però, quando il treno dopo Bologna passa il Reno mi commuovo sempre un po’.
Ammetto di essermi messo a lutto quando ha chiuso il kebabbaro sotto casa mia, e il giovedì pomeriggio quella folla di migranti che invadono le nostre città mi mette allegria. Avevo al liceo un compagno di banco nigeriano e un paio di amici cileni e ho parenti sparsi fra Argentina e Brasile . Migranti anche loro. Migrante tante volte anch’io.
Mi piace questo Paese di città, borghi e frazioni. Ognuno con il suo dialetto, le sue tradizioni, la sua cucina, il suo vino. Mi piace pensare che siamo così poco ariani, un po’ arabi, greci, albanesi, spagnoli, francesi, slavi, ebrei, berberi, normanni e longobardi. Mi piace pensare che siamo dei cialtroni romantici, dei mediterranei creativi, dei pezzi di tante e tante storie. Diverse. Non siamo mai stati “italiani brava gente”, ma siamo stati italiani. Lo siamo stati.
Sono padano e anche porco. Curioso e un po’ troppo pallido. Vorrei pensare che anche tutti gli altri cittadini di questo Paese sgarrupato, ma che è sempre sopravvissuto a tutti i propri difetti, alla fine siano come me, come noi. Meticci.
Ma non è così. E tutto passa attraverso la privazione di cultura, pezzo per pezzo. Stillicidio. C’è chi vuole sbriciolare la vera identità ibrida di questo Paese sostituendola con un’identità artificiale. Dove il cittadino si trasforma in consumatore, l’utente in cliente, la persona in massa. E la massa va alimentata, con la diffidenza, la paura e poi l’odio.
Sono padano e porco. Un po’ ferrarese, romano, palermitano, lucano, triestino, ligure, levantino e ebreo. E nero, cinese, e bangla e chi cazzo mi pare. E ancora frocio, bisessuale e etero tutto insieme che rendersi la vita complicata mantiene giovani. Sono un italiano. Non un italiano vero. Ma per davvero. Che guarda con repulsione alla Lega e alle mafie al berlusconismo ereditato e al clericalismo d’accatto, alla cultura fast food e al decisionismo vigliacco degli uomini delle espulsioni. Che metterà il suo corpo e le sue parole contro questo populismo neofascista camuffato del nuovo che avanza, della politica in franchising e del “l’ha detto la rete” che rete non è. Rifiuto l’idea di un Paese trasformato in supermercato o in cortile di ospedale psichiatrico dove chi sta messo meglio va a caccia di scie chimiche, o in pascolo per quattro ragazzini laureati con i soldi di papà a qualche università privata e che ora si trovano a governare pezzi di questo Paese per conto degli impresentabili genitori che ne hanno già fatto scempio nei vent’anni che abbiamo alle spalle. Con i poveri sotto i ponti e clandestini e i furbi a ingrassare. Sono un italiano che non crede, ma crede nel diritto di ciascuno di credere in quel che gli pare.
Sono un italiano, porco e padano contemporaneamente, che crede nel valore assoluto dell’articolo 1 della Costituzione, e che ha dato gran parte di se stesso per applicare il 21. Sono uno che sa di avere ancora la possibilità di scrivere quello che sto scrivendo solo grazie a qualcuno che ha combattuto contro il nazifascismo.
Il fascismo che è stata roba nostra, perfino Hitler all’inizio andava a lezioni di dittatura da Mussolini. Quel fascismo, quella voglia di fascismo, che è ancora insita nel Dna del nostro popolo. E che oggi passa attraverso adolescenti addestrati alle armi, folle a Pontida, caccia agli omosessuali e ai “negher”, banchi marchiati in una scuola padana, dossier e calunnie e intimidazioni , femminicidi ormai di massa, controllo dei media , lodi e leggine a personam. E che passa, purtroppo, attraverso i troppi “aventini” di questa nostra asfittica classe dirigente. Che si indigna intermittente, ma poi cala le braghe appena intravede un barlume di profitto. Anche piccolo. Anche presunto.
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‘Ssai messi mal
Se el rancòr bati el morbin,
Caro el mio Cogoi.
Povereti alora noi,
Semo davero cagai.
BaoUtnaFèretWaka, 28 otobre 2024 - 17.37, Kontowood.
