#da me non lo hanno mai proiettato >:(((
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Chi devo chiamare per capire come reperire il ridoppiaggio di Akira del 2018 >:(
#da me non lo hanno mai proiettato >:(((#e la dynit fa solo special edition di cofanetti enormi che costano l'ira di dio. UN DVD NORMALE A ME SERVE NEMMENO UN BLURAY!!!!!!!#e su vvvvid c'è a noleggio ma non c'è scritto con quale doppiaggio. bastardi#mytext#adaptation tag#movies#animanga#akira#akira (1988)
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Lascialo andare
“C’è questa cosa che non avevo mai capito nella vita e l’ho scoperta molto tardi… E che tu ti giochi una buona quantità delle tue possibilità di stare sul pianeta terra, con felicità, te la giochi sulla capacità che tu hai di lasciare andare le cose: hai perso gli occhiali? Lasciali andare… Hai perso un amico? Lascialo andare… Hai vissuto un momento di felicità bellissimo con un amico? Ecco, il pensiero è sempre rivediamoci la prossima settimana… Lascialo andare”
(Alessandro Baricco)
Veniamo al secondo punto che ho messo online in questi giorni, tutto scaturito casualmente da due post micidiali che una mia cara amica ha intercettato (non volendo?) e mi ha rigirato. Sul primo (scegliere tra voler bene o amore) ci tornerò un'altra volta.
Lasciare andare… quando non si ha alternative, quando si è messi dinanzi a un prendere o lasciare è sempre un "lasciare andare". Semplicemente non hai scelta. Non puoi fare diversamente. Non esisti più nella sua vita, o almeno non esisti come ti eri prefigurato fino a qual momento. Soprattutto come nel mio caso, dove entrambi esistevamo, ma camminando su un filo invisibile, un funambulismo di esserci senza esserci, di essere un riferimento per l'altro anche senza esserlo ufficialmente, con uno dei due smaccatamente alla ricerca di una conferma dell'altro e con l'altro (io) che, stupidamente e soprattutto per un malcelato orgoglio, manteneva il punto per non voler (ri)cedere. Non é stato solo orgoglio ma soprattutto paura, maledetta paura di rivivere tutto ciò che c'era stato di pessimo tra noi due e che aveva lasciato alle nostre spalle solo macerie, con cui fare i conti ancora oggi (ad esempio mia figlia: come ho potuto avere piena conferma durante un breve confronto "a cuore aperto" in questi giorni). Lasciare andare non è mai facile. É bello a parole. Bello quando come il signor Alessandro Baricco, scrittore elegante, probabilmente scialacquatore nella vita di amori, occasioni furtive e non, passioni brucianti e bruciate, si permette alla fine della "sua" giostra, di poter dire che ha capito che la miglior teoria da adottare nella vita é il "lascialo andare". Lo puoi dire e fare, a mio parere, con nochalance quando hai preso tutto dalla vita o quando hai raggiunto la saggezza di un vecchio buddista tibetano e quindi sei in grado di sfoggiare il gusto del distacco per le cose terrene, per le cose belle o brutte che hai vissuto, perché intanto il tuo sguardo è ormai proiettato in avanti. Potrei arrivare a dirlo anche io (chi non ne é capace?) quando ciò di cui si sta discutendo non è la nostra vita ma quella degli altri. Da buon salottiere, semmai con un bel bicchiere di vino in mano, potremmo permetterci di pontificare sulla vita altrui, non su quella nostra, annotare le cose giuste e sbagliate, "consigliare" ciò che andrebbe fatto rispetto a quello che abbiamo fatto. Ma alla fine tutto si riduce ad una lotta impari col proprio sentire, col proprio vissuto, con quello che si è radicato intorno a quella idea di amore (purtroppo a volte è solo un'idea di amore e non l'amore) e della quale non riusciamo proprio a farne a meno. Entrano in ballo ricordi, sensazioni, non sempre positive, parole non dette (questo è un altro tema… "le parole che non ti ho detto") emozioni, tutto un fardello che grava sul cuore, sulla mente e che anche una scissione chirurgica e radicale, operata "all'improvviso" sulla tua vita, non riesce a dissipare, tanto più è stato traumatico l'evento.
Quanto sono state traumatiche le vicende che mi hanno interessato? In fondo lo sapevo che prima o poi sarebbe successo. In fondo era un qualcosa che andavamo ricercando entrambi, perchè questo cordone ombelicale invisibile, che ci teneva (che mi tiene) inscindibilmente uniti ormai era diventato ingombrante per entrambi. Non ci faceva vivere (non mi ha fatto vivere), ci teneva saldamente ancorati l'uno all'altro nonostante gli sforzi fatti per staccarsi (lei è stata indubbiamente molto più brava di me e non una sola volta). Ho finito per elevarla a simulacro, un punto irrangiungibile di confronto, che mei fatti solo una persona molto intelligente è riuscita a dimostrarmi, rispetto al quale tutte le persone che ho incontratto successivamente venivano meno. Semplicemente non erano lei. Per cui tutto annunciato, tutto previsto eppure…? eppure mi sono ritrovato per l'ennesima volta impreparato… per la seconda volta ho sentito un sonoro schiaffone arrivarmi in faccia, nonostante io andassi predicando altro. Pensavo davvero di aver raggiunto l'agognato distacco, di essere riuscito a superare il legame, a proclamare un dignitoso distacco ed equilibrio, perché riuscivo a vederla, frequentarla, fare cose con lei senza apparente tensione sessuale e affettiva. Ero orgoglioso di me. Dopo due anni di duro lavoro, anche psicoanalitico, ce l'avevo fatta. Non ero riuscito ad applicare in toto la teoria del "lascialo andare" ma ero convinto di aver instaurato un rapporto dignitoso di mero equilibrio affettivo (assolutamente non amicale come lei in maniera "stupita" è andata affermando dopo). E invece così non è stato: mi sono ritrovato in pochi secondi dall'augurarle tutte le fortune del mondo a morire dentro, ancor più della volta precedente, ma questa volta senza apparente dolore. Ed infatti a ripensarci non è stato dolore: più rabbia e delusione verso me stesso, incapace di nuovo di non saper razionalizzare se non dopo questo lungo excursus di ricordi e pensieri, di non saper accogliere la notizia per quella che era… un "lascialo andare" annunciato e farne un dramma esistenziale, una pseudo tragedia napoletana, tutta vissuta interiormente, in cui ho finito col consumare le residue energie che avevo fin qui accantonato.
Lascialo andare… ah, a saperlo fare. Ma dovrò gioco forza apprendere anche questo: lascialo andare per non perdere ulteriori attimi di felicità.
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15.10.2024 1.51
Questa sera sono stata al cinema con i miei amici a vedere “Quarto potere”. Veniva proiettato in lingua originale. Ero molto indecisa se andare, perché nei giorni scorsi ho avuto la febbre, quindi oggi anche se stavo meglio ero abbastanza stanca. Raffreddore e febbre a parte, mi stava anche salendo la depressione a stare chiusa in casa da sola, in condominio, per giorni, stavo rischiando di entrare nel loop di reclusione. Quindi mi sono convinta e ho deciso di andare, per superare i miei limiti. Ed è stata una bella serata, sono contenta di aver fatto questa scelta. Io e G. abbiamo portato a casa G., tornando indietro in macchina abbiamo chiacchierato e ascoltato musica di anni fa. Un tuffo nel passato inevitabile, un po’ di malinconia e anche un po’ di disgusto verso le quantità di alcol e scelte pessime fatte quand’eravamo ancora piccoli e pazzi. Sotto casa abbiamo continuato a parlare, ci siamo seduti sul baule della sua macchina, abbiamo fumato i drummini e abbiamo avuto una dolce conversazione su vita e amore. In particolare sulle relazioni, su quanto sia distruttivo (ma utile a ricostruirsi) affrontare una rottura, la fine di un amore che hai vissuto appieno; trovarsi da un giorno all’altro senza la persona che hai avuto accanto, alla quale hai voluto bene nel profondo, con la quale magari avevi progetti di vita; la PERSONA che è stata un punto di riferimento e supporto, la persona con la quale hai condiviso tanto della tua vita, gioia e dolore. Ad un certo punto non c’è più e ti ritrovi a fare i conti con l’assenza e te stesso. Vorresti solo cercare conforto da lei, ma quella persona non esiste più nella tua vita. Devi affrontare un lutto ed è terribile. La consapevolezza di questa sofferenza spaventa quando ci si innamora (secondo G.). Ed è vero, però per me non vivere totalmente i propri sentimenti, o perdersi delle persone ed esperienze per paura di soffrire, è quasi peggio che innamorarsi e lasciare andare. Non voglio ritrovarmi per mesi o anni a pensare “forse avrei dovuto dare più tempo a noi”. Alla fine quando ci si espone con delle persone, quando ci si lega e ci si vuole un bene dell’anima, c’è la possibilità che si possa soffrire. Si sbaglia, ci si fa male, ma amare qualcuno non è mai una perdita di tempo. Amare è immenso, ti riempie l’animo e anche quando per qualche motivo ci si perde, se ad una persona hai tenuto nel profondo del tuo cuore, non lo lascia mai. Puoi sentirti svuotato, ma l’amore non ti abbandona mai, resta sempre lì con te. È terrificante forse, perché anche a distanza di anni ti farà ancora un po’ male il cuore pensare a quella persona. Però tempo stesso è una potenza che non ti abbandona mai e ti fa sentire vivo. Per questo dico che amare qualcuno non è mai una perdita di tempo, anche quando fa male dirsi addio, lo si rifarebbe mille volte, perché è vita.
Io in questo momento mi sento immensamente grata per l’amore che ho, ho dato e do alle persone a cui tengo con tutta me stessa. A volte torna indietro, altre no, ma trova sempre un modo per raggiungerti.
Amo i miei amici, la mia famiglia e tutte le persone che hanno camminato con me lungo un pezzo di strada della mia vita, anche se questo significa non piacersi sempre.
Mi sento pervasa da questo amore e quando capitano questi momenti di condivisione intimi, mi ricordo di quanto io sia fortunata ad avere accanto le mie persone e ringrazio la vita. ❤️
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Dalla e Battisti, i due Lucio uguali solo nella nascita....
Difficile trovare due così grandi e così distanti: tanto il Lucio bolognese era estroverso, teatrale, dentro le cose, così il Lucio reatino era spinoso, diffidente, chiuso. Ma che artisti! E che canzoni...
Si sono celebrati gli ottant'anni potenziali dei due Lucio, Battisti e Dalla, potenziali perché se ne sono andati entrambi da gran tempo. Troppo tempo, come per quelli che ti invadono la vita, te la incidono. Coetanei nel giro di una manciata di ore, il che dimostra come l'oroscopo sia un bel gioco e niente più: due persone, due artisti più diversi sarebbe impossibile trovarli. Battisti, il burino reatino, spinoso, orgoglioso, allergico alla gente, “Lei dice che sono Battisti, eh già, me lo dicono tutti, mi spiace”, retrattile al sistema, allo stesso successo, “Tu credi che se volessi tornare a fare un disco da un milione di copie non saprei come si fa?”, ed è già nella fase finale, dei dischi bianchi, criptici---
Dalla, il bolognese, “e i bolognesi sono dei bonari figli di puttana” osservava Giorgio Bocca in una memorabile intervista per l'Espresso, Dalla che della gente ha bisogno, per giocare, per perdersi nel centro di Bologna, lui eterno bambino e non è un modo di dire, lui era di quelli depressi dentro che combattono l'ombra del vivere con continui scherzi e bugie mentre l'altro non aveva tempo per sofismi esistenziali, tutt'altro che superficiale, anzi, semplicemente bastava a se stesso. Dritto aperto logico, ma di una logica che puntava all'emozione, capace di melodie insuperabili: tra gli ammiratori, David Bowie e Paul Mc Cartney, tanto per dirne due. Ma è troppo pigro per provare davvero a sfondare all'estero.
Accomunati dal destino dello stesso nome – “Lucio” – e dalla nascita a un solo giorno di distanza – 4 marzo 1943 Lucio Dalla, 5 marzo 1943 Lucio Battisti – i due cantautori sembrano in realtà avere carriere e vite piuttosto distinte. Non hanno mai collaborato tra loro, intanto. Per lunghi anni hanno inciso per etichette rivali (RCA Dalla, Ricordi Battisti) e non ci è dato sapere se si conoscessero o stimassero (di Dalla, generoso nel rilasciare interviste, sappiamo che apprezzava i dischi del Battisti più sperimentale.
Due musicisti che hanno rinnovato profondamente la canzone italiana, influenzando inevitabilmente tutti coloro che sono venuti dopo. Battisti lo ha fatto in modo più personale, scegliendo di non apparire sulle scene per diversi anni, evitando i concerti e formando con Mogol (autore dei testi di gran parte delle sue canzoni) un sodalizio che resterà nella storia della musica italiana; Dalla, autore estroso capace di scrivere testi eccezionali, è stato meno solitario duettando con i più grandi artisti di fama nazionale e internazionale e addentrandosi con curiosità ed eclettismo nei più diversi generi musicali.
