#comunque oggi decisamente troppo lavoro di cura
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succhinoallapesca · 2 years ago
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Di questo cane mi piace che sembri un pipistrello e la sua cresta da punkettone.
Così iconico che quasi viene da perdonargli il fatto che sia un pazzo sgravato che letteralmente non smette di abbaiare se non lo coccoli o non lo tieni in braccio
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intotheclash · 1 year ago
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Erano appena le tre e le si era liberata la giornata. Non aveva voglia di ritornare nel suo appartamento, in un anonimo palazzone della sterminata periferia romana. Aveva bisogno d'aria e di camminare per rammendare le idee. Puntò decisa verso Villa Borghese. Quel polmone verde, che dava respiro a tutto quel cemento che lo circondava, le ricordava vagamente la campagna dove era nata. Scelse con cura una panchina e si sedette a fumare e riflettere. Riavvolse il nastro della sua vita, con particolare attenzione a quell'ultimo anno. non le sembrava di avere davanti un bilancio troppo positivo. La linea spezzettata sul grafico, anche se non cadeva a picco, scendeva inesorabilmente verso il segno meno. Solo il lavoro faceva eccezione. Era un'agente immobiliare, vendere case le piaceva e con la gente ci sapeva fare. Aveva chiuso diversi contratti, alcuni molto travagliati e al limite del possibile; ciò le aveva permesso di guadagnare bene, oltre che in vile moneta, anche nella stima dei suoi colleghi. Ci sapeva davvero fare. Ma, tolto il lavoro, cosa le restava? Tolto il lavoro si poteva tranquillamente parlare di disastro. Disastroso il  rapporto con i suoi genitori, disastroso il rapporto con gli amici, disastroso il rapporto con gli uomini. Già, gli uomini…ma che razza di bestie erano? Aveva trentaquattro anni, era una bella donna, lo sapeva e ne riceveva conferma ogni giorno. Ancora catturava occhi e sorrisi. Allora come mai si ritrovava da sola? Che fosse colpa sua? Certo, era finita da un pezzo l'epoca dei vent'anni. Col passare del tempo, era diventata molto più esigente ed insofferente. Non aveva voglia di accontentarsi, si rifiutava di accettare ciò che non riusciva a digerire. non voleva saperne degli altrui difetti, quelli che, come tutti dicono, poi impari ad amare. Se ne fotteva. E, soprattutto, non era disposta a cambiare, a cambiarsi. Non poteva condividere i sogni con chi, in ultima analisi, era incapace di sognare. O tutto, o niente. Forse davvero era colpa sua! Era diventata insofferente.
Anche gli uomini, però, ci mettevano del loro. E ne avevano da metterci! Anche quell'Umberto, per esempio, non era male…era un bell'uomo, elegante, curato, pulito, in sporadici casi, anche brillante, ma, come tipico della sua “razza”, demandava troppo spesso il compito di ragionare al suo fratellino più piccolo. Quanto piccolo sarà stato poi? Tale riflessione la fece ridere come una scema, ma riprese subito il controllo, sbirciando in giro a sincerarsi che nessuno se ne fosse accorto. Le venne in mente un brano di Davide Van De Sfroos, La ballata del Genesio, dove cantava: ho dato retta al cuore e qualche volta all'uccello. Centro. Era ciò di cui aveva bisogno: qualcuno che sapesse dar retta al cuore e all'uccello contemporaneamente. Non le sembrava chiedere troppo!
Accese un'altra sigaretta, guardò l'orologio: le cinque e trenta del pomeriggio. Alzò il viso e, solo allora, si avvide dell'uomo che, non più distante di una quindicina di metri, stava puntando dritto verso di lei. Lo soppesò con lo sguardo e decise che non c'era da preoccuparsi. Era decisamente attraente, si muoveva con estrema leggerezza, sembrava scivolare sul terreno come l’acqua; certo che era vestito in maniera del tutto anonima e pensò che fosse un vero peccato. E peccato anche che l'avesse puntata. Voleva starsene da sola e in silenzio. Niente mosconi a ronzarle intorno. Non oggi.