Si ringrazia Claudio Magris per la citazione refada, tratta da “Alla Cieca”, e tutti gli altri che prima e dopo hanno usato il detto “caro cogoj semo cagai”
#baotzebao#valerio fiandra#haikyou#kontowood#ilrestomanca#wakabaotzebao#trieste#dialetto triestino#Cogoi
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Ospite di Radio Rds, Elisa Toffoli si è esibita in uno dei suoi brani più celebri: 'Luce'. Ma la versione scelta dall'artista friulana è... https://ift.tt/2Q8ke9H
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“Trieste Estate”, il concerto all'alba con Juan Vladilo e gli eventi dal 7 al 13 agosto
“Trieste Estate”, il concerto all'alba con Juan Vladilo e gli eventi dal 7 al 13 agosto. Trieste Etate dal 7 al 13 agosto propone spettacoli per tutti i gusti tra operetta, revival, teatro dialettale e non, tra piazza Verdi e il Giardino del Museo Sartorio mentre nei rioni triestini prosegue la rassegna "Trieste Estate Fuoricentro". È la settimana del "Concerto all'Alba", che quest'anno vedrà protagonista il pianista venezuelano, naturalizzato triestino, Juan Vladilo, uno dei fondatori dell'orchestra Ochos Rios, con un'esperienza di prestigiose collaborazioni con jazzisti internazionali. L'evento, in programma per domenica 13 agosto, è uno degli spettacoli di punta di Trieste Estate, la rassegna da oltre 200 eventi organizzata dal Comune di Trieste. Di seguito il programma dal 7 al 13 agosto. Lunedì 7 agosto La settimana inizia con un film d'autore nell'incantevole cornice del Giardino Pubblico alle ore 21.00: la rassegna organizzata dalla Casa del Cinema propone il vincitore di sette premi oscar "Shakespeare in Love", che narra l'amore dello scrittore William Shakespeare, sentimento nato durante la preparazione di "Romeo e Giulietta", per la giovane Lady Viola. Martedì 8 agosto Martedì 8 agosto arriva il secondo appuntamento con il ciclo di eventi "Archeologia di sera" nel Giardino del Museo Winckelmann, intitolato "Castellieri del Carso: villaggi protostorici tra Adriatico ed Europa centro-orientale". Un'accattivante presentazione divulgativa a cura del geoarcheologo Paolo Paronuzzi, con interventi musicali dei Lumen Harmonicum. Mercoledì 9 agosto Appuntamento alle ore 20.30 nella peculiare cornice della Kleine Berlin in via Fabio Severo, con la presentazione del libro "Sirene e cocai - le done vien de Venere, i omini de una caverna" (Bora.La) di Sabrina Gregori, attrice e scrittrice, in un testo comico sui rapporti tra uomini e donne triestini impreziosito dalle divertenti illustrazioni di Chiara Gelmini. Il libro sarà presentato dalle autrici all'interno della rassegna "Atmosfere letterarie alla Kleine Berlin", progetto letterario promosso dal CAT (Club Alpinistico Triestino), insieme alla IV Circoscrizione e alla Kleine Berlin. Assieme a loro ci sarà Walter Lonzar, che interpreterà alcune scenette tratte dal libro. Alle 21 in piazza Verdi va in scena "La Vecia Trieste presenta... la Vecchia America", esibizione della Vecia Trieste Showband e Orchestra. Una trasferta a New York con un repertorio di artisti di grande fama come Lelio Luttazzi. In collaborazione con coro Ad Libitum, presenta Ornella Serafini. Contemporaneamente al Giardino del Museo Sartorio, "Atmosfere d'avanspettacolo" spettacolo che ritorna in una veste nuova, un viaggio recitato e cantato sui comportamenti e costumi degli anni 70, con ospiti a sorpresa, di e con Marcello Crea, A cura dell'Associazione Nova Academia Alpe Adria. Infine al Giardino Pubblico la rassegna della Casa del Cinema con "Spider-man: across the spider-verse" Alle 21 in piazza Verdi, dopo il coinvolgente concerto di Zucchero, un'occasione per rivivere nuovamente la magia del blues, dei ritmi cubani e del repertorio di Zucchero Fornaciari con la tribute band "Diavolo in noi", composta da 13 musicisti. Allo stesso orario al Museo Sartorio la compagnia teatrale L'Armonia presenterà "Sottobanco", uno spettacolo in dialetto triestino su un testo di Domenico Starnone: una divertente e feroce riflessione sui problemi della scuola. Venerdì 11 agosto