#con la corda e col bastone
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Ciao!
Ma tu hai mai partecipato alla battaglia delle arance durante il carnevale? Buona serata caro Alessandro!
Buongiorno Mama!
Assolutamente sì: da buon eporediese, ho partecipato, ed in particolare negli Aranceri della Morte ( https://www.arancerimorte.it/ ).
E’ un’attività fisica potenzialmente dannosa ed insensata, quindi non vedo come ci si possa astenere dal farlo!
Come la stragrande maggioranza delle tradizioni popolane che affondano le loro radici nel passato medievale (i vari pali, più o meno noti, ma non solo), anche la battaglia delle arance condivide aspetti ed emozionalità che solo chi è di queste parti comprende fino in fondo, e tra questi aspetti c'è anche una violenza che spesso stupisce, sgomenta e spaventa: spiegare questi aspetti è pressoché impossibile, però...
#parolerandagie#parolerandagierisponde#carnevale#ivrea#eporedia libera#una volta anticamente#egli è certo che un barone#ci trattava duramente#con la corda e col bastone#tuc un
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Vuotasti la seconda bottiglia e ordinasti la terza. «Peccato, mi sarebbe piaciuto diventare vecchio, togliermi quella curiosità. E poi ho sempre pensato che la vecchiaia sia la stagione più felice di tutte. L'infanzia è una stagione infelice. Non fanno che rimproverarti, nell'infanzia, tiranneggiarti. Quante botte ho preso da bambino! Mia madre aveva sempre la scopa in mano. Dalla parte della scopa, però: a me toccava il legno. Per sfuggirla, una volta, mi calai dalla finestra. Tagliai a strisce un lenzuolo, ne feci una corda, e mi calai. Per quando raggiunsi il marciapiede, la trovai lì che aspettava: con la scopa in mano, dalla parte della scopa. Uhm! Non ho mai avuto fortuna nelle evasioni. Mio padre invece non mi picchiava. Mai. Neppure quando abitavamo in quella casa col cinematografo. D'estate il cinematografo funzionava all'aperto e dal balcone della camera si vedeva tutto. Così invitavo i bambini del quartiere e gli facevo pagare il biglietto. A riduzione, eh? Finì che il direttore del cinematografo se ne accorse e chiese il rimborso a mio padre. E mio padre pagò senza picchiarmi. Era buono, mio padre. Perché era vecchio. I vecchi sono sempre più indulgenti, più buoni. Perché sono vecchi, e hanno tirato le somme. Diventare vecchi è l'unico modo per tirare le somme.» «Alekos, smetti di bere.» «Anche l'adolescenza è una stagione infelice. Magari da ragazzo ti picchiano meno che da bambino perché da ragazzo ti rivolti. In compenso ti fanno altre prepotenze che sono peggiori delle bastonate. Devi diventar questo, ti dicono, devi diventar quest'altro, anche se tu non hai voglia di diventare nulla perché vuoi vivere e basta. E per farti diventare questo, farti diventare quest'altro, ti mandano a scuola che è una tremenda infelicità. Perché a scuola si studia e ci si innamora. Io a quattordici anni mi innamorai. Era una ragazzina della mia classe, bionda, e diceva che assomigliavo a James Dean. Lo sai chi era James Dean? Uno che morì in automobile. Gli assomigliavo davvero. Stessa bocca, stessi occhi, stessi capelli, stessa statura. Però non le rispondevo mai quando diceva che assomigliavo a James Dean. Perché non volevo darle un appuntamento prima di avere i pantaloni lunghi. E i pantaloni lunghi non me li davano mai. Alla fine presi quelli di Giorgio. E la portai in barca e la baciai. Il giorno dopo mi cacciarono da scuola, non ricordo perché. Però ricordo il dolore, in quanto finii in un'altra scuola e non la rividi più. Poi seppi che era morta. In automobile, come James Dean. Quanto si soffre da adolescenti! Io penso che da vecchi si soffra molto meno, anche se si muore. Perché da vecchi la morte è una cosa normale. Mi sbaglio? Non lo saprò mai se mi sbaglio. Per sapere se mi sbaglio dovrei diventare vecchio e io non sarò mai vecchio. Peccato.» «Alekos, smetti di bere.» Vuotasti la terza bottiglia e ordinasti la quarta. «Ma la stagione più infelice di tutte è la gioventù. Perché è nella gioventù che incominci a capire le cose e ti accorgi che gli uomini non valgono nulla. Agli uomini non interessa né la verità, né la libertà, né la giustizia. Sono cose scomode e gli uomini si trovano comodi nella bugia e nella schiavitù e nell'ingiustizia. Ci si rotolano dentro come maiali. Io me ne accorsi appena entrai in politica. Bisogna entrare in politica per capire che gli uomini non valgono nulla, che a loro vanno bene i ciarlatani e gli impostori e i draghi. Uno entra in politica pieno di speranze, meravigliose intenzioni, dicendo a se stesso che la politica è un dovere, è un modo per rendere gli uomini migliori, e poi s’accorge che è tutto il contrario, che nulla al mondo corrompe quanto la politica, nulla al mondo rende peggiori. Un giorno, avevo vent'anni, andai dall'uomo politico che ammiravo di più. Era un gran socialista, e dicevano che era l'unico ad aver le mani pulite. Ci andai per raccontargli le porcherie di certi suoi compagni, credevo che le ignorasse. Invece le conosceva benissimo. Si mise a ridere e mi rispose: giovanotto, non crederai mica di far politica con gli ideali? E poi mi disse che avevo sbagliato indirizzo. Quel giorno piansi, mi ubriacai e piansi. Prima non mi ero mai ubriacato, il vino non mi piaceva. Mi piaceva l'aranciata. Anche ora mi piace di più l'aranciata. Ma imparai a bere il vino, a vent'anni, imparai a ubriacarmi, perché da ubriachi si piange meglio. Si sopporta meglio il fatto che gli uomini non valgono nulla, che più si capiscono più è difficile amarli. Io gli uomini riesco ad amarli soltanto quando sono bambini o quando sono vecchi. Mi piacciono i bambini, mi piacciono i vecchi, mi sarebbe piaciuto fare la politica solo per i bambini e pei vecchi. Perché per loro non lo fa mai nessuno. Ai politici non gliene importa nulla dei bambini e dei vecchi: i bambini e i vecchi non vanno neanche a votare. E siccome sono stato bambino mi sarebbe piaciuto anche essere vecchio. Un bel vecchio coi baffi bianchi e la tosse. Anche quando dovevano fucilarmi avevo quel rimpianto: non diventare vecchio. Perché non è vero che diventare vecchi è una noia. Diventare vecchi è un piacere. Ed è giusto. Tutti dovrebbero diventare vecchi, levarsi quella curiosità. Cameriere un'altra bottiglia…» «Alekos, smetti di bere.» Bevevi con fredda determinazione, quella che conduceva al terzo stadio, e le tue pupille erano molto lucide, le tue labbra molto rosse, la tua voce molto impastata. Ma il cervello restava lucido. «Alekos, smetti ti prego, andiamo a casa.» «No, voglio bere. Bisogna andarcene, guarda, il ristorante è vuoto. Ma io devo raccontarti perché anche la maturità è infelice, perché tutta la vita è infelice…» «Domani, me lo racconterai domani…» «No, ora! Andiamo in un altro posto.» «È tardi, Alekos, molto tardi.» «Non è mai tardi per vivere un poco di più. Anche infelicemente.» Per vivere un poco di più, anche infelicemente, c'era un posto che amavi. Era un piccolo bar sul piazzale Michelangelo, dove andavamo dopo cena quando stavi in esilio a Firenze. Ci andavamo per fermarci sul piazzale che è un'immensa terrazza sospesa sulla città, tra gli alberi e il cielo. Di notte, una visione struggente. Il fiume si snoda in un nastro di luce che è la luce dei lampioni riflessi nell'acqua, ogni lampione un balenio di faville d'oro e d'argento, e sopra il fiume gli arcobaleni dei ponti, al di qua e al di là del fiume i tetti che si stendono in tappeti di tegole rosse, e da quei tappeti si drizzano i campanili, le torri, si gonfiano le cupole illuminate dai fari contro il cielo nero. Sicché arrivando indugiavi tutto contento a ammirare e dicevi che il cielo aveva rovesciato le stelle per terra, la bellezza esiste soltanto se il cielo la rovescia per terra dove si può guardarla senza farci venire il torcicollo. Stavolta non la guardasti affatto. Subito mi trascinasti nel piccolo bar e: «Due bicchieri di ouzo, grandi e doppi. Anzi quattro bicchieri di ouzo, grandi e doppi.» «Bene, signore.» Con ironica ossequiosità il cameriere allineò i quattro bicchieri di ouzo, eccessivamente grandi ed eccessivamente doppi. Ne tracannasti due di colpo mentre dal tavolo accanto qualcuno ridacchiava, e subito una lacrima ti scese giù lungo il naso per affogare nei baffi. «Non piangere, Alekos. perché piangi?» «Perché ho sbagliato tutto. Mi sono fidato degli uomini, ho sbagliato tutto. Ho creduto che agli uomini importasse la verità, la libertà, la giustizia. Ho sbagliato tutto. Ho creduto che capissero. Ho sbagliato tutto. A cosa serve soffrire, battersi, se la gente non capisce, se alla gente non importa? Ho sbagliato tutto.» «Taci, Alekos. Taci!» «Non dovevo uscire dalla mia cella. Appena mi hanno messo fuori della mia cella dovevo tornarci. E ritornarci, e ritornarci ancora. Allora avrebbero capito. Quando ero nella mia cella capivano. Quando sei in prigione capiscono. Dopo non capiscono più, se non muori. Per farmi capire ora dovrei morire.» «Taci, Alekos. Taci!» «Un funerale, ci vorrebbe un bel funerale. Verrebbero dalle campagne, dalle isole, intaserebbero le strade, si arrampicherebbero sui tetti come i corvi. E capirebbero. Per un giorno almeno capirebbero. E si muoverebbero.» «Taci, Alekos. Taci!» «Capiresti anche tu, finalmente. Perché neanche tu, vedi, capisci. Non mi ami e non mi capisci. Per esser capiti a volte bisogna morire. Anche per essere amati a volte bisogna morire.»
