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#corollario della solitudine
livornopress · 1 year
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Alla Maratona dell’Elba Calzolari vince in solitudine
Alla Maratona dell’Elba Calzolari vince in solitudine
Isola d’Elba (Livorno) 8 maggio 2023 – Alla Maratona dell’Elba Calzolari vince in solitudine Un cielo con qualche nuvola e una temperatura nel complesso fresca e ideale per l’impegno dei corridori hanno fatto da corollario alla settima edizione della Maratona dell’Isola d’Elba, gara che spicca nel panorama delle manifestazioni sportive di massa dell’isola toscana. Ancora una volta sono stati…
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Resto
Parte dalla pancia, rimane lì compressa per qualche istante, come uno starnuto, qualcosa di fragoroso, roboante che però rimane lì: immobile e stagno. Non si muove né esplode, ma lievita, si espande agli arti. Alle gambe, non vogliono stare ferme e tremano, mi costringono ad alzarmi e a sgranchirmi, fare una passeggiata intorno a me stesso, cambiare posizione e il solito tic di muoverle entrambe ripetutamente come stessi suonando una doppia cassa di una batteria senza batteria e senza doppia cassa, solo rumore costante del pantalone che scroscia al muoversi ripetuto e nevrotico dei miei supporti in carne e muscoli ed ossa e sangue che permettono il movimento, le palle degli occhi si distraggono, guardano qualunque cosa per cercare l’attenzione che non trovano, che non mi fanno vedere quello che guardo ma come se specchiassero ciò che nella testa gira velocissimo, le sinapsi e l’elettricità della materia grigia che crea forme e pensieri e idee che non hanno forma o sostanza ma parte tutto dalla pancia.
Respiri profondi, il lenzuolo si muove seguendo il mio corpo e i miei movimenti viscerali e toracici, ansimo e riempio le sacche polmonari della stessa aria che espiro con così tanta forza dalle narici e dalla bocca quando il setto nasale è congestionato e mi impedisce di respirare correttamente. Le bianche pareti non hanno colore, gli oggetti che mi circondano non hanno singole forme ma una unica e infinita che circonda e cammina sulle mura, e la fioca luce che penetra dall’unica finestra in alto a sinistra incide di un colore giallognolo quattro poligoni di forme diverse come uno sputo di sangue sul pavimento, seguendo la via di fuga della parete sul quale le forme sono impresse, al cui centro si staglia una grande croce nera e di tanto in tanto, in base al vento, foglie e secchi rami come arti demoniaci di esseri notturni che picchiettano ritmicamente sul vetro della finestra. Osservo le forme che assumono gli oggetti e le loro ombre, come si muovono e cosa cercano di dire col linguaggio dei segni, sembrano muoversi spontaneamente come le mie braccia che cercano sotto il cuscino qualcosa da stringere per distrarmi dal peso che sul mio petto va schiacciando gli organi che la cassa toracica difende con così tanta cura e minuzia. Il cuore si è spostato nella zona lombare, lo sento pulsare. La gola secca non riesce a deglutire la saliva che si accumula in bocca e diventa uno sforzo riuscire a respirare come una mano che stringe la trachea, denti che appiattiscono una cannuccia nera stringendo forte con la mascella su una delle due aperture, una bottiglia in plastica da buttare compressa e schiacciata con forza. Un peso sul petto mi fa dimenticare di respirare facendomi finire in una brevissima apnea che dura pochi secondi, a sufficienza da farmi spalancare le palpebre che se non fosse per il fascio di luce sulla parete non mi renderei conto di aver effettivamente aperto gli occhi o meno tanto è il buio di questa stanza durante la notte.
Partono dalla testa le domande che nel solo interlocutore di me stesso non trovano ovviamente risposte, ma solo altre domande. A rapidissima velocità le mie sinapsi e i circuiti non meglio identificabili dalle mie conoscenze in materia elencano una serie di motivi secondo i quali questa sensazione sarebbe cominciata, partendo dalla nostalgia istantanea dei momenti in cui la tranquillità è ormai un vago e non definito ricordo di quando in me non si era sviluppato questo petardo inesploso nello stomaco, quando il cuore era al suo posto e batteva a velocità regolare e stabile, quando la mia macchina di coscienza era leggera. L’elenco infinito non produce risposte, incrementa il ritmo dei respiri profondi che smettono di essere profondi rimanendo solo respiri di aria calda e viziata che non mi offrono pace. Sento i sacchetti polmonari sempre più stanchi ed affaticati, il costato che comincia a grattare quasi come stesse cercando di farsi altro spazio nelle carini dei fianchi per poter immettere all’interno dei polmoni una quantità maggiore di aria, come se respirare profondamente fosse la soluzione a qualunque male, una boccata di aria fresca dopo essere stati settimane sui libri ed in camera a studiare. Nessuna risposta viene data, nessuna soluzione sembra essere la più plausibile. Le sigarette accese e spente dopo qualche minuto di inspirazione cancerogena dei vapori emessi dalla combustione mista di tabacco e cartina di certo non aiutano, ed è meglio evitare di prolungare l’esposizione a questo masochismo. La marijuana allo stesso modo delle sigarette non ha tutti gli effetti benefici che le si vogliono attribuire, perché alla fine ciò che davvero interessa alle persone non è togliere il mercato dalle mani della mafia, o le entrate per lo stato ma potersi fumare una cazzo di canna quando ne si ha voglia, potersi coltivare in casa le piante e spaccarsi le meningi di thc per il solo gusto di essere liberi di fare una cosa trasgressiva, che poi i santoni delle canne e della coltivazione in proprio sono alla stessa stregua dei vegani e dei bigotti: tutti e tre credono in un qualcosa di trascendente che poi, alla fin fine, nemmeno esiste. La questione è trovare qualcosa in cui credere così fortemente da potercisi dedicare anima e corpo, vomitando questi pesi sul petto e sullo stomaco a queste divinità, questi esseri superiori che capiscono e perdonano, che sia uno sballo da rilassamento estremo di qualsiasi muscolo del corpo, le mani giunte in preghiera e la richiesta di indicazioni sulla corretta strada da prendere per rientrare nelle Sue grazie o le predicazioni e le paternali su quanto ci sia di sbagliato nel mangiare cadaveri e quanto invece più sano e giusto nei confronti di nemmeno-loro-sanno-chi sia mangiare prodotti di scarto di altri prodotti di scarto con nomi evocativi quasi orientaleggianti-tropicali-bio-insapore con cui riempiono le loro bocche. Pensare quale sia la fonte di questa sensazione che mi riveste come un cappotto in lana il petto, stretto attraverso pellicola alimentare, che mi stringe e mi fa boccheggiare come se fossi appena uscito da una apnea di quaranta minuti, come quando co si sveglia la mattina di soprassalto e ci si guarda intorno alla ricerca della causa, di qualcosa di familiare sui cui riporre la tranquillità del risveglio, il fiatone del sonno. Nessuna risposta, nessuna causa plausibile, e sento la gola stringersi sempre di più. Ho la sensazione che nemmeno la saliva che ingoio con la forza stia scendendo giù per la gola ma si fermi lì, in mezzo alla strada, costringendomi a tossire e schiarirmi la voce per ripristinare le vie respiratorie otturate da una secchezza che sembra abbia le pareti della trachea e della laringe fatte dello stesso materiale degli asciugamani e cercassi comunque di mangiare un plum cake.
Liquido freddo simile ad acqua ma dal gusto più saporito dell’acqua si accumula fra i lembi di pelle che coprono le palle degli occhi straripando in piccole gemme lucide che si fanno strada lungo le tempie trovando come destinazione i capelli, le orecchie, il cuscino, a seconda della strada che percorrono. Mi metto in posizione fetale spaventato, stanco, terrorizzato da questa membrana che mi riveste e che non riesco a staccare dalla mia pelle perché non si trova in superficie ma esattamente sotto, come se in realtà fosse esattamente l’opposto cioè la pelle a rivestire questo strato di paura e terrore e inquietudine immotivata e agitazione e tachicardia e sudore freddo e lacrime e cuore pulsante nello stomaco e respiri che cercano di raccogliere più aria possibile e gola secca e io non posso fare nulla se non pensare a come vorrei aprire una porta all’altezza dello stomaco, strappare dal di dentro questa membrana plasmosa e tirarla via con forza.
Spesso è durante la giornata che passo le ore in questo stesso stato, cercando di non far uscire gemme salate dagli occhi e senza mettermi in posizione appallottolata ove posso. Durante i momenti in cui mi trovo in questo stato e guardo di fronte a me gli occhi non vedono gli oggetti che cerco con lo sguardo ma riflettono questa sensazione e gli effetti che questa mi provocano. Immagino durante le lezioni di prendere le teste dei ragazzi che chiacchierano innocentemente di fronte a me disturbando la lezione al sottoscritto, parlando di quanto sia stato divertente andare al locale la sera prima, di come è stato buffo Luca che è inciampato mentre aveva in mano tre piattini di roba del buffet cadendo rovinosamente a terra attirando l’attenzione e le risate esagerate di un tavolo di quattro o cinque liceali fra ragazzi e ragazze di 17/18 anni che hanno passato dieci minuti a ridere e a guardarlo per vedere se sarebbe caduto una seconda volta o meno, o di come Gianmario sia completamente innamorato di una sua compagna di corso con cui spesso si scambiano sguardi mentre entrano od escono di classe, di come ha più volte cercato di parlarle ma ogni volta si vergognasse perché non sapeva mai cosa dire e allora finiva per passarle di fianco guardandola ma vedendo davanti a sé soltanto la delusione e il rimpianto di non avere abbastanza coraggio da rivolgerle parola. O di come Antonella si sia presa una infezione al terzo piercing – uno sull’ombelico – e che sta mancando dalle lezioni per quello, perché non riesce proprio ad indossare magliette o nulla, sta tutto il tempo in camera da letto sdraiata a pancia in su, chissà come dorme la notte, se dorme bene, o quando deve andare in bagno o farsi la doccia, o sedersi sulla poltrona per leggere o studiare e di come quella settimana lei si sarebbe fatta l’ennesimo tatuaggio, sul retro del gomito: aveva in mente di farsi fare una scritta latina in stampatello tutta intorno ad un triangolo grande formato al suo interno da tre triangoli più piccoli neri e nello spazio al centro bianco, anch’esso a forma di triangolo e fra i tre triangoli più scuri, una piccola ancora. Immagino di prendere le loro teste, urlare contro parole la cui importanza è di scarso rilievo, al solo scopo di sfogare la rabbia innaturale e spingerle l’una verso l’altra con forza, o entrambe verso il tavolino comune della bancata dell’aula o contro la struttura ferrea delle sedie ove sono installati i banchetti e le sedute ripieghevoli della classe. Niente di personale, nessun odio, solo una forte rabbia per qualcosa che ho dentro di me, che poi si concretizza nel respirare con più forza, cercando di ignorare le persone che mi circondano, ma non ci riesco, e membrana sotto la pelle si materializza dentro alla mia testa facendomi immaginare un universo parallelo in cui urlo a gran voce e faccio scontrare con forza crani altrui e lancio verso le direzioni del mio campo visivo tutto ciò che mi capita fra le mani. Ma poi non succede, stringo la penna o i pugni, mi sgranchisco il collo, cerco di ingoiare e vado avanti. Ma la sensazione mi rimane dentro, e vorrei solo strapparla via.
Poi tutto all’improvviso passa, e come se cercassi con forza di non tornare nel buco che immagino chiudersi nella stanza rosa e grigia ed elettrica del mio cranio, cerco di fare tante cose e di non pensarci, ma sento che è lì, la sento presente ma sopita e ancora non so come o cosa la faccia svegliare, ma mi godo il momento di quiete.
Respiro. Resto.