“Mi perdoni, ma avrei bisogno di accendere.” Disse l'uomo senza inflessioni dialettali nella sua voce, sbollando un pacchetto di Pall Mall.
La donna sbuffò infastidita e col tono del “con me non attacca, bello!”, rispose:“ E’ un po’ vecchiotta, forse ti conviene provare altrove.”
“Non importa che sia vecchia, non a me, comunque. L'importante è che abbia ancora voglia di accendersi e di accendere. Mi creda, non desidero altro.”
Lo fissò dritto negli occhi, occhi in moto perpetuo, non inebetiti sulle sue tette. Forse… ma no, l'approccio era stato di una banalità disarmante, così: “Mi dispiace, non ho da accendere” Soffiò fuori in fretta.
“Fa niente, andrò a cercare miglior fortuna altrove. Ma capita anche che le cose siano esattamente come sembrano. Mi perdoni l'intrusione. Le auguro che la sua giornata migliori.” Le disse con un accenno di sorriso e guardandola, per la prima volta negli occhi.
Fu sinceramente colpita da quella sorta di congedo. Lo seguì con lo sguardo e lo vide avvicinarsi ad una coppia di anziani, ottenendo, ormai era evidente, quello che stava cercando. Si era comportata come un qualsiasi idiota. Si era dimostrata prevenuta e scortese, Non le piacque affatto il suo comportamento di poc'anzi e tentò di rimediare.
“Ehi!” Gridò, agitando la mano per richiamare l'attenzione dell'uomo. Lui si voltò, le mostrò la sigaretta accesa, sorrise apertamente e tornò a voltarsi per la sua strada.
“Aspettami!” Disse ad alta voce, alzandosi dalla panchina per raggiungerlo. Non lo avrebbe lasciato andare portandosi via un'immagine di lei così odiosa.
“Non serve che si giustifichi, una brutta giornata capita a tutti.” La anticipò.
Fu di nuovo colta di sorpresa, le parole stentarono ad uscire, ma parlare era parte del suo mestiere, la parte che le riusciva meglio e se lo ricordò appena in tempo.
“Toccata! Mi sono comportata come una stupida. Ti avevo cucito addosso un bel giudizio precotto. Scusami di nuovo e, credimi, di solito non succede.”
“Sono felice per te. Perché, al contrario, di solito, è esattamente quel che succede. Affibbiare etichette sembra essere lo sport nazionale. Altro che il calcio. Forse è come con i cani, che hanno bisogno di marcare il territorio. Allo stesso modo, gli uomini devono orinare sui propri simili per avere l'illusione di saperli riconoscere.”
“Posso farti una domanda?” Non capiva cosa le fosse preso, ma ormai era andata.
“Certo, basta che non implichi il dovere di una risposta.”
“Ho smesso da un bel pezzo di pretendere.”
“Allora puoi andare con la domanda.”
“Di che colore sono i miei occhi?”
“Domanda a doppio taglio. Non è così facile come potrebbe sembrare…”
“Lo sapevo, peccato.” Pensò la donna, ma, ancora una volta, era giunta a conclusioni affrettate.
“Oggi, con questo sole abbagliante, di un bel celeste trasparente, ma direi che il più delle volte potrebbero essere sul verde, con tendenze al grigio nelle giornate di pioggia.” Sentenziò l'uomo, dopo una profonda boccata di sigaretta.
Partì anche la seconda domanda. Partì prima del pensiero, prima che la vergogna per averla fatta le incendiasse il viso:“E le mie tette come sono?”
Lui non si scompose e, senza distogliere lo sguardo da quello di lei rispose: “Dovresti fare più attenzione. Perché, a volte, potrebbe capitare che rubino il palcoscenico agli occhi.”
“Posso offrirti un caffè? Per rimediare!”
L'uomo la trapassò con la vista come una freccia di balestra e trapassò anche tutto quello che c'era dietro di lei, per finire dove nessuno sapeva dove. “Rimediare è un verbo privo di significato.” Disse “Non c'è possibilità di rimediare al passato; per quanto prossimo. Possiamo solo comportarci diversamente.”
“Sarebbe un no?”