Oriana Fallaci, Un uomo
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Sicilia, i passatempi storici della regione
Il Sud Italia, terra dalle affascinanti meraviglie morfologiche e dalle ataviche tradizioni. In Sicilia, in particolare, il sentimento identitario è dei più forti che si possono riscontrare in tutto lo Stivale. Numerosi sono gli usi e i costumi tipici di Catania e Palermo: si spazia dall’abbigliamento alla gastronomia, passando per la musica e i riti religiosi, senza dimenticare l’intrattenimento. Già, perché sin da piccoli i siciliani si divertono con attività ludiche che risultano ancora oggi poco conosciute nel resto d’Italia. In un’epoca in cui i ragazzini ammazzano il tempo navigando sugli smartphone, scoprire di vecchi giochi che vengono praticati ancora in mezzo alle strade ha il sapore di un viaggio nel tempo. I giochi di una volta aiutavano soprattutto nella socializzazione. Un esempio lampante è rappresentato dalla “strummula”, che consisteva nel far ruotare una sorta di trottola artigianale all’interno di uno spazio delimitato da due linee tracciate sull’asfalto col gesso o ricavato da un paio di bastoncini di legno. Chi perdeva si guadagnava solitamente il nomignolo di “appuzzatu”, ma soprattutto rischiava di dover sacrificare la propria strummula, destinata alle “pizziate” che i vincitori effettuavano con i chiodi delle trottole. Molto più complesso “Acchiana ‘u patri cu tutti ì so’ figghi”, il cui nome suggerisce già la sostanza di un’alternativa all’acchiapparella. A confrontarsi erano due squadre, i bambini dovevano saltare alle spalle di un altro appoggiato al muro finché questi non cadeva a terra. Il primo a saltare aveva il compito di esclamare proprio la frase “acchiana ‘u patri cu tutti ì so’ figghi!”, mentre l’ultimo doveva recitare un’apposita filastrocca in dialetto. In Sicilia non ci si è fatta mancare persino una rivisitazione del baseball. “‘A mazza” prevedeva che con un bastone di legno se ne colpisse uno più piccolo con due punte: colpendo una dei queste il bastone si alzava da terra per essere colpito ed essere scagliato il più lontano possibile. Un gioco che richiedeva senz’altro impegno e precisione, non a caso le femminucce erano solite preferire le classiche bambole o, per stare all’aria aperta, la cara vecchia corda. Non servivano parchi o grandi giardini per iniziare a giocare: vicoli e cortili erano un punto di ritrovo sufficiente per tutti. I più grandicelli, invece, si dedicavano soprattutto ai giochi di carte. Il "Ti vitti", ossia "ti ho visto", voleva che i partecipanti piazzassero le carte del proprio mazzo su una pila. A Natale, invece, andava di moda il "Cucù", in cui il banco e gli altri giocatori si passavano le carte per non ritrovarsi alla fine del giro con quella dal valore più basso e facendo quindi attenzione a non rimanere con un asso; chi riceveva il re doveva girare subito la carta esclamando "cucù!" così da bloccare il giocatore precedente, che non avrebbe potuto passare carte in quel turno. Per gli adulti era invece il “Sette e mezzo” il passatempo preferito, da praticare con le tipiche carte regionali siciliane. Ancora oggi la Sicilia è una terra intrisa di folklore e cultura, solo in parte intaccata dalle tecnologie moderne nelle sue abitudini. Ritrovarsi a giocare a carte sul tavolino di un bar in piazza regala sempre un’atmosfera diversa rispetto alle piattaforme di intrattenimento, che magari propongono proprio quegli stessi giochi o attrazioni alternative come le videogame e slot disponibili online, ma senza restituire lo stesso spirito di aggregazione che permea le strade dei quartieri popolari. Anche per questo alcune località del Mezzogiorno vengono considerate come dei veri e propri patrimoni culturali. Read the full article
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Quello che il narcisista patologico non ti dirà mai
1 – Finché gioca con i sentimenti che provi, manovrando i fili delle tue emozioni, sa che sei sotto il suo controllo e che non riuscirai mai a liberarti dalla sua rete. Ogni tuo tentativo e’ prontamente respinto col silenzio, lo scarto e le accuse (tra cui quella di ‘essere impazzita’). Alterna abilmente il bastone e la carota: consapevole che a tal scopo non puo’ permettersi di rilassarsi nemmeno per un attimo, sta molto attento a fare in modo che quella corda non si spezzi mai.
Cio’ che piu’ spaventa la persona narcisista è che tu te ne vada, staccando la spina che tiene in vita il suo ego. Perche’ chissà se la riserva gli basterà per arrivare alla prossima stazione di rifornimento.
2 – Nutrendosi dell’attenzione degli altri, egli è a proprio agio solo quando i riflettori sono puntati su di se’. Ma se questi si spegnessero e la luce fosse orientata altrove?? Il pensiero di essere ignorato risulta insostenibile.
3 – Ora che della sua condotta si conosce sempre più, è probabile che egli venga scoperto e sbugiardato. Questo non gli piacerà e scatenerà le sue agguerrite difese. La buona notizia è che, non godendo di energie illimitate, alla lunga andrà a cercarsi un’altra vittima. Ma attenzione: il più delle volte è la tua carica a durare di meno.
4 – Se l’è sempre cavata e ce la farà anche stavolta. Ma gli anni passano: il vecchio lupo perde il suo smalto e lo specchio potrebbe non rimandare più un’immagine irresistibile. C’e’ una proiezione di se’ fragile e insicura che ha relegato nel sottoscala degli orrori che nessuno deve conoscere ne’ sospettarne l’esistenza.
Dottor Miali
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Sotto il cappuccio nero
di Luca Bufarini (foto dell’autore e di Alberto Marchegiani)
La via è silenziosa. L’illuminazione elettrica è assente. Tra due file di fedeli, oscure figure incappucciate avanzano, illuminate solo dalle lanterne agganciate a lunghi bastoni. Un coro intona una nenia:
“Deh! Voi sentite/Sassi pungenti/ I miei lamenti: Pietà! Pietà!”.
Un rumore metallico, di ferro che sbatte sul legno. Ritmicamente.
La passione e la morte di Cristo sono il punto di svolta dell’anno liturgico cattolico. Cristo muore sulla croce perché sia compiuta la volontà di Dio, il padre, che lo ha fatto nascere allo scopo di resuscitare dai morti. Se il vangelo (o meglio i vangeli) fossero un film, la passione e la morte di Cristo sarebbero il climax prima del finale distensivo, nella gloria eterna, con la resurrezione, l’ascensione al cielo con le trombe angeliche e la luce divina che promana dalla volta celeste.
A Osimo esiste una confraternita che si occupa, dal 1837, anno della sua fondazione, di tenere in vita lo svolgimento degli ancora più antichi riti (probabilmente risalenti al tardo medioevo) del Venerdì santo, giorno appunto in cui si celebra la passione e la morte di Gesù. Si tratta della “Confraternita della pia unione del Cristo morto” (d’ora in poi, solo “la Confraternita”).