Separati da una notte di 80 anni fa, quella che intercorre fra il 4 marzo 1943, data di nascita di Lucio Dalla, e il 5 marzo dello stesso anno, giorno in cui nacque Lucio Battisti: a unirli, oltre al nome di battesimo che richiama la luce, l'identico destino artistico di cantautori, assegnati di diritto all'Olimpo della musica leggera italiana di qualità. Uniti ma mai vicini, mai una esibizione insieme sul palco e neanche in uno studio discografico di registrazione.
Del resto, le melodie e i testi delle loro canzoni - nel caso di Battisti da riferire in gran parte a Mogol, nel caso di Dalla prima al duo Bardotti-Baldazzi, poi al rapporto con il poeta Roberto Roversi - non erano assimilabili: uno, il sabino, più 'intimista' e romantico; l'altro, il bolognese, più proiettato nella società che ci circonda. Il mare valga da esempio generale.
Nella 'Canzone del Sole', Battisti canta: "Ma ti ricordi l'acqua verde e noi? Le rocce, bianco il fondo... Di che colore sono gli occhi tuoi? Se me lo chiedi non rispondo. O mare nero, o mare nero, tu eri chiaro e trasparente come me". Mentre in 'Com'è profondo il mare', Dalla intona: "E' chiaro che il pensiero dà fastidio, anche se chi pensa è muto come un pesce e come pesce è difficile da bloccare perché lo protegge il mare. Com'è profondo il mare! Il pensiero è come l'oceano, non lo puoi bloccare, non lo puoi recintare. Così, stanno bruciando il mare, stanno uccidendo il mare, stanno umiliando il mare, stanno piegando il mare".
Gli interrogativi di Battisti - "Come può uno scoglio arginare il mare?" - sono invece più 'filosofici' di quelli più 'prosaici' di Dalla (testo condiviso in questo caso con Francesco De Gregori) - "Ma come fanno i marinai a fare a meno della gente e a rimanere veri uomini, però?" - e mentre per la fine di un amore in 'Fiori rosa, fiori di pesco' Battisti confessa: "Credevo di volare e non volo, credevo che l'azzurro di due occhi per me fosse sempre cielo: non è!", Dalla al contrario canta "Così come una farfalla ti sei alzata per scappare, ma ricorda che a quel muro ti avrei potuta inchiodare, se non fossi uscito fuori per provare anch'io a volare".
Grandi numeri per entrambi: Lucio Battisti ha inciso 17 album tra il 1969 e il 1994; Lucio Dalla in studio ne ha registrati 22 tra il 1966 e il 2009. Impossibile abbozzare un censimento completo dei loro brani di successo, c'è sempre il rischio di perdersi per strada qualche pietra miliare.
E se poi il primo vanta storici duetti televisivi con Mina, il secondo altrettanto storici concerti con De Gregori e con Morandi. Foulard al collo per Battisti, baschetto di lana per Dalla come note iconografiche, da associare alle note musicali di brani che per tantissimi italiani, dall'adolescenza con le chitarre e i falò in spiaggia alla maturità e oltre, hanno fatto da colonna sonora alla propria vita.
In comune qualcosa ce l'avevano però. Quel fondersi nella musica, quel vivere di musica che hanno pochi, rari artisti. Dalla nasce dalle cantine, dal jazz e dalla Bologna militante, i primi tentativi puntualmente fraintesi, snobbati e lui ci mette del suo, non sa adeguarsi, può passare delle mezze giornate nell'ascensore della Rai con un'arancia in testa, uno gnomo bonario, figlio di puttana e preoccupante, finché trova la chiave ed esce, ha bisogno di chi mette le parole sulle sue composizioni e lo trova in due poeti impegnati, prima Paola Pallottino, poi Roberto Roversi che è di quelli impegnati a tempo pieno e vuole stare in mezzo alle cose che succedono, è un narciso. Anche Lucio è un narciso, ma di grana diversa: vede, capisce che nel '77 tutto si rimescola, i compagni che si mettono a fare i borghesi, i borghesi che tirano su il pugno, e in mezzo il gran casino della sovversione giovanile e allora sparisce, si chiude in casa e si sfilaccia anche il rapporto con Roversi: pare la fine, è invece la sua fortuna perché decide di fare tutto da solo, anche le liriche e nascono gli album epocali, eponimi: “Lucio Dalla”, poi “Dalla”, e quelle canzoni che non vanno più via. Anche se di episodi fondamentali ne aveva già avuti, “E non andar più via”, “Quale allegria”, perfino, qui il folletto malizioso si scatena, il Disperato erotico stomp dove si racconta alle prese con l'autoerotismo, “e gliela fanno cantare anche alla Festa dell'Unità” annota Bocca, non si sa se più esterrefatto o ammirato.
Battisti è il contrario. Costruisce la sua ascesa con metodica spietata determinazione, il paroliere Mogol, che è già un padrone del business musicale, lo incontra, lo ascolta e gli dice: non mi sembri granché. Sono d'accordo, risponde Lucio e raddoppia gli sforzi. Quando parte con “Dolce di giorno”, “Per una lira”, ha già le idee chiare, quando porta a Sanremo “Un'avventura”, prima ed unica concessione al Festival; la svolta psicologica è arrivata al Cantagiro del '68 con “Balla Linda”: scende da palco e a Maurizio Vandelli dell'Equipe 84 dice: “A Maurì, ho capito che so' er mejo, nun me ferma più nessuno”. Ha ragione. Arriva “29 settembre”, affidata proprio alla Equipe, arrivano le “Acqua Azzurra, Acqua Chiara”, le “Dieci Ragazze”, “Mi ritorni in mente” ma il meglio è da venire ed è un meglio imparagonabile, che non patisce confronti. “Emozioni”, incisa in una volta sola, “Il tempo di morire”, mettici tutte quelle che vuoi, fino a quell'accoppiata pazzesca nel 1972, “Umanamente uno: il sogno” e “Il mio canto libero”, e poi l'Anima Latina che due anni dopo ridefinisce il concetto di progressive, uno degli album più belli e più sofisticati di sempre e per sempre. Anche lui non si adegua, ma per scelta, non per genetica. Nati all'inizio di marzo, corrono strade parallele e le disseminano di piccoli enormi capolavori popolari: non è esagerato dire che senza questi due l'Italia sarebbe stata diversa e meno Italia.
Dalla sta in mezzo al suo tempo, è un cantautore, è di sinistra ma coglie il senso del grottesco della politica e del tragico della vita, da correggere con l'ironia: siete dèi, fate il cazzo che volete, ma io resto divino anche in un bacio, anche in un amico “che c'ha una mira che con un sasso ti stacca la coda di un cane se lo tira”; Battisti è talmente fuori dalla politica che gli danno del fascista, a lui che al massimo scrive tenerissime lettere a Marco Pannella: ma un giorno, dice la leggenda, scoperchiano un covo delle Brigate Rosse e dentro ci sono tutti i suoi dischi, anche quei terroristi, quei guerriglieri sempre rintanati, sempre con la pistola per ammazzare ogni tanto tirano il fiato, si ricordano di essere umani, si affidano alla quotidianità ammiccante di Battisti e di Mogol, a quelle canzoni che sono più che canzoni, sono documenti di coscienza collettiva e sono colonne sonore delle giornate di ciascuno.
Ma finisce lì. Dalla si lascia fruire, e ne gode, Battisti non si cura di chi lo fruisce: a un certo punto molla anche Milano che è una fucina inesauribile di suggestioni, via da Largo Rio de Janeiro che sta sul limitare di Città Studi e si rintana al Dosso, nella Brianza Velenosa da cui non uscirà più. Dalla piglia la patente nautica e gira il mare a bordo del suo catamarano chiamato “Catarro”, dove ha messo su un piccolo attrezzato studio di registrazione. Roba impensabile per Battisti che d'altra parte a 40 anni scopre la vela, scopre il Windsurf e ci fa una canzone. Lucio di Bologna a un certo punto patisce anche, un po', il tempo che cambia tutto, cambia i gusti, gli eroi, scarica in Italia la pletora dei nuovi romantici inglesi, e allora prima escogita quel pezzo di romanza popolare che è “Caruso”, ruffiana sontuosa, poi si dà allo sperimentalismo come per tirarsi fuori dai giochi; Lucio di Poggio Bustone se ne frega anche della temperie, finito il lungo periodo con Mogol prima fa un disco per conto suo, poi aspetta 4 anni e nel 1986 se ne torna con “Don Giovanni che è una sorta di classicismo sintetizzato. Da lì, più che assorbire le nuove tendenze, il synth pop, la new wave, immagina un mondo tutto suo, elettronico e ricamato dalle sciarade di Pasquale Panella: un altro modo per uscire dall'intronata routine del cantar leggero.
Potevano incontrarsi quei due, coetanei paralleli diversi? Dalla, che per queste cose ha una fissazione, ci prova, anche se i due non si prendono, gli propone un tour, “I Due Lucio”: l'altro neppure si scompone e recita la frase lapidaria che, tutti lo sanno, chiude ogni discorso: “Non si può fare”. Forse è meglio così: Dalla è un egolatrico aperto, invasivo, Battisti nel suo sottrarsi a livelli patologici tradisce un'altra sorta di egocentrismo e si sa che due narcisi che si considerano i migliori, gli inarrivabili, insieme non ci possono stare. Tanto hanno fatto abbastanza per restarci dentro a vita e oltre la vita. Battisti se ne va 25 anni fa dopo lunga e segreta malattia, Dalla giusto dieci in modo proditorio, un colpo secco. Quando succede io mi trovo a casa di uno dei suoi amici più grandi, il compositore, arrangiatore e direttore d'orchestra Piero Pintucci, quello che ha scritto cose come “Il carrozzone”, “La Tua Idea”, “Il Cielo” con Renato Zero. Non sappiamo ancora niente ma Piero è agitato, sente qualcosa; gli arrivano dei messaggi e si rifiuta di aprirli, teme la consapevolezza del dolore. Però quando siamo a tavola e parte il telegiornale, è impossibile sfuggire: Lucio Dalla è morto. Pintucci abbassa la testa sul piatto. Nessuno ha più voglia di mangiare. Più voglia di niente. Lui continua solo a mormorare: “No, Lucio, no...”. Poche volte io ho visto una sofferenza più viva, più disperata, poche volte ho capito come può mancare qualcuno che va via. Mandano un filmato d'epoca, c'è Dalla a Sanremo e lo sta accompagnando, con la chitarra, Pintucci. Lì io temo il crollo e invece l'angoscia si declina in dolcezza, si schiude nel sorriso e c'è dentro tutto, la vita nella morte. Quella io la ricordo come una delle giornate più difficili e più belle, senza mezzi termini, della mia vita. No, non sto parlando di “me e Lucio”, non c'è nessun me e Lucio, figuratevi, sto parlando dei due Lucio che ti restano dentro, anche morendo, che ti fanno bene anche ferendoti, che non smettono mai di starti nel sangue, nella fantasia, anche dopo la milionesima volta che li ascolti hai ancora un film da immaginare, un sogno da spremere, sei di nuovo ragazzo perso nella Milano caotica, pericolosa e stordente, e romantica, e suggestiva dove tutto sembra vivere solo per te.
Ancora oggi i due Lucio sono amatissimi anche dai più giovani, che li scoprono nelle playlist di giorno in giorno: dal 2019 – per fortuna – c’è anche Battisti, che fino ad allora non era presente nei cataloghi della musica digitale per volere della vedova. Negli anni Ottanta ci fu la fugace possibilità di un incontro sul palco, di un progetto assieme. L’idea fu di Dalla, che provò a coinvolgere Battisti con una proposta: «Lui non si esibiva in pubblico dai giorni dei concerti con i Formula Tre, roba dei primi anni Settanta, così pensai fosse venuto il momento di sottrarlo all’isolamento» raccontò in seguito. «Fu molto gentile. Accettò l’invito al ristorante e dopo aver parlato del passato gli esposi cosa mi frullava per la testa. Un grande show itinerante che si sarebbe chiamato “I due Lucio”». Ma il miracolo non si concretizzò mai: «Mi ascoltò con attenzione, per un attimo sperai di averlo convinto. Ma alla fine, con grande garbo, mi rispose che non era il caso: “Sai, ormai faccio cose diverse, mi piace sperimentare…”».
Se ne sono andati entrambi troppo presto, ma le loro canzoni acquisiscono col tempo sempre più valore
Vasco Rossi ricorda Lucio Battisti e Dalla: «Due giganti senza tempo. Mi sento discepolo ed erede» 23 FEBBRAIO 2023
Quella volta che Dalla e Morandi…
Poi Rossi ricorda quella volta che Lucio Dalla insieme a Gianni Morandi si presentò a casa sua per conoscerlo. «Aveva ascoltato “Vita spericolata” e aveva detto “come hanno fatto questi a scrivere una cosa così bella?”. Si riferiva a me e a Tullio Ferro». Di Dalla Vasco apprezza soprattutto «la sua voce. Anche lui è un genio assoluto. Mi fulminò al primo momento. Avevo 15 anni, ero in collegio, ci facevano vedere Sanremo. Apparve lui sul televisore con 4.3.1943. Fu quella volta lì. Al tempo Lucio faceva parte del giro dei cantanti, era stato quello il recinto degli anni Sessanta, fino a poco prima. La cosa incredibile è che sia riuscito a diventare un cantautore, dapprima facendosi aiutare dal poeta Roberto Roversi, in seguito azzardando da solo la scrittura di testi immensamente belli. Un caso unico, nella storia della musica italiana».