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corallorosso · 4 years
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“Mi ha drogata e poi stuprata. Non credo che riuscirò mai a dimostrare quello che mi ha fatto” Arrivano senza fare rumore in cronaca né contano nella statistica; al ritmo di circa uno al mese, sono racconti, brevi o più lunghi via mail, di donne che non conosco e che mi scrivono della violenza subìta da parte di uomini. Uomini conosciuti, vicini, frequentati da più o meno tempo ma certamente non sbucati dal vicolo buio una notte all’improvviso. (...) Sono soprattutto il senso di solitudine, corollario del temere di non essere credute, e l’isolamento, attuato talvolta da parte dalle altre donne, i pesanti fardelli emotivi con cui chi ha subìto violenza convive. (...) “Sono Nora (nome di fantasia), ho 35 anni, ho conosciuto Renato (nome fittizio) qualche anno fa in palestra. Mi sembrava un uomo serio, dai modi garbati. Abbiamo sempre parlato del più e del meno, non ha mai fatto una sola allusione sessuale. Una sera mi invita per un aperitivo. Avevo sempre rifiutato altri inviti ma questa volta, forse per colpa del lockdown e la maggior voglia di uscire anche se non sono attratta da lui, penso che può essere interessante come persona e quindi perché no?" "Ci vediamo in un locale: parliamo di sport e di cinema di cui io sono appassionata. Mi lascio sfuggire che c’è un film del mio regista preferito che voglio vedere da parecchio tempo ma che proprio non riesco a trovare. ‘Ce l’ho io, te lo presto’ risponde. Non posso credere alla mia fortuna. Proprio quel film che cerco da tanto. Sono così entusiasta e mi fido di lui: è benvoluto in palestra da tutti, mi invita a salire a casa sua per prendere il film, non ho dubbi e salgo. Sono seduta sul divano quando mi piazza un limoncello sul tavolino. ‘Questo lo devi bere, lo faccio io, sennò mi offendo’. Prendo un sorso. ‘Dai finiscilo’. Non vorrei finirlo ma per mera educazione lo faccio. E poi vedo tutto sfocato. Alcuni colori della tv mi appaiono vividi, quasi fosforescenti: è una sensazione strana, mi sento ‘estraniata’ dal mio corpo”. Da quel momento il racconto di Nora diventa il copione di un incubo, i ricordi sono tutti legati alla mancanza di padronanza di se stessa. Fino al risveglio, che rende chiaro che per molte ore è stata incapace di avere il controllo perché è stata drogata. In ospedale, dove si reca dopo due giorni per avere la prova della sostanza nel sangue le analisi per il Ghb (la droga dello stupro, della quale spesso si parla in occasione di abusi sulle ragazze molto giovani, versata nel bicchiere in discoteca o alle feste) l’analisi risulta negativa: purtroppo se non viene effettuata entro poche ore le tracce scompaiono. Ora Nora, dopo essersi consultata, sta valutando la denuncia. “So quello che mi ha fatto e sono certa che non l’abbia fatto solo a me. Non pretendo di essere creduta sulla parola. Non credo che riuscirò mai a dimostrare quello che lui mi ha fatto e trovare un’altra vittima di questo uomo, che sono certa sia un predatore, perché se ha usato questa tecnica con una di certo l’avrà fatto anche con altre e si sentirà potente grazie all’impunità. Vorrei però che ci fosse informazione su questo tipo di violenza: che si sapesse che può drogarti una persona che conosci (la stampa troppo spesso racconta di questi stupri come se potessero avere luogo soltanto in discoteca e ad opera di uno sconosciuto). Vorrei anche che si sapesse che queste droghe non necessariamente addormentano e inducono passività: il Ghb e Mdma producono aumento della libido, annullano i freni inibitori e creano chimicamente empatia, per cui la vittima non si sottrae alla violenza e appare consenziente”. Pur se in buona fede talvolta si suggerisce a chi ha subìto violenza di dimenticare. Ma dimenticare, ammesso che si possa, o minimizzare (perché sei salita? Almeno non ti ha fatto del male fisico. Spero tu abbia imparato la lezione. Ci potevi pensare prima) corrisponde a invisibilizzare la violenza, di fatto negandola. Dando così potere a chi abusa, avvalorando la cultura della sopraffazione, diventando complici. Uscire dal silenzio è il primo, fondamentale passo da compiere. Tutte e tutti insieme. Monica Lanfranco
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Intervista a Raffaele Ragone
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Il poeta che andiamo ad intervistare è Raffaele Ragone, nato nel 1950 a Castellammare di Stabia (NA), vive a Ercolano (NA). Laureato in Chimica e  specializzato in Strutturistica molecolare, ha insegnato, spesso su richiesta dei titolari dei corsi, e svolto ricerche in campo biofisico nelle due maggiori università di Napoli e, per un anno, nell’università di Berkeley in California. Dal 2007 cura il blog RaffRag’s Una Tantum, nato in origine con finalità divulgative e di commento, attualmente dedicato alla sua produzione letteraria corrente. Ha ricevuto premi e menzioni tra i quali “Lorenzo Montano” (2003 e 2006), “Alda Merini” (2012), “Salvatore Cerino” (2013), “Madre Claudia Russo” (2013 e 2015), “Akmàios” (2013), “Poesia a Napoli” (2018), “Aeclanum” (2018 e 2019). Ha pubblicato: La ruggine degli aghi (Manni, 2012); L’amaro delle noci (Guida editore, 2018). Vorrei incominciare con una domanda del tipo: cosa cerchi nella poesia? Quali sono gli argomenti alla base? Più che cercare, ricerco, non solo per deformazione professionale, l’espressione sintetica e compiuta del vissuto quotidiano, tentando di conciliare gli schemi classici con un linguaggio che si addentra nei temi della modernità, della scienza, degli affetti, dell’interrogarsi sulle ragioni e sulle modalità dell’esistenza. Non risposte, ma domande senza risposte.  Una mia curiosità: come ci è arrivato alla poesia un chimico di un certo livello come te? Quando ti sei accorto che potevi fare il poeta? Ricordiamo che hai svolto attività presso l’Istituto di Chimica Biologica della “Federico II” di Napoli, e presso il Dipartimento di Biochimica e Biofisica, attualmente confluito nel Dipartimento di Medicina di Precisione dell’Università “Luigi Vanvitelli”, già “Seconda Università di Napoli”. In realtà, direi che non sono arrivato alla poesia dalla Chimica, ma alla Chimica dagli studi umanistici, la frequentazione con i quali ha avuto come filo conduttore la poesia, fin dall’età infantile, con una pausa di circa quindici anni, tra la metà degli anni settanta e il 1990. Non mi sono “accorto” che potevo fare il poeta, nemmeno ambisco a definirmi tale. Il linguaggio “sintetico”, caratteristico anche della scienza, è lo strumento attraverso il quale rielaboro antichi discorsi e affronto le “novità” dell'esistenza, entro schemi personali, che tuttavia sfuggono alla sperimentazione “tradizionale”, che vedo spesso sconfinare nell’egolatria.   C’è stato qualcuno che devi ringraziare per averti “strappato” dalla chimica, inoltrandoti nel mondo della poesia? No, alla luce di quel che ho detto sopra. Diciamo che mi considero un eclettico e, in questa prospettiva, la mia vita è stata un continuo susseguirsi di traguardi. Per inciso, le mie frequentazioni con la chimica e con la scienza continuano sul piano divulgativo. Ho discorsi in sospeso, che forse non concluderò mai, ma gli strumenti delle scienze “dure” sono ad ampio spettro. Per esempio, di recente, mi hanno consentito di “scantonare” nell’analisi del decorso della pandemia COVID-19. In un tuo volume, L’amaro delle noci, pubblicato da Guida Editori, si avverte una sorta di “smarrimento”. I versi che seguono lo stanno a confermare: «E non ti trovi che solitario Icaro / in volo a cieli senza firmamento, / senza cera nell'ale, con l’urlo / del silenzio che grida strozzato / all’anelito dell’aria. Un dedalo / è diventato, dunque, il cielo / delle trascorse ebbrezze del volo / un vischio di irrisolte traiettorie. Cosa sono per te il mistero, la solitudine, lo smarrimento di cui parli, e mettiamoci pure il silenzio, ché non sempre la poesia si manifesta con azioni assordanti? Il mistero è la vita, il mistero è la scienza, che ci pone interrogativi sul senso stesso della vita. La solitudine e lo smarrimento sono da un lato un riflesso di questo, dall'altro un riflesso di vicende personali, che mi hanno portato a riflettere sul senso della vita e sulla incompiuta potenza della scienza. Il silenzio è l’ovvio corollario di tutto questo. Di fronte all’ignoto non si può che tacere. Ma il silenzio è anche la voce quotidiana di chi non c’è più. Oggi il compito della poesia sembra un’autocelebrazione. Sembra che i poeti non abbiano più nemici da contrastare. Troppi poeti della domenica. E tu che poeta sei? Quanto prendi sul serio la poesia? Ho già detto che non mi considero un poeta, nell'accezione corrente del termine e, pertanto rifuggo dall'autocelebrazione. Prendo, invece, sul serio, il confronto quotidiano con la parola e con la sintesi. Un percorso, direi, che adesso risponde ai canoni della formazione scientifica, pur avendo avuto inizio a prescindere da essa. Forse uno “strumento” di cui mancava. In questo periodo di pandemia e di “arresti domiciliari” forzati, quanto ti ha aiutato la poesia ed in che modo? In nessun modo, direi. La mia vita è proseguita come al solito, ma con la consapevolezza di nuove necessità. Chi mi segue sa che ho continuato a scrivere con regolarità, ma tra le righe il lettore attento può scorgere lo scenario che è sullo sfondo. Qual è il tuo rapporto con la politica, con l’ambiente, con i problemi di tutti i giorni? Con la politica ho un rapporto di consolidata indipendenza, anche se i temi della solidarietà, dell’uguaglianza sociale e della pace mi sembrano imprescindibili. Nei confronti dell'ambiente, se s’intende quello della natura, è necessario assumere atteggiamenti compatibili con la sua cura e la sua salvaguardia, sempre che l’uomo intenda sopravvivere come specie E a proposito di ambiente. Sembra come non mai che in questo ultimo decennio l’uomo e la natura siano in conflitto. È pur vero che l’uomo distrugge o trasforma qualsiasi cosa quando si tratta di trarne benefici economici. Citando alcuni tuoi versi da La melagrana, «Senza spreco s’incastrano gli arilli, / granati senza un atomo di sole / – in una bacca gli acini vermigli –», salvaguardare la natura è un obbligo e un dovere. Cosa pensi dei movimenti pro-ambiente del tipo quello che sfrutta l’immagine di una ragazzina, cioè Greta Thunberg, anche se con la pandemia del coronavirus per ora è scomparsa dalla circolazione? Beh, la società in cui viviamo è fondata sullo sfruttamento, dell'ambiente come delle persone. Fa parte delle sue “regole”. Ma stiamo attenti a non confondere la luna con il dito. Gli argomenti che si sottraggono al problema reale, il confondere gli aspetti formali con quelli sostanziali, in tema d'ambiente come in materia di salute, tradiscono la volontà, nemmeno troppo inconsapevole, di lasciare le cose come stanno, a prescindere. Insomma, un atteggiamento cospirazionista più o meno latente, che è contrario a ogni buon senso e a ogni evidenza scientifica. Ben venga tutto ciò che serve a mantenere alto il livello di attenzione. Alcune politiche se ne fregano se la natura venga incontaminata o addirittura privata della sua azione. L’esempio ci viene dalla scellerata politica brasiliana di Jair Bolsonaro che invece di opporsi al suo sradicamento per far posto a enormi spazi per costruirci i loro imperi, avalli tale sfruttamento. In passato la poeta Marcia Theophilo si è battuta tanto per la sua salvaguardia. Può la poesia oggi, in questa società globalizzata e liberista, dare una mano affinché la natura venga preservata e sottratta agli interessi economici delle multinazionali? In generale, penso di no, almeno fin quando continuerà la dicotomia tra cosa sia la poesia e cosa rappresenti nel mondo reale chi ne è autore. Tantissimi, tu stesso lo hai ammesso più su, si autoproclamano “poeti”, ma davvero basta questo a scrivere “poesia” e a farne uno strumento per la salvaguardia della natura? Non è questo il sintomo di una società – e di una poesia – che ha come obiettivo l’apparire piuttosto che l’essere? Cosa ne pensi della poesia attuale in Campania? Hai trovato o trovi difficoltà con l’ambiente letterario in cui vivi e col rapporto con i tuoi “colleghi” campani? Penso che ci siano degli spunti interessanti, molti defilati rispetto agli esponenti più in vista di quella che viene considerata la “poesia attuale in Campania”. Questi ultimi, poi, coltivando con cura il proprio orticello, tendono a far salotto, ad aggregarsi in club, ad accreditarsi in conventicole che fanno in genere riferimento a nomi “rumorosi”, magari pluripremiati e/o introdotti ad amicizie importanti, escludendo altri che non sono graditi, anzi, diciamo meglio, escludendoli sic et simpliciter, per evitare invasioni di campo. Il risultato è che ogni insulsaggine diventa poesia. In tutto questo colgo che un ruolo fondamentale lo giochi l’idiosincrasia con gli schemi considerati “classici”, la necessità pseudo-modernista di svincolarsene in nome della “novità” del verso libero, che viene inteso come irrispettoso delle “regole”. Personalmente, amo sottolineare che sono partito dal verso libero per giungere a forme più compatibili con gli schemi classici, attraverso lo studio e il confronto continuo con la parola. Da questo mi permetto di dedurre che il “verso libero” è molto più confacente a chi non sa destreggiarsi con la metrica e con il ritmo e viene artatamente confuso con la “libertà del verso”. Insomma, la capacità di articolare forma e contenuti diventa un limite invalicabile. Ritengo che il confronto, se non la competizione, con i “classici” sia irrinunciabile lungo il percorso alla poesia. Per tali motivi, temo che io stesso sia nell’attenzione di molti per ragioni di opportunità legate alla necessità di compiacere persone che, invece, mi stimano e mi considerano.    