“Al contrario, sarebbe un si. Non so se tu ti aspettassi un'altra risposta, nell'eventualità, mi dispiace. Ma io non rifiuto mai un buon caffè.” E sorrise.
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nusta-diari · 6 years ago
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Il disordine del dopo e del durante e del sempre
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Ieri ho voluto immortalare la mia scrivania prima di rimettere in ordine. Poi non ho rimesso in ordine, ma questo è un altro punto. Il punto di ora, anzi, di quando ho fatto la foto, è che ancora una volta sul tavolo ci sono pezzi di me che mi rappresentano in tanti dei miei aspetti di ora. Non capita spesso di avere in una inquadratura così tante sfaccettature in vista, così tanti pezzettini del mosaico tutti insieme.
Ci sono i resti del mio esame di lingua e letteratura araba: quando sono tornata ieri e ho fatto la foto avevo appena sostenuto l’orale ed ero euforica e imbarazzata allo stesso tempo, come mi è successo anche per l’altro esame che ho fatto quest’estate. E’ andata bene, è andata alla grande, anzi, ma non posso fare a meno di sentirmi inadeguata nei panni della studentessa ormai. Mi piacerebbe poterci rientrare e farli di nuovo miei, al 100% delle mie forze, ma non è più questa la mia realtà e ormai l’ho accettato. Fa un po’ male, ma la nostalgia è una vecchia amica, ormai so che quando mi viene a trovare è bello perdersi in chiacchere, magari fare un piantino, qualche risata e poi salutarsi senza troppe remore. Intanto per quel che posso, non sarà il 100% ma comunque qualcosa ancora posso investire. Prossimo passo: Storia della Cina dell’ultimo secolo, mi devo inventare una tesina in due settimane e se ci penso mi viene di nuovo l’orticaria, quindi per oggi meglio se non ci penso e mi metto direttamente a leggere qualcosa di utile e vediamo che riesco a trovare.
La mantella sulla sedia me l’ha regalata una mia cara amica per il compleanno. In questi giorni l’ho usata spesso, sia per tenermi caldo dato che in questa casa il riscaldamento non è granché, sia per tenermi conforto (oltre che per fornirmi spunti per immedesimarmi nel ripasso della poesia tradizionale araba del VII secolo) Anche i due braccialetti appoggiati sui libri sono regali porta-conforto: ieri nei parlavo con i miei, uno me lo regalò un’amica di mia mamma qualche giorno prima del mio primo esame all’università e siccome si abbinava all’altro, che era il primo regalo del mio fidanzato, li misi in coppia in occasione di quell’esame e da allora mi hanno fatto compagnia ad ogni appuntamento universitario. Non sono portafortuna, sono porta-conforto, nel senso che quando sono nervosa li guardo e mi viene da ridere pensando che mi prendo troppo sul serio e non casca il mondo se qualcosa va storto ad un esame, sono altre le cose che è bene cercare di mantenere dritte.
Tutti i barattoli di vetro e le caraffe e compagnia sono i pezzi della me che cerca di prendersi cura di sé stessa, che cerca di mangiare decentemente, di bere abbastanza, di rendersi comoda la gestione di una casa che è sempre perennemente in disordine e che a volte purtroppo sfora anche il limite della mia sopportazione, che è decisamente fin troppo allenata. C’è sempre un domani, c’è sempre un’altra cosa a cui dare la priorità, ma a volte mi rendo conto che non mi fa bene, che non mi sta bene, che non è una questione di principio, ma una questione di sanità mentale, di pace mentale e che la priorità deve diventare quella, in qualche modo. Che devo ancora trovare, evidentemente.
Nella foto non si vedono, ma da qualche parte ci sono pure dei blister di ibuprofene. Sono tre giorni che ho bruciore alla gola e sono perennemente circondata da qualcuno che si è ammalato o si sta ammalando, a lezione, in ufficio: mi sono presa un po’ di ibuprofene e pensavo fosse lo stress. Ieri sera brividi. Sarò stanca, mi dico. Stamattina mi sentivo un po’ di febbre ed ero indecisa se andare al lavoro. Sono andata dal dottore, più per parlargli dell’orticaria che della gola, ma lui ha quasi fatto un passo indietro quando mi ha visto la gola e mi ha detto “Antibiotico subbbbbito!!!”. Che brutto essere fuori forma. So bene che ci sono cose ben peggiori di cui stare male, ma questa cosa che la mia reazione allo stress è così fisica è frustrante per me. Forse è un circolo vizioso? Forse ho solo troppe faccende irrisolte.