Cosa ci manca di Lucio+Lucio
Chiaro che le cose sono cambiate, e ormai San Siro o l’Olimpico lo riempiono anche i dilettanti, ma oggi ricordare Battisti e Dalla è un esercizio di maieutica, di memoria collettiva e di confessione religiosa. Da un lato perché occorre ogni tanto tirar fuori dai meandri nascosti della coscienza artistica del nostro Paese qualcosa che abbia un suo senso evidente e indiscutibile e non unicamente modaiolo. Dall’altro perché in questa “evidenza” scopriamo il non-detto: che abbiamo anche noi degli eroi e degli dei nel paradiso delle sette note. Dei da ricordare, da venerare, finanche da pregare. Cosa ci manca dunque di Lucio+Lucio?
i Battisti si potrebbe dire che manca l’incredibile vastità e qualità della scrittura musicale, la capacità di fare dello sporchissimo blues come in “Insieme a te sto bene” (Insieme a te sto bene, Fra le braccia tue, così, Adesso non parlare, Anch’io, sai, non ho avuto più di quel che ora tu mi dai) e dare subito dopo vestito orchestrale a “Io vorrei, non vorrei, ma se vuoi” (quella di come può uno scoglio, arginare il mare���..). La magia della collaborazione con Mogol (fino a Una giornata uggiosa, 1980), paroliere perfetto, ad un certo punto (con il breve interludio dei testi della moglie con pseudonimo Velezia) lascia il campo agli equilibrismi letterali di Pasquale Panella: ed anche qui Battisti dimostra di poter musicare qualsiasi cosa, come si ascolta stupiti nell’immenso arrangiamento trovato per A portata di mano (E tutto il tempo è vicino, A portata di mano, Sul tavolino, sul ripiano, Su quanto ti è più caro). Non c’è musica oggi, e invece c’è musica ovunque, in Battisti. Questo ci manca. Come l’aria. Come il sole dopo un inverno cupo. Come un amore vero dopo storie sfigate. C’è grande musica in ogni canzone di Lucio Battisti: questo ce lo rende così importante.
A ricordare i due giganti della musica sono poi due persone che li conobbero bene: il teologo Vito Mancuso - intervistato da Emanuela Giampaoli - visse a casa di Dalla e parlarono di vita, morte, religione; Mogol racconta a Giandomenico Curi la sua lunga collaborazione con Battisti, interrotta bruscamente nel 1980: "L'ho voluto io".
Uno squarcio necessario
E cosa invece ci manca di Dalla? Inutile parlare della qualità delle sue storie (“4 marzo”: Così lei restò sola nella stanza, la stanza sul porto, con l’unico vestito, ogni giorno più corto….) o della visionarietà dei suoi racconti (da “l’Ultima luna” a “Tutta la vita”, quella in cui Tutta la vita, Senza nemmeno un paragone, Fin dalla prima discoteca, Lasciando a casa il cuore o sulle scale, Siamo sicuri della musica? Sì, la musica, ma la musica). Anche con Dalla, come con Battisti, siamo di fronte ad una produzione artistica che fa impallidire per quantità, qualità, freschezza, originalità ed ampiezza. Il Lucio di “Caruso” (Potenza della lirica, Dove ogni dramma è un falso, Con un po’ di trucco e con la mimica, puoi diventare un altro) con i suoi brividi melodrammatici, è agli antipodi dello sberleffo onanistico di “Tragico Erotico Stomp” (Sono uscito dopo una settimana Non era tanto freddo, e normalmente, Ho incontrato una puttana, A parte i capelli, il vestito, La pelliccia e lo stivale, Aveva dei problemi anche seri, E non ragionava male). E ancora: l’acquarello metropolitano di “Piazza Grande” (Dormo sull’erba e ho molti amici intorno a me Gli innamorati in Piazza Grande, Dei loro guai, dei loro amori tutto so, sbagliati e no, A modo mio avrei bisogno di carezze anch’io, A modo mio avrei bisogno di sognare anch’io) naviga su coordinate lontanissime da “Il motore del 2000” (con il testo del poeta Roberto Roversi), sguardo mistico sul futuro degli umani e delle loro meravigliose ed inutili prospettive cibernetiche (Noi sappiamo tutto del motore, Questo lucente motore del futuro, Ma non riusciamo a disegnare il cuore, Di quel giovane uomo del futuro, Non sappiamo niente del ragazzo, Fermo sull’uscio ad aspettare, Dentro a quel vento del 2000).
Ecco cosa ci manca di Dalla: della sua grandezza ci manca uno sguardo ed uno squarcio che erano solo suoi e che ci portavano le sue domande ed il suo senso del mistero. Ci manca il grande tutto che si apre immenso e sconosciuto in “Com’è profondo il mare”. Ci manca il cuore del ragazzo del Duemila appena citato, ignoto a noi che sappiamo tutto delle invenzioni futuribili. L’immensa risposta che c’è nella finestra che si apre sulla spiaggia e a cui si affaccia Maria, la donna sognata dall’ergastolano di “La casa in riva al mare”, un po’ Beatrice, un po’ Marilyn Monroe e un po’ Madonna. L’assurdità delle finte risposte di “Quale allegria” (Facendo finta che la gara sia arrivare in salute al gran finale). Ci manca il cocciuto e popolare coraggio di guardare avanti, che è la costante di tante canzoni perfette, da “Futura” ad “Anna e Marco”, da “L’anno che verrà” all’ “Ultima luna”. Quest’ultima, poi, è una storia che pare presa dai racconti horror di Ray Bradbury, e conclude nella speranza del bambino appena nato, l’unico che vide la luna finale, bimbo che Aveva occhi tondi e neri e fondi, E non piangeva, Con grandi ali prese la luna tra le mani, tra le mani, E volò via e volò via, Era l’uomo di domani l’uomo di domani.
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TALK TO ME
:: Trama Talk to Me ::
Mia ha perso da poco la madre e ha un rapporto complicato con il padre. L'amica Jade e il fratellino di lei Riley hanno un rapporto di amicizia molto stretto con Mia e la ospitano a casa. Intanto tra i coetanei di Mia e Jade si diffonde sempre più una serie di video che ritrae gli effetti di un gioco: una sorta di seduta spiritica. Quando Hayley propone a Mia di sottoporsi alla sfida in questione, la ragazza sorprendentemente accetta e vive un'esperienza sconvolgente. I due registi Philippou al debutto non levano mai il piede dall'acceleratore, nemmeno di fronte a soggetti sensibili, come minorenni o minoranze etniche, con una libertà narrativa che nella media dei prodotti americani del genere è un lontano ricordo. La tendenza degli ultimi anni, specie attraverso le produzioni Blumhouse, ha molto insistito sul potenziale horror di social e nuove tecnologie, ma l'approccio di Talk to Me predilige la sostanza al sensazionalismo, la sospensione dell'incredulità che conduce al jump scare.
Un film (in Italiano anche pellicola) è una serie di immagini che, dopo essere state registrate su uno o più supporti cinematografici e una volta proiettate su uno schermo, creano l'illusione di un'immagine in movimento.[1] Questa illusione ottica permette a colui che guarda lo schermo, nonostante siano diverse immagini che scorrono in rapida successione, di percepire un movimento continuo.
Il processo di produzione cinematografica viene considerato ad oggi sia come arte che come un settore industriale. Un film viene materialmente creato in diversi metodi: riprendendo una scena con una macchina da presa, oppure fotografando diversi disegni o modelli in miniatura utilizzando le tecniche tradizionali dell'animazione, oppure ancora utilizzando tecnologie moderne come la CGI e l'animazione al computer, o infine grazie ad una combinazione di queste tecniche.
L'immagine in movimento può eventualmente essere accompagnata dal suono. In tale caso il suono può essere registrato sul supporto cinematografico, assieme all'immagine, oppure può essere registrato, separatamente dall'immagine, su uno o più supporti fonografici.
Con la parola cinema (abbreviazione del termine inglese cinematography, "cinematografia") ci si è spesso normalmente riferiti all'attività di produzione dei film o all'arte a cui si riferisce. Ad oggi con questo termine si definisce l'arte di stimolare delle esperienze per comunicare idee, storie, percezioni, sensazioni, il bello o l'atmosfera attraverso la registrazione o il movimento programmato di immagini insieme ad altre stimolazioni sensoriali.[2]
In origine i film venivano registrati su pellicole di materiale plastico attraverso un processo fotochimico che poi, grazie ad un proiettore, si rendevano visibili su un grande schermo. Attualmente i film sono spesso concepiti in formato digitale attraverso tutto l'intero processo di produzione, distribuzione e proiezione.
Il film è un artefatto culturale creato da una specifica cultura, riflettendola e, al tempo stesso, influenzandola. È per questo motivo che il film viene considerato come un'importante forma d'arte, una fonte di intrattenimento popolare ed un potente mezzo per educare (o indottrinare) la popolazione. Il fatto che sia fruibile attraverso la vista rende questa forma d'arte una potente forma di comunicazione universale. Alcuni film sono diventati popolari in tutto il mondo grazie all'uso del doppiaggio o dei sottotitoli per tradurre i dialoghi del film stesso in lingue diverse da quella (o quelle) utilizzata nella sua produzione.
Le singole immagini che formano il film sono chiamate "fotogrammi". Durante la proiezione delle tradizionali pellicole di celluloide, un otturatore rotante muove la pellicola per posizionare ogni fotogramma nella posizione giusta per essere proiettato. Durante il processo, fra un frammento e l'altro vengono creati degli intervalli scuri, di cui però lo spettatore non nota la loro presenza per via del cosiddetto effetto della persistenza della visione: per un breve periodo di tempo l'immagine permane a livello della retina. La percezione del movimento è dovuta ad un effetto psicologico definito come "fenomeno Phi".
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TALK TO ME
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:: Trama Talk to Me :: Mia ha perso da poco la madre e ha un rapporto complicato con il padre. L'amica Jade e il fratellino di lei Riley hanno un rapporto di amicizia molto stretto con Mia e la ospitano a casa. Intanto tra i coetanei di Mia e Jade si diffonde sempre più una serie di video che ritrae gli effetti di un gioco: una sorta di seduta spiritica. Quando Hayley propone a Mia di sottoporsi alla sfida in questione, la ragazza sorprendentemente accetta e vive un'esperienza sconvolgente. I due registi Philippou al debutto non levano mai il piede dall'acceleratore, nemmeno di fronte a soggetti sensibili, come minorenni o minoranze etniche, con una libertà narrativa che nella media dei prodotti americani del genere è un lontano ricordo. La tendenza degli ultimi anni, specie attraverso le produzioni Blumhouse, ha molto insistito sul potenziale horror di social e nuove tecnologie, ma l'approccio di Talk to Me predilige la sostanza al sensazionalismo, la sospensione dell'incredulità che conduce al jump scare.
Un film (in Italiano anche pellicola) è una serie di immagini che, dopo essere state registrate su uno o più supporti cinematografici e una volta proiettate su uno schermo, creano l'illusione di un'immagine in movimento.[1] Questa illusione ottica permette a colui che guarda lo schermo, nonostante siano diverse immagini che scorrono in rapida successione, di percepire un movimento continuo.
Il processo di produzione cinematografica viene considerato ad oggi sia come arte che come un settore industriale. Un film viene materialmente creato in diversi metodi: riprendendo una scena con una macchina da presa, oppure fotografando diversi disegni o modelli in miniatura utilizzando le tecniche tradizionali dell'animazione, oppure ancora utilizzando tecnologie moderne come la CGI e l'animazione al computer, o infine grazie ad una combinazione di queste tecniche.
L'immagine in movimento può eventualmente essere accompagnata dal suono. In tale caso il suono può essere registrato sul supporto cinematografico, assieme all'immagine, oppure può essere registrato, separatamente dall'immagine, su uno o più supporti fonografici.
Con la parola cinema (abbreviazione del termine inglese cinematography, "cinematografia") ci si è spesso normalmente riferiti all'attività di produzione dei film o all'arte a cui si riferisce. Ad oggi con questo termine si definisce l'arte di stimolare delle esperienze per comunicare idee, storie, percezioni, sensazioni, il bello o l'atmosfera attraverso la registrazione o il movimento programmato di immagini insieme ad altre stimolazioni sensoriali.[2]
In origine i film venivano registrati su pellicole di materiale plastico attraverso un processo fotochimico che poi, grazie ad un proiettore, si rendevano visibili su un grande schermo. Attualmente i film sono spesso concepiti in formato digitale attraverso tutto l'intero processo di produzione, distribuzione e proiezione.
Il film è un artefatto culturale creato da una specifica cultura, riflettendola e, al tempo stesso, influenzandola. È per questo motivo che il film viene considerato come un'importante forma d'arte, una fonte di intrattenimento popolare ed un potente mezzo per educare (o indottrinare) la popolazione. Il fatto che sia fruibile attraverso la vista rende questa forma d'arte una potente forma di comunicazione universale. Alcuni film sono diventati popolari in tutto il mondo grazie all'uso del doppiaggio o dei sottotitoli per tradurre i dialoghi del film stesso in lingue diverse da quella (o quelle) utilizzata nella sua produzione.