C’è un tuo volume di poesia cui sei più affezionato e per quali motivi? Direi di no, ma è facile, perché sono solo due, finora. Sono affezionato di più al blog, che è una sorta di diario delle vicende che hanno scandito un meticoloso percorso di ricerca. E della poesia degli altri chi ti ha dato o ti dà una ragione per continuare a fare il poeta? A tal proposito, quali parametri deve avere la poesia per farsi “comprendere” da una società culturalmente alla deriva? Direi nessuno, visto che ho cominciato da bambino e non intendo smettere. Ci sono autori che trovo stimolanti per gli spunti che offrono, ma questo non è  un incentivo a proseguire. Non credo che la poesia debba attenersi a dei parametri per farsi comprendere, anche se ritengo irrinunciabile il confronto con gli schemi “classici”. Ritengo, però, che il lettore debba farsi parte attiva nello sforzo di “impadronirsi” del linguaggio di chi scrive. Comprendere chi scrive e perché implica entrare in una “camera dei suoni”, tipica dell’autore, in cui i contenuti si mescolano ai suoni, ma cominciano ad avere un senso solo dopo una lunga educazione delle proprie orecchie.  Si sa che molti premi letterari, direi il 90%, sono costruiti ad personam, per amici e con una tassa di lettura per leggere qualche testo. Hai mai partecipato ad uno di essi e che opinione ti sei fatto, quale beneficio può arrecare un siffatto premio? Il mio rapporto con i premi è idiosincratico. Ho partecipato a premi, in genere a quelli senza tassa di lettura e talvolta su invito personale. Penso che siano funzionali alla necessità di autoproclamarsi giudici e/o critici, oltre che poeti. Penso che siano animati dalla logica del “do ut des”. Si premiano nomi importanti per guadagnare credito e nomi meno importanti, per ottenere in cambio il favore.   Insomma, uno dei tanti giochi delle parti, che fanno leva su un fondamentale narcisismo. Oggi con la crisi dell’editoria, pubblicare un volume non è semplice: le grandi case editrici non ti filano se non sei legato alla politica o a risorse economiche; per di più le piccole ti chiedono contributi economici, spesso esosi. Hai riscontrato difficoltà editoriali durante il tuo percorso, ti hanno mai chiesto denaro per pubblicare? Nelle due occasioni nelle quali mi sono deciso a pubblicare (con l’editoria minore), per motivi che non rispondono alla necessità primaria di essere autore di qualcosa, mi è stato sempre chiesto denaro. La richiesta è considerata “naturale” da parte degli editori, totalmente disimpegnati sul piano della diffusione e della pubblicità e, soprattutto, sul piano culturale, che mi pare di facciata. Si pubblica di tutto, a fronte di un corrispettivo economico, con la conseguenza che non è tutto oro quel che riluce. Prendendo a prestito la volpe di Fedro, direi: «O quanta species, cerebrum non habet». Tendo a non credere a chi afferma di non aver mai pagato. Cosa distingue l’uomo dal poeta? Per quanto riguarda me, niente. Per il resto, se per poeta intendiamo l’uomo che ambisce ad autoproclamarsi tale, direi ancora niente. Se per poeta intendiamo l’uomo che segue un suo percorso intimo, nella vita pubblica come in quella privata, direi ugualmente niente. È anche questo che rende difficile discernere tra ciò che è umano (nel senso di humanitas, e, pertanto, capace di generare poesia) da ciò che non lo è. Cosa ti fa paura nella vita e nel mondo artistico? Paura? Non so, forse ho timore che la notorietà, ammesso che arrivi, in qualunque campo, faccia perdere il senno. È risaputo che al giorno d’oggi si legge molto poco; gli autori, che siano poeti o narratori o saggisti, a giusta ragione si lamentano di questa inedia. Tu quanto tempo dedichi alla lettura, e quanto alla scrittura? Non mi dedico alla lettura in maniera sistematica, perché le cose da leggere sono molte e nella mia scala dei valori ci sono altre priorità. In gioventù sono stato assiduo lettore, ma poi ho smesso quasi di colpo, nella prima metà degli anni ottanta, quando per me diventò impellente la necessità di conoscere la scienza che non avevo imparato negli anni della formazione universitaria. Privilegio, in genere, la lettura incompiuta, diluita nel tempo, con molti ritorni. Alla scrittura mi dedico con regolarità, almeno per quanto riguarda il blog e l’attività nei social media. Qual è l’ultimo volume che hai letto? Ti ha ispirato qualcosa? L’ultimo in maniera compiuta è stato Il Vesuvio universale, di Maria Pace Ottieri, perché, vivendo a Ercolano, ebbi la fortuna di accompagnare l'autrice in una delle sue perlustrazioni nel territorio vesuviano. Di questo resta traccia in due passi del libro e in diverse cose pubblicate nel blog (https://raffrag.wordpress.com/2017/05/26/la-ferrovia-cook/, https://raffrag.wordpress.com/2019/01/13/il-vesuvio-universale-e-altre-storie/, https://raffrag.wordpress.com/2020/04/05/molto-bella/). In corso, molto diluiti nel tempo, L’ordine del tempo, di Carlo Rovelli, che mi ha ispirato un recente componimento (https://raffrag.wordpress.com/2020/05/22/lordine-del-tempo/), e Il sistema periodico, di Primo Levi. Ho in programma di leggere, al mio rientro in Italia, Loving trekking. Guida sentimentale ai sentieri dell'Alta via dei Monti Lattari, del mio amico Vincenzo Aiello. Cosa ne pensi dei libri digitali? Possono competere con l’editoria tradizionale, cioè con quella cartacea? Beh, il digitale è comodo, prontamente fruibile, chi lo può negare. Ma non dimentichiamo che uno dei “padri di internet”, Vinton Cerf, ci ha messo in guardia: le tecnologie digitali diventano ben presto obsolete, i documenti e le immagini salvate con le vecchie tecnologie rischiano di diventare inaccessibili, se già non lo sono, perché la parte soft del digitale è in continua evoluzione. Se non stiamo attenti a questo segnale, la nostra e le epoche future rischiano di diventare un “deserto digitale”. Oltre che di poesia, di cosa ti occupi? Come ho già detto, la mia formazione di chimico è quasi totalmente travasata nella divulgazione scientifica, ma mi interesso d’altro. Pratico il reportage fotografico, amo conoscere la natura, la montagna in particolare. Mi occupo di temi ambientali, in primis quello del fiume Sarno. Collaboro con l’Associazione Achille Basile – Le Ali della Lettura e sono socio dell'Associazione Certamen Plinianum, entrambe a Castellammare di Stabia. Traduco testi poetici in e dall’inglese e, in questa qualità, organizzo da alcuni anni Jazz & Poetry, grazie ad amici napoletani, anch’essi chimici, che coltivano la passione per il jazz, associando la lettura di poeti americani alla musica. Sul fronte della famiglia, cerco di essere padre e madre, nonno e nonna. Hai una ricetta per far uscire la poesia dallo stato comatoso in cui versa? Direi la diffusione della poesia attraverso la pratica di interessi che non siano strettamente letterari, che la relegano al ruolo di “nicchia”. Guardo con interesse alle personalità eclettiche, e in ambito scientifico, più che in ambito umanistico o para-umanistico, ce ne sono molte, per ovvi motivi. Ma un bello sforzo dovrebbero farlo gli editori, che non investono quasi più nella promozione della poesia, usandola come volano per spunti di riflessione sulle varie sfaccettature della realtà, magari avvalendosi proprio di personalità eclettiche. In conclusione quale programmi hai in cantiere? Cercare un editore non a pagamento per pubblicare i miei testi. Ne ho almeno cinque in cantiere. Trovare il tempo e la voglia per imparare a dipingere, oltre che continuare ad occuparmi di elaborazioni digitali. Read the full article
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vianme96 · 7 years
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Il grande Gatsby
Mentre Gatsby è nella bara a Nick sembra di udire la sua voce che gli dice supplicando di fargli venire qualcuno perché così, da solo, non ce la fa più. Nick promette e dice:
« Ti farò venire qualcuno, Gatsby. Non preoccuparti. Fidati di me e ti farò venire qualcuno »
ma "non venne nessuno". E sono proprio queste tre parole a sottolineare l'estrema solitudine di Gatsby. Nessuna parola arriva da Daisy, non c'è un fiore. L'indifferenza, che aveva caratterizzato i personaggi di Daisy e Tom,
« Erano gente indifferente, Tom e Daisy - sfracellavano cose e persone e poi si ritiravano nel loro denaro o nella loro ampia indifferenza o in ciò che comunque li teneva uniti, e lasciavano che altri mettessero a posto il pasticcio che avevano fatto »
raggiunge l'apice nella scena del funerale dove la pioggia aumenta il senso di tristezza e di solitudine.
Il senso di solitudine, l'indifferenza nei confronti degli altri, è dovuta al fatto, come sostiene Rollo May che "Quando si perde la capacità di vivere i propri miti, si perdono anche i propri dèi".
Nel romanzo vi è un simbolo che Fitzgerald usa per dimostrare questa teoria. Si tratta degli occhi del dottor T. J. Eckleburg che si scorgono su un grande cartellone pubblicitario a metà strada tra New York e West Egg. George Wilson sconvolto dal dolore per la morte della moglie fissa quel cartellone e non riesce ad allontanare lo sguardo da quegli occhi "azzurri e giganteschi" e a Michaelis, suo vicino di casa che gli dice che dovrebbe avere una chiesa alla quale rivolgersi in momenti così tragici, egli, parlando tra di sé, mormora:
« "Dio sa quello che hai fatto, tutto quello che hai fatto [...]. Ritto dietro di lui, Michaelis vide con un sussulto che stava guardando gli occhi del dottor T. J. Eckleburg che emergevano, sbiaditi e enormi, dal dissolversi della notte." »
Non serve che l'amico gli dica che si tratta solamente di un cartellone pubblicitario, Wilson continua a fissarlo sconvolto.
Il cartellone che Wilson rimane a fissare è solamente un ingrandimento fotografico simbolo di un mondo che confonde la fotografia con la realtà, dove il denaro ha usurpato il ruolo di Dio e la pubblicità e il commercio trionfano.
Gatsby si può considerare come un "eroe romantico" nella sua accezione più lata e più profonda. Egli è infatti un personaggio destinato alla sconfitta, appare inadeguato al gretto mondo che lo circonda. È però proprio qui che risiede la sua grandezza: Gatsby infatti vive solo per un sogno ed è perfino disposto a morire per esso, un sogno chiamato Daisy. Un amore dal sapore universale ed esistenziale. La reggia, le macchine, il denaro, nulla ha importanza; paradossalmente la statura morale e spirituale del personaggio è immensa, e finisce così per nascondere il suo passato oscuro e criminoso. Gatsby incarna la più istintiva purezza della natura umana, è proprio il suo desiderio così genuino che non gli darà scampo portandolo a una sorta di autodistruzione. La fine di Gatsby è infatti emotivo-passionale, la morte fisica ne è solo un semplice corollario.