In questi giorni di ripassi e tempi strutturati mi sono riguardata Hip-Hop evolution e ho recuperato le ultime stagioni di Elementary. Da cui i telecomandi e il tablet per il Chromecast, oltre che per le mille traduzioni dall’arabo con google translator e le mille ricerche dei testi delle mu’allaqat e di qualche altro esempio di rime arabe del V e VI secolo. Mi sono tolta la soddisfazione di accennare al mio prof dei parallelismi tra i primi artisti hip-hop e i poeti preislamici, ma mi ci vorrebbe un po’ di tempo e spazio ed energia per andare oltre la suggestione e costruire un discorso sensato. Mi manca costruire dei discorsi sensati su ciò che vedo, su ciò che leggo. Mi manca Serialmente, mi manca dedicarmi a quel genere di analisi, mi manca quel genere di discussione. Dopo la Cina, chissà. 
Ultimo indizio, ma non per importanza del significato, la seconda tovaglietta ripiegata in fondo, che testimonia la necessità di apparecchaire per un ulteriore inquilino. Finora è stata una conivenza part-time, un part-time più che altro notturno e finesettimanale, ma forse nei prossimi mesi questa cosa cambierà. E se devo essere onesta, ma proprio onesta, tra le faccende irrisolte non è mica in fondo alla lista. Vedremo.
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egheneto · 5 years ago
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FEBBRAIO 2020
Questo febbraio è stato un mese decisamente strano. Un po’ spento, sotto tono, fiacco. Dicembre e gennaio sono stati due mesi molto impegnativi tra studio, esami e lavoro e ne sono uscita particolarmente stanca. Ho visto e letto meno di quanto avrei potuto e voluto fare, e ho avuto poca voglia e ispirazione per scrivere. Ho deciso comunque di buttare giù qualche parola rispetto ai film e libri che mi sono piaciuti di più, che magari amplierò più avanti.
THERE WILL BE BLOOD (Il Petroliere)
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Oh, Daniel, you've come here and you’ve brought good and wealth, but you have also brought your bad habits as a backslider. You've lusted after women and you have abandoned your child. Your child that you raised, you have abandoned, all because he was sick and you have sinned, so say it now: "I am a sinner."
Un film incredibile che rivela uno dei lati più oscuri dell’animo umano: la sete di potere e l’avidità, capaci di trasformare un uomo rendendolo cieco di fronte alla violenza più folle e che non possono avere altro che un fine: il sangue. Perchè il protagonista, Daniel, trionfa nella sua scalata verso il potere, verso la ricchezza, ma pagandola a caro prezzo: la pazzia, la solitudine e la morte. Sono rimasta profondamente affascinata dall’interpretazione di Daniel Day-Lewis e di Paul Dano, quasi teatrale e di forte impatto.
UN ANNO SULL’ALTIPIANO 
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Non è vero che l'istinto di conservazione sia una legge assoluta della vita. Vi sono dei momenti, in cui la vita pesa più dell'attesa della morte.
Semplice ma efficace e diretto. La scrittura di Lussu ti trasporta in trincea e ti permette di immergerti nella vera realtà della Grande Guerra: un grande paradosso, un continuo alternarsi di momenti di riposo, chiacchiere tra soldati, assalti e bombe a mano. I capitoli si susseguono tutti uguali, in una monotonia sulla quale pende costantemente la minaccia della morte, improvvisa, che può arrivare dal nemico così come da un generale in preda alla follia: impreparazione e inettitudine regnano sovrani tra gli alti gradi di comando, la vita dei soldati si svuota di ogni importanza e si riempie di inutile patriottismo, che è risultato nell’inutile morte di centinaia di persone.