Le singole immagini che formano il film sono chiamate "fotogrammi". Durante la proiezione delle tradizionali pellicole di celluloide, un otturatore rotante muove la pellicola per posizionare ogni fotogramma nella posizione giusta per essere proiettato. Durante il processo, fra un frammento e l'altro vengono creati degli intervalli scuri, di cui però lo spettatore non nota la loro presenza per via del cosiddetto effetto della persistenza della visione: per un breve periodo di tempo l'immagine permane a livello della retina. La percezione del movimento è dovuta ad un effetto psicologico definito come "fenomeno Phi".
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Un film (in Italiano anche pellicola) è una serie di immagini che, dopo essere state registrate su uno o più supporti cinematografici e una volta proiettate su uno schermo, creano l'illusione di un'immagine in movimento.[1] Questa illusione ottica permette a colui che guarda lo schermo, nonostante siano diverse immagini che scorrono in rapida successione, di percepire un movimento continuo.
Il processo di produzione cinematografica viene considerato ad oggi sia come arte che come un settore industriale. Un film viene materialmente creato in diversi metodi: riprendendo una scena con una macchina da presa, oppure fotografando diversi disegni o modelli in miniatura utilizzando le tecniche tradizionali dell'animazione, oppure ancora utilizzando tecnologie moderne come la CGI e l'animazione al computer, o infine grazie ad una combinazione di queste tecniche.
L'immagine in movimento può eventualmente essere accompagnata dal suono. In tale caso il suono può essere registrato sul supporto cinematografico, assieme all'immagine, oppure può essere registrato, separatamente dall'immagine, su uno o più supporti fonografici.
Con la parola cinema (abbreviazione del termine inglese cinematography, "cinematografia") ci si è spesso normalmente riferiti all'attività di produzione dei film o all'arte a cui si riferisce. Ad oggi con questo termine si definisce l'arte di stimolare delle esperienze per comunicare idee, storie, percezioni, sensazioni, il bello o l'atmosfera attraverso la registrazione o il movimento programmato di immagini insieme ad altre stimolazioni sensoriali.[2]
In origine i film venivano registrati su pellicole di materiale plastico attraverso un processo fotochimico che poi, grazie ad un proiettore, si rendevano visibili su un grande schermo. Attualmente i film sono spesso concepiti in formato digitale attraverso tutto l'intero processo di produzione, distribuzione e proiezione.
Il film è un artefatto culturale creato da una specifica cultura, riflettendola e, al tempo stesso, influenzandola. È per questo motivo che il film viene considerato come un'importante forma d'arte, una fonte di intrattenimento popolare ed un potente mezzo per educare (o indottrinare) la popolazione. Il fatto che sia fruibile attraverso la vista rende questa forma d'arte una potente forma di comunicazione universale. Alcuni film sono diventati popolari in tutto il mondo grazie all'uso del doppiaggio o dei sottotitoli per tradurre i dialoghi del film stesso in lingue diverse da quella (o quelle) utilizzata nella sua produzione.
Le singole immagini che formano il film sono chiamate "fotogrammi". Durante la proiezione delle tradizionali pellicole di celluloide, un otturatore rotante muove la pellicola per posizionare ogni fotogramma nella posizione giusta per essere proiettato. Durante il processo, fra un frammento e l'altro vengono creati degli intervalli scuri, di cui però lo spettatore non nota la loro presenza per via del cosiddetto effetto della persistenza della visione: per un breve periodo di tempo l'immagine permane a livello della retina. La percezione del movimento è dovuta ad un effetto psicologico definito come "fenomeno Phi".
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EMERGENCY NON È CARITÀ EMERGENCY È LOTTA
La carità pura e semplice è qualcosa che mi infastidisce. Sento sempre un retrogusto di conservazione dello status quo quando penso a certe organizzazioni di beneficenza. Tra le pieghe del concetto di carità intravedo uno sgradevole patto non scritto: "Io sono ricco e tu sei povero. Ti concedo la mia carità. Ti lancio qualche briciola, così oggi potrai cenare. Ma a una condizione: io rimarrò ricco e tu povero". Nella carità c'è un'idea di rapporti sociali che restano immutati. C'è la definizione di ruoli che non devono mai cambiare: il potente è quello che fa piccole concessioni; il sottomesso è quello che accetta e ringrazia. La carità di cui parlo è una relazione asimmetrica che riproduce, in maniera neanche tanto nascosta, il marchingegno del dominio. Chi fa la carità detta le regole, l'entità e le condizioni. Tutto resta uguale, tutto si ripete, fino alla prossima briciola caritatevolmente gettata sul marciapiede. Il potente dorme sonni tranquilli perché non solo conserva il dominio, ma è pure universalmente considerato buono e otterrà un caloroso applauso alla serata di gala del suo club, senza contare il posto assicurato in paradiso. Nella carità è del tutto assente qualsiasi idea di trasformazione sociale. Madre Teresa era molto caritatevole ma, con buona pace di Jovanotti, non era poi così degna di ammirazione. Costruire ospedali non era una priorità per lei. Forse perché gli ospedali possono veramente cambiare il mondo, mentre il pensiero di Madre Teresa era proiettato sull'Aldilà e non su questa valle di lacrime. Beati gli ultimi, ma che restino ultimi, perché di essi è il Regno dei Cieli. Ho tirato in ballo la carità perché ieri, in un gruppo Facebook di sinistra, ho letto un post al vetriolo contro Gino Strada, accompagnato dalle parole "Per riflettere". In pratica l'autore voleva dirci: "Attenzione. Non è come te la raccontano". Nel post Gino Strada veniva accostato a un concetto paternalistico di carità pelosa. Non vi nascondo che la lettura di quelle parole mi ha fatto quasi esplodere come una supernova. La mia traballante pacatezza ha lasciato spazio alla modalità berserk e ho risposto per le rime. Alla fine l'autore ha cancellato il post, verosimilmente a causa dei numerosi interventi di persone che non avevano gradito il suo invito alla riflessione, un po' come me. Io sotto quel post ho scritto chiaro e tondo che Emergency non è carità. Emergency è lotta, perché il suo modo di agire è una vera ribellione contro il paradigma di quella che chiamiamo beneficenza. Per portare avanti la sua lotta, Emergency realizza ospedali in zone martoriate dalla guerra e dalla povertà, al contrario di Madre Teresa. È questo il punto da cui partire per capire la sua significativa rivoluzione. Gli ospedali di Emergency sono qualcosa di impensabile per chi non ne ha mai sentito parlare. Avete presente il classico ospedale fatiscente, ben riprodotto in certi film ambientati in posti infernali, dove i malati sono ammassati o al massimo separati da qualche tenda malamente accomodata, in cui vengono fornite bende e somministrati con parsimonia gli antidolorifici, con l'optional del conforto religioso per i moribondi? Emergency invece costruisce in mezzo all'inferno centri di eccellenza che, tanto per fare qualche esempio, fanno chirurgia ortopedica, ricostruiscono arti, realizzano protesi, ti seguono nella riabilitazione. Perché quando il tuo piede è stato distrutto da una mina gli antidolorifici somministrati con parsimonia non bastano. Servono attrezzature e competenze chirurgiche che sono sempre state un privilegio di noi occidentali; soprattutto di quelli che hanno un po' di soldi e vanno in cliniche a pagamento, dato che l'arretramento della sanità pubblica sembra qualcosa di inarrestabile anche negli stati del primo mondo. Gli ospedali di Emergency sono centri d'avanguardia che non hanno nulla da invidiare ai migliori ospedali europei. Prendete l'ospedale in Uganda, progettato da Renzo Piano e non da mio cugino che una volta curava un blog sull'architettura. È un centro costruito con una maniacale attenzione per la sostenibilità energetica e dei materiali. "Voglio che sia scandalosamente bello", disse Gino Strada in un'intervista. Proprio in Uganda, un paese con un PIL pro capite a dir poco misero e stabilmente ubicato in fondo alla classifica dell'indice di sviluppo umano, Emergency ha affidato il progetto di un ospedale a un architetto di fama mondiale. Non si tratta di una grande stanza piena di ammalati separati con tende di fortuna (nel solco dell'idea caritatevole secondo cui "è già tanto fare qualcosa"). Stiamo parlando di un gioiello tecnico accogliente, colorato, con spazi di aggregazione e giardini. Perché l'Uganda merita un ospedale meraviglioso. Persino migliore dei nostri. Nella scandalosa bellezza di quell'ospedale è racchiusa l'idea dell'uguaglianza. Qui la giustizia sociale diventa qualcosa di tangibile e così dev'essere dappertutto, perché la sanità di qualità eccezionale, con interventi che richiedono competenze di alto profilo, non può essere un privilegio occidentale. Si deve trovare anche in Uganda. Anche lì, come in qualsiasi altro posto al mondo, tutti devono potersi curare senza spendere un soldo. Manca un pezzo della storia, per rendere completamente visibile l'abisso che separa Emergency dal concetto di carità. Manca il futuro. Un giorno Emergency in Uganda non ci sarà più, perché quell'ospedale scandalosamente bello sarà amministrato in modo autonomo dalle persone che vivono da quelle parti. Succederà quando lì ci saranno le risorse e le competenze per gestire ogni dettaglio, continuando a garantire cure gratuite e universali. È questo lo scopo di Emergency: gettare il seme per la nascita di un sistema sanitario pubblico di qualità impeccabile in Uganda e in tanti altri posti. Emergency si impegnerà per formare personale medico specializzato in loco e un giorno se ne andrà. Non ci sarà più. Succederà quando l'ospedale sarà in grado di camminare con le sue gambe. Anche in previsione della futura gestione autonoma, gli ospedali sono realizzati con uno sguardo sempre rivolto alla sostenibilità ambientale ed energetica. Lo scopo di Emergency non è possedere centri d'eccellenza in posti martoriati. Il suo scopo è cambiare le cose per sempre prima di andarsene. Il suo scopo è diventare inutile. Siamo in un'altra dimensione rispetto alla beneficenza e all'assistenzialismo. Gino Strada non è stato un maestro di carità, neanche per un secondo. È stato un maestro di lotta, per la sanità gratuita e universale, per l'uguaglianza, contro la guerra. Insieme all'indimenticabile Teresa Sarti ha creato Emergency per lottare al fianco di chi crede in un altro mondo possibile. E ora, archiviata la faccenda della carità, mi rivolgo agli eventuali squallidi sovranisti che si imbatteranno in questo post. Cari (si fa per dire) sovranisti, siete prevedibili e so cosa state pensando. C'è una domanda che vi frulla nel cervello (chiamiamolo così): "E per l'Italia Emergency non fa nulla?". Potrei cavarmela con il solito facile commentino sarcastico che viene in mente a tutti: "Ma non siete quelli che volevano aiutarli a casa loro?". Però devo aggiungere, quasi a malincuore (perché odio sprecare tempo nel vano tentativo di aprirvi gli occhi), che Emergency ha realizzato un sacco di progetti in Italia. È rimasta a L'Aquila, anche quando persone molto simili a voi scappavano via perché la luce dei riflettori si stava affievolendo. Dopo lo scoppio della pandemia (che per voi è una bazzecola amplificata dai media, ma questa è un'altra storia), Emergency ha cominciato a fornire aiuto a tante persone rimaste indietro, senza fare le distinzioni che vi piacciono tanto tra italiani e immigrati, senza mai smettere di denunciare la devastazione della sanità pubblica, senza smettere di chiedere a gran voce l'uguaglianza. Questa è la differenza tra chi lotta per cambiare le cose e chi fa la carità. Chiudo con una confessione: so di non aver scritto nulla di particolarmente satirico anche questa volta. A prima vista, bisogna ammetterlo, la mia sembra semplicemente una dichiarazione d'amore nei confronti di Gino Strada e Teresa Sarti. E infatti lo è. Quando ci sono di mezzo loro, va sempre a finire così. Ah, tutti i progetti realizzati da Emergency non si finanziano da soli. Sapete cosa fare.
— L’Ideota
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Caro Fazio, essere inutile, dispensatore d'odio, e non penso sia per i milioni che prende ad ogni puntata.
Il karma arriverà anche per lei.
Caro Fazio,
me lo chiedo tutti i giorni come e cosa posso insegnare ai miei studenti, ma in questa lunga lista che potrei farle c'è qualcosa che ha un'importanza cruciale: io posso ancora insegnare ai ragazzi che esiste un limite invalicabile alla sterile sopravvivenza fisica del corpo garantita da un lavoro e uno stipendio che si chiama integrità morale, dignità personale, coerenza, giustizia, cultura, libertà di pensiero, pacificazione della coscienza, in una sola parola ANIMA.
Quella non si può vendere e non si può comprare. Ma capisco che per un marchettaro e un venditore di fumo come lei tutto questo fervore e questo impeto che non hanno sostanza materiale e un valore economico immediatamente monetizzabile risulteranno sempre incomprensibili.
L'esperimento poco scientifico e molto sociale di marketing e propaganda che avete voluto testare sulla nostra pelle avrà potuto anche attraversare la carne, ma non intacchera' mai neanche di striscio il nostro SPIRITO.
Quello è rimasto lindo e pulito come un fiore appena sbocciato, sia che appartenga a noi incorruttibili impenitenti, sia che abbia dovuto subire le torture e le angosce patite dai fratelli e dalle sorelle che sono stati costretti a cedere alle minacce e ai ricatti. E sarà proprio questo Spirito indomito di cui non avete alcun rispetto e alcuna contezza la vostra più grande sconfitta e condanna.