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novalistream · 4 years
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“Mi ha drogata e poi stuprata. Non credo che riuscirò mai a dimostrare quello che mi ha fatto” Arrivano senza fare rumore in cronaca né contano nella statistica; al ritmo di circa uno al mese, sono racconti, brevi o più lunghi via mail, di donne che non conosco e che mi scrivono della violenza subìta da parte di uomini. Uomini conosciuti, vicini, frequentati da più o meno tempo ma certamente non sbucati dal vicolo buio una notte all’improvviso. (...) Sono soprattutto il senso di solitudine, corollario del temere di non essere credute, e l’isolamento, attuato talvolta da parte dalle altre donne, i pesanti fardelli emotivi con cui chi ha subìto violenza convive. (...) “Sono Nora (nome di fantasia), ho 35 anni, ho conosciuto Renato (nome fittizio) qualche anno fa in palestra. Mi sembrava un uomo serio, dai modi garbati. Abbiamo sempre parlato del più e del meno, non ha mai fatto una sola allusione sessuale. Una sera mi invita per un aperitivo. Avevo sempre rifiutato altri inviti ma questa volta, forse per colpa del lockdown e la maggior voglia di uscire anche se non sono attratta da lui, penso che può essere interessante come persona e quindi perché no?" "Ci vediamo in un locale: parliamo di sport e di cinema di cui io sono appassionata. Mi lascio sfuggire che c’è un film del mio regista preferito che voglio vedere da parecchio tempo ma che proprio non riesco a trovare. ‘Ce l’ho io, te lo presto’ risponde. Non posso credere alla mia fortuna. Proprio quel film che cerco da tanto. Sono così entusiasta e mi fido di lui: è benvoluto in palestra da tutti, mi invita a salire a casa sua per prendere il film, non ho dubbi e salgo. Sono seduta sul divano quando mi piazza un limoncello sul tavolino. ‘Questo lo devi bere, lo faccio io, sennò mi offendo’. Prendo un sorso. ‘Dai finiscilo’. Non vorrei finirlo ma per mera educazione lo faccio. E poi vedo tutto sfocato. Alcuni colori della tv mi appaiono vividi, quasi fosforescenti: è una sensazione strana, mi sento ‘estraniata’ dal mio corpo”. Da quel momento il racconto di Nora diventa il copione di un incubo, i ricordi sono tutti legati alla mancanza di padronanza di se stessa. Fino al risveglio, che rende chiaro che per molte ore è stata incapace di avere il controllo perché è stata drogata. In ospedale, dove si reca dopo due giorni per avere la prova della sostanza nel sangue le analisi per il Ghb (la droga dello stupro, della quale spesso si parla in occasione di abusi sulle ragazze molto giovani, versata nel bicchiere in discoteca o alle feste) l’analisi risulta negativa: purtroppo se non viene effettuata entro poche ore le tracce scompaiono. Ora Nora, dopo essersi consultata, sta valutando la denuncia. “So quello che mi ha fatto e sono certa che non l’abbia fatto solo a me. Non pretendo di essere creduta sulla parola. Non credo che riuscirò mai a dimostrare quello che lui mi ha fatto e trovare un’altra vittima di questo uomo, che sono certa sia un predatore, perché se ha usato questa tecnica con una di certo l’avrà fatto anche con altre e si sentirà potente grazie all’impunità. Vorrei però che ci fosse informazione su questo tipo di violenza: che si sapesse che può drogarti una persona che conosci (la stampa troppo spesso racconta di questi stupri come se potessero avere luogo soltanto in discoteca e ad opera di uno sconosciuto). Vorrei anche che si sapesse che queste droghe non necessariamente addormentano e inducono passività: il Ghb e Mdma producono aumento della libido, annullano i freni inibitori e creano chimicamente empatia, per cui la vittima non si sottrae alla violenza e appare consenziente”. Pur se in buona fede talvolta si suggerisce a chi ha subìto violenza di dimenticare. Ma dimenticare, ammesso che si possa, o minimizzare (perché sei salita? Almeno non ti ha fatto del male fisico. Spero tu abbia imparato la lezione. Ci potevi pensare prima) corrisponde a invisibilizzare la violenza, di fatto negandola. Dando così potere a chi abusa, avvalorando la cultura della sopraffazione, diventando complici. Uscire dal silenzio è il primo, fondamentale passo da compiere. Tutte e tutti insieme. Monica Lanfranco
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italianaradio · 5 years
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Guillermo Del Toro scrive un elogio di The Irishman in 13 tweet
Nuovo post su italianaradio https://www.italianaradio.it/index.php/guillermo-del-toro-scrive-un-elogio-di-the-irishman-in-13-tweet/
Guillermo Del Toro scrive un elogio di The Irishman in 13 tweet
Guillermo Del Toro scrive un elogio di The Irishman in 13 tweet
Guillermo Del Toro scrive un elogio di The Irishman in 13 tweet
Guillermo Del Toro ha talmente amato The Irishman di Martin Scorsese, da scriverne un elogio in 13 tweet. Il regista de La Forma dell’Acqua è naturalmente un fan del collega newyorkese, nonostante il loro modo di fare cinema e i loro temi cari siano così differenti.
All’indomani della visione del film, Del Toro non si è trattenuto dallo scrivere un lungo tweet in cui spiega le ragioni che lo hanno spinto ad amare il film di Scorsese:
Prima di tutto, il film si connette con la natura di un epitaffio, alla Barry Lyndon. Parla della vita che va e viene, con tutti i suoi turbamenti, tutti i suoi drammi, la violenza, il rumore, la perdita… e come tutti, invariabilmente, svaniamo. “Fu durante il regno di Giorgio III che i suddetti personaggi vissero e litigarono; buoni o cattivi, belli o brutti, ricchi o poveri, adesso sono tutti uguali”. Saremo tutti traditi e rivelati dal tempo, umiliati dai nostri corpi, spogliati del nostro orgoglio.
Il film è un mausoleo del mito: un monumento funerario che sta in piedi per sbriciolare le ossa sotto di sé. Il granito è fatto per durare, ma noi ci trasformiamo comunque in polvere, al suo interno. È l’anti-My Way (suonata ad ogni matrimonio di gangster del mondo). Si sono rammaricati di avere più di pochi. La strada non può essere annullata e alla fine tutti affrontiamo l’equilibrio. Persino la voce fuori campo ha portato De Niro a insinuarsi in un rimuginare senza senso.
Mi ricordo, in un documentario su Rick Rubin, spiegava in che modo Johnny Cash cantava “Hurt” (avendo vissuto e perso ed essendo andato all’inferno e ritorno) gli diede una dimensione che non poteva avere nella voce il giovane Trent Reznor (anche se l’aveva composta proprio lui). Questo film è così. Scorsese lo ha cominciato mano nella mano con Schrader, entrambi giovani, cercando Bresson. Questo film trasforma magicamente tutti i miti gangster in rimpianto. Questo film lo vivi. Non mostra mai la sensualità della violenza, mai lo spettacolo, eppure è straordinariamente cinematografico.
Il film ha l’inesorabilità di una crocifissione – dal punto di vista di Giuda. Ogni stazione della croce è permeata dall’umorismo e da un senso di banalità – futilità – i personaggi vengono introdotti con i loro epitaffi sovrapposti sullo schermo: “È così che muoiono”. Non avrei mai pensato di vedere un film in cui avrei tifato per Jimmy Hoffa- ma l’ho fatto- forse perché, alla fine, lui, proprio come i Kennedy, rappresentava anche la fine di un maestoso status postbellico in America.
Pesci estremamente minimalista. Magistrale. È come un buco nero, un attrattore di pianeti, materia oscura. De Niro mi ha sempre affascinato quando interpreta personaggi che colpiscono al di sopra del loro vero peso – o intelligenza – Ecco perché lo amo così tanto in Jackie Brown. Un’interazione interessante tra questi personaggi: Pesci, che ha interpretato il mostro machiavellico, riacquista un’innocente senilità, un oblio benigno, e il personaggio di De Niro – che ha operato in un vuoto morale – acquisisce abbastanza consapevolezza, da provare un’amara solitudine.
Credo che si guadagni molto se incrociamo le nostre trasgressioni con come ci sentiremo negli ultimi tre minuti della nostra vita, quando tutto diventerà chiaro: i nostri tradimenti, le nostre grazie salvifiche e la nostra ultima insignificanza. Questo film mi ha dato quella sensazione. Questo film ha bisogno di tempo, tuttavia, deve essere elaborato come un vero lutto. Arriverà in più fasi… Credo che la maggior parte del suo potere affonderà, con il tempo, e causerà una vera realizzazione. Un capolavoro. Il corollario perfetto [per] Quei Bravi Ragazzi e Casino.
Vedetelo, Al cinema. Questo film ha languito nel limbo della produzione per tanto tempo… averlo qui, ora, è un miracolo. Sono le tre ore di cinema più veloci di sempre. Non perdetelo.
Se pure avessimo avuto dei dubbi in merito, Guillermo Del Toro sembra poterci convincere tutti!
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Guillermo Del Toro scrive un elogio di The Irishman in 13 tweet
Guillermo Del Toro ha talmente amato The Irishman di Martin Scorsese, da scriverne un elogio in 13 tweet. Il regista de La Forma dell’Acqua è naturalmente un fan del collega newyorkese, nonostante il loro modo di fare cinema e i loro temi cari siano così differenti. All’indomani della visione del film, Del Toro non si […]
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Chiara Guida
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pangeanews · 6 years
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“Le uniche cose che poesia e politica hanno in comune sono le lettere P e O”: Iosif Brodskij ottiene il Nobel, Seamus Heaney fa gli applausi
Abbiamo un problema. Il mercato editoriale è sommerso di autobiografie professorali ma, in fondo, mancano giornali con firme autorevoli. La soluzione auspicata da Pangea dice questo: incominciamo a pubblicare poesie sulle prime pagine dei giornali. Se poi non vendono, meglio – vengono chiusi e ne apriamo altri interamente nuovi, con un pubblico del tutto diverso.
Anni fa, quando se ne andò il critico strutturalista Cesare Segre, fu ristampata da Einaudi la sua autobiografia Per curiosità. Segre accennava a qualche svolazzo erotico tra una conferenza e l’altra in giro per il mondo. Peccato che in Italia ci sia questo persistente pudore cattolico, mal calibrato, che tace sulle cose fondamentali. Come sanno i lettori di Pangea, i discorsi sull’Essere sono bellissimi, ma li facciamo dopo. Dopo aver visto come gli scrittori parlano di tutto. Di sesso nei libri. Di poesia e poeti sui giornali. L’azzardo è ugualmente grande, in entrambi i casi. E se non ci si spoglia delle (presunte perfezioni) non si va lontano. I miti si creano con le debolezze.
Conclusione. Da noi non si parla di sentimenti perché non si sa parlare di cos’è il corpo, di cosa sa fare, come può sentire. Di conseguenza sulle prime pagine si lasciano scrivere i vegliardi che non capiscono una cippa neanche di panorami politici globali. Ma forse è meglio così, saranno dei retrogradi in termini di libertà sessuale questi soloni da prima pagina.
Perciò. Suoniamo le trombe e le fanfare del passato. Sfogliamo il glorioso NY Times degli anni che furono. Tu guarda. Un poeta che spiega perché hanno dato il Nobel a un altro poeta. Correva l’anno 1987. Iosif Brodsky era il secondo più giovane scrittore a vincere nella storia del Nobel. (Quando gli dissero che aveva vinto era in una locanda a Londra, con una spia-scrittore, e fuori i giornalisti rompevano le palle).
Andrea Bianchi
 *
Nobel a Brodsky: i perché di un applauso
C’è stato un applauso a Stoccolma quando Brodsky ha ricevuto il Nobel per la Letteratura. Succede sempre (credo) in queste occasioni, sono lì per questo, ma questa esplosione di salve, in particolare, sembra sia stata più animata del solito, una cosa da partigiani. Non partigiani in senso politico, est-ovest, ma nella singolare personalità del neoconvertito, per il partito preso che alcuni poeti ispirano col loro modo di fare – giacché coi poeti il lettore è invitato costantemente a varcare la soglia che usualmente sta a delimitare lo spazio del lettore da quello del sostenitore.
Un dissidente? Ma allora si accosta alla volgarità mondana nel modo in cui erode il destino individuale e mescola tra loro le scelte, di per se stesse uniche. Un dissidente che porta l’attenzione a questa dizione compiaciuta: “Le uniche cose che poesia e politica hanno in comune sono le lettere P e O”, ha dichiarato Joseph quando l’ho intervistato a Dublino un paio di anni fa. Un tipo piantato per terra, impaziente e davvero riconoscibile, come tutti quelli che l’esilio condanna a vivere in modo frugale, arrabattandosi e, tutto sommato, in fondo, a vivere in solitudine. Qualche anno fa gli ho fatto visita nel suo appartamento a New York, e sentivo di accedere nel retrobottega mentale di uno che si fosse sospeso nello scorrere del tempo. Enciclopedie russe, libri impilati, fogli mescolati, tutto disposto senza disegno retrostante – per nulla uno spazio di lavoro. Eppure. Sentii di aver passato la prova quando nel mio attico a Dublino Joseph guardò il casino che c’era e disse con piacere slavo, un accento remotissimo: “Sta benissimo”.