Torna il Festival dell'operetta con un nuovo appuntamento in omaggio alle pagine più famose della 'piccola lirica', intitolato "Evviva l'operetta". Sul palco di piazza Verdi alle 21.00 si esibiranno Andrea Binetti, Ilaria Zanetti, Maria Giovanna Michelini, Sergey Kanygin, Corrado Gulin al pianoforte e Antonio Kozina al violino. Il Sartorio, invece, ospiterà "Irish Baroque", un viaggio dalle melodie rinascimentali a quelle della tradizione popolare di autori barocchi inglesi e irlandesi scoperte nelle antiche raccolte di arie, ground e gighe, eseguite su strumenti originali. A cura di Orchestra Barocca Triestina - Tržaški Baročni Orkeste. Al Giardino Pubblico la rassegna il Giardino del Cinema con la proiezione de "La lunga corsa", dal regista di "Easy - Un viaggio facile facile", favola surreale su un bambino e poi un giovane adulto nato e cresciuto in un carcere. Sabato 12 agosto Al Giardino del Museo Sartorio, alle 21.00, un altro evento del Festival Internazionale dell'Operetta: un "Omaggio a Sergio Endrigo" a novant'anni dalla sua nascita. Nato a Pola, Endrigo dedicò alcune delle sue canzoni a Trieste e alla sua terra natia. Con Marzia Postogna e Eduardo Contizanetti alla chitarra. Serata revival anche in piazza Verdi con "Ruggente nostalgia" e i successi più "spensierati" degli anni '60 e '70. A cura dell'Associazione I '60 Ruggenti - Ritrovarsi in musica. Al Giardino Pubblico il film "Il sol dell'avvenire". Un regista e una produttrice girano un film ambientato nel 1956 ispirato a "Il nuotatore" di Cheever. Domenica 13 agosto E' il giorno del "Concerto all'alba" sul molo Audace, uno degli appuntamenti più attesi e più magici dell'estate triestina. Alle 4:50 si esibirà il pianista venezuelano Juan Vladilo, uno dei fondatori dell'orchestra Ocho Rios, artista che vanta collaborazioni con jazzisti di livello internazionale. Vladilo ha trascorso l'infanzia nel suo paese natale per poi trasferirsi a Trieste. Organista e compositore in formazioni progressive rock degli anni settanta, negli ottanta si è avvicinato alla musica afrocubana con influenze jazzistiche. L'evento si inserisce all'interno del festival TriesteLovesJazz. Alle 21 al Sartorio va in scena "Il diario di Eva (e Adamo)", tratto da Mark Twain. Un ritratto ironicissimo e lontano da stereotipi (il testo è del 1905!) di come la prima donna, appena creata, veda e scopra il mondo. A cura di Ferrara Off. Sempre alle 21 in piazza Verdi, serata di tango con musica dal vivo e coreografie di ballerini, intitolata "Tango da Pensare" del Quartetto Neotango. A cura dell'Associazione culturale Punto Musicale. Il Giardino del Cinema prosegue la sua programmazione, sempre al Giardino Pubblico, con il film "Everything everywhere all at once", commedia vincitrice di sette oscar di Daniel Scheinert e Daniel Kwan. Trieste Estate è organizzato dal Comune di Trieste - Assessorato alle Politiche della Cultura e del Turismo, con la collaborazione dell'Assessorato alle Politiche dell'Educazione e della Famiglia e dell'Assessorato alle Politiche del Territorio, con il sostegno di PromoTurismoFVG e la collaborazione del Trieste Convention & Visitors Bureau, con la direzione artistica di Gabriele Centis per la parte musicale e Lino Marrazzo per il teatro di prosa. Il programma completo su www.triestestate.it.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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Go dele vampe;
Le monta come febre,
Come un virus.
“Son tutto un bollore”
Diseva quela* in MASH.
So, son un entusiasta,
Ma no me farò curàr !
BaoUtnaFèretWaka, 10 ottobre 2024 - 9.28, Kontowood.
NotaDiBao: stamattina, per caso ( ?! ) ho visto una foto, prima, e subito dopo ho ricevuto una gran bella mail d’autore - inaspettata. E…, insomma: vampe !
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Dala veranda
I basi d’Alessandria
Guarda el golfo.
Trieste nel libecio
El mar no proprio un specio.
BaoUtnaFèretWaka, 9 settembre 2024 - 8.58, Kontowood.
Per Greta e Giulio, con riconoscenza.
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