Come sappiamo, se c’è una cosa che la Chiesa cattolica è in grado di fare molto bene, è organizzare riti suggestivi, intrisi di simboli, misterici in certe loro fasi, in grado di scatenare nel fedele un sentimento capace di far sentire più vicini a Dio, quasi di fargli percepire la sua voce, bisbigliante, lungo la schiena. La teatralità e la ritualità, d’altronde, sono sempre state legate sin dai tempi antichi, e nel rito che stiamo per andare a vedere c’è, anche solo storicamente, una forte componente teatrale: di fatto, la stessa nascita della rappresentazione della passione di Gesù Cristo, la via crucis, e le 14 stazioni, si può inquadrare nel teatro; un teatro medievale, certo, per un popolo analfabeta che doveva essere istruito alla conoscenza delle sacre scritture. Ancora oggi, la processione del Venerdì santo di Osimo non ha perso la sua componente teatrale, e si svolge nello stesso modo ogni anno grazie all’operato della Confraternita, fondata appunto per preservarne la tradizione, e si può ben affermare che rientra a pieno titolo nel novero dei riti più suggestivi del cattolicesimo in tutto il centro-nord Italia.
Ma andiamo con ordine: il martedì della settimana santa conosciamo, all’interno della cattedrale di Osimo, il Priore della confraternita, il professor Raimondo Lombardi, 83enne, che ricopre tale carica dal 1978. Il “prof.” come lo chiamano gli altri confratelli, mentre sono in corso le operazioni di montaggio del cataletto dove verrà deposto il Cristo morto, si rivela un tipo molto disponibile e alla mano. Ci illustra l’imponente carro funebre su cui Gesù compirà il suo viaggio verso il simbolico sepolcro. Il cataletto prende man mano corpo, mentre alcuni membri della confraternita ne compiono il montaggio. Alto da terra circa tre metri, sarà ornato di tutta una serie di paramenti (risalenti al XVIII secolo) che recano i simboli della passione e le frasi pronunciate da Cristo prima di spirare. Non è proprio come montare una scaffalatura dell’IKEA: il modo in cui vengono assemblate le parti in legno e le decorazioni è un’operazione che si tramanda fin dall’inizio del suo utilizzo, cioè quasi 150 anni fa; lo stesso Priore ci mostra un foglietto scritto di sua mano, con su indicati i lati specifici per la collocazione dei paramenti.
Sorgono alcune difficoltà dovute all’età: l’incastro di una colonna di legno del baldacchino si è gonfiato e non aderisce bene con la base; è necessario limarla. Prima che faccia buio, comunque, il cataletto sarà pronto; adornato con le stoffe settecentesche, il letto funebre e i quattro angeli di cartapesta (anch’essi settecenteschi) agli angoli. La confraternita va veramente fiera di questo imponente oggetto che un tempo veniva trasportato, per le due ore della processione, in spalla, tramite la forza di otto uomini, richiedenti, a quanto ci dicono, un’ausiliaria propulsione “a fiasco de vì” nei momenti di pausa. Oggi invece, la stoffa nera nasconde il telaio e la meccanica di una fiat 1500 a cui, dopo una breve esperienza con motorizzazione a scoppio negli anni ‘60, è stato innestato un motore elettrico, alimentato da tre batterie. E manovrata da un omino nascosto lì sotto.
Il giorno seguente si svolge, sempre nella Cattedrale, una messa solenne in onore dei defunti della Confraternita, ed abbiamo la prima occasione di assistere alla vestizione dei confratelli nell’adiacente battistero. I membri della Confraternita, durante le celebrazioni, vestono il “sacco”, una tunica completamente nera, con cappuccio a punta, cui sono applicati due fori per gli occhi. Una corda bianca stringe il bacino, e ad essa è intrecciato un rosario. Il cappuccio tuttavia verrà calato solamente il Venerdì, dopo la morte di Cristo sulla croce. Non sono in molti a partecipare a questa messa. Circa una trentina su 282 membri. Il grosso parteciperà più che altro alla processione del venerdì. Al termine della messa, la confraternita procede in processione verso la cappella del crocifisso sulle note del Vexilla Regis, cantata dal coro della Confraternita.
Alcuni confratelli assistono alla messa del mercoledì santo per i defunti della confraternita
Infine, arriva il centrale momento del Venerdì santo, il motivo stesso dell’esistenza della Confraternita della Pia unione del Cristo morto. Quando arriviamo in Cattedrale è già in corso, nel primo pomeriggio, la “messa delle tre ore di agonia”, nella quale viene rivissuta la passione di Cristo sulla croce. La chiesa è gremita di fedeli. Sull’altare, sono disposte sette alte candele allineate, che corrispondono alle sette frasi pronunciate da Gesù durante la crocifissione e la successiva agonia. Sotto il crocifisso sono state trasportate le statue settecentesche di cartapesta della Madonna, di Maria Maddalena e di San Giovanni apostolo. Il momento è solenne: il coro, a cui si aggiungono alcuni elementi della prestigiosa accademia lirica di Osimo, esegue i canti scritti appositamente dal compositore osimano Domenico Quercetti (1845-1928). Ogni candela viene spenta da un membro della Confraternita al termine dell’omelia relativa alla parola del Signore. Poi, terminata l’ultima omelia, sulle parole “Padre, nelle tue mani raccomando il mio spirito”, l’ultima candela viene spenta, e con essa si spengono tutte le luci all’interno della cattedrale. Sembra davvero che si sia fatto buio su tutta la terra. Cala un grave silenzio, Cristo è spirato. Le campane suonano a morto lenti rintocchi. Il tempo pare essersi fermato. Il solo rumore, oltre alle campane, è quello delle timide macchine fotografiche che scattano fotografie indiscrete.
Il momento in cui Cristo muore: le luci all’interno della cattedrale vengono spente e cala il silenzio, mentre le campane suonano a morto.
La messa termina, ma non il rito. La Madonna e le altre statue vengono portate nella navata laterale: saranno più tardi portate in processione.
Tre confratelli pongono la croce tra le mani della Maddalena
È il momento in cui la Confraternita diventa realmente protagonista: Cristo viene deposto dalla croce e avvolto nel sudario, mentre il cataletto è trasferito dalla navata laterale a quella centrale. L’organo suona. I neri incappucciati discendono le scale dell’altare col Cristo morto tra le braccia, così che i fedeli, già in fila, possano baciarne i piedi.
Terminata l’adorazione dei fedeli nel sudario, il crocifisso deposto viene infine trasportato all’interno del cataletto e coperto da un velo bianco traforato. I credenti escono finalmente dalla cattedrale illuminata da fioche luci. Nel frattempo la Confraternita compie gli ultimi preparativi per la processione.
Sono le 18 e 30 quando ci si sposta nella chiesa sconsacrata di San Filippo, di fronte ai giardini. Un edificio a pianta quadrata, in stile barocco con un tocco decadente. È qui che infine i confratelli si raduneranno tutti per raccogliere le offerte interne, per vestirsi, e per ricevere gli oggetti da portare in processione. Piano piano, col passare dei minuti, sempre più persone arrivano, e l’ambiente si riempie. Una macchia nera si allarga all’interno dell’ormai non più sacro edificio.
Ci si arrovella su chi c’è e chi manca, perché a ciascuno viene assegnato un oggetto. Tramite un microfono si chiede se c’è il tale confratello. La caciara comincia ad essere impressionante: da un lato il coro prova parti delle Orme sanguigne; da ogni parte si chiacchiera, ci si rivede spesso dopo un anno. I più anziani stanno seduti, in attesa. Seduti verso una parete, sono radunati i bambini, consegnati ad alcuni membri più adulti che li guideranno durante la processione. Poi vengono assegnati gli oggetti. Prima il bastone della Confraternita, poi i lampioni e le battistangole. Queste ultime sono uno strumento pressoché sconosciuto ai nostri giorni; eppure un tempo, prima che si diffondessero le campane (VIII-IX secolo), si faceva uso di strumenti come questi per richiamare i fedeli alla celebrazione religiosa. E fino all’altro ieri venivano usate ancora durante la settimana santa, perché, da tradizione, le campane non dovrebbero suonare fino a Pasqua. Il loro suono costituisce una delle peculiarità della processione di Osimo.
I lampioni adagiati sull’altare della chiesa di S. Filippo. Verranno poi consegnati ai confratelli, a seconda del ruolo che essi svolgono in processione
Due tipi di battistangole
Fin qui abbiamo dato rilevanza ai riti, agli abiti, alle tradizioni. Ma si rischia così forse di dimenticare che sotto il cappuccio nero vi sono donne e uomini. Ma non solo: anche molti bambini e adolescenti hanno deciso di far parte di questa associazione religiosa. Si è già accennato anche al ragguardevole numero delle persone che vi aderiscono: ben 282. Ciò potrebbe far pensare che anche se gli iscritti sono tanti, non è detto poi che tutti partecipino alla processione del Venerdì santo; eppure ci dicono da più parti che c’è gente, originaria di Osimo ma trasferita da un pezzo, che ritorna da fuori regione per prendere parte a questo antico rito.