Iosif Brodskij ottiene il Nobel per la letteratura nel 1987, a 47 anni. Insieme a Rudyard Kipling (Nobel a 41 anni) e ad Albert Camus (Nobel a 44 anni) è il Nobel per la letteratura più giovane di sempre
Se mai qualcuno si è meritato di essere menzionato da Joyce con un kenning inflessibile e onorevole, ebbene questi è Joseph Brodsky: è lui l’uomo-penna. E ancora. Se leggiamo il suo Less than one [tr. italiana Fuga da Bisanzio] con tutti suoi sottintesi, vediamo che maneggia benissimo la sua scia: devoto all’abilità artigiana dell’artista, è davvero l’ultimo che ti aspetteresti alla cerimonia col mazzetto di lillà. Nonostante ciò troviamo qualcosa di Wilde nel parlare fiorito di Brodsky, una cura per le cose non visibili al fine di aprire quanto risulta innegabile, mentre accoglie le posizioni che possono essere chiamate alla vita solo tramite l’arte e le sue domande. È lui che ha detto che si scrive per crescere tramite l’arte, ricordandoci perciò che anche il corollario è vero – il lettore legge per ragioni simili, per crescere. Quel che distingue uno scrittore dall’altro, di conseguenza, è la natura esatta della crescita che consente, e qui mi sembra che il drammaturgo anglo-irlandese e il poeta russo-ebraico condividano caratteristiche fondamentali di scrittura – nella combinazione di pennacchio stilistico e scazzottata intellettuale, nell’allergia che provano davanti alla noia, nello stravolgere i cliché e quando creano un piano di cura, come lo chiama Mr. Brodsky, quando vuole mantenere un certo tono espressivo.
Ed è davvero strano, altri dettagli delle due biografie dell’irlandes ee del russo coincidono. Entrambi, Wilde e Brodsky, sono stati gettati in prigione e di conseguenza esiliati. Ma non si vuole travisare la nuova vita di Mr. Brodsky negli USA – è stato espulso dall’URSS nel 1972 ma non è stato degradato come Wilde a Parigi. Degrado postumo, aggiungo.
Invece, Brodsky è stato guardato più come profeta che come pariah, sebbene si sia sforzato a mantenersi sullo sfondo. Quando gli si chiede del suo periodo nei campi di lavoro sovietici, parte col discorso consueto che dura un minuto, e più in generale evita di apparire come un rifugiato. Ma è sempre pronto a combattere a mezzo stampa, e ha fatto notare che un conto è il suo Less than one letterario, altra cosa la sua generica umanità piuttosto ordinaria – c’è dell’arroganza privata in quel one. È un fraintendimento che commettiamo spesso quando usiamo questa parola definitiva one. Perché ‘uno’ nasce scrittore invece di nascere alla consueta vita domestica. ‘Uno’ rifiuta le circostanze storiche perché vuole possedere e vantare una libertà e una singolarità sue. Mr. Brodsky ha un modo originale di ribadire la fede romantica e antica tesa a esaltare la diversità di ciascuna invenzione poetica, e indulge all’affronto sublime dove afferma che le vite dei poeti sono tutto sommato identiche tra loro – “i loro fatti si differenziano solo in virtù del suono”, delle loro vocali e sibilanti, delle metriche, delle rime e delle metafore.
Il metro di Mr. Brodsky e le sue vocali mi hanno risvegliato negli anni Settanta. Lo incontrai mentre arrivava nel Michigan da Mosca, e prima si era fermato un paio di giorni a Londra, era l’Internazionale di Poesia a Londra del 1972. Nel suo viso semplice trovavi qualcosa di misterioso che ti riportava in vita, era un uomo ben fatto in camicia rossa, nato un anno dopo di me ma era già stato segnato dalla storia, che lo aveva lanciato in orbita. Mesi dopo quell’incontro lo sentii leggere le sue poesie a un altro incontro poetico ad Amherst, e lì mistero ed energia sprizzarono da tutti i pori. Teneva una mano in tasca, si poggiava tutto sui tacchi, alzava lievemente il volto – come a prendere la mira – e dispiegava la voce. Una voce di grana spessa, dalle corde sottili, per uno strumento intonato al profondo. Sentivi lamento e tensione, turbolenza e coerenza. Non sono mai stato in presenza di un lettore così apertamente poeta al momento di leggere. E il segreto di questa sua completezza, lo capii dopo, era il dono che lui faceva – la sua vocazione originaria, ripresa giorno per giorno, in ogni minuto della vita.
La poesia diviene una regola, un abito, una disciplina per ogni apprendista, ma ci sono gradi di intensità nel seguire la regola. Di Joseph Brodsky, comunque, si poteva dire – come Osip Mandel’stam disse del suo vecchio maestro, il simbolista V.V. Oppius – che avesse stabilito relazioni personali non solo con la poesia russa ma con tutto il pantheon, classico e vernacolo, delle letterature europea e americana, “legami splenetici e amorosi colmi di nobili invidie, irrispettosi e offensivi, disonesti e dolorosi – come avviene tra i membri di una famiglia”. Naturalmente, questa relazione intima, faccia a faccia con i maestri mantiene il tono di cui sopra. Non solo perché Brodsky fu investito da Anna Achmatova, da Nadezda Mandel’stam e W. H. Auden, e perciò si è collocato in una successione filiale entro due grandi tradizioni poetiche. È anche uno scrittore che, mandando a mente quel che ama del passato, ha incorporato le domande e la mentalità di quelle letterature. Le conseguenze stilistiche della grande poesia si sentono dall’intonazione, da come è strenua e concentrata la vigilanza con la quale legge non solo i libri, ma il mondo. E lo si percepisce nei gesti risoluti, come quando a maggio si è dimesso dall’American Academy and Institute of Arts and Letters dopo che quell’istituto aveva fatto membro onorario Evgenij Evtushenko, poeta sovietico e (in via ufficiosa) ambasciatore culturale. Mr. Brodsky, deplorandone la selezione, ha detto “Averlo nell’accademia, per quanto rappresenti tutti i poeti russi, mi sembra inimmaginabile e scandaloso”. […] Ma andando avanti di questo passo si finisce con l’essere solenni. E Brodsky è troppo alternativo, non se lo meriterebbe un trattamento simile. Lui è piantato in terra, come ci hanno insegnato gli Acmeisti russi per riformulare le aspirazioni degli acchiappanuvole, dei Simbolisti. Le sue metafore rischiano di andare avanti e lontano. I suoi aforismi, con la compulsione a deliziare e stordire, fanno l’effetto di saltare e rimbalzare, ma l’elemento che rimane nella sua scrittura è sempre governato da un sentimento laconico, pane al pane, vino al vino. […] Ma per poesia di Mr Brodsky, scritta in russo e rivelata tra i primi ai grandi lettori russi e pure ai loro grandi contemporanei, il processo di traduzione è a ben guardare più problematico e resistente. Qui un evento – il poema russo – deve essere re-inventato altrimenti diviene, per citare Robert Lowell, la registrazione di un avvenimento. Nel passato la re-invenzione è stata ottenuta da poeti nativi inglesi i quali lavoravano – e davvero il verbo non è esagerato – in collaborazione con l’autore, sebbene in una nota al suo Parte del discorso [tr. Adelphi], libro del 1980, Brodsky ci dice che in diversi casi si è preso la libertà di lavorare daccapo in alcune pagine “a costo di rendere il tutto più viscoso”.
In altre parole, come capita con poeti forti, Mr. Brodsky mette il comfort del lettore ben al di sotto delle necessita del poema, e poi vuole imporre all’inglese una stranezza e una densità immaginativa, tutto questo traducendosi lui dal russo. Trovi perciò un amore aperto per il verso inglese, al limite della possessività, ma la dinamo russa fornisce energia, e le metriche russe originali non saranno contraddette e l’orecchio inglese arriva all’elemento fonetico al tempo stesso animato e distorto. A volte ci si ribella d’istinto quando le nostre aspettative sono negate in termini di sintassi e di accenti (velleità). Oppure si va in panico e ci si chiede stupiti se non siamo stati portati via di corsa, mentre ci aspettavamo qualcosa di più ritmico. Altre volte ancora, il verso raggiunge quel consenso illimitato che solo l’arte aspira a ottenere. Solo l’arte lo consente. Ed è un trionfo:
Libertà è quando dimentichi come si sillaba il nome del tiranno e la tua saliva alla bocca è più dolce delle torte arabe e sebbene la tua testa è tutta piegata come il corno di un montone nulla cola dal tuo occhio celeste.
L’applauso a Stoccolma era tutto per questi motivi.
Seamus Heaney
*Il testo di Seamus Heaney è stato pubblicato sul New York Times l’8 novembre 1987 con il titolo “Brodsky’s Nobel: What the Applause Was About”
L'articolo “Le uniche cose che poesia e politica hanno in comune sono le lettere P e O”: Iosif Brodskij ottiene il Nobel, Seamus Heaney fa gli applausi proviene da Pangea.
from pangea.news http://bit.ly/2MwqWWa
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serializzare-blog · 7 years
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Raccontarsi in Silenzio: Dark Souls
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“In the Age of Ancients the world was unformed, shrouded by fog. A land of gray crags, Archtrees and Everlasting Dragons. But then there was Fire and with fire came disparity. Heat and cold, life and death, and of course, light and dark.” 
 https://www.youtube.com/watch?v=ylFzJ3wRgHw
 Queste sono le prime fra le poche parole con cui Dark Souls I ha inizio. Dico poche, perché Dark Souls è un silenzioso capolavoro, un mondo che raramente si esprime se non tramite se stesso. Ma riguardo il  silenzio degli infiniti regni e delle infinite ere ci arriveremo dopo.  Il seguente articolo faticosamente scritto e redatto milioni di volte, non sarà una recensione sul gioco in sé, sul gameplay, sulla trilogia, su cosa sia bello o brutto, sulla difficoltà ma su cosa Dark Souls esprime a livello puramente emotivo. Dark Souls non è un solo un bel gioco ma un capolavoro artistico. Quest’articolo può essere letto anche da chi non l’ha mai giocato, sebbene farà più fatica a seguirmi nel ragionamento,  o anche  da chi non ha mai fatto un videogioco in vita sua. Perché  non parlerò di backstep, perry, server e farming ( termini nerd per chi non lo sapesse) ma parlerò del Fuoco, dell’oscurità, delle anime.
  “Nell’ Era degli Antichi Il mondo era informe, avvolto dalla nebbia. Una terra di rocce grigie, arcate e draghi eterni . Finché arrivò il fuoco e con il fuoco arrivò la disparità. Caldo e freddo, vita e morte e, naturalmente, luce e oscurità. E dal buio, vennero  e trovarono le anime dei Signori all'interno della fiamma. Nito, il primo dei morti , la strega di Izalith e le sue figlie del caos, Gwyn, il Signore della luce solare e i suoi fedeli cavalieri. E il pigmeo furtivo , così facilmente dimenticato.Con la forza dei Lord, sfidarono i Draghi. I possenti cavalieri di Gwyn aprirono le loro scaglie di pietra. Le Streghe tessevano grandi tempeste di fuoco. Nito scatenò un miasma di morte e malattia. E Seath il Senzascaglie tradì i suoi, e i Draghi non vissero più. Inziò così l' Era del Fuoco . Ma presto le fiamme svaniranno e rimarrà solo l’oscurità. Adesso ci sono solo braci e l'uomo non vede la luce, ma solo notti infinite. E tra i vivi si vedono i portatori del maledetto Segno Oscuro .Si Certamente. Il Segno Oscuro marca i non morti . E in questa terra, i non morti sono portati a nord, dove sono rinchiusi, ad attendere la fine del mondo ... Questo è il tuo destino.”
In un mondo di eterna oscurità solo la fiamma può salvare l’uomo dall’Abisso eterno. La fiamma però porta disparità ed è  una fiamma per giunta che deve essere ravvivata da un prescelto.
Cosa vi ricorda? Oltre agli innumerevoli spunti filosofici che fanno parte del corollario celtico e non, la prima cosa che salta all’occhio è sicuramente il riferimento al mito di Prometeo. Anche se tuttavia in questo caso vi sono delle differenze che rendono la fiamma, il fuoco, e tutto ciò che c’è attorno diverso da qualsiasi mito fantasy prima scritto. Il fuoco non è divino in Dark Souls, è terreno. E inoltre il fuoco non è eterno, ma labile, incostante, dipendente dalle sue anime. Eppure, dà inizio ad un’era. La seconda differenza sta nel fatto che il fuoco non è la soluzione, un dono ma condizione; balzando al capitolo finale ci ritroviamo nei panni di un “campione della cenere”, colui che sfiderà il primo portatore del fuoco, l’anima del primo falò, colui che sceglierà se l’Era del Fuoco deve finire oppure continuare (come nel finale del primo capitolo)  a ravvivare la fiamma con una sorta di passaggio di staffetta generazionale, di era in era. I creatori di Dark Souls (SPOILER) affermano che il finale che per loro è da considerarsi vero ( nel videogioco puoi scegliere fino a 4 finali) è quello dell’oscurità eterna. Accompagnato dalla portatrice della fiamma, lei brandirà l’ultima fiaccola, l’ultimo barlume di luce dalla tua anima, per spegnerla definitivamente. E così il videogiocatore si ritrova piano piano di fronte ad uno schermo nero, come se si fosse spento il gioco da solo.