MARRIAGE STORY
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The dead part wasn’t dead, it was just in a coma. And it was better than the sex, the talking. Although the sex was also like the talking. You know, everything is like everything in a relationship. Don’t you find that? And, um, so, we spent the whole night and the next day together, and I just never left. Yes, to be honest, all the problems were there in the beginning too. But I just went along with him and his life because it felt so damn good to feel myself alive.
In Marriage Story ci sono solo Charlie e Nicole, Adam Driver e Scarlett Johansson, due interpretazioni meravigliose, e nient’altro. Niente ambientazioni incredibili, niente colpi di scena eclatanti. Ci sono solo i loro silenzi, i loro occhi colmi di lacrime sempre sul punto di uscire, i loro sguardi alla ricerca costante l’uno dell’altro, le parole urlate e le parole non dette, i piccoli gesti che ricordano che, nonostante tutto, l’amore rimane vivo, anche se la vita conduce su strade diverse, parallele che non erano destinate a rimanere insieme. É un film straziante, costruito attorno alla forza dei sentimenti che possono affievolirsi ma non si spengono mai, tutt’al più si trasformano, si nascondono e rimangono in attesa di mostrarsi, seppur sottilmente, alla prima occasione.
EUPHORIA
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“I promise you. If I could be a different person, I would. Not because I want it, but because they do. But here's the thing. One day, I just showed up without a map or a compass, and at some point, you have to make a choice ... about who you are and what you want. And therein lies the catch.”
Un teen drama che ha senso e necessità di esistere. Ammetto di non aver visto molto del genere a causa di pregiudizio personale; per questo ero restia ad approcciarmi anche a questa serie che, tuttavia, mi ha colpita positivamente. L’atmosfera che crea tra musica, colori, psichedelia, droghe e alcol, sospesa in una dimensione di nostalgia e depressione, è travolgente. Ti trasporta in un mondo di adolescenti in piena scoperta di sè stessi, del proprio corpo, del sesso, delle droghe, dei social media, dell’amore, dell’amicizia e delle relazioni in generale. È una serie che, crudelmente e in maniera affatto adolescenziale, mostra la realtà che i giovani di oggi si trovano ad affrontare, non sempre facile, non sempre esplicitata, tenuta all’oscuro dai propri genitori e dagli adulti. Per di più, Zendaya Coleman l’ho trovata sorprendente.
SEX EDUCATION
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Adam Groff: You said there was gonna be no judgement. Is three viagras bad? Her reaction made it seem like it was bad. I feel lightheaded and I can taste scampi. Maeve Wiley: No wonder. You could besiege a castle with that thing.  Adam Groff: I said stop staring at it! Maeve Wiley: Sorry, it's like a third leg.
Se Euphoria la vedo maggiormente rivolta ad un pubblico adulto, per la schiettezza e la trasparenza con cui i temi vengono trattati, Sex education è più adatta ad un pubblico giovane. Non perché sia banale, superficiale. È adolescenziale nel senso che può spingere i giovani ad immedesimarsi con i ragazzi protagonisti e riconoscere in loro le stesse problematiche e difficoltà che vivono in prima persona. È un’educazione sessuale che, purtroppo, ad oggi manca nelle scuole e nelle famiglie; molti argomenti sono ancora troppo tabù per essere trattati con leggerezza e tranquillità, e i ragazzi si ritrovano spesso soli e imbarazzati in un percorso che è in realtà normale, una strada che tutti abbiamo percorso o percorreremo. Qui la sessualità viene trattata spesso con simpatia, senza farne un dramma o un problema irrisolvibile, ma con schiettezza e sconsideratezza. Che è il modo migliore per rivolgersi ai ragazzi. E la colonna sonora è strepitosa.
MOTHER!
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Mother : *What* are you? HIM : Me? I, am I. You? You were home. Mother : Where are you taking me? HIM : The beginning. HIM : It won't hurt much longer. Mother : What hurts me the most is that I wasn't enough. HIM : It's not your fault. Nothing is ever enough. I couldn't create if it was. And I have to. That's what I do. That's what I am. And now I must try it all again. Mother : No. Just let me go. HIM : I need one last thing. Mother : I have nothing left to give. HIM : Your love. It's still there, isn't it?  Mother : Go ahead. Take it.