Il Priore della Confraternita, il prof. Lombardi ci spiega che nel 1978 quando ottenne la carica si contavano 65 di confratelli. Come è stato possibile questo exploit? E soprattutto come si spiega un attaccamento simile ad una associazione religiosa, quando la tendenza in tutto l’occidente è la fuga (o, per essere meno cattivi, la disattenzione) per il rito ecclesiastico?
Chiediamo dunque al prof. Lombardi come si entra a far parte della confraternita, e se vi si entra più che altro per una questione di tradizione familiare, dato che è una cosa che storicamente viene tramandata da genitore a figlio, oppure se vi siano, e in che proporzione vi sono, gli ingressi spontanei.
“Una parte è la famiglia, ma è circa il 35%. Molto spesso vi si entra spontaneamente, oppure tramite amicizia con qualcuno che già ne fa parte, tramite invito con lettera, ecc. Poi ci sono i bambini soprattutto che sono attratti.” Allora chiediamo al professore se vi sia anche un fattore meramente estetico che porti uno a unirsi alla Confraternita: “Più che altro, direi che è per la tradizione. Credo che non ci sia osimano che non abbia pensato almeno una volta nella vita di vestirsi da saccone. È una cosa molto sentita in città, ed è visto come lo svolgimento di un servizio importante.”. Per quanto riguarda il lato tecnico, chiunque può far parte della Confraternita: basta compilare un modulo.
Ciò che più ci interessa sapere però è il lato umano; i motivi per cui si entra a far parte di questa associazione. Ancora Lombardi: “è una componente di fede, storia e tradizione; la fede viene prima, perché se manca quella… e poi ci sono storia e tradizione: c’è l’attaccamento della popolazione a questa processione. Anche quando piove, si esce lo stesso e si fa un percorso più breve: i più scaramantici dicono che se non esce la processione l’annata andrà male. E difatti, solamente due volte, da che vi è memoria, la processione non si è svolta: nel 1934, quando vi fu un acquazzone impressionante, e nel 1944, e io me lo ricordo, quando i tedeschi non la consentirono”.
Sempre a proposito dei motivi ispiratori alla partecipazione, un altro confratello più giovane del Priore, ci dice che l’adesione alla Confraternita è una cosa che una volta che inizi a fare non la lasci mai: “io ne faccio parte da quando avevo cinque anni, e ne sono passati più di trenta. L’ho fatto coi legamenti strappati o mezzo zoppo, ma cerco di non mancare mai”.
Questa risposta in particolare colpisce, perché, se la si guarda bene, non dà una vera motivazione per cui si fa parte della Confraternita. Dice solo che una volta che si decide di farlo, lo si fa e basta. Credo che seppure semplice, una affermazione simile nasconda la consapevolezza che risiede in ciascuno dei membri della Confraternita della Pia unione del Cristo morto: la consapevolezza di svolgere un servizio fondamentale per la comunità che solo loro possono svolgere. Una consapevolezza riassumibile con “se non noi, chi?”.
Il fatto di svolgere tale servizio non trova le proprie ragioni soltanto nella fede, seppure sicuramente vi si trovino le radici più profonde; trova quelle ragioni anche (e, forse, soprattutto) nella tradizione, nell’affezione reciproca che c’è tra la cittadinanza, che vuole la sua affascinante processione plurisecolare, e la Confraternita, che vuole che la cittadinanza partecipi. Ritorniamo al già citato dualismo ritualità/teatralità: il pubblico vuole il suo spettacolo; chi fa lo spettacolo vuole che ci sia il suo pubblico.
Chiediamo al prof. Lombardi come vede la Confraternita tra 50 anni. Un po’ pensieroso risponde: “Questo è un bel problema. La Confraternita negli ultimi 40 anni si è molto ingrandita. Se negli anni ‘50 e ‘60 la quasi totalità dei confratelli era composta da uomini, molti provenienti dalla campagna e inviata dai proprietari terrieri, noi abbiamo fatto due cose fondamentali: riaperto alle donne negli anni ’80, quasi completamente scomparse nel dopoguerra, ma per le quali era previsto che potessero partecipare fin dal primo statuto del 1837 (oggi le donne sono quasi il 40% dei membri della Confraternita), e abbiamo compiuto un’operazione capillare nelle scuole. E oggi abbiamo dal ragazzino della scuola elementare e media, fino a quello delle superiori.”
Allora domandiamo direttamente al Priore se ci sarà ancora la Confraternita tra 50 anni: “Sì! Io credo di sì. Spero e mi auguro di sì. I ragazzetti ci sono, quindi…” Un altro lì vicino aggiunge: “Sì! E ci sarà ancora il professor Lombardi tra 50 anni”.
È ormai l’ora. Il sole sta tramontando e i confratelli si spostano in massa dalla chiesa di San Filippo alla vicina cattedrale, portando già in mano i lampioni ancora spenti, i bastoni, le battistangole. La gente è già schierata su due file ai lati della via, altri attendono dove capita, molti con le piccole candele ornate con un paralume colorato. Nel sagrato, mentre vengono accese le candele dei neri lampioni ottocenteschi, l’illuminazione elettrica si spegne, e così avviene in tutto il centro storico, ora illuminato solo da flebili fiammelle disposte lungo i muri degli edifici, e dalle candele in mano ai fedeli. Tutto è pronto: il cataletto, le statue di cartapesta, ben tre croci diverse vengono portate, come tradizione vuole, sempre dai membri di una stessa famiglia.
Finalmente la processione del Cristo morto parte. Uomin, donne e bambini incappucciati discendono verso la piazza al rumore delle battistangole. Più sotto la banda attende di unirsi alla processione, accompagnata da alcuni confratelli che illumineranno i loro spartiti con le lanterne. Passano i lampioni neri. Poi la grossa croce con la scritta “O crux Ave spes unica”; poi il coro, che canterà le Orme sanguigne. L’altra croce con la scritta “In hoc signo vinces”. La statua della Maddalena, i misteri della passione portati dai chierichetti su piatti bianchi. Sfila il clero, seguito dalla Reliquia della Sacra spina. Quasi alla fine, ecco il Cristo morto nello straordinario cataletto illuminato da due file di lampade, seguito dalle autorità civili e militari, e, ovviamente, dalla statua della Madonna addolorata e da quella di San Giovanni. Alla fine il popolo dei fedeli.
È un treno lunghissimo di persone, statue, luci e oggetti sacri. Quando il capo della processione arriva nella piazza del Comune, la coda deve ancora uscire dalla cattedrale.
La prima parte della processione si caratterizza per essere, per così dire, musicata: si alternano le battistangole col coro che canta i lamenti della via crucis. Poco più indietro la banda suona due marce funebri diverse: quella di Chopin e l’altra di Quercetti. Dopodiché tutto tace e si sfila in silenzio e nella semioscurità. Quando passano gli oggetti sacri si propaga come una ola di segni della croce tra i fedeli astanti.
Questo silenzio assume tratti quasi inquietanti nelle vie più strette del percorso, dove gli unici fedeli sono quelli affacciati alle finestre degli alti palazzi. Ha del sublime l’immagine di queste figure completamente nere, spiriti oscuri che reggono lanterne, anch’esse nere, le quali creano giochi di ombre totalmente instabili.
Il giro dura quasi due ore. Poi moltissimi si riversano nella cattedrale, per ascoltare l’omelia del cardinale. I lampioni della Confraternita svettano nel corridoio centrale tra le due panche. Il cataletto ha condotto Cristo nel suo immaginario sepolcro.
Il cataletto, si accinge a fare il suo rientro nella cattedrale
Il rito è completo, ci si avvia verso casa. Chi a piedi, chi in auto. Le vie si svuotano mentre ci si fa gli auguri di Buona Pasqua.
Anche quest’anno, così come è stato per quasi due secoli, la Confraternita della Pia unione del Cristo morto ha svolto il suo ruolo nella celebrazione del Venerdì santo. “Tutto è compiuto”. Almeno fino al prossimo anno.
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Capitolo 34
Kyra quasi rimpiangeva il suo piccolo villaggio.
Mentre camminavano per quelle strade polverose, di fianco ad enormi macerie di edifici vecchi di chissà quanti secoli, non poteva fare a meno di confrontare la città della polvere con la sua vecchia casa.
«Ehi!» Li chiamò qualcuno da un vicolo, ma seguirono le istruzioni di Senua, proseguendo senza voltarsi verso l'ennesimo edificio in rovina.
L'aria stantia portava un puzzo nauseabondo, e i rigagnoli ai lati delle stradine sterrate non miglioravano la situazione.
«È normale che non si respiri?» Chiese, leggermente preoccupata. Sentiva la testa pesante e le membra affaticate.
«Qui sotto si, siamo nel culo della montagna.» Spiegò Senua con un'alzata di spalle. «È normale all'inizio sentirsi più deboli, ma ci farete in fretta l'abitudine. Fate piccoli respiri e regolari, aiuta.»