E ora vada pure a riscuotere il suo lauto compenso di seminatore di odio, che se l'è proprio meritato ed è l'unica cosa capace di concederle ancora una parvenza di vita e di umanità in questo stravagante mondo al contrario.
Resti pure curvo su questa terra a contare i suoi soldi, che a tenere la testa alta e la schiena dritta ci pensiamo noi, che abbiamo lo sguardo incessantemente proiettato sul futuro e sul lontano orizzonte. Fisso su quel giorno in cui la purezza dello Spirito e la tempra dell'Anima peseranno molto di più sulla bilancia di una conveniente carriera, una carta di credito illimitata e un conto corrente a tanti zeri. Fine della lezione.
(Piero Valerio)
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Once upon a time
December 2075
Sebastian ha gli occhi di un'azzurro impossibile da disegnare; più incredibili del cielo di Londra quando fa bel tempo, anche se non sempre sono sereni. Spesso ti fissano dall'alto in basso, sfottono, sorridono solo quando decidono loro ed è davvero difficilissimo che si lascino sfuggire qualcosa. Hanno imparato ad aspettarsi il peggio e per questo sanno ancora sorprendersi quando le cose vanno per il verso giusto. Sebastian ha capelli color cioccolato che stanno meglio scompigliati, labbra che non vorresti mai smettere di mordere, un profumo che ti fa venir voglia di rubargli il bagnoschiuma e un naso terribile che è stato rotto troppe volte. Se non veste a colori è solo perché questo potrebbe uccidere i passanti: è così generoso. A volte può sembrare troppo bello per essere vero, per questo ha un carattere di mer-inga. Per compensare.
Quello che amo di Sebastian è com'è riuscito a crescere da solo, un passo alla volta. E' scivolato sul ghiaccio una vita e adesso non lo so se ha trovato un incantesimo antiscivolo o se ha imparato a pattinare, però è bello da morire stare a guardarlo. Sebastian è... indomito. Rischia la vita almeno una volta all'anno per non annoiarsi, mangia con una lentezza esasperante e non mischia mai i gusti del gelato. Il dispetto più grande che potresti fargli è impedirgli di stirarsi le camicie o di tenere in ordine alfabetico i libri. Sebastian sa di casa, è una di quelle persone su cui hai voglia di poggiare i piedi mentre bevi una cioccolata calda perché saprà sempre rimetterti a posto una giornata distorta. E' incredibilmente ordinato. Non si guarda spesso allo specchio ed è molto competitivo: litigare con lui è un'avventura che non vorresti perderti.
Sebastian si è fatto da sè. I suoi genitori non sono stati troppo generosi di affetto e complimenti e per questo è rimasto inquieto un sacco di anni; cercava qualcosa che non sapeva e ha dovuto sfiorare i 25 per trovare finalmente pace. Sebastian ha avuto più fidanzate di quante se ne possano ricordare (vi assicuro che ci ho provato) e ha tradito più volte di quante se ne possano contare sulle dita. Alice è la sua fata madrina e sarà sempre grato a Rob e Chris per non essersene mai andati. Sente ancora la mancanza di Anne, ma forse Ezekiel è riuscito a colmare parte di quel vuoto a suon di pugni. Credo lo abbiano temprato. Ha sempre detto che la Lega era una seconda famiglia e spero che sia bastata come unica famiglia, in questi ultimi anni. Forse non smetterà mai di sentirsi in colpa per Darren, ma io continuo a sperare che lui e Rachel riusciranno a perdonarsi, un giorno. Oh, è finalmente diventato professore! Di Aco e Gus, ha preso la cosa molto sul serio. Spero non quanto con me.
April 2076
Sebastian è sfuggente. Lo è sempre stato o è tornato ad esserlo, non saprei dirlo. Credevo di averlo fermato e incastrato dentro la cornice dell'ennesima polaroid ma m’è sfuggito di nuovo. O è andato via. Non saprei dire nemmeno questo. O forse non c'è mai stato e dentro la cornice vuota ce l'ho di nuovo messo io. Lo faccio di continuo, mi capita di disegnarlo dappertutto: sui tovaglioli di carta, sugli angoli dei marciapiedi e nella condensa sui vetri quando fuori piove. Non mi stupirebbe sapere che l'ho semplicemente proiettato fuori dalla mia testa, assieme alle paure e alle speranze e ne è uscita una profezia autoavverante prima schifosamente bella e poi schifosamente brutta. Sì, forse questa volta me lo sono davvero immaginato. L'ho tirato fuori dalla carta, nel tentativo di renderlo vivo l'ho fatto... troppo vivo. Come quel falegname toscano col suo burattino parlante: Finocchio. Forse Seb non voleva stare nella cornice della mia polaroid almeno tanto quanto Finocchio non voleva stare a scuola. Fa niente. Butterò l'ABC che avevo preparato per lui. Vorrei solo che avesse salutato, prima di andare. Ma forse i saluti sono sopravvalutati, Nonna direbbe così. Direbbe che poi finisce che non ci si saluta più, che il mio vizio di tendere anche l'altra guancia al mio aguzzino finirà per ritorcermisi contro e che avere sempre una storia da raccontare non sarà la mia salvezza per sempre. Okay, nonna, questa la chiudo qui allora.
«E`... solo tutto il buono che... sono riuscita a salvare. Ho pensato che ne avessi più bisogno tu, adesso»
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Mitomania, narcisismo e teatro
La mitomania e il narcisismo sono la malattia della nostra società. In un recente sondaggio si stima che il 95% delle persone pensa di essere una persona speciale. Peccato che non sia così purtroppo, di persone speciali nel mondo ce ne sono veramente pochissime. Una così grande percezione distorta della realtà non può che portare conseguenze nefaste nel nostro modo di comportarci nel mondo. L’utilizzo dei social ha ulteriormente peggiorato questa discesa in basso. Quanti dei nostri amici di facebook o instagram, ad esempio, ritraggono sè stessi nei loro post. Basta contare in quante foto compaiono per avere la misura di questo fenomeno. I social sono diventati il palcoscenico per tutti, la possibilità di esibirsi senza nessuna abilità, il far vedere agli altri quanto siamo importanti. Sia chiaro, in questa rete, siamo tutti imbrigliati, siamo talmente assuefatti che nessuno ci fa più caso, ma non è una cosa esattamente normale…Siamo al limite di un patologico culto di sé stessi, che porta ad un individualismo esasperato, ad un’incapacità di vero ascolto dell’altro e quindi alla solitudine.
Tutto questo è l’opposto del teatro che il culto del rito collettivo, della condivisione, della socialità reale. Si sente dire spesso, con una grande retorica da parte degli “intellettuali”, spegnete i telefoni, la tv, e venite a teatro, dove avvengono le cose per davvero. Ma sarà davvero così? O forse in teatro, di questi tempi, subiamo l’avvento di un'altra virtualità? Quella vanitosa e narcisistica di un teatro che parla solo a sè stesso.
Io ritengo che la malattia di cui parlavo, imperi più che mai nelle nostre scene. Il teatro è spesso la patria di tanti millantatori, di venditori di fumo, di irrecuperabili narcisi che appestano i nostri palcoscenici. Dove, se non a teatro, ci potrebbe essere un così fertile luogo per la proliferazione dei narcisi…. Siamo pieni di grandi registi che firmano i loro spettacoli…Nelle locandine vedi prima i loro nomi. Prima dell’autore, del titolo, degli attori. Vedi grandi attori che vedono le cose a modo loro, riproponendo in fondo sempre l’immagine che hanno di loro stessi. Cos’è questo se non un perfetto delirio di mitomania e narcisismo. Si pensa di essere tutti creativi, speciali… Mi dispiace, ma certi grandi personaggi sono veramente rari, sono pochi, ed è giusto che sia così.
A mio avviso gli anticorpi a tutto questo andazzo si dovrebbero trovare nelle scuole di teatro. Già il termine scuola di teatro è riduttivo se non generico (le parole sono importanti), già meglio sarebbe scuola di recitazione…Anche quest’ultima parola però andrebbe suddivisa in due …Scuola di performer e scuola di interpreti. Intendiamoci non ho nulla contro la performance, ma non è il mio campo di interesse, l’accostamento attore/performer la trovo una moda, e Leopardi ci insegna che la moda e la morte vanno a braccetto. La cosa che interessa me invece, senza ambiguità di sorta, è la scuola di interpreti.
Cosa vuol dire essere interpreti di teatro?
Significa sparire, togliersi di mezzo. Educare i giovani attori a tenere a bada il narcisismo, in favore di una maggiore attenzione alla lettura del testo, allo studio, attraverso un processo metodologico che prenda come solo e unico punto di partenza l’osservazione della vita reale. Faccio un piccolo inciso per chiarire un aspetto importante, non si tratta di un ragionamento stilistico. Lo stile non c’entra nulla, sto parlando di un grado zero da qui poi si potrà andare ovunque.
Nelle scuole oggi ci sono, viceversa, metodi di insegnamento totalmente sbagliati, che sono il punto di partenza per un teatro autoreferenziale. Non è più concepibile un approccio a questo lavoro dogmatico che parta dalla forma. La forma è morte…Tuttavia non è concepibile neppure pensare di risolvere una scena, correndo e sbattendo la testa al muro. La scena non si risolverà ugualmente, nonostante lo sforzo…Il presupposto da cui si parte è la visione personale del lavoro o ancora peggio la visione creativa. La creatività se non è supportata da un approccio metodologico è libero arbitrio…Facciamo come cazzo ci pare. Quindi?
A mio avviso, bisogna partire dalla nudità della persona, dall’umiltà al testo, dalla sottomissione. A vedere l’interprete, come dice la parola stessa, un tramite dell’autore, un messaggero, un fattorino. Solo così ci possiamo sbarazzare di noi stessi. Coltivare un approccio creativo, fondato sul come lo vedo io, lo trovo profondamente diseducativo. Bisogna puntare a formare interpreti seri, puntuali, trasparenti, capaci di essere visti attraverso, liberi da sovrastrutture inutili date da insegnanti incapaci, egocentri e autoreferenziali. Insegnare, a teatro come nella vita, si porta dietro un grande carico di responsabilità e non tutti lo dovrebbero fare.
Solo grazie ad un’ attenta educazione ai futuri interpreti ci si potrà smarcare dalla virtualità e dal narcisismo e creare un fatto di realtà evidente.
Bisognerebbe fondare una vera “scuola”, ma intesa come la scuola dei pittori secenteschi, una corrente, un filone di pensiero. Una “scuola” che permetta di avvicinare il pubblico e soprattutto le nuove generazioni al teatro, attraverso un modo di farlo, non più autoreferenziale, non più arroccato sull’io ma proiettato sul noi. Una voglia di condivisione, di diventare uno specchio per gli altri: trasparenti come l’acqua, puri come i bambini, semplici come i sentimenti e vivi come il cuore.
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Caro Tumblr, voglio raccontarti di me e del perché della mia scelta.
Non ci conosciamo da tanto, saranno 5 anni ormai, e ringrazio chi ci ha fatto conoscere.
Per me non sei un semplice social, non sei semplice tecnologia.
Per me sei la mia vita, il mio diario, il mio sfogo, lo specchio della mia anima.
Con te ho gioito, sofferto ed immaginato.
Tu mi capivi,
le persone del tuo mondo rispecchiavano il mondo che immaginavo io.
Mi davi speranza ed aiutavi il mio dolore.
Oggi non è più così, oggi ho detto basta, il mondo lì fuori non è per me e non voglio più viverlo.
Sai che c’è? Tempo fa mi cugina mi disse:
“Ho paura ad avere un bambino, è davvero giusto che io decida per lui se venire al mondo? E se non volesse?”.
2 anni fa, queste parole mi son suonate assurde.
Oggi, da 4 mesi a questa parte, mi accorgo che forse tanto strane non sono:
Insomma, io forse non volevo nascere, sono stato obbligato a questo mondo, sono stato abituato ad usi e costumi,
Ed oggi, crescendo e conoscendo, fra delusioni e gioie, mi sono accorto e sono convinto che la vita te la scegli e puoi anche scegliere di non sceglierla, di non viverla insomma.
All’inizio avevo un po’ di paura mista a vergogna,non riuscivo a parlarne: ne alla mia famiglia, ne ai miei amici, ne alla mia ragazza.
Non appena ho trovato le forze per affrontare questo problema e parlarne, la vita,inspiegabilmente, mi ha voltato le spalle, quasi a volermi dire che gettare la spugna sarebbe stata la scelta giusta, levandomi le uniche due certezze della mia vita: il mio lavoro, quindi la mia indipendenza e la mia persona, quindi la mia forza.
Ho un tatuaggio sul braccio sai?
-homo faber fortunae suae-
L’uomo è artefice del suo destino.
Fin da piccolo sono sempre stato un bambino movimentato, monello e quindi capriccioso;
Mi intestardivo: se non volevo fare una cosa non la facevo e se invece mi andava, è come se la facevo, la facevo alla grande.
I miei si sono separati quando ero piccolo, appena tre anni, ma questo non mi ha creato nessun trauma di per se,
8 anni dopo sono iniziati i problemi, quando i litigi fra divorziati, soldi mantenimento e doveri, sono iniziati a nascere.