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 La bellezza, lo sgomento e le conseguenze di questo finale sono sconcertanti. Per la prima volta non vi è soluzione in un fantasy senza un nemico ma naturalmente oppresso dalla sua stessa condizione di essere. Non vi è una forza avversa e una risolutrice. Esiste solo l’oscurità. L’oscurità che distrugge ogni regno, ogni corona, qualsiasi drago o campione. L’oscurità da cui in tutti e 3 i capitoli proviene il PG che controlliamo. Tutti i mondi dove i vessilli, la case, i castelli nascono e si distruggono in funzione del fuoco, origine di ogni lotta e cultura. Neanche il tempo può sottrarsi all’oscurità. In Dark Souls viaggiamo non solo nello spazio, ma percorriamo anche il tempo, cambiano le ere, gli spazi, ciò che prima non c’era diventa reale e ciò che prima era scomparso perdura in eterno. Nel giocatore però rimane sempre una costante. Trovare un falò da accendere. Trovare anime e perdurare. Eppure i creatori dopo così tanti passi e così tanto silenzio decide di spegnerci il monitor. Perché? Perché “spegnere” l’onore dei valori cavallereschi, delle famiglie e delle battaglie, perché “spegnere” la leggenda dei giganti, la possanza dei draghi e l’astuzia degli stregoni? Perché Dark Souls spegne tutto, se è proprio lui a rammentarci l’eternità dei mondi, delle ere?  La risposta sta in una stessa affermazione del creatore Hidetaka Miyazaki: “una lore ben costruita è in grado da raccontarsi da sola senza dire una parola”. Non c’è un perché. È così e basta. È così perché Dark Souls rimane sempre in silenzio, in tutti e 3 i capitoli, come silenziosa è l’oscurità e come silenziose sono la tristezza e la solitudine che circondano il nostro viaggio. L’unica cosa che ci lascia quello schermo nero è la speranza, che prima forse era incarnata nel fuoco dei falò, ma che rimane comunque luce invisibile, quella FIAMMA che alberga dentro ognuno di noi e che mai potremmo spegnere se non tramite noi stessi e la nostra morte. Il viaggio di Dark Souls è un viaggio triste, come triste è spesso la nostra vita. Alcuni critici arrivano a considerare Dark Souls un gioco che supera i confini dell’intrattenimento raggiungendo l’arte. Per altri è addirittura un trattato di semiotica. Ebbene io credo, dal basso delle mie conoscenze, che Dark Souls sia una delle opere più belle che abbia mai fruito in vita mia, che mi ha plasmato attraverso un linguaggio tutto proprio, una gamma di sensazioni che mai potrò riprovare un videogioco. E infine, mi ha dato la speranza che, spesso, salva la vita.
“Yes,indeed”. 
https://www.youtube.com/watch?v=_zDZYrIUgKE
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Connessione Stabilità
Una scritta nera in contrasto con lo sfondo bianco della pagina separato dai lati dello schermo da due sbarre grigie come una prospettiva ravvicinata di ciò che vedono due occhi incastrati fra le sbarre di una prigione cita “connessione stabilita, puoi parlare con lo sconosciuto”:
“Ciao”
“M tu?”
Connessione scaduta, lo sconosciuto ha abbandonato la chat, premi start per ricominciare.
Connessione stabilita puoi parlare con lo sconosciuto.
“M”
“M”
La buona educazione delle chatroom prevede che nel momento in cui è il secondo a dichiarare il proprio sesso ed è corrispondente a quello per primo dichiarato, il secondo dovrà abbandonare la chat perché premere la sequenza di tasti slash-sinistro-end per terminare la sessione è una vera rottura di coglioni.
Connessione scaduta, lo sconosciuto ha abbandonato la chat. Premi start per ricominciare.
Connessione stabilita, puoi parlare con lo sconosciuto.
“ciao”
“Hey”
“Piacere Antonio, 19 anni tu?”
Connessione scaduta, lo sconosciuto ha abbandonato la chat. Premi start per ricominciare.
Capita che tra una conversazione ed un'altra passino delle ore, delle serate intere di occhi gonfi e rossi che fissano un display luminoso di un computer inombrato nell’angolo della stanza, posto sopra una scrivania in legno scuro di fianco a pacchi di fazzoletti usati e da usare sempre a portata di mano per qualsiasi evenienza, che sia un raffreddore o una F disinibita, libri scolastici e compiti ancora da fare, penne biro sparse che nel buio della notte assumono tutte la medesima colorazione. Sono nottate in cui non si dovrebbero prendere decisioni, di notte non dovrebbero esistere le scelte se non la sicurezza di quello che si fa, altrimenti la notte non è altro che quel buco nero che sta fra un giorno e un altro in cui niente e tutto esiste, tempo e spazio sono irrilevanti, c’è solo la ricerca infinita, non esistono corpi. Sono notti in cui siamo tutti uguali qui dentro, che si va a letto sporchi di qualcosa che nemmeno il sonno potrà lavare via, sono notti in cui l’unica cosa che esiste è l’ossessiva ricerca di una conversazione.
Connessione stabilita, puoi parlare con lo sconosciuto.
“Ciao piacere Stefano, 21 anni. Tu?”
“Ciao, F Lesbo, hai foto di tua madre o tua sorella? Te le esco”
Connessione scaduta, hai abbandonato la chat. Premi start per ricominciare.
Altra regola di sopravvivenza è che se uno sconosciuto dichiara di essere una F Lesbo è al 100% un M con la voglia di segarsi ma pensa di essere il più furbo della lobby e usa la strategia che andava di moda nei flashgames di incontri in cui ci si fingeva ragazze così da mettere a proprio agio le altre ragazze-anche-loro-maschi-finti-ragazze così da poter avere una vera e propria sexchat in cui i due ragazzi-che-si-fingono-femmine in questione immaginano la scena di sesso fra due poligoni in pixel colorati di uno schermo catodico segandosi ognuno nella rispettiva stanza buia e sporca e piena di fazzoletti usati e da usare. Questa è solo la versione avanzata in cui non sono più necessari alter-ego digitali figurati.
“ciao”
“ciao, piacere gianluca, 17, tu?”
“ciao, anna 16”
“ciao anna, come va? Che combini qui sopra a quest’ora”
“niente, mi annoio e volevo compagnia tu”
“stessa cosa, non riesco a dormire e volevo chiacchierare con qualcuno”
“ok”
“…”
“di dove sei?”
“firenze, tu?”
“Milano, ci sei mai stata”
“no”
“ok”
“…”
“…”
“vuoi fare qualcosa?”
“di che tipo?”
“non so, hai voglia di fare qualcosa insieme per passare il tempo?”
“ok che proponi”
“come sei fisicamente?”
“tu?”
“io sono alto 1,70 e sono abbastanza magro ma ben messo, faccio palestra, moro con gli occhi verdi, e capelli lunghi fino alle spalle tu?”
“io bionda, magra, bel culo e una quarta, quanto ce l’hai lungo”
“21 cm”
“apperò”
“sei fidanzata?”
“no ma mi sono appena scopata uno che è andato via e sono ancora eccitata”
“ti va di fare una chat porca?”
“si, cosa mi faresti se fossi qui”
“ti prendere di forza e ti girerei, mi metterei sopra di te per spingerti da dietro, ti toccherei fra le chiappe dopo averti fatta sputare sulla mia mano per bagnarti bene, poi te lo infilerei piano, solo la punta e poi tutto insieme e ti scoperei da dietro così”
“mmmmh”
“poi te lo metterei in bocca e ti scoperei la bocca e ti verrei in bocca e sulla faccia e sulle tettone”
“mmmm”
“tu che faresti con me”
Connessione scaduta, lo sconosciuto ha abbandonato la chat. Premi start per ricominciare.
Altra regola per partecipare è di non rivelare il proprio nome, la propria età, il proprio membro o la propria città di residenza e non perché si può essere rintracciati, che diciamocelo è una stronzata nel senso che non siamo nessuno, se volessero davvero rintracciarci veramente pensate che la localizzazione del telefono con google o facebook potrebbe impedirlo che se disattivate e aumentate al massimo la privacy ci vuole credete che si faccia un vero problema a rintracciarvi che ci sono macchie di noi su internet che nemmeno non sappiamo di aver lasciato, siano digitali o sperma, in internet siamo tutti uguali, nelle chatroom siamo solo numero, nei social network siamo solo quantità, le persone che stanno dietro ai profili social e ai contatti per le videochiamate sono ovunque ottenibili da chiunque con un minimo di sforzo e quindi non è per questo che non si dovrebbe mai far trapelare la propria identità per questo ma semplicemente perché si rischia di avere meno chance di trovare compagnia. Personalità multiple, bipolarsimo e disturbo ossessivo compulsivo e scelte sbagliate sono accomuna tutti indifferentemente, oltre alle scelte sbagliate e alla sporcizia addosso.
La notte fuori procede senza segni e senza suoni, va avanti isolando la stanza da letto di Antonio, Stefano, Gianluca e di tutte le persone che condividono la stessa pelle, ossa, organi, membro, mutande, mani, scrivania, computer e fazzoletti che rimangono immobili, fermi alla stessa ora, sempre che possa essere misurata in ore, minuti e secondi il tempo passato alla ricerca della Conversazione, un moderno Godot dell’era di internet e della solitudine telematica in cui ci sentiamo tutti isolati, alla ricerca di conversazioni e compagnia, alla ricerca di qualcuno a cui chiedere se sia un maschio o una femmina, da dove venga e se sia disposta o disposto a scambiare un minuto di intimità sessuale e personale con la gratitudine di aver alleviato questo profondo senso di solitudine e alienazione che lo schermo bianco sbarrato ai lati con scritte nere su bianche impongono a tutti quelli che si addentrano nella ricerca disperata di qualcuno che li faccia, che ci faccia sentire meno il nostro corpo come un corpo solo e soltanto e separato. Per quell’unico momento di scelta sbagliata cerchiamo di essere tutt’uno con lo schermo, smettiamo di essere noi, siamo internet, siamo una conversazione a sfondo sessuale, siamo altro, siamo l’altro partner sconosciuto, senza volto e senza identità ma siamo lui o lei, e in quel solo istante siamo in pace, non è più solitudine, abbiamo qualcuno, qualcosa. Poi nuovamente il nostro corpo, e di conseguenza il disgusto e la sporcizia.
Connessione stabilita, puoi parlare con lo sconosciuto.
“F”
“M”
“Ciao, lucia, 22”
“ciao, edoardo, 23. Come va?”
“Bene, noia e caldo e insonnia a parte, a te?”
“Direi che sono sulla tua stessa barca, però ora sto bene”
“che fai? Come mai sveglio a quest’ora?
“mah, niente. Solitudine, noia, voglia di conoscere qualcuno di piacevole alla quale almeno per ora sembro aver trovato una soluzione”
“oh che carino, però ancora non abbiamo detto nulla”
“lo so, io parlo molto di pancia, e tu mi piaci, o almeno piaci alla mia pancia. Non so se è un complimento”
“si dai, grazie. Sei carino. Di dove sei?”
“Milano, tu?”
“Genova”
“Capisco”
“…”
Lo stallo nelle Conversazioni non è quasi mai un problema. Non lo è quando sai dove vuoi andare a parare, perché tanto chi se ne frega di uno sconosciuto o di cosa può pensare di te, e se la vuoi risolvere subito esci allo scoperto chiedendo di scopare o una cosa inspiegabilmente spaventosa come una foto di piedi e stai tranquillo che le fai scappare tutte. Lo stallo nelle Conversazioni diventa un problema quando la Conversazione non ha come interlocutore un semplice testo ma ti rendi conto che dietro c’è una persona che potrebbe avere sentimenti, una faccia, un colore di pelle e di capelli e di occhi, dei denti e possibilmente in ordine, dei capelli e chissà di quale forma o colore naturale, dei vestiti o meno, e quindi diventa rischioso lasciare la conversazione ad un semplice scambio di formalità e informazioni fittizie. Una delle regole quando lo stallo è rilevante, e quindi quando lo sconosciuto che ci si trova davanti sotto forma di parole e lettere digitalizzate dal computer o dal telefono è che uscire allo scoperto non è mai la giusta mossa. A meno che l’intenzione non sia uccidere la Conversazione, ma dopo ore di ricerca non è quello l’intento. La Conversazione deve assumere toni più rilassati, meno da colloquio di lavoro, deve essere una vera Conversazione, tra due testi digitali che si riconoscono appartenere a due individui differenti che interagiscono fra di loro separati da un muro luminoso.