«Preferirei non respirare affatto, dato il fetore.» Commentò Ichabod, storcendo il naso e stando ben attento a dove metteva i piedi. Si era lamentato dal primo istante che erano scesi sottoterra, e nei bassifondi il suo umore e i suoi commenti erano arrivati al limite della sopportazione.
Kyra gli lanciò un'occhiataccia, sbuffando e superandolo per affiancarsi alla barbara. «Dove dovrebbe essere questo ingresso secondario?»
«Poco più avanti. Certo, avremmo potuto usare quello principale grazie a questo» sventolò in aria le ossa di un piccolo dito «ma anche a sapere la parola d'ordine, ho come l'impressione che il nostro variegato gruppo avrebbe attirato qualche sospetto.»
«Avremmo potuto fare un tentativo per convincerli a lasciarci passare...» Suggerì Kilik, che non sembrava particolarmente colpito dall'ambiente attorno a loro. Kyra si ritrovò a chiedersi per l'ennesima volta che razza di avventure avesse vissuto l'altro, per trovare sempre una nota ironica a qualsiasi cosa gli capitasse.
«Sai, non credo le tue abilità di persuasione possano tornarci utili con gli uomini di Jarvia...» Commentò Senua.
«Oh, dici? Eppure sono famoso per essere riuscito a convincere i tipi più ostici...»
Miria accennò una risatina divertita, ma Kyra sentì che era nervosa, quasi quanto lei stessa.
«Tutto bene?» Le chiese la donna con un sussurro.
Annuì. «È solo che non vedo l'ora di lasciare le montagne.»
«Stasera vorrei provare gli olii profumati che ho chiesto a Lisandra nella la vasca da bagno...»
Voltò lo sguardo dalla parte opposta, grattandosi il moncone di orecchio, a disagio. «Non so se sia il caso di sprecare tutta questa acqua, no?» Si sentiva come se le sfuggisse qualcosa, tra tutte le attenzioni che Miria le riservava.
«Oh, per che cosa dovresti usare quegli olii?» Si inserì Kilik, ammiccante.
Kyra si sentì le guance in fiamme, sotto lo sguardo indagatore dell'altro. «Per la pelle, no?»
«Kilik, se vuoi li prestiamo anche a te.» Rispose Miria. «Ho un balsamo che ti farà sembrare la pelle un petalo di rosa.»
«Sembra meraviglioso...»
«Vi sembra il momento di discutere su roba del genere?!» Li zittì Ichabod con un sibilo.
«Scusa se ci teniamo alla cura del corpo...»
«Credo farebbero bene anche a te.»
Kyra sospirò. Per una volta, era d'accordo col mago. Non le sembrava affatto il caso di cincischiare su quale fiore fosse migliore per i capelli, soprattutto quando l'aria era carica dell'esatto opposto.
Si scostò da Miria, la mano sempre tenuta sull'arco, gli occhi puntati su Senua.
Dopo un altro paio di svolte, dovettero calarsi in uno tunnel, pieno di muffe, insetti e chissà cos’altro.
«Sei sicura che sia di qua?» Chiese Ichabod, preoccupato, sporgendosi per guardare di sotto..
«Si… tranquillo…»
Prima che il mago elaborasse una risposta, Senua si sporse a sua volta, aggrappandosi ad una scala a pioli ormai quasi totalmente arrugginita e calandosi senza esitazione.
«Non lo farò mai più!» Annunciò disgustato il mago, una volta uscito anche lui dal tunnel. Era ricoperto di polvere, muschio e forse merda di ratto, sul volto un'aria che presagiva vendetta.
«Silenzio.» Ordinò Senua, indicando un muro di solida roccia a pochi passi da loro. Si sedette a terra, spostando delle pietre con le mani, finché non sembrò trovare quello che cercava.
«Ah!» Esclamò trionfante. «Non hanno chiuso il passaggio, a quanto pare.» Sollevò quello che sembrava un gancio di metallo, che poi inserì in una feritoia nel muro. Spinse, ma non ottenne più di qualche cigolio. «Datemi una mano, dannazione.»
Si affrettarono a raggiungerla. Con l'aiuto di tutti, riuscirono a far scorrere la parete all'interno della roccia, rivelando un passaggio segreto.
«Ingegnoso.» Commentò Kilik. «Dimmi che porta ad un tesoro, e hai fatto la mia giornata.»
«Fidati, avremo tempo di svaligiare l'intero covo appena finito con Jarvia.» Rispose Senua, che si stava già infilando all'interno.
L'aria era ancora più rarefatta, ma almeno non puzzava più così tanto.
La donna procedeva in testa al gruppo, attenta ad ogni minimo dettaglio in cerca di trappole o qualsiasi altra cosa che potesse informare il Karta del loro arrivo.
Il tunnel si diramava in molteplici cunicoli, alcuni troppo stretti per chiunque. Senua sembrava orientarsi senza problemi, e Kyra si chiese se fosse quello il senso della Pietra di cui i barbari delle montagne si vantavano tanto. L'abilità di orientarsi ovunque sottoterra, nonostante l'assenza di punti di riferimento visibili.
Improvvisamente, la vide sollevare il pugno, ordinando loro di fermarsi.
«Miria, dammi una mano.»
L'arciera si avvicinò prontamente, attenta a dove metteva i piedi. Armeggiarono per qualche secondo con qualcosa nascosto tra le crepe nel terreno.
Un meccanismo scattò con un tonfo sordo, e una leva spuntò fuori dalla parete. Proseguirono.
Evitarono altre trappole, alcune semplici fili tesi che Senua riconobbe all'istante, altre più complesse come quelle a pressione, che richiesero l'aiuto di Miria per essere rese innocue.
All'ennesima svolta, Miria estrasse l'arco, voltandosi verso Kyra, l'indice portato alle labbra.
La ragazza annuì, la propria arma già pronta. Poco avanti a loro, appoggiato ad una cassa, stava un uomo in armatura leggera, poco più che qualche pezzo di cuoio a coprire i punti vitali.
Due frecce sibilarono nel buio, trapassandoli senza difficoltà.
L’uomo crollò a terra con un gemito, soffocando nel suo stesso sangue.
Più avanti, altri due fecero la stessa fine.
In breve, si ritrovarono di fronte ad una porta di pietra. Senua si avvicinò ad osservare la serratura da vicino, scuotendo la testa. «Mi ci vorrà un po'.»
Si mise ad armeggiare con due grimaldelli, l'orecchio appoggiato alla superficie, mentre il resto del gruppo si guardava attorno, le mani sulle armi, nervosi.
«State pronti.» Sussurrò la guerriera, prima di aprire la porta.
Un soffio di gelo li colse impreparati, mentre dal pavimento si propagava uno spesso strato di ghiaccio che andò a bloccarli sul posto.
«Ichabod!»
«Pensavo sapessi disattivare le trappole!»
Il mago roteò brevemente il suo bastone, e una pioggia di fiammelle si propagò tutto intorno a lui e sul pavimento, andando a sciogliere il ghiaccio.
«Credo che le rune siano al di fuori delle sue possibilità...»
Una donna incappucciata comparve da dietro una parete, affiancata da due uomini del Kehjistan e tre guerrieri delle montagne.
«E tu chi cazzo...» Cominciò Senua, ma venne interrotta da un'altra tempesta di neve, che le congelò le parole in gola.
“Odio la magia.” Pensò Kyra mentre si gettava d'istinto dietro una pila di casse, proteggendosi dal vento. Rabbrividendo, si sporse per un attimo e mirò al ginocchio di uno dei .
Il grugnito di dolore le confermò di aver colpito il bersaglio. Una scarica di scintille schioccò contro l'altro, facendolo rimbalzare all'indietro e cozzare contro il muro di pietra.
Incoccò di nuovo, mirando questa volta all'altezza del cuore.
La propria freccia deviò sulla spalla, ma quella di Miria centrò il bersaglio. Il mercenario del Kehjistan cadde a terra senza più rialzarsi.
Con la coda dell'occhio, individuò un movimento alla sua destra. Allarmata, si buttò di lato, rischiando di scivolare sul ghiaccio. Uno dei nemici si era fatto strada tra le casse, approfittando della sua distrazione. Brandiva due accette, mulinandole con maestria ad un soffio da lei.
Rotolò di nuovo, evitando miracolosamente le lame, riparandosi dietro una cassa, cercando di incoccare l'arco. Lasciò andare la corda, colpendolo di striscio al fianco. Parò il colpo successivo con l'arco, grata che fosse così resistente. Il nemico, nonostante il fisico minuto, era più forte di lei. Schivò alla propria sinistra, facendo scivolare l'arco con sé, arretrando finché non sentì la roccia dietro di sé. Approfittò della nuova serie di attacchi per spostarsi di scatto e afferrare una delle frecce nella faretra, sentendo una delle lame raschiare contro la sua armatura e sbattere contro il muro.