Di Darren Aronofsky non ho ancora visto The fountain e The Wrestler, ma per ora Mother! è il film del regista che più mi è piaciuto e che entra sicuramente nella lista dei miei film preferiti. Inquietante e angosciante. L’inizio lento, l’essenzialità dei dialoghi, i primi piani costanti, la luce soffusa, tutto crea fin dal principio della pellicola un’atmosfera surreale e tormentata che va solo aumentando, in un climax ascendente che culmina con un finale straziante, violento e brutale. Mother! racconta chiaramente la nostra storia, la storia di un’umanità irruenta ed incapace di portare rispetto ad una madre natura (interpretata da una Jennifer Lawrence incredibilmente bella e brava) che depreda e saccheggia e spoglia della sua bellezza ed innocenza. Una madre natura che si identifica nella casa e che non è altro se il nostro mondo, creato con cura e attenzione per proteggerci e sostenerci, e al quale non siamo in grado di portare rispetto. Un mondo che Dio (Javier Bardem) tenta di ricostruire dopo ogni fallimento, dando all’umanità la possibilità di riprovarci, in un ripetersi apparentemente infinito, per cui infinito è anche il nostro fallimento. Il film è pieno di riferimenti biblici, molti dei quali ho colto solo dopo averne letto l’interpretazione ma che rendono l’opera profonda e intensa.
Nicole C.
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saggiosguardo · 5 years ago
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Recensione BenQ PD2720U: il monitor perfetto per i creativi a 360°
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Ho lavorato nel settore della grafica per oltre dieci anni ed è in quel periodo che ho imparato a prestare particolare attenzione ai monitor. Avendo un piccolo studio ho dovuto tenere sotto controllo le spese, dunque ho evitato i modelli più costosi del mercato, ma ho utilizzato degli ottimi CRT di Nec e LaCie. Considerando la qualità dei primi pannelli LCD ho tardato ad adottarli nella filiera produttiva, ma con il tempo la mia attività si è spostata lentamente dalla stampa al web, dunque i criteri della scelta sono cambiati. In effetti gli schermi proposti da Apple hanno iniziato ad essere abbastanza validi per il mio lavoro verso il 2007 e in quel periodo ho iniziato ad usare quelli degli iMac. Non avevo neanche necessità di grandi capacità di calcolo al tempo, poiché facevo illustrazione bidimensionale ed impaginazione, sempre più spesso destinata agli schermi dei computer e in seguito anche a quelli degli smartphone.
Ancora oggi mi capitano saltuariamente lavori di progettazione grafica e siti internet, ma ho chiuso l'azienda che si occupava esclusivamente di quello per dedicarmi alle nuove passioni. Mi riferisco in particolare alla fotografia ed al video, con quest'ultimo che è diventato preponderante nell'ultima decade. Il montaggio video è una brutta bestia, perché può essere qualcosa di leggero o incredibilmente pesante, tutto dipende dai file che si devono elaborare. Prima erano per lo più quelli leggeri della Canon C100 Mark II, che il Mac Pro 2013 (il cilindro) non aveva troppe difficoltà, ora tra gli HEVC 10bit e i BRAW della BMPCC, l'iMac Pro che uso vacilla. Vero è che le finanze mi hanno consentito di arrivare al massimo a quello base con 8-core, 32GB di RAM e Vega 56, ma parliamo pur sempre di un computer da oltre 5000€.