Questo però mi ha fatto tanto crescere, ho sentito la necessità di crearmi una vita indipendente tutta mia, senza chiedere nulla a nessuno.
Questo forse mi ha proiettato qualche hanno più avanti degli anni che in realtà ho.
A scuola? Niente da fare, non ho mai avuto la volontà e la pazienza di mettermi sui libri!
Per carità, penso di essere fottutamente intelligente, cioè in molti me lo hanno detto nella mia vita, sopratutto in carriera scolastica,
Pensa che la matematica è sempre stato il mio forte,
ma non studiavo e quindi avrei potuto fare poca strada, e così è stato.
Pensa che fin dalle elementari necessitavo del bene amato “doposcuola”, ma non perché non fossi capace, appunto, ma perché avevo bisogno di qualcuno che mi bacchettava per farmi studiare.
Alla fine della favola, ho ripetuto un anno di superiori, forse una fortuna infondo e poi capirai perché, e ho preso un immeritato diploma con 60.
Alla fine chisenefrega, frequentavo un liceo scientifico e già al terzo anno avevo deciso la mia strada: niente università, dritto al mondo del lavoro, il mio futuro sarebbe stata la ristorazione.
Da 3 anni a questa parte, stavo lavorando e facendo esperienze per arrivare al mio personalissimo obbiettivo: un posto tutto mio, con la mia squadra, con persone ambiziose, sane e riconoscenti, come io con loro.
Ho sempre pensato che valori e principi andassero messi prima di tutto.
Ho sempre pensato che sincerità, onesta, fiducia e il famoso “do ut des”, dovessero essere la base della mi vita e delle persone che mi circondavano.
Sai, penso che tutta questa morale mi sia nata dalla situazione familiare passata,
Insomma per me non era accettabile un divorzio, una famiglia spaccata, la sofferenza dei figli.
Forse da lì è nato tutto,
Mi ero convinto che avrei avuto una famiglia a cui non avrei fatto mancare nulla, la mia persona, i miei figli.
Così nella vita e nel lavoro.
Sono quel tipo di persona
che mai ha avuto paura del mondo che ha davanti,
Che sempre ha dato tanto affinché le persone lì fuori si sentissero qualcosa per qualcuno.
Sai, in amore non sono mai stato molto fortunato, mi reputo un inguaribile Romantico, in un mondo di falsi amori, persone che si accontentano e pudori inesistenti.
Non ho mai reputato il sesso una pedina importante della mia vita, non avevo neanche grandi aspettative per quella che sarebbe stata “la prima volta”,
Ho custodito la mia verginità per più di 19 anni.
Penserai che sono uno sfigato? Che forse mai nessuno mi è girata intorno?
No ti sbagli caro Tumblr, con molta modestia ti dico che sono stato sempre molto piaciuto e che ho sempre avuto tante ragazze intorno.
Ma sai, non ho mai dato un bacio per il divertimento, non ho mai avuto la necessità di scoparmi una bella ragazza, anche solo per il piacere di farlo, e non mi sono mai piaciuti gli incontri occasionali.
Io sono per le cose vere cazzo, io avevo bisogno della persona giusta, avevo bisogno di sentire che la mia lei mi amasse veramente come io amassi lei.
Avevo bisogno di sentire quel “ do ut des”.
Devo dirti che per 19 anni ho assorbito solo delusioni,
Non che non mi sia invaghito di nessuna, anzi, ma diciamo che ho beccato solo casi umani.
Ma ricordo ancora la prima ragazza per cui persi la testa: situazione fin dall’inizio difficile, si era appena lasciata col suo fidanzato ed io speravo stupidamente in qualcosa; Dopo essere stato, per un anno, su di un filo, in bilico , non sapendo quali fossero le sue intenzioni,
Arrivó un’altra ragazza, un’omonima.
Con lei fu più travagliata, durò tre anni.
Lei era strana, se pur piccola: non mi dava e non mi dimostrava, riusciva semplicemente ad incantarmi a parole, mi ha fatto credere e sperare in qualcosa di vero che mai si è concretizzato e che mai abbiamo vissuto.
Per anni sono stato intrappolato in una storia mai vissuta e nell’illusione di essere “innamorato” dell’idea che avrei voluto di lei, e non di lei realmente.
Un bel giorno la vita però ha deciso di regalarmi una persona fantastica, che sarebbe stata la mia vera lei per tanto tempo a seguire.
All’inizio non me ne ero accorto sai?ero troppo preso ancora dalla mia ex, e lei si subiva sfoghi e racconti.
Abbiamo deciso di stare insieme 1 anno dopo esserci conosciuti.
Ma Dio, se esisti grazie per questo.
Sono uscito fuori di testa, il mio amore si è fatto sempre più intenso, tanto che ho iniziato a costruirmi la vita intorno a lei.
Guardare la stessa persona, con gli stessi occhi del primo giorno,per tre anni!
Stravedevo.
Era fantastica la sensazione: insomma cosa pensi di desiderare di più nella vita quando hai qualcuno che ti considera la cosa più bella della sua vita? Quando senti che il tuo futuro è lì con lei?
Avete presente il matrimonio?
Nella buona e nella cattiva sorte ?
Nel dolore e nella gioia?
Quanti arrivano a quel giorno con quella convinzione?
In salute ed in malattia?
Io la sentivo quella convinzione.
È stato sempre un rapporto turbolento il nostro:
Io non sarò di certo il principe azzurro, ho commesso tanti errori,e lei non sarà la donna perfetta: ma io penso, quanto amore c’è, nonostante le mille difficoltà, nell’accettare tutti i pregi e sopratutto i difetti dell’altro?
Quanto amore c’è ?
A lei dico che se mai un giorno le chiederanno cos’è l’amore, mostri le nostre foto e spieghi che l’amore eterno,per tutta la vita, fino a che morte non separi, esiste; che il romanticismo non è morto, esiste e va coltivato,
quando l’amore scorre veramente fra le menti e i cuori degli innamorati.
La vita poi ha deciso di levarmi la prima vera ed unica felicità della mia vita.
In modo brutto, imprevisto per certi versi.
Giusto quando ho iniziato ad affrontare delle difficoltà mie, interne,
La vita mi ha levato la mia spalla, il mio braccio, le mie gambe e quindi la mia forza.
Sai, Tumblr, lei non mi amava già da tempo ma non è mai riuscita a dirmelo,
Ha pensato di lasciarmi e vivere un nuovo amore, istantaneo con un altra persona.
Sono stato messo da parte, calpestato e buttato.
Oggi non ho più nulla per andare avanti.
Lavoro da 3 anni quasi, faccio il cuoco, mica semplice eh, e con tanta volontà, piedi a terra ed umiltà, sono entrato in un mondo che avevo totalmente sottovalutato.
Mi sono ritrovato improvvisamente nel mondo dei grandi,
Ho aperto la finestra sul mondo vero, sul quel mondo che non ti racconta nessuno e che tante botte ti da.
La merda presa è stata tanta fino ad ora e delusioni dalle persone ancora di più.
Pensa che quando finii la scuola,3 anni fa appunto,
Decisi di partire per Londra, trovare un lavoro ed avere una vita indipendente.
Non ebbi la minima intenzioni di slegarmi dalla mia mia persona: avevo già capito che il legame mentale è sempre più forte di quello fisico.
Poi a dirla tutta, iniziavo già a pensare ad una vita fuori con lei, finiti i suoi studi,
E quindi, come potevo mai dividermi? Avevo scelto lei.
A Londra iniziai a scoprire un po’ il mondo,
Ed appena capii che quel mondo, quelle opportunità sarebbero potute essere trasmesse ad altre persone, amici per esempio,
Decisi di offrire un’opportunità ad uno dei miei più grandi amici.
Sai lui era una persona stravagante(era? No non è morto, per lo meno non fisicamente), fuori dalle righe.
Sapeva moltissimo di me, confidenze che nessun’altri e dico NESSUNO sapeva.
Mi ricordo di tutti quei consigli che mi diede su come affrontare la mia prima volta, di tutti gli sfoghi che ha dovuto accogliere, delle serata insieme e dell’amicizia con la mia ragazza.
Fu così che decisi di farlo salire con me a Londra.
Pensai: un grande amico, la nostra indipendenza e tante avventure ed esperienze da affrontare.
Feci la scelta più costosa della mia vita, ed oggi ne sento ancora le conseguenze.
Gli prestai i soldi dell’aereo, lo aiutai a cercare lavoro e visse per due mesi a spese mie.
Ebbi in cambio solo egoismo, una persona che si era presa totalmente gioco di me,
che nonostante l’aiuto, riuscì a descrivermi come un mostro ,
ed anche lui, al tempo, inspiegabilmente mi buttò.
Non capii e tutt’oggi non capisco il perché mi successe tutto ciò, ma ne rimasi segnato, e, dopo tre anni, al pensiero sto ancora molto male.
Con tanti soldi in meno, il morale sotto zero ed un grande delusione, provai ad andare avanti e non pensarci: oggi ancora non riesco.
Ti dirò,caro tumblr,ho sempre provato ad affrontare tutto in leggerezza, ho sempre provato a prendere tutto come una crescita.
In fondo, possiamo mica pretendere che ogni persona che incontriamo ed a cui diamo tanto debba rimanere nella nostra vita? Saremmo tutti amici di tutti.
Ma questo è normale, l’ho capito ed accettato.
Rimane solo chi ci tiene veramente,
Rimangono in genitori
Rimangono i fratelli
Rimangono quegli amici fraterni
E se sei fortunato rimane chi ti accompagnerà per tutta la vita, infede ad essere la tua persona.
Da non molto però quello che sto vivendo e quindi scoprendo non mi piace per niente.
Avete presente quando, ad un certo punto della sua vita, un bambino deve perforza scoprire che babbo natale non esiste?
É traumatico, crolla un mito, una certezza di felicità.
Ecco, oggi io mi sento così, aver scoperto dopo tre intensissimi anni che il mondo non è come pensavo,
Che le persone non so brave,
Che il rispetto non lo si guadagna e non lo si ha.
Il rispetto non esiste,
Le persone sono cattive,
Le persone sono egoiste,
E si dovrebbe solo accettare che nella vita o ti mandi avanti da solo, egoista, come tutti, o non vai da nessuna parte.
Sono mesi ormai che sto così, mesi che penso di non farcela, di non accettare tutto questo ed oggi siamo all’epilogo.
Non ho incontrato solo brutte persone nella mia vita, caro Tumblr, non voglio lasciare questo messaggio.
Ringrazio infatti tutti coloro che mai mi hanno tradito e che fino ad oggi mi stanno vicino.
Grazie Pietro ed al modello che ed per me
Grazie Giorgio e al suo immenso insostituibile sostegno
Grazie Gabriele ed il vero significato di amicizia
Grazie Tatiana e all’amicizia fra uomo e donna che veramente esiste, anche se ti ho persa
Grazie Mamma e tutto quello che hai fatto e fai
Grazie Andrea ed alla persona che sei
Grazie alle mie sorelle minori ed alla gioia che su prova ad avere certi legami
Grazie a Marco ed alla sua completa diversità
Mi scuso anche,
perché mi sono sempre dimostrato una roccia,
Ma la roccia, presto o tardi, si consuma.
Decido io alla fine, ed è sicuramente meglio così.
Voglio lasciarti questo messaggio,
Perché spiegare al mondo quello che sto vivendo ed il motivo di questo passo, sarebbe stato inutile.
Voglio lasciare questo ricordo e questo sfogo nel mio unico e immortale Diario personale, non mi interessa altro.
Che gli altri possano trovare la forza di accettare e che non mi considerino un folle.
Ho semplice dato troppo, tutto a le persone che per me contavano veramente ed ho solo subito cattiverie dalle stesse.. lasciato in balia quando tutto stava iniziando a crollare.
Che almeno tu possa capirmi, Tumblr.
La vita non è per tutti ed io non avrei comunque voluto continuare a vivere fingendo di essere ciò che non sono, non mi sarei più fidato e non avrei più agito con gli stessi principi: preferisco questo a non aver più mostrato, in futuro, quella parte di me che non esiste più e che in un passato c’era.
-Davide
-28/09/2019
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The one where Ermal talks to Rinald
Più tardi puoi passare da me? Ti devo parlare.
Rinald lesse per l'ennesima volta il messaggio che suo fratello gli aveva inviato quella mattina.
Aveva capito che qualunque cosa Ermal avesse intenzione di dirgli, aveva a che fare con ciò che era successo la sera precedente e onestamente non sapeva come avrebbe dovuto reagire.
Ormai aveva capito da tempo che Ermal aveva una relazione e non era stato difficile capire anche con chi ce l'avesse.
Ogni volta che parlavano, in un modo o nell'altro, veniva fuori il nome di Fabrizio. Anche quando non c'entrava assolutamente nulla.
Semplicemente, Ermal sentiva il bisogno di nominarlo. E quando Rinald glielo faceva notare, borbottava qualche scusa e arrossiva.
Quindi, ormai era ovvio che Ermal fosse innamorato di Fabrizio. E Rinald non aveva idea di come comportarsi quando Ermal gliene avrebbe parlato.
Doveva fingersi stupito? Fare finta di non essersi accorto di nulla? Magari mentire dicendo qualcosa di stupido tipo: "Ah, io credevo che ti vedessi di nuovo con Silvia"?