Strinse l'asta di legno, per poi conficcare la punta con forza nel collo dell'assalitore. Quello urlò di dolore mentre lei faceva leva sul muro per avere più forza. Lo spinse via, gettandolo a terra e lasciandolo in una pozza di sangue, mentre incoccava un'altra freccia.
Miria aveva abbandonato l'arco per i due pugnali che portava alla cintura. Mentre evitava con agilità gli affondi del suo assalitore di fronte a lei, sembrava danzasse.
Dietro di loro, la maga aveva approfittato del fatto che Ichabod fosse stato distratto dal secondo barbaro per roteare nuovamente il proprio bastone sopra la testa, l'aria attorno a lei che si riempiva di cristalli di ghiaccio.
“Non credo proprio!”
La freccia la colpì tra i seni, trapassando la veste leggera e interrompendo a metà l'incantesimo. La maga abbassò lo sguardo sull'impennaggio che le spuntava dal petto, prima di cadere all'indietro con un tonfo.
Una scarica di elettricità e un forte odore di bruciato annunciarono che Ichabod si era liberato del suo nemico.
«E così se ne va anche il nostro effetto sorpresa...» Si lamentò Senua, ripulendo i pugnali dal sangue di un tizio a terra. Tornò di corsa alla porta, richiudendola di scatto. «Ehi, Ichabod, credi di poter fare qualcosa per questa?»
Ichabod annuì, puntandovi contro il bastone magico e aggrottando le sopracciglia. La serratura si fuse completamente, mentre il metallo fuso andava a spNathani fino al muro, sigillando l'ingresso.
«Dovrebbe tenere.» Si dichiarò soddisfatto il mago.
Kyra si appoggiò ad una cassa, cercando di riprendere fiato. Si passò una mano sulla coscia, scoprendola viscida di sangue. «Merda.»
«Tutto bene?» Si preoccupò subito Miria.
La ragazza scrollò le spalle. «È solo un graffio. Mi spiace per i pantaloni, dovrò cucirli, e la macchia...»
L'altra donna ridacchiò, estraendo una benda dalla piccola borsa del pronto soccorso che teneva attaccata alla cintura. «Penso sia il minimo dei problemi. E se lo dico io...»
Legatasi stretta la fasciatura, si rialzò in piedi. «D'accordo, andiamo.»
Senua scrutava il corridoio, sospettosamente vuoto.
«Non dovrebbero esserci già addosso?» Le domandò Kilik, che non si era nemmeno preso la briga di pulire le spade corte dal sangue.
«Non è da Jarvia. Sa esattamente che la stiamo cercando, quindi si limita a stare ferma dov'è. Stiamo andando dritti dritti verso la sua trappola, e non c'è altro che possiamo fare.»
«Beh, allora che aspettiamo?» La porta non era nemmeno chiusa a chiave.
“Razza di stronza piena di sé.” Pensò Senua, sfondandola con un calcio. Al diavolo la sorpresa, se l'erano giocata da un pezzo ormai.
Si sorprese che non cercassero di ucciderla sul posto. Invece, entrò incolume nella sala di quello che era stato un tempo il covo di Beraht. Stupidamente, lo sguardo analizzò brevemente il mobilio circostante.
«Non hai nemmeno ristrutturato?»
Venne accolta con un applauso forzato.
Jarvia, seduta sullo scranno di pietra appartenuto al suo predecessore, la fissava come un ragno, gli occhi puntati sulla preda intrappolata nella ragnatela.
«Tahir aveva ragione, a quanto pare.»
Quelle parole la colpirono come un pugno in piena faccia. Aprì la bocca per ribattere, ma il cervello si rifiutava di formulare una risposta completa.
«Dovresti darmi più fiducia, capo. L'avevo detto che nessun altro sapeva del nascondiglio nel muro.»
Chiuse gli occhi per un secondo, lo stomaco attorcigliato al suono di quella voce familiare. «Tahir .»
«Ehi, salroka.»
Non era cambiato di una virgola. La stessa barba sfatta, i capelli raccolti in spesse trecce attaccate alla testa, l'aria di chi aveva appena finito di bere o azzuffarsi, o forse entrambe le cose.
Non era nemmeno arrabbiata. Sbuffò forte, cercando di trovare le parole giuste.
«Mi aspettavo qualcosa di meglio, dati i vostri trascorsi, ma evidentemente l'aria del Nord ti ha reso più stupida, Senua.» Commentò Jarvia sghignazzando. «Così stupida che sei tornata qui sotto, e per di più hai osato sfidarmi qui, in casa mia. Credevi davvero di potermi soffiare il posto?»
Senua quasi scoppiò a ridere. «Soffiarti il posto?!»
«Ma non importa, ora che sei qui potrò ringraziarti come si deve per avermi tolto di mezzo Beraht.» Proseguì Jarvia, imperterrita. «E per avermi dato la possibilità di conoscere meglio Tahir , ovviamente... non è bravo soltanto con quei coltelli, ma tu lo sai bene, vero?»
Le prudevano le mani. Lanciò un'occhiata al resto della sala. Dieci, forse dodici nemici. E quello che doveva essere il suo migliore amico, ovviamente. Decise di tenerli impegnati, mentre con una mano dietro la schiena tentava di fare segno a Ichabod e agli altri. «Quindi sei stato tu a prenderti i miei trenta pezzi d'argento.»
Tahir si strinse nelle spalle. «Tu non te ne facevi niente.»
«Spero almeno siano stati ben spesi.»
«Oh, non sarebbero stati nemmeno sufficienti a pagarsi una seconda possibilità con me. D'altra parte, si è messo subito al lavoro... o pensavi che gli scavatori se li fosse procurati da solo?»
«Sei andato da lei a chiedere aiuto?!» Esclamò Senua, sorpresa e disgustata allo stesso tempo.
«Grazie al tuo amico avevo una montagna di soldi, da chi potevo andare?!» Si difese l'altro. «Ho fatto l'unica cosa che potevo. E ha funzionato, ma tu sei stata così stupida da tornartene qua sotto.»
«Oh, certo, e immagino che tra le uniche cose che potevi fare c'era anche l'abbassarti i pantaloni.» Commentò acida. Una leggera scarica elettrostatica sulla punta delle dita la avvisò che Ichabod aspettava solo un suo segnale. Lanciò un silenzioso appello alla Pietra sperando avesse capito.
Tahir si ritrasse sulla difensiva. «Tu te ne sei scappata, ma io qui ci devo vivere. Forse te ne sei dimenticata, ma non ci sono molte altre opzioni.»
«Ma fammi il favore!» Li interruppe nuovamente Jarvia. «Come se non eri entusiasta di seguire ogni mio ordine, solo per il fatto di poter essere il mio Secondo!» Incrociò lo sguardo tagliente di Senua, aprendosi in un ghigno ammiccante. «Ogni. Mio. Ordine. Taglia qualche mano, rompi qualche cranio, mettiti in ginocchio e..»
Non sopportando un'altra parola, Senua diede il segnale.
Un'esplosione di fiamme inondò la loro destra, arrostendo sul colpo almeno quattro nemici, che furono troppo lenti a spostarsi.
Jarvia scattò dietro allo scranno, facendo cenno ai suoi di attaccare.
Una mezza dozzina di frecce si piantarono dove un attimo prima c'era Senua, ma lei era già scattata in avanti, rifugiandosi dietro una colonna di pietra, i pugnali ben saldi tra le mani, un solo obbiettivo in mente.
Meccanicamente, sgozzò lo scagnozzo più vicino, buttandosi da un lato per evitare una scarica elettrica che spedì un altro degli uomini di Jarvia dall'altra parte della sala. Approfittando del momento, corse verso l'altra donna.
Due uomini le si pararono davanti, ma a stento ci fece caso.
Affondare, lacerare, schivare, colpire di nuovo.
Non si fermò neanche per assicurarsi che fossero morti.
«Quella bella armatura sarà mia, una volta che avrò finito con te.» Ringhiò Jarvia, quando incrociarono le lame. Le sue due accette erano di buona qualità, ma Senua sapeva che poche cose potevano rivaleggiare con i suoi pugnali.
Si scambiarono una serie di colpi furiosi, ignare di tutto ciò che le circondava, consce solo della sete di sangue. Riuscì a ferire la sua avversaria di striscio, tagliando con facilità il cuoio che le proteggeva le braccia, poco sotto lo spallaccio. Stava per affondare la lama sotto l'ascella, quando venne colpita alle spalle, perdendo l'equilibrio. Jarvia ne approfittò all'istante, caricando un colpo dritto al petto.
Non fosse stato per il metallo, che attutì l'impatto impedendo alla lama di entrarle nella carne, sarebbe stata la fine.
Invece, il pettorale di acciaio prese gran parte del danno, incrinandosi all'interno e mozzandole il fiato. Si ritrovò a terra, incapace di respirare.