“comunque direi che il colloquio può finire qui, ti va di chiacchierare senza troppe pretese? Due amici al bar”
“ahah simpatico, credo tu abbia ragione. Sono stata assunta?”
“decisamente si, assunta. Inizi sta sera”
“Cosa fai nella vita?”
“studio per diventare qualcosa che possa permettermi di vivere”
“ah, siamo sulla stessa barca nuovamente, come è piccolo il mondo”
“neanche tu idee chiare?”
“Direi di no, studio lingue ma non ho idea cosa fare nel mio futuro prossimo”
“Io studio ingegneria informatica, quindi attenta a cosa fai che posso entrarti nel computer. No, scherzo, credo di aver sbagliato facoltà perché è tanto se so accendere il pc.”
“ahaha ma va, esageri”
“no dai, me la cavo abbastanza. Il mio sogno è essere programmatore di videogiochi, nella realtà programmerò la mia pausa pranzo per un bel po’ di pause pranzo”
“be, almeno se te le programmi da solo le fai come vuoi tu, vedi il lato positivo”
“hai ragione. Hai ragione!”
“dovevo fare l’università della vita e diventare consulente sconosciuta nelle chat anonime”
“prova a mandare CV che magari esiste questo lavoro e verresti pagata bene”
“o finirei per rispondere al telefono delle hotline o delle linee suicide”
“che bella prospettiva!”
“Oltre a studiare per poter sopravvivere che fai altro nella vita?”
“leggo, adoro i libri, adoro i film ed i videogiochi. Adoro un po’ meno le persone e uscire di casa”
“sapevo che eri un vero nerd, per fortuna che esistono anche quelli veri e non solo quelli che lo fanno per noi povere sfigate a cui piace esattamente quello stile di vita e ci ingannano facendoci uscire di casa nel mondo esterno, puah!”
“anche tu una nerd? Ma va, non ci credo nemmeno se mi fai vedere la tua collezione di giochi per la playstation”
Ci sono alcuni modi per entrare in contatto intimo con le persone su queste chatroom, il primo dei quali è stabilire una connessione, un legame, una Conversazione a proposito di qualcosa che piace realmente ad entrambi. Deve essere reale, non funzionano le passioni fittizie, che portano soltanto allo stallo, al silenzio e alla connessione che scade e al premere start per essere connessi con un nuovo partner. Una volta stabilito però questo legame si passa alla fase del voglio-di-più, apri una finestra visivo-comunicativa con questa persona, una foto sul momento, una vecchia foto ricordo, qualunque cosa. Non deve dare un’identità somatica alla persona, ma deve essere il suo mondo, e soltanto con questo piccolo oblò si può provare ad uscire allo scoperto piano piano. Ma spesso le vere Conversazioni tra due persone Vere smettono di essere una strategia per un fine, ma assumono quello che sono le Vere Conversazioni.
“Oddio ma quanti bei giochi! Hai sia ps4 che xbox one! Fortunata”
“tu dove giochi? Scommetto che sei un pc gamer. Pc master race una sega”
“la nostra amicizia sta nascendo ma sappi che potrebbe incontrare un vero ostacolo. Strike 1”
“ahaha no scherzo ovviamente, so bene della faccenda del framerate, delle mod, della libertà, del risparmio, bla bla bla per favore non cominciare a bla bla bla su questa cosa che ne ho piene le scatole, te ne prego! Si gioco su console perché è facile ed immediato, dammi della casualona”
“casualona. Però vedo tanti bei giochi che fanno di te la meno casualona delle casualone”
“Ti ringrazio, ci tengo molto alla mia collezione. Ti chiederei una foto della tua ma immagino sia difficile riunire in una foto sola una intera libreria Steam di un vero pc gamer”
“ahah già, posso dirti che ho circa 400 giochi, però posso farti vedere quelli che ho attualmente installati”
La seconda finestra viene aperta. Ora esiste La Conversazione, quella che le forze misteriose delle chatroom anonime talvolta sono in grado di generare. Quelle che vanno oltre le sbarre grigie che isolano il foglio bianco della Conversazione, che vanno oltre il muro luminoso, una finestra sul muro dove entrambi si possono sporgere e sbirciare, il canale comunicativo per eccellenza, il sacro Graal delle chatroom: lo scambio di foto.
“comunque ti vorrei rendere partecipe del fatto che ci stiamo scambiando foto di giochi e cose, io ti avviso che il prossimo passo sono le tette, vi conosco voi maschietti arrapati”
“guarda, tranquilla che ho tanti frame di tette di personaggi che mi bastano per tutte le sere solitarie ed arrapate”
“Se se, le mie credimi sono meglio, sono vere”
“su questo non posso darti torto. Immagino siano pure belle”
“Una terza modesta”
“appunto, beati i nerd che possono giocarci!”
“ahah in realtà non ce ne sono stati molti, giusto un paio. Ma non sono mai arrivati al livello finale”
“la difficoltà era troppo alta evidentemente, ma io sono un hardcore gamer, con ammiccate piccanti su hardcore”
“che scemo ahah no dai, non sono così difficile, ma se cerchi di barare coi trucchi me ne accorgo. Sono a prova di Cheat”
“in ogni caso beati loro davvero. Però visto che siamo arrivati a parlare delle tue tette ti rendo io partecipe del fatto che, un’idea non diventata fatto però, che sono qui perché erano ben altri i miei intenti. Ma mi hai fatto cambiare idea, ho pensato che sei super simpatica e che non volevo rovinare la nostra futura conversazione, amicizia, amore, relazione, matrimonio e vita coniugale e infine morte insieme arrivando all’ultimo momento saltando tutte le fasi prima dicendoti subito quali fossero le mie intenzioni o provandoci con te. Spero ora di non aver ottenuto comunque quel risultato”
La mossa rischiosa del fare il sincero in tutta quella farsa che è la Conversazione per quanto vera cercando di ottenere consensi e approvazione e complimenti per l’onestà è rischiosa. A volte funziona e continua e magari ottieni oltre alla sincera Conversazione anche un onesto orgasmo condiviso, a volte la conversazione va di punto in bianco in stallo. Altre volte invece è come uno schiaffo in pieno viso per entrambi, che fa scadere la connessione e premere star per parlare con un nuovo sconosciuto. E arriva lo schifo addosso. Sono le 3 e mezzo di notte nel mondo vero, il tempo torna ad ingoiare la stanza e i fazzoletti inutilizzati e lo schifo che rimane sulla pelle, e ci si addormenta con il peso sul petto di chi sa di aver fatto scelte sbagliate e che la notte non può ricominciare.
Solo dopo arrivano i sensi di colpa.
Nessuna scritta nera in contrasto col bianco dello schermo, nessuna compagnia, nessuna Conversazione. Solo il corpo, il respiro, il buio e lo sporco sulla pelle.
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corallorosso · 5 years
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Deborah, Pamela e la ragazza madre di Rogoredo: tre giovani donne lasciate sole di Mario Alberto Marchi Ho sempre provato una sorta di imbarazzo quando ho sentito uomini dichiararsi femministi. Pur condividendo istanze e lotte ho sempre pensato – e ancora penso – che appartengano a un territorio di rivendicazione esclusivo, che richieda al maschio riconoscimento e impegno, ma gli suggerisca anche di non mettervi il il suo piede invadente e storicamente inopportuno. Insomma almeno nella rivendicazione dei diritti, si riconosca alla donna la prerogativa di fare a meno di noi, che di quei diritti siamo spesso nemici. A noi il compito di ascoltare e provvedere, per quanto ci compete. Questa volta – però – un poco femminista voglio esserlo, perché le cronache recenti offrono uno spunto di riflessione importante, al quale – da maschio – non voglio sfuggire. Quello che più mi ha colpito in questo senso è in realtà il caso di cronaca meno considerato. Una ragazza eroinomane ha partorito suo figlio in un rudere, nel mezzo del tristemente famoso boschetto dalla droga di Rogoredo, alle porte di Milano. Io quel boschetto l’ho visto. A suo tempo mi sono addentrato. E’ una specie di discarica umana, di terreno di smaltimento di quel rifiuto rubano che è il mondo della droga che non trova collocazione in nessun sistema di riciclo. Non ci si va per drogarsi, ma per viverci, finché dura. Le relazioni sono tra spacciatori, in genere appartenenti alla feccia della categoria commerciale e consumatori, in genere relitti umani che non si drogano più per qualcosa: si drogano e basta. Qualsiasi relazione gira intorno a questo e ne condivide una sorta di lenta, inguaribile disperazione. In questo teatro lei era rimasta incinta, aveva trascorso nove mesi di gravidanza e alla fine ha partorito. Nessuna differenza rispetto a nove mesi prima: la droga, il trip, la sporcizia, la fame, il vomito, i soldi probabilmente le marchette con chi le poteva dare la roba o con chi trovava interessante far sesso in auto con una donna incinta. Nessuno che le abbia mai detto “ferma, ci penso io”. Nessuno che le abbia mai chiesto “di quanti mesi sei?”. Nessuno che le abbia mai chiesto “come lo chiamerai”. Insomma quelle quattro stupide cose che si dicono a una donna incinta per esprimerle il più banale senso di partecipazione. Nulla. La droga, il trip e tutto il resto. Punto. Ecco, dall’inizio alla fine è stata sola. Questo dovrebbe colpire, la solitudine dal primo all’ultimo momento di quello che c’è di più esclusivamente femminile, col suo carico di responsabilità e sofferenze, anche se annegate nel torbido della dose, dell’ago in vena. Sola si è ritrovata anche la protagonista di un’altra storia, assurta alle cronache negli stessi giorni, Deborah, la ragazza che per difendere sé e la madre ha dovuto uccidere il padre. Lei – poi – è stata perfino lasciata solo ad assumersi la responsabilità di perseguire un uomo violento, intervenire durante l’ennesimo massacro a suon di botte, riconoscere la sua colpa e comminare la pena, diventata in quel momento inevitabile. Deborah è stata perfino lasciata solo a sostituirsi alla polizia, al magistrato, al giudice, al carcere. Solo che Deborah non è lo Stato, ma una persona, che non verrà giudicata assassina, ma in qualche momento della sua vita futura potrebbe sentire di esserlo stata. E sarà sola anche allora. Condannata alla solitudine era stata anche – a suo tempo – Pamela Mastropietro. Certo, sola anche lei a districarsi nel groviglio di legami famigliari difficili, frequentazioni pericolose, droga. Poi sola col mostro – chiunque fosse e quante facce abbia avuto, non importa – che l’avrebbe uccisa e fatta a pezzi. La solitudine della gioventù vissuta ai margini? No, perché prima di trascorrere le ultime ore con i carnefici, Pamela visse anche la oscena e schifosa solitudine nella quale l’aveva costretta l’uomo che le aveva dato un passaggio e poi umiliata approfittando di lei per pochi euro. Un corollario drammatico di momenti di solitudine nei quali sono state lasciate tre giovani donne, proprio in quanto donne e davanti ai quali io – in quanto uomo – mi sento di dire che non è nemmeno una questione di femminismo, perché non si tratta di diritti civili da codificare, ma di concetto della persona. La ragazza del boschetto di Rogoredo non aveva alcun diritto civile da rivendicare, ma l’aspettativa naturale di sentirsi diventare madre e non un tossica incinta, quella sì. Deborah avrebbe potuto rivendicare tutto, dall’intervento di un assistente sociale all’arresto del padre mostro, ma soprattutto il non dover ricorrere – per sopravvivere – allo strumento più classico proprio del maschio violento: la forza. Pamela, poi – che ha attraversato tutte le stazioni della via crucis umana che una ragazza possa percorrere – si è trovata talmente sola con la sua condizione femminile da subirla come strumento di abuso perfino da chi avrebbe potuto soccorrerla. In questo spazio, di solito, mi occupo di diritti. Ecco questa volta voglio occuparmi del mio diritto a non entrare nel territorio delle sensibilità femminili, ma di denunciare che l’alternativa non può essere quella di voltargli le spalle e lasciare che diventi un deserto di solitudine.