Oppure doveva dirgli la verità? Ammettere che in realtà l'aveva capito fin da subito?
Senza avere la minima idea di come comportarsi, Rinald suonò il campanello e attese che suo fratello aprisse la porta.
Ermal lo salutò abbozzando un sorriso e si spostò di lato per farlo passare, chiudendo poi la porta dietro di lui.
Era visibilmente nervoso, cosa che fece sorridere Rinald.
Sembrava che non vedesse l'ora di parlare e che, allo stesso tempo, ci fosse qualcosa che lo tratteneva.
"Vuoi bere qualcosa?" chiese Ermal entrando in cucina.
Rinald lo seguì e si sedette su una delle quattro sedie attorno al tavolo. "No, grazie. Va tutto bene?"
"Sì, perché?"
"Non so, dal tuo messaggio sembrava che dovessi parlarmi di qualcosa di importante."
Ermal sospirò e si sedette di fronte a lui. "Si tratta di ieri sera."
Rinald gli fece cenno di continuare. Ermal, troppo imbarazzato - e forse un po' spaventato - per sostenere lo sguardo di suo fratello, iniziò a prestare particolare attenzione a una pellicina accanto all'unghia del pollice e disse: "Da un po' di tempo mi vedo con una persona. Non ti ho detto niente perché non sapevo se fosse una cosa seria o no, e poi mi sentivo un po' confuso da tutto perché è una situazione nuova... Però, insomma, ora pare che stia diventato una cosa seria, o comunque io vorrei che lo fosse, quindi è il caso di parlartene."
"Ok, ti ascolto" disse Rinald sorridendo.
Voleva che Ermal si sentisse a suo agio, che non avesse paura di parlargli della sua vita.
Ermal sospirò. "Sto con Fabrizio."
Il sorriso di Rinald si allargò mostrando i denti ed Ermal lo guardò perplesso per un attimo, notando che sul suo viso non c'erano segni di stupore.
"Tu lo sapevi!" esclamò Ermal dopo qualche secondo, puntando il dito contro suo fratello.
Rinald scosse la testa. "Non lo sapevo. Lo sospettavo, è diverso. Ultimamente sei più felice e hai iniziato a nominare Fabrizio molto più spesso. Ieri sera ho capito che c'era qualcuno qui e ho immaginato fosse lui, ma non ne avevo la certezza."
"Grazie per non avermi costretto a parlarne" disse Ermal.
Era davvero riconoscente nei confronti di suo fratello per non avergli messo pressione, per non averlo costretto a parlare prima, quando lui ancora non si sentiva pronto.
Aveva avuto bisogno di tempo per abituarsi all'idea di essere innamorato di Fabrizio e ancora di più per abituarsi al fatto che Fabrizio provasse le stesse cose, e aveva avuto bisogno di affrontare tutto da solo perché era una cosa che riguardava solo lui.
Non aveva condiviso ciò che provava e pensava con nessuno ed era felice che Rinald, pur conoscendolo forse meglio di quanto lui conoscesse sé stesso, non lo avesse forzato a parlare.
"Ti andrebbe di raccontarmi qualcosa adesso?" chiese Rinald.
Ermal sorrise.
Sì, in effetti non vedeva l'ora.
***
Quando Ermal si era reso conto di provare qualcosa per Fabrizio, ormai era troppo tardi per tornare indietro.
Si era innamorato di lui in modo così semplice a naturale da non accorgersene nemmeno.
Non prima di quel momento, almeno. Non prima di quel messaggio.
In realtà doveva ammettere che i brividi che aveva provato quella sera - quando sul palco del Forum di Assago aveva cantato con Fabrizio, quando Fabrizio lo aveva abbracciato, quando si era sporto verso di lui per baciarlo sulla guancia, quando si erano presi la mano un attimo prima che Fabrizio se ne andasse - non li aveva mai provati prima.
All'inizio aveva pensato che fosse semplicemente dovuto all'emozione di cantare di fronte a tutta quella gente, su quel palco. Ma poi si era reso conto che, per quanto fosse stato emozionato per tutta la serata, in nessun altro momento aveva provato ciò che aveva sentito mentre Fabrizio era al suo fianco.
E poi, mentre rifletteva su tutto questo, Fabrizio gli aveva inviato un messaggio.
Non c'era scritto niente di strano. Era semplicemente una riflessione che Fabrizio aveva scritto sulle note del suo telefono quando lui ed Ermal si erano conosciuti, al festival del 2017. Era un insieme sconclusionato di pensieri e di sensazioni che Fabrizio aveva provato sentendolo cantare, un insieme di parole che a primo impatto non sembravano nemmeno collegate da un filo logico.
Eppure ad Ermal era bastato leggere quel messaggio una sola volta per sentire il cuore iniziare a battere velocemente e il respiro bloccarsi in gola.
E in un attimo aveva capito.
Era innamorato di Fabrizio e nemmeno riusciva a rendersi conto da quanto tempo. Forse da sempre. Ed era per quel motivo che quel messaggio l'aveva smosso così tanto.
***
"E tu che hai risposto a quel messaggio?"
Ermal sorrise e scosse la testa. "Niente. Cioè, gli ho risposto che quel messaggio era importante, che mi aveva fatto piacere leggere quelle cose, ma non gli ho detto che mi aveva anche fatto capire che ero innamorato di lui."
"Però da quel momento le cose sono cambiate. Tutti hanno notato che a Lisbona eravate più sciolti."
"Appunto. A Lisbona."
***
L'Eurovision non era come Ermal l'aveva immaginato.
Aveva sempre proiettato nella sua mente un'immagine che solo in quel momento - giunti ormai quasi alla fine - si rendeva conto di quanto fosse sbagliata.
Aveva immaginato che fosse un festival. Nulla di più.
Aveva immaginato che fosse una versione più grande e forse un po' più eccentrica di Sanremo.
E invece no.
Erano state giornate così piene, quelle trascorse a Lisbona, che c'era stato un momento in cui aveva perso la cognizione del tempo e aveva dovuto chiedere a Fabrizio che giorno fosse perché non riusciva a ricordarlo.
Era un continuo susseguirsi di interviste, prove, blue carpet, servizi fotografici. I ritmi delle attività da fare erano serrati e c'erano regole specifiche da seguire, e né lui né Fabrizio erano abituati a un'organizzazione di quel tipo.
Per dieci giorni, Ermal non aveva avuto tempo di pensare a nulla che non fosse l'attività che aveva da fare in quell'esatto momento. Non c'era stato il tempo materiale per pensare ad altro. E se questo aveva sciolto un po' Ermal - che non potendo tenere ogni cosa sotto controllo, aveva iniziato a lasciarsi andare - allo stesso tempo gli aveva fatto fare una serie di passi verso Fabrizio che in una situazione normale non si sarebbe mai permesso di fare.
Il contatto fisico era stato sempre maggiore, sempre meno controllato. Le parole erano sfuggite dalla sua bocca prima che se ne rendesse conto.
E alla fine, arrivati al giorno prima della finale, Ermal si rese finalmente conto di quanto si fosse spinto verso il suo collega senza nemmeno rendersene conto.
Allo stesso modo, Fabrizio aveva notato un cambiamento nel loro rapporto ma non riusciva a capire se fosse dovuto alla particolare esperienza che stavano vivendo o se fosse davvero cambiato qualcosa tra loro.
Sperava nella seconda opzione, ma non ne era certo.
Ormai aveva superato da un po' la fase di negazione dei sentimenti che provava per Ermal ed era chiaro - a lui come ad almeno la metà delle persone che lo conoscevano - che ciò che provava per lui era qualcosa che andava ben oltre l'amicizia.
Ma Fabrizio non si era mai esposto, troppo impaurito che un passo verso Ermal avrebbe rischiato di rovinare tutto.
Quella sera però, mentre se ne stavano in camera sua - Ermal seduto su una poltroncina accanto alla finestra e Fabrizio seduto sul bordo del letto - a chiacchierare, Fabrizio ebbe la sensazione che fosse il momento giusto per fare qualcosa, per smuovere le acque. Ebbe la sensazione che, se non avesse fatto nulla in quel momento, allora non lo avrebbe fatto mai.
"Sei agitato per domani?" chiese Ermal a un certo punto.
Fabrizio sollevò lo sguardo su di lui. "Non molto. Cioè, un po' ma a Sanremo stavo peggio. Perché?"
Ermal si strinse nelle spalle. "Non so, mi sembravi pensieroso."
Fabrizio rimase in silenzio per un attimo, indeciso su cosa dire. Avrebbe potuto parlare a cuore aperto, almeno per una volta, e dire ad Ermal tutto ciò che gli passava per la testa. Ma era come se, in quel preciso istante, tutto il suo coraggio fosse scivolato via.
"Ma no, è che stavo pensando che domani finisce tutto e un po' mi dispiace" disse semplicemente.
"Già. Dispiace anche a me" disse Ermal.
Quei giorni a stretto contatto con Fabrizio lo avevano fatto sentire così bene, che non era certo di avere il coraggio di rinunciarci e tornare alla vita reale.
"Prima che finisca tutto, vorrei fare una cosa. Ma non voglio che complichi le cose tra noi" disse Fabrizio titubante.
Non poteva continuare a stare così, chiedendosi cosa sarebbe successo se avesse avuto il coraggio di farsi avanti.
Ermal inclinò la testa guardandolo curioso. Il suo cuore iniziò a battere più forte all'idea che quel qualcosa che avrebbe voluto fare Fabrizio fosse la stessa cosa che avrebbe voluto fare lui, ma che aveva avuto solo il coraggio di immaginare.
"Le cose tra noi sono sempre state complicate" si lasciò sfuggire Ermal a bassa voce, ma abbastanza alta da farsi sentire da Fabrizio.
Aveva ragione, e questo Fabrizio lo sapeva bene.
Il loro rapporto era sempre stato tutt'altro che limpido. C'era sempre stato qualcosa tra loro a cui nessuno dei due aveva mai voluto dare un nome, ma che allo stesso tempo rendeva il loro rapporto difficile da capire, non solo per le persone esterne ma soprattutto per loro due.
Non sapevano mai quale fosse il limite da non superare, perché in realtà fin da subito il loro modo di interagire, di starsi accanto, di toccarsi, era stato qualcosa che va ben oltre l'amicizia ma che allo stesso tempo non arriva al livello successivo.
E allora, in quella sorta di limbo in cui si trovavano, dove stava il limite oltre il quale non dovevano spingersi? Ammesso che ci fosse davvero un limite.
Fabrizio fissò Ermal per qualche secondo, cercando di valutare i pro e i contro delle azioni che avrebbe voluto compiere.
Quando finalmente si accorse che non gli importava dei pro e dei contro, ma gli importava solo di Ermal, si alzò dal letto e lo raggiunse.
"Hai ragione. Le cose sono già complicate, quindi tanto vale..." disse chinandosi su di lui.
Senza dargli il tempo di rispondere, posò le labbra sulle sue e lo baciò.
Ermal rispose immediatamente al bacio, posando una mano sulla nuca di Fabrizio e attirandolo maggiormente a sé.
Sembrava che ogni cosa intorno a loro fosse sparita. Non esisteva altro se non le loro labbra premute insieme.
Quando si separarono - dopo così tanto tempo che Fabrizio sentiva la schiena indolenzita per la posizione che aveva assunto per baciare Ermal - il più giovane sorrise e disse: "Volevo farlo da un po', ma non ne avevo il coraggio."
"Anch'io" rispose Fabrizio.
Ermal si alzò dalla poltrona, strinse le mani sui fianchi del collega e lo attirò a sé. Fabrizio sorrise mentre le loro labbra si congiungevano di nuovo ed Ermal non esitò a schiudere le labbra e lasciare che la lingua di Fabrizio invadesse la sua bocca.
Era bello baciare Fabrizio.
Era come se prima di quel momento non avesse mai baciato nessuno, come se Fabrizio fosse il primo bacio ad avere davvero un senso.
Come se Fabrizio, in realtà, fosse l'unica cosa al mondo ad avere un senso.
***
"Quindi è così che è iniziato tutto."
Ermal sorrise e annuì. "Già. Un bacio scambiato in una camera d'albergo a Lisbona."
Poi sollevò lo sguardo su Rinald e aggiunse: "Sai, è stato strano. Era come se fino a quel momento avessimo vissuto entrambi in una bolla, come se in questa bolla avessimo racchiuso le nostre paure e i nostri sentimenti. E con quel bacio, la bolla è scoppiata. Tutto ciò che avevamo provato nei mesi passati è venuto fuori e non potevamo fare altro se non assecondarlo."
Rinald sorrise.
Era raro vedere Ermal così felice e innamorato. Nemmeno ai tempi della sua relazione con Silvia l'aveva mai visto così.
"Sei innamorato" constatò il più giovane.
Ermal arrossì, ma non rispose.
Sì, era innamorato. Ma ancora non si sentiva pronto ad ammetterlo con suo fratello.
"Il giorno dopo, è stato un casino cercare di restare separati" disse Ermal sorridendo mentre ricordava quell'ultima giornata a Lisbona. "Cercavamo di comportarci come sempre, di stare insieme ma non troppo, ma non era proprio possibile. Ormai entrambi ci sentivamo talmente liberi, che era impossibile comportarsi come sempre."