Nel panico, strattonò le cinghie che la stringevano in vita, la vista che si annebbiava. Con un ultimo sforzo, si liberò dall'armatura ormai inutile, tagliando le ultime due strisce di cuoio con il pugnale. Si girò sul fianco, rimettendosi in piedi a fatica. Jarvia si stava rialzando faticosamente, un cratere fumante a pochi metri da lei.
Ringraziò mentalmente Ichabod, prima di rigettarsi nella mischia nella direzione della nemica.
La raggiunse di corsa, caricando un colpo che andò a conficcarsi nella spalla, mentre Jarvia scattava di lato, evitando una ferita fatale, mirando a sua volta alla testa con l'accetta tenuta nel braccio sano, costringendo Senua a parare con entrambe le lame. L'altra accetta, seppur con meno forza, si schiantò ad un centimetro dalla sua testa, mandando in frantumi una cassa di legno che esplose in mille pezzi.
Senza darle tregua, la incalzò nuovamente, infilandosi tra le giunte dell'armatura e ferendola al fianco. Con un ghigno di vittoria, osservò il braccio ferito di Jarvia avere uno spasmo e far cadere una delle due accette a terra.
«Schifosa bastarda.» Ringhiò l’Akyshar, attaccandola di nuovo, il veleno che Senua aveva applicato sui suoi pugnali che cominciava a fare effetto.
«Come se non hai fatto lo stesso...» Rispose con una smorfia, spedendola a terra con un calcio e facendole perdere anche l'altra arma. Si gettò su di lei, trapassandole una gamba e inchiodando uno dei pugnali fino all'elsa, beandosi delle urla di dolore dell'altra. Stava per affondare il colpo di grazia, quando qualcuno la caricò di peso, buttandola a terra.
Finì con la schiena contro i resti taglienti di qualcosa. Sentì i cocci penetrarle nella schiena e digrignò i denti dal dolore.
«Non posso lasciartelo fare, salroka.»
«Vaffanculo, Tahir !»
La teneva immobilizzata a terra, le braccia che le bloccavano i polsi sopra la testa, impedendole i movimenti. Era sempre stato più forte di lei. Cercò di divincolarsi, inutilmente.
«Smettila di lottare, salroka.»
Incrociò il suo sguardo e non riuscì a leggervi assolutamente niente. In preda alla furia, raccolse una gamba e gli mollò una ginocchiata sulle palle. L'altro crollò a terra con un grugnito.
«Non!»
Si tirò in piedi di scatto, afferrando il pugnale rimastole.
«Osare!»
Era sotto di lei, inerme.
«Chiamarmi!»
Tahir chiuse gli occhi, voltandosi leggermente di lato, offrendole la gola.
«Salroka!»
Sentiva le guance in fiamme, le lacrime che le pungevano gli occhi. Il coltello piantato a pochi centimetri dalla sua faccia, incastrato tra le pietre del pavimento, vibrava per l'impatto, ancora stretto in pugno.
«Senua…»
Chiuse la mano libera a pugno, caricando con tutta la forza che aveva rimasta.
Sentì il “crack” delle ossa rompersi e il grido di dolore. Si rialzò, furente, squadrandolo dall'alto in basso. Era patetico, l'aveva tradita e si era portato a letto una delle persone peggiori di tutta la città.
Ma lì sotto, sapeva bene, ognuno se la cavava come poteva.
Lo scontro era concluso e, a parte le urla di dolore di Jarvia, che sbraitava come un maiale al macello contro di lei e i suoi compagni, non si sentiva un granello di sabbia.
Tese una mano verso Tahir a terra, che aveva smesso di dimenarsi e ora si teneva il naso sanguinante, imprecando.
«Ora siamo pari.»
Tahir la afferrò con la mano libera, rimettendosi in piedi barcollante. La guardò confuso, la faccia impiastricciata di sangue. «Davvero?»
Senua sogghignò. «Questo era per essertela martellata.»
«E per averti quasi ucciso?»
Scoppiò a ridere. «Per piacere. Pensi davvero che questa ridicola imboscata sarebbe riuscita a fermarci? Dico, l'hai visto con che razza di gente vado in giro?»
«Avrei dovuto immaginarlo...»
Si avvicinarono a Jarvia, che era tenuta sotto controllo da Kyra e Kilik.
«Tahir , brutto schifoso traditore...!» Urlò la donna a terra, cercando di ribellarsi. Come unico risultato, ottenne che lo squarcio sulla coscia si aprì ulteriormente, troncandole il resto degli insulti in un urlo di dolore.
Senua si inginocchiò accanto a lei. «Sai, Jarvia, hai fatto proprio un bel lavoro.» Era sincera. Mai il Karta era stato così potente, almeno a memoria... «Purtroppo ti è andata male, ma ehi, capita.» Afferrò il manico del pugnale, ruotandolo con ferocia per poi strapparlo via.
Un fiotto di sangue zampillò dalla ferita, assieme ad altre urla e insulti indecifrabili.
«Sì, il veleno che sto usando brucia parecchio, se lo sommi a quel brutto taglio... direi che non ti resta molto tempo.»
«Schifosa... marchiata... feccia!»
Allargò ulteriormente il ghigno, divertita. «È esattamente quello che dicono tutti. Continuate a sottovalutarmi, pezzi di merda, e questo è quello che vi capita.»
Le aprì un altro squarcio, sulla gola, uguale a quello che aveva inflitto mesi prima a Beraht.
Si rialzò, compiaciuta di sé stessa. Ichabod, di fianco a lei, osservava il cadavere con lo stesso interesse di quando sfogliava le pagine di uno dei suoi libri.
«Complimenti. Quasi un'opera d'arte.»
«Oh, grazie.» Si voltò verso Tahir . «Le chiavi della tesoreria. Ora.»
«Non me lo devi ripetere due volte, Salroka.» Si affrettò lui, chinandosi a frugare nelle tasche di Jarvia. Ne estrasse una chiave dorata. «Da questa parte...»
Mentre lo seguivano verso il fondo della sala, Kilik si schiarì la voce. «Siamo sicuri di fidarci?»
Senua non si voltò nemmeno. «Non è il primo assassino che risparmiamo, no?» Ribatté divertita.
«Ah, mi ferisci...»
Aperto l'enorme baule, Senua si lasciò scappare un fischio di ammirazione. Oltre ad una pila di monete d'oro e d'argento, c'erano almeno due dozzine di pepite di lyrium. Schioccò la lingua, facendo segno agli altri di aprire gli zaini.
«Ve l'avevo detto che avremmo trovato…» La sua attenzione venne catturata da un paio di rotoli di pergamena, accuratamente tenuti in una Venatora di pelle. Cosa poteva esserci di tanto importante da tenerli chiusi lì dentro? Li afferrò senza esitazione.
«Per le palle sabbiose degli Antenati...»
«Che hai trovato?» Chiese subito Ichabod, incuriosito. Si sporse a dare un'occhiata.
«A quanto pare, abbiamo le prove che Serkan ha organizzato l'omicidio di suo fratello con Beraht.» Annunciò Senua al resto del gruppo. «E nell'altra...»
Fu Tahir ad anticiparla. «L'altra chiede a Jarvia di organizzare l'attacco alle Prove di oggi.»
Ci mise un attimo a capire. «Attacco alle Prove?!»
«Serkanci ha pagati una bella somma per far fuori suo fratello oggi.» Accennò una risatina. «Mi sa che con questa mi sono giocato il perdono, eh...»
Senua si trattenne a stento dal mollargli un altro cazzotto.
Fu Miria la prima a reagire. «Dobbiamo sbrigarci. Saranno passate ore, se sono riusciti ad ucciderlo... No, non è il caso di pensarci.»
«Ma se l'hanno fatto,» concluse la frase Kyra «ci restano solo due opzioni: scappare a gambe levate, o sperare che questi documenti bastino a Joritz per screditare Serkan di fronte all'Assemblea.»
«Diranno che sono un falso. Non conoscete abbastanza quei bastardi.» Ribatté Senua. «No, quel cretino non può morire. Tutta questa fatica per niente? Non glielo permetto.»
Aprì lo zaino, cacciandoci dentro le due pergamene arrotolate con cura e quante più monete e pepite riuscisse a contenere. Insieme, vuotarono rapidamente il baule.
«L'uscita più vicina al Distretto dei Diamanti?» Chiese a Tahir , che la guardò sorpreso.
«Allora stai veramente dal Principe, eh?»
Non lo degnò di una risposta, mentre si inoltravano nuovamente in una serie di cunicoli e scale.
Dopo un po', Senua calcolò che dovevano essere all'altezza del Quartiere Comune. Tahir si fermò improvvisamente, il corridoio che avevano seguito un finto vicolo cieco, un meccanismo nascosto ad aprire il passaggio. Lo riconobbe dopo qualche istante.