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pangeanews · 7 years
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Di fronte alla morte ci vuole l’irriverenza di Giorgio Chinaglia, il campione che mi ha salvato la vita
Mi guardo alle specchio e mi riconosco. Riconosco il mio doppio, in quello stesso specchio della camera da letto che è rimasto al suo posto: dietro le spalle un’ombra che si fa luce, una maglia bianco-celeste, di lana, morbida e scivolosa, con uno scudetto a triangolo sul lato destro. Le fotografie alle pareti sono impolverate, chiuse dentro una cornice dorata. È domenica, durante l’ora delle partite di campionato, che una volta si ascoltavano alla radio nella trasmissione “Tutto il calcio minuto per minuto”, con Enrico Ameri e Sandro Ciotti che si rimpallavano la linea per descrivere minuziosamente le azioni di gioco.
Il metaracconto pretende una spiegazione onnicomprensiva dell’esistenza, partendo dalla propria. Ci provo.
Sono diventato uno scrittore a tredici anni, nel 1983, quando venni colpito da un sarcoma di Ewing al bacino. Nacque tutto lì, all’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna, in via Pupilli, nella collina fuori Porta San Mamolo, dove mi curarono per quasi due anni al primo piano di quello che fu il convento di San Michele in Bosco prima di essere acquistato dal famoso chirurgo Francesco Rizzoli che trasformò il complesso in un ospedale. Morirono gran parte di coloro che soffrivano del mio stesso male. Io, inaspettatamente, ce l’ho fatta. Si sono registrati due soli casi, fino agli anni Novanta, di guarigione clinica da un sarcoma al bacino. Uno dei due guariti sono io.
Beckenbauer, Pelé e Giorgio Chinaglia all’epoca dei New York Cosmos. In 234 partite Chinaglia segna 231 reti.
Una malattia altamente mortale, sconfitta, mi ha “permeato” in modo disuguale. Ciò che all’inizio innescava il silenzio per un meccanismo difensivo, di disagio colpevole, si è tramutato pian piano nell’urgenza di dire, di raccontare: è nata così la docu-novel Il talento della malattia (Avagliano 2012), un romanzo singolare specie per la sua struttura (il cui seguito, sempre pubblicato da Avagliano, nel 2016, è intitolato L’età bianca).
Non credo di aver scritto una storia del tutto personale, né ho finto, per cui i miei romanzi non sono autobiografici né fiction. Molti malati mi hanno cercato confidandomi di essersi ritrovati specie nel racconto dell’ospedalizzazione, nella paura di morire. In fondo La montagna incantata di Thomas Mann ci dimostra che “l’interesse per la malattia e la morte è l’altra espressione dell’interesse per la vita”.
Vengo al mio male di allora. La psicologia moderna è convinta che il paziente possa esorcizzare il suo stato psichico mediante la cosiddetta “motivazione antagonista”. Il sogno infantile equivale ad un diversivo, al divertimento: per questo i bambini avrebbero una più alta percentuale di guarigione dai tumori.
La mia motivazione era rappresentata dal mio idolo, un calciatore: Giorgio Chinaglia, il bizzoso centravanti della Lazio campione d’Italia nel 1974 e presidente nel 1983. Un personaggio in controtendenza, amato quanto odiato dal pubblico sportivo. Volevo conoscerlo, e il desiderio spingeva a far mio lo slogan dei tifosi della Lazio che lo magnificavano: “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia”. Chinaglia: un idolo, un amuleto, un portafortuna, un Cristo laico. L’attaccante ingobbito, bisonte, sgraziato, ma indomabile. Un cavallo di pura razza.
Cosa lega un ragazzino malato ad un guerriero dello sport, alla stessa cronaca delle sfide sul campo di calcio? Posso dire che la malattia non si fronteggia con la sola speranza di guarire. Né con la commozione, che è un sentimento di tenerezza per se stessi. Meno che mai con la rabbia. La malattia va semplicemente ignorata. Lo so, è un compito davvero improbo. La mia reazione salvifica contro il “vuoto pneumatico” consisteva nel pensiero di un simbolo di forza. Un famoso giocatore di calcio è diventato il viatico per far fronte ai luoghi di reclusione e separatezza dalla vita, gli ospedali. Il campione come simbolo di vittoria, uno spazio di leggerezza e antitesi al sarcoma.
La letteratura vive anche nel calcio. Sapevo che il numero 9 della Lazio era andato nello spogliatoi della Roma a dire che li aspettava fuori, in campo. Long John, dalla marca di whisky che beveva, segnava ed esultava sotto la curva occupata dai fanatici della squadra avversaria. Mostrava una gamba all’uscita degli spogliatoi, per irridere la folla. Faceva le corna a chi lo insultava. Finì la carriera negli Stati Uniti, nei Cosmos di New York del grande Edson Arantes do Nascimento, detto Pelé, dove lo pagavano a peso d’oro.
Giorgio Chinaglia era già un “compagno insostituibile” di giochi nell’infanzia, incarnato fantasiosamente come soggetto di fedeltà al quale appellarsi nella solitudine. La compartecipazione con le vicende sportive prende origine da una risonanza puramente emotiva e da un meccanismo di immedesimazione con il campione preferito. Il mito calcistico (il “basso epico”, per dirla con Jorge Borges) garantiva quella “felicità bambina” che è diventata anche il modo migliore per affrontare il sarcoma di Ewing.
Il talento della malattia non è solamente un’opera letteraria, ma una testimonianza impudicamente, energicamente affermata e ribadita con lo sguardo fanciullo di una volta. Parafrasando Ernest Hemingway, si potrebbe dire: “Avere un cuore da bambino non è una vergogna. È un onore. Un uomo deve comportarsi da uomo. Deve sempre combattere. Ma non gli si deve dire come un rimprovero che ha conservato un cuore da bambino, un’onestà da bambino, una freschezza e una nobiltà da bambino”.
Di fronte alla morte ci vuole l’irriverenza. Ci vuole un gesto pari a quello di Giorgio Chinaglia che sparava alle lampadine durante i ritiri con il suo Winchester, il fucile a leva, una carabina con la canna. Ci vuole la sfrontatezza di chi manda a fare in culo l’allenatore della nazionale italiana ai campionati del mondo del 1974 in Germania, e lo hanno visto in mondovisione.
Mi dissero che con ogni probabilità sarei guarito, proprio la settimana che la Lazio, a Pisa, si salvò dalla retrocessione e Chinaglia corse ad abbracciare idealmente i suoi fedelissimi supporters. Allo stadio c’erano 20.000 persone venute da Roma. Era il 13 maggio del 1984. Ricordo principalmente questo, del mio male. Cioè il corollario, l’appendice.
A Giorgio Chinaglia dico grazie. L’ho conosciuto personalmente e mi ha abbracciato, mentre stavo male. Il motto “Giorgio Chinaglia è il grido di battaglia” lo urlavo da un letto d’ospedale, mentre intorno vedevo ragazzini amputati alle gambe o alle braccia. Il mio voleva essere un grido di riluttanza alla morte, di opposizione. Per questo non credo alla resistenza ideologica nella storia, ma alla resistenza biologica di ogni singolo uomo. Il romanzo segue le mie vicende e quelle del giocatore diventato presidente della Lazio per una breve parentesi, nel 1983. Prevale una specie di connubio che è durato qualche anno, con Chinaglia. Lo racconto senza infingimenti. Avevo qualcosa da scrivere, non più da sussurrare sottovoce. Qualcosa che non potevo più trattenere.
*
La morte la si può guardare a distanza, non in tempo reale. L’ho fatto dopo trent’anni. Adesso è la malinconia, paradossalmente, che mi tiene agganciato alla storia del mio male e dell’incredibile guarigione. Sì, la malinconia. In un certo senso è come se fossi rimasto un adolescente. Ma l’adolescenza, solo l’adolescenza, è un’età eterna. Uno scrittore non può diventare mai un adulto fino in fondo, perché sarebbe banale nel suo conformismo. L’adolescente, invece, è sempre fiero, invulnerabile, trasgressivo.
Ho vissuto una vicenda agghiacciante durante l’ospedalizzazione durata due anni. Non solo perché mi diedero tre mesi di vita (oggi ho quasi cinquant’anni e sto bene), ma anche perché sono stato ricoverato per lungo tempo in una specie di lager camuffato in reparto, un “altrove” infernale dove i bambini che erano con me sono morti asciugati dal male, annientati brutalmente. Uno, in particolare, morì sotto i miei occhi, mentre la madre, incredula, delirava.
“A quale santo ti sei raccomandato?”, mi chiese dieci anni dopo, nel 1993, Mario Campanacci, il grandissimo oncologo e ortopedico di origini parmensi.
Mario Campanacci (1932-1999), un luminare della medicina.
Fu chiamato a Dallas quando al figlio di Ted Kennedy venne diagnosticato un osteosarcoma al ginocchio. Il ragazzo “figlio della Grande Mela” si salvò, ma gli amputarono la gamba. Campanacci ha eseguito la revisione di migliaia di casi di tumori muscolo-scheletrici trattati fin dai primi anni del 1900 presso l’Istituto Ortopedico Rizzoli, maturando una profonda conoscenza diagnostica e clinica. Negli anni successivi ha intuito l’importanza di un approccio multidisciplinare ai sarcomi e fu uno dei pionieri al mondo del trattamento combinato e della chirurgia conservativa per i sarcomi primitivi dell’osso.
“Ti abbiamo restituito al mondo, vai”, aggiunse Campanacci nel guardarmi spiritato. Se gli avessi detto di Chinaglia mi avrebbe preso per un pazzo. Quell’anno fu trafugata la mia cartella clinica e visionata nei maggiori congressi mondiali di ortopedia. Appena due anni fa, ancora una volta, a Madrid.
Cosa ha potuto decidere la mia quasi esclusiva guarigione? Il caso? La medicina? Un miracolo? La bravura di Mario Campanacci che mi tenne in sala operatoria dieci ore? La motivazione impressa da Giorgio Chinaglia? Non lo so ancora, non lo sa nessuno.
Ho assimilato una terminologia scientifica, dopo anni di studi, per fare un’indagine sulla cura del sarcoma di Ewing al bacino e annotarne accuratamente. Oggi guarisce il 25% dei malati, ed è ancora una roulette russa.
Che altro dire dopo tanti anni? Sono preso da un sentimento romantico di appartenenza all’infanzia, che per me è stata dolce, e all’adolescenza, dolorosa ma paradossalmente affascinante in seguito al “talento della malattia”. Ho pensato spesso che il mio osservatorio sia quello di un sopravvissuto, di un reduce. Allontanandomi definitivamente dalla stagione della malattia, è cresciuto in me l’amore per il calcio che non c’è più, quello in bianco e nero. Massimo Raffaeli, un critico fondamentale per la mia formazione, lo dice spesso che l’affezione per il calcio non isterico e non televisivo, nasce per qualcosa di cui si è privati. Provo la stesso sentimento, specie ora che Giorgio Chinaglia è morto e che rimane un’icona pre-moderna contro la tecnologia al servizio dello sport. Una specie di divinità, dice il direttore del Tg5 Clemente Mimun, lazialissimo e chinagliano. Sento spesso i figli di Giorgione che vivono a Boston e il capitano di quella Lazio scudettata, Pino Wilson.
Li hanno definiti maneschi e fascisti. Eppure hanno scritto una delle pagine più belle del calcio italiano. La Lazio guidata da Tommaso Maestrelli, l’allenatore buono, vinse il campionato di calcio 1973-’74. Due anni prima militava in serie B. Era appunto la Lazio di Chinaglia e Wilson: l’uno un ragazzone bizzoso, figlio di emigranti, l’altro colto e raffinato. Siccome non sopportavano chi parlasse lombardo, l’allenatore aveva diviso lo spogliatoio in due. Di qua i chinagliani, di là Martini e Re Cecconi, “quelli del nord”. Durante le partitelle infrasettimanali volavano spintoni, schiaffi, calci e i fondi di bottiglia. La domenica, però, quel mucchio selvaggio era un blocco unito, granitico. Quelle narrazioni mi eccitavano, mi tenevano vivo, mi incitavano a non mollare. Se non ci fosse stato, forse, sarei morto. Oggi è un personaggio leggendario, è letteratura non solo sportiva.
Giorgio Chinaglia voleva vedermi nel 2012, ma non poteva rientrare in Italia perché sotto processo per un tentativo maldestro di scalata alla società laziale. L’ultima volta che lo sentii mi disse: “Non sono io ad aver giocato con Pelé. È lui che ha giocato con me”. Ridemmo di gusto.
Alessandro Moscè
  L'articolo Di fronte alla morte ci vuole l’irriverenza di Giorgio Chinaglia, il campione che mi ha salvato la vita proviene da Pangea.
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