"Sì, lo so. Ho visto una diretta su Facebook, non facevate altro che toccarvi" disse Rinald.
Ermal sorrise ricordando che dopo quella diretta, erano rimasti soli in camerino ed erano passati meno di trenta secondi prima che Fabrizio gli prendesse il viso tra le mani e lo baciasse.
"E quindi, mi pare che capire che state insieme" disse Rinald sorridendo.
Ermal annuì. Poi aggiunse: "Sai, è strano perché in realtà nessuno dei due l'ha detto esplicitamente. Non c'è stata una di quelle conversazioni in cui si decide di comune accordo di stare insieme. È semplicemente stata una cosa naturale. Ci siamo baciati e da quel momento era come se appartenessimo l'uno all'altro."
"Senza bisogno di parole."
"Già. Senza bisogno di parole."
Ermal ancora stentava a crederci.
Con Silvia, le parole c'erano sempre state. Per tutto, dalle cose serie a quelle più banali.
Sentiva il bisogno di spiegare ogni cosa, con la perenne paura di non essere capito che incombeva su di lui.
Con Fabrizio invece era tutto semplice. Si guardavano negli occhi e si capivano, senza che ci fosse bisogno di dire una singola parola.
E forse era così che doveva essere, forse ti rendi conto di stare con la persona giusta quando non c'è bisogno di parole.
"Ma senti un po', come ha reagito quando sono arrivato io?" chiese Rinald curioso.
Ermal fece una smorfia. "Diciamo che non ha preso molto bene il fatto che io lo abbia costretto a nascondersi nell'armadio."
"Non posso dargli torto!"
"Non sapevo che fare! Mi sono fatto prendere dal panico" si giustificò Ermal. Poi aggiunse: "Però gli ho promesso che appena possibile ne avrei parlato almeno con te. Ecco perché ti ho chiesto di venire qui, oggi."
"Sono contento che tu lo abbi fatto. E poi si vede che sei felice, non vedo perché dovresti tenerlo nascosto."
Ermal si strinse nelle spalle. "È che non ero sicuro di come avresti reagito."
"Pensavi che non avrei accettato la tua relazione con Fabrizio? Ermal, per chi mi hai preso? E poi, anche nella remota possibilità in cui io fossi stato così deficiente da reagire male, tu sai bene che questa cosa riguarda solo te e Fabrizio. Devi fregartene di quello che pensano gli altri. Chi tiene davvero a te, vuole solo la tua felicità" rispose Rinald.
Ermal sorrise, improvvisamente più tranquillo rispetto alla sera precedente.
Afferrò il cellulare e cercò rapidamente la conversazione con Fabrizio.
"Che fai?" chiese Rinald curioso.
"Scrivo a Bizio" rispose Ermal con il sorriso sulle labbra.
Era felice come non mai, si sentiva finalmente libero da un peso che lo aveva soffocato per settimane e, soprattutto, non vedeva l'ora che Fabrizio sapesse che aveva parlato con suo fratello della loro relazione.
Sapeva che dopo ciò che si erano detti la sera precedente, gli avrebbe fatto piacere. E in realtà, faceva piacere anche a lui.
Era bello poter parlare liberamente con Rinald e si sentiva un idiota per aver anche solo pensato che avrebbe potuto reagire male.
Rilesse il messaggio che aveva appena scritto, poi lo inviò e appoggiò il telefono sul tavolo.
La risposta di Fabrizio non si fece attendere.
Anche Giada e i ragazzi della band lo sanno. Mi sa che a questo punto non si torna indietro.
No, ormai non si poteva tornare indietro.
Ma per una volta né Fabrizio né Ermal erano spaventati da ciò che comportava aver ufficializzato la loro relazione.
Non erano spaventati da nulla, se avevano l'un l'altro.
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THE MARVEL-OUS MS. DANVERS (no spoiler)
Quando sono andata a vedere The Lego Movie 2, qualche settimana fa, la sala si è riempita subito di un inutile manipolo di rompicoglioni - una perifrasi edulcorata per “bambini” - che hanno iniziato a correre, saltare e a esprimersi con l’eloquio di un camionista veneto bloccato in coda dentro al traforo del Frejus. Lo scenario che si dipanava davanti alle mie fosche pupille era quello che immagino accadrebbe se mai Jane Goodall decidesse di portare al cinema degli scimpanzé posseduti dal demonio.
Direte: che c’entra con Captain Marvel? C’entra. Perché in sala c’era anche una bambina - non facente parte della comitiva infernale - che è stata buona e zitta per tutto il tempo.
Direte ancora: sì, hocccapito, ma che c’entra con Captain Marvel?
C’entra.
Perché durante i trailer, mentre veniva proiettato proprio quello di Captain Marvel, il papà ha esclamato, più entusiasta che sorpreso: “Hai visto? È una supereroina!”.
Di fronte a quella frase non ho potuto fare a meno di sorridere, e per un po’ sono persino riuscita a dimenticare che in sala era in corso, autorizzata da alcuni genitori omertosi, l’invasione degli ultracorpi.
[illustrazione d’artista di come stavo gestendo la caciara nella mia testa]
È vero che, se prendiamo quella sala cinematografica come un insieme rappresentativo a fini statistici, scopriamo che la proporzione è ancora tutta sbilanciata in favore di quelli incapaci di inculcare qualsivoglia nozione di vivere civile nella loro immonda e molesta progenie, ma almeno so che c’è un genitore che sta crescendo la figlia in modo che sappia che non è la stanghetta in più o in meno su un cromosoma a fare di qualcuno un eroe.
O forse di genitori decenti ce ne sono anche più d’uno, perché al termine dei titoli di coda di Captain Marvel (attenzione: le scene bonus sono 2, quindi restate fino alla fine-fine-fine) un bambino ha gridato al padre: “ma questo film è bellissimo, avrebbe dovuto vederlo pure mamma!”.
Carol Danvers, la supereroina in questione, è una che prima ti mena e poi in caso ti fa le domande, ha un senso dell’umorismo irriverente, possiede feeeenomenali poteri cosmici, è in grado di cavarsela da sola praticamente sempre, e sa che non deve rendere conto a nessuno né di quello che è, né di quello che può fare. E quel che è bello è che i suoi superpoteri sono, in fin dei conti, soltanto un quid pluris. D’altronde, ancora prima che divenisse super, era già giusto un pilota collaudatore dell’aeronautica, sai, robetta...
[sbem!]
Se ci fosse stata lei in Avengers: Infinity War, Thanos avrebbe forse fatto in tempo a vaporizzare giusto metà di San Vito Chietino, non certo metà del pianeta. Allora non posso che essere felice sapendo che la bambina di Lego Movie possa diventar grande aspirando a essere forte e indipendente come Carol Danvers. Dopotutto, i maschietti già vengono incoraggiati a essere Capitan America, Iron Man, Thor, Batman, Superman, Flash, Aquaman, Spiderman, Green Arrow, Wolverine, Daredevil, e di sicuro me ne dimentico altri due o tre... cento. Dov’è scritto che solo questi ultimi siano legittimati a sognare in grande?
Però è una riflessione amara quella che segue. Perché se i maschi sognano in grande, io sognavo e sogno cose normali ma che a me parevano (e purtroppo paiono ancora) straordinarie.
Ho iniziato a guardare Distretto di Polizia che ero una pischella di dodici anni, e il pensiero che i commissari del X Tuscolano potessero essere una Giovanna Scalise e una Giulia Corsi (e non Giovanni e Giulio) mi mandava in brodo di giuggiole. Adesso, a trent’anni, mi rendo conto che le cose non sono cambiate per niente, perché quando guardo Legends Of Tomorrow, mi prendo sempre un istante per bearmi del fatto che il capitano della Waverider sia Sara Lance, e lo stesso quando mi sparo un episodio di Supergirl, dove direttrice del D.E.O. è Alexandra Danvers (no, lei e Carol non sò parenti).
[Empowering little girls. Da in alto a sinistra, in senso orario: Melissa Benoist (Supergirl), Gal Gadot (Wonder Woman), Daisy Ridley (Rey), Brie Larson (Captain Marvel)]
Ora, Captain Marvel non è l’unica supereroina in circolazione. Insieme a Wonder Woman, Supergirl, Daisy “Quake” Johnson, Scarlet Witch e Natasha Romanoff è in buona (seppur ristretta) compagnia, ma fino a prova contraria è soltanto la seconda dopo Wonder Woman (ma la prima del MCU) a essere protagonista di un film (cioè di uno degli strumenti comunicativi più efficaci e d’impatto del secolo passato e di quello in corso), a fronte, ça va sans dire, di decine e decine di pellicole prettamente al maschile.
Ho letto, su internet, di uomini mortalmente offesi dall’idea che il supereroe Marvel più potente di sempre sia una donna. O anche, semplicemente offesi dal fatto che un supereroe donna abbia un film tutto suo. Potranno esserci dieci, cento o mille omuncoli a pensarla così (e ci sono, mortacciloro se ci sono), ma finché ci sarà anche un papà a incoraggiare la figlia a essere come Carol Danvers, o ci sarà un bambino che esce dal cinema felice di aver visto una ragazza spaccar culi, allora posso dire di avere ancora fiducia nel mondo.
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Antonio Rezza, il suo: Il Cristo in gola, apre il 40° Torino Film Festival
Il Cristo in gola, il nuovo film di Antonio Rezza, verrà proiettato in Selezione Ufficiale Fuori Concorso al 40° Torino Film Festival, venerdì 25 novembre alle ore 21.30 nel Multisala Cinema Massimo di Torino.
Link al trailer: https://vimeo.com/768131469
Le riprese sono iniziate nel 2004 e si sono protratte nel tempo. L’approccio alla figura del Nazareno è estremamente rispettoso. Il figlio di Dio non dice una parola, non si rapporta all’uomo che gli è inferiore, comunica solamente attraverso urla devastanti, perdizione dell’orecchio umano, che conducono le orecchie dell’uomo alla dannazione eterna. Un ruolo centrale è affidato alla Madonna, che segue il figlio durante la sofferenza terrena.
Il Nazareno ci appare spesso urlante e trasversale, riverso sulle ginocchia di Maria che lo sostiene malinconica. Un Cristo iconograficamente già morto, che assale la vita e si smarrisce, che fa miracoli con la sola forza della disperazione: abbiamo l’uomo comune che si contorce sotto il peso della deformazione fisica e della tradizione, e un Cristo che lo guarisce senza toccarlo, con appena l’assillo delle urla rivolte al Padre Eterno che gravita nei cieli.
La vicenda si alterna tra pianti, strilli, incontri con un demonio fuori da ogni schema e sacrifici con il martello in mano, con la sega e con la pialla. Il lavoro del Cristo è farsi la croce da solo poiché ogni uomo va a finire sulla croce sua. Come autore involontario Rezza sottolinea la precisa esattezza filologica del racconto nella parte iniziale.Il film è narrativo fino al battesimo del Cristo interpretato. Poi deriva verso luoghi ignoti, sfugge di mano, è come se il corpo, facendo irruzione nel racconto, strappi l’opera all’autore che l’opera controlla.
Faccio un Cristo che non dice una parola, si tappa la bocca e la tappa al suo autore pezzente. Mai sarò così meschino da raccontare con la mente malata ciò che il corpo alla mente ha sottratto, e cioè il significato: i miei gesti hanno tolto di mano il sapere al cervello imbroglione. Qui il problema non è il comunicare, qui la virtù sta nel fatto che quello che volevo dire non l’ho detto: l’azione si è ribellata alle suggestioni della mente incravattata. Ho scritto molte cose da mettere in bocca al figlio di Dio.
Ma nell’esatto momento in cui il corpo si è staccato dal volere dell’autore gerarca per interpretare il sapere della carne, lì, con la pietra che scotta, la luce che acceca e con le membra indolenzite da posture innaturali, mi sono liberato dello stupido significato che il pensiero accattone voleva imporre al costato. Io, simile al Cristo nel dolore della pelle, ho iniziato a strillare per non fermarmi più. E l’autore ha chinato il capo a me stesso.
Le urla che invadono il film possono dare il fianco a molteplici interpretazioni. Ma non è questo il caso, io non abbasso la carotide all’infimo livello che il volere le imporrebbe. E’un punto ormai di non ritorno, è una comunicazione che non sollecita il pensiero. Il pensiero, così impiccato dall’intendere padrone.
Il film è filologico fin quando lo dirigo: Maria che partorisce, Giuseppe che sonnecchia, l’Arcangelo proclama, Erode manomette, Battista che sciacquetta. Il film è filologico fin quando lo dirigo. Ma quando mi dirigo mi scappa dalle mani perché io, oltre a quella di Dio, non riconosco neppure la parola mia. A.Rezza
Proiezioni Torino Film Festival 40 Proiezione stampa ven. 25/11 ore 14.30 Cinema Classico
Proiezione ufficiale ven. 25/11, 21.30 Multisala Cinema Massimo – sala 1
Repliche sab. 26/11, 12.00 Cinema Romana – sala 2 dom. 27/11, 14.30 Multisala Greenwich Village – Sala 3 Link al trailer: https://vimeo.com/768131469 Link al press kit: https://bit.ly/3t9B2lK
Ufficio Stampa: Chiara Crupi – | mob. 3932969668 Artinconnessione [email protected]
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