«Ha cambiato gestione.» Commentò ammirata. Il negozio che un tempo era stato una delle sedi legali di Beraht era ora adibito alla vendita di armi e armature. Il proprietario del negozio, alla vista del gruppo, sbiancò di terrore.
«Tranquillo, abbiamo appena eliminato Jarvia ma non ti faremo niente.» Lo liquidò in fretta, uscendo a grandi falcate dal negozio.
Intercettò lo sguardo di una ragazzina dai capelli rossi, seminascosta dall'altra parte del bancone. La salutò con la mano.
La piazza del mercato era ancora più frenetica del solito, con un grande via vai di gente attorno al ponte che conduceva all'Arena. Non era buon segno. Guardò l'orologio, era ormai notte. Erano stati là sotto un'eternità.
«Si dice che fosse veleno...»
«Serkan non avrebbe mai...»
«Se l'è cercata...»
«Stava vincendo...»
«Avete visto quella strega…»
«Diamoci una mossa.» Percorsero la strada fino alla porta per il Distretto dei Diamanti quasi di corsa.
«Fermi lì!» Li apostrofarono le guardie. «Dobbiamo perquisirvi.»
«Non abbiamo tempo da perdere, siamo con i Venator.» Rispose sbrigativamente Miria. Persino lei stava perdendo la pazienza.
Le guardie non sembrarono voler sentire ragioni. Scoccarono a lei e Tahir un’occhiata carica di sospetto, facendo qualche passo verso di loro. Prima che Senua potesse stendere il primo con una testata, vennero fermati da una voce.
«Fermi, sono con il Principe Arsim e i Venator, garantisco io per loro!»
Dulin Forender, il Secondo di Joritz, sembrava starli aspettando da un po'. Corse loro incontro, mentre le guardie si facevano da parte riluttanti per farli passare.
«Come sta?» Chiese immediatamente Miria, mentre procedevano spediti verso il palazzo.
«Quindi avete saputo... è vivo e fuori pericolo.» Si guardò attorno, circospetto. «Voi...?»
«Jarvia è stata sistemata.»
L'altro annuì, ma a Senua non sfuggì lo sguardo che rivolse a Tahir . Non poteva biasimarlo.
Entrati nel palazzo, la tensione era palpabile.
«Ce l'avete fatta.» Li saluto Castalia, accennando un sorriso stanco.
«Già, è stata una passeggiata.» Rispose Senua.
«Un amico tuo?» Chiese Julian, indicando Tahir , che si teneva ancora una mano premuta contro il naso sanguinante, chiaramente a disagio tra tutti loro.
Lei annuì. «Come sta?»
«Lisandra e Riful sono riuscite a fermare il veleno. Ora sta riposando, ma dovrebbe rimettersi in un paio di giorni.»
Tirò un sospiro di sollievo, appoggiandosi al muro.
«Magari il tuo amico vorrà farsi dare un occhio da Lisandra?» Propose Ellena.
“Sempre così gentile con tutti...” Senua si chiese se lo sarebbe stata anche conoscendo tutta la storia.
«Credo abbia altro da fare, no?»
Julian scosse la testa. «No, è andata a riposare nella sua stanza qualche ora fa...»
«Kyra, dovresti mettere un impacco sulla gamba!» Esclamò Miria. Senua ridacchiò, vedendo la ragazza sbuffare sonoramente e sedersi di fronte ad un vassoio di cibo.
«Prima mi riempio lo stomaco.» Decretò, addentando uno spiedino.
Prese Tahir per un braccio e lo trascinò verso le camere da letto. Quella di Lisandra era in fondo al corridoio, nella zona più calda dell'edificio. Bussò piano alla porta. Se stava dormendo, non c'era motivo di svegliarla.
«Avanti.»
«Sono Senua, ma ho portato qualcuno...» Si affacciò, temendo di metterla a disagio. La maga era seduta al tavolo di pietra, tra le mani un oggetto che brillava leggermente. Al loro ingresso, lo infilò nelle tasche.
«Ah, sembra che non ci sia un attimo di pausa.» Li salutò, alzandosi in piedi. «E tu chi saresti, giovanotto?»
Quello, al sentirsi chiamare “giovanotto”, fece una smorfia poco carina. «Tahir .»
«C'è un motivo per cui Senua ti ha rotto il naso, Tahir ?»
Senua scoppiò a ridere, ammirata dall'intuito dell'altra. «Se l'è meritato.»
«Hm, capisco.» Sorrise divertita la maga. Sollevò la mano, mettendogliela a qualche centimetro dal volto. Una luce azzurrina si propagò tutto attorno, mentre con uno schiocco il naso tornava al suo posto, anche se un pochino storto. «Vedi di non rifarlo, giovanotto. La prossima volta credo non si limiterà al naso...»
L'altro si toccò la faccia, confuso. Annuì poco convinto, gli occhi puntati sulle mani della donna. «Grazie, credo.»
Senua gli diede una gomitata. «Grazie, Lisandra. Scusa se ti abbiamo disturbato...»
«Oh, non fa niente. Non riuscivo a dormire in ogni caso.» Rispose enigmatica l'anziana.
«Se c'è qualcosa che posso fare...»
L'altra scosse la testa. «No, ma apprezzo lo stesso. Ora andate, credo abbiate parecchie questioni in sospeso di cui discutere, vero?»
Ammiccò verso di loro, prima di accompagnarli alla porta.
«Sono tutti così inquietanti, i maghi?» Chiese Tahir , una volta che furono soli. Continuava a tastarsi il naso, incredulo.
Senua sogghignò. «Questi sono a posto. Dovevi vedere quelli alla torre dei maghi... si sono trasformati in mostri orrendi, posseduti da dei Risvegliati tipo, uccidendo dei maghi e controllando mentalmente tutti... Ne abbiamo combattuto uno bello grosso!»
«Hai visto un Risvegliato?!»
Rise di gusto, sorprendendosi di sé stessa. «Più di uno. E abbiamo ucciso un drago, con ali, bocca sputafuoco e tutto.»
Tahir scosse la testa. «Ora capisco quando hai detto che Jarvia non aveva mezza possibilità...»
Cadde il silenzio.
«Non sono arrabbiata con te, sai.» Disse, appoggiandosi alla parete. «Ho passato mesi a preoccuparmi di come stavi, ma non c'era niente che potevo fare.»
Tahir sorrise debolmente. «E io che pensavo ti fossi dimenticata di me appena scesa a Nord...»
«Mi sa che quella birra dal Corno non te la potrai bere.»
«Dopo oggi, credo mi andrebbe bene restare astemio per... un mese.»
«Stronzate. Non dureresti tre giorni.»
Rimasero di nuovo senza sapere cosa dirsi. «Credevo mi avresti ucciso.» Ruppe il silenzio Tahir . «Pensavo che... insomma, te la saresti presa più di così. Sono stato io a scoprire quel ragazzino morto a casa tua, poi ho visto che avevi spostato le pietre del nascondiglio vicino alla vasca e ho fatto due più due.»
«E sei corso a dirlo a Jarvia.»
Si strinse nelle spalle. «Non potevo esserne certo, ma col ritorno del Principe, c'era una minima possibilità...»
«Hai fatto quello che dovevi.»
«Senua...»
Sbuffò, premendogli una mano sulla bocca. «Chiudiamola qui. Quel che è fatto è fatto, e non ha senso scavarci sotto.» Si avvicinò ulteriormente a lui, fino ad azzerare la distanza tra loro.
Le labbra di Tahir erano rovinate, secche, la barba sfatta pungente. Sapeva di sudore, di sangue e di Città della Polvere. Di birra scadente, di muffa e di casa.
Non fu un bacio delicato. Gli morse le labbra, sfogando tutto il tumulto che provava, incapace di esprimerlo altrimenti.
Lo trascinò verso uno stanzino che sapeva vuoto, chiudendolo a chiave con uno scatto, spingendo il compagno contro il muro.
Tahir si mosse velocemente a toglierle la maglia. Sollevando le braccia, Senua si lasciò sfuggire un gemito di dolore. I tagli sulla schiena, se n'era dimenticata, ora bruciavano e prudevano.
«Scusa, a proposito.» Ridacchiò lui, stringendole i fianchi, le dita sporche del suo sangue.
«Solo un graffio.» Tagliò corto lei, liberandolo con facilità dalla sua armatura, le varie parti che cadevano a terra sferragliando. «Vedi di farti perdonare.» Lo baciò di nuovo con foga, la schiena appoggiata alla parete di pietra liscia del palazzo, lì, nel mezzo del Distretto dei Diamanti. Si chiese come diamine c'erano finiti.
Come tutto fosse cambiato, ma nel frattempo loro non fossero poi così diversi.
Il respiro affannoso, gli passò una mano tra i capelli, stringendo tra le dita le trecce così familiari.
«Mi sei mancato.»
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