Comunque è già da qualche anno che alla postazione Mac ne abbino una PC, riavvicinandomi a quel mondo che avevo tagliato fuori dalla mia attività e dalla vita privata nel 2006. Non sono felice di Windows. Certo vedo i miglioramenti che ha avuto nel corso degli ultimi anni, ma non era difficile considerando che l'avevo abbandonato all'epoca di Vista, probabilmente la peggiore release dopo Me. Tuttavia sono ormai completamente assuefatto a macOS, alle sue infinite shortcut ed a quelle piccole grandi utility che non hanno una controparte valida su Windows, come Alfred, Hazel, Keyboard Maestro e simili. Comunque quando apro un software a tutto schermo, che può essere Photoshop o DaVinci Resolve, in fin dei conti le differenze si assottigliano, e dunque riesco a sopportarlo dato che in genere con 2000€ ottengo prestazioni superiori a quelle di un Mac da 5000€ (e molto dipende dalle GPU NVIDIA). Quindi tra Mac Pro (o mini) senza schermo e PC assemblati, ho iniziato di nuovo ad acquistare schermi non Apple. Ho provato tanti modelli di differenti diagonali e risoluzioni, passando tra marche come Asus, Dell, LG e Samsung (in ordine alfabetico), ma da un paio di anni a questa parte ho notato l'importante affermazione di un altro brand: BenQ.
Il produttore non è nuovo nel panorama degli schermi per computer, però negli ultimi anni si è focalizzato sempre di più nel settore coprendo un po' tutte le fasce e con un'interessante linea destinata al mercato professionale. I modelli PhotoVue sono specifici per la fotografia, i VideoVue per la post-produzione video, entrambi con caratteristiche tecniche di altissimo profilo. Io mi affaccio in entrambi i settori ma faccio anche altro, dunque ho trovato più adatta alle mie esigenze la famiglia DesignVue. In questa si trovano comunque molte delle peculiarità che contraddistinguono i modelli superiori, tra cui la tecnologia AQCOLOR che è caratterizzata da quattro fasi: selezione dei migliori pannelli, cura nella progettazione, calibrazione e certificazione con report su ogni monitor.
Un paio di anni fa ho testato il modello 2017 di questa linea nel taglio da 32", precisamente il BenQ PD3200U (recensione). Io amo questa diagonale, perché mi sento più produttivo lavorando su un singolo monitor di ampio respiro, ma quest'anno ho optato per il nuovo PD2720U, ritornando sui più canonici 27". I motivi della decisione sono molteplici, ma prima di tutto c'è quello della flessibilità. Il 27" occupa meno spazio, quindi riesco ad utilizzarlo su tutte le scrivanie e anche a trasportarlo senza troppa fatica, costa di meno e rimane ampio a sufficienza per la produttività, ma soprattutto è il taglio ideale nel caso in cui se ne vogliano affiancare due. Già perché con l'accentuarsi dell'attività in campo video ho ricominciato a valutare l'idea del doppio monitor, così da poter dividere il layout dei vari controlli su una superficie maggiore ma senza scendere con la risoluzione per pollice come spesso avviene sugli schermi allungati (che per altro non si possono "dividere" in caso di necessità). Diciamo che ho visto questo 27" come un jolly, adatto al momento a coprirmi la necessità di un nuovo schermo sulla seconda postazione di lavoro (il precedente Dell U2718Q ha mostrato difetti di luminosità dopo 8 mesi e per fortuna Amazon mi ha rimborsato) e al tempo stesso valido per testare nuovamente un setup a doppio monitor dopo 4 anni dall'ultimo esperimento.
Prima di addentrarci sui vari aspetti della prova, vediamo qualcuna delle principali caratteristiche tecniche. Il BenQ PD2720U ha uno schermo da 27" con tecnologia IPS e risoluzione UHD, ovvero 2840 x 2160 pixel, comunemente nota come 4K. Sul fronte colori abbiamo la prestigiosa validazione di CalMAN e Pantone, con una copertura del 100% dello spazio colore sRGB e del 96% di quello P3 (quindi sostanzialmente completa anche questa). Ma il motivo che mi ha spinto nella direzione del DesignVue è che completa la gamma con una copertura del 100% sia di AdobeRGB che REC. 709. In pratica per un uso avanzato, anche se non magari super specialistico, ci offre già il supporto adeguato per poter gestire con la giusta accuratezza non solo la grafica ma anche la modellazione, le foto e il video. Tanto per capirci i modelli VideoVue hanno funzionalità ancora più avanzate come il supporto nativo per LUT 3D e la certificazione Technicolor, ma la dotazione di serie del BenQ PD2720U è già sufficiente ad uso multi disciplinare evoluto.
È uno schermo poliedrico che si adatta benissimo al lavoro di un creativo a 360°.
Non è invece lo schermo indicato al gaming considerando risoluzione elevata e tempo di risposta (che comunque non è poi troppo male con i suoi 5ms gray to gray) e a mio avviso neanche per l'esclusivo consumo di materiale audiovisivo, perché supporta HDR10 ma la luminosità è comunque limitata a 350 nits e dispone di due speaker integrati da 2W che sono solo "di servizio". Di certo si dovranno aggiungere delle casse esterne per ascoltare musica o video in qualità soddisfacente e in tal senso è utile l'uscita audio 3,5mm, che funziona automaticamente con la sorgente attiva al momento (nel caso se ne utilizzi più d'una).
Parliamo dunque dei collegamenti, uno degli aspetti più interessanti di questo monitor. Abbiamo due ingressi HDMI 2.0, una DisplayPort 1.4 ed una Thunderbolt 3, la quale supporta anche la ricarica con PD da 65W. In pratica si può usare come schermo per ben 4 sorgenti contemporanee e quando si collega un portatile sulla T3 lo alimenta ed offre una seconda T3 in uscita per altri dispositivi in cascata, come ad esempio un altro monitor o una docking station. Ha poi una USB da connettere al computer per far funzionare un piccolo hub di 2 porte USB (3.1 gen 2), oltre ad una speciale porta destinata al controller esterno Hotkey Puck G2.
In alcuni modelli precedenti questo aveva un proprio alloggiamento sulla base del monitor, cosa che non si trova nel PD2720U. Il controller è piuttosto comodo perché dispone di una rotella con cui regolare al volo la luminosità che può anche essere premuta per accedere al menu. Ai lati ci sono 5 tasti, uno per uscire dal menu (o andare indietro), uno per cambiare sorgente e tre personalizzabili per le funzionalità o i profili colore che si usano con maggiore frequenza. L'Hotkey Puck di prima generazione era piatto e senza rotella, infatti lo trovavo meno utile, mentre questo è davvero comodo. L'unica cosa che non mi piace è il collegamento cablato: spero che in una prossima generazione riescano ad introdurre una piccola batteria interna per farlo funzionare anche wireless, cosa che consentirebbe di mantenere un maggior ordine sulla scrivania.
Per quanto questo monitor appartenga alla fascia professionale, dove solitamente l'estetica è seconda rispetto alla funzionalità, BenQ è riuscita ad unire le due cose in un bel design: semplice nelle forme e impreziosito dalla qualità dei materiali. La base piatta e lo stand tubolare sono infatti di solido metallo, la cornice è sottile e sporge di pochissimo rispetto al pannello. Solo il bordo inferiore è più spesso e in questo ho apprezzato moltissimo la decisione di non inserire alcuna scritta. Il frame stretto sui tre lati è perfetto nel caso si vogliano affiancare più monitor, in quanto l'interruzione orizzontale tra di loro sarà davvero minima. Per lo stesso motivo trovo logica la decisione di non mettere porte laterali e di lasciarle tutte nella zona posteriore: si perde la praticità dei collegamenti al volo sul monitor ma alla fine si risolve con un hub sul computer e si ha il vantaggio di mantenere il tutto più lineare e consistente.
Guardandolo di lato si capisce immediatamente che si tratta di un monitor di fascia alta dato lo spessore e l'ampia ventilazione, ottenuta con un profilo interamente traforato. Questo consente di mantenere elevata la qualità del pannello nel tempo anche quando si utilizza quotidianamente, riducendo il deterioramento dovuto all'eccesso di calore. Inoltre l'alimentatore è integrato, cosa decisamente comoda in quanto sarà sufficiente un semplice cavo per utilizzarlo.
Lo stand si alza e si abbassa grazie ad un efficace sistema a pistone che consente di trovare facilmente la posizione di lavoro ideale. Inoltre si può inclinare lateralmente e ruotare di 90° in modalità pivot. Pur avendo una base robusta il peso dello schermo si fa sentire e sulle scrivanie leggere si può notare un po' di ondeggiamento indotto dalle vibrazioni del piano di lavoro, ma è comunque contenuto rispetto ai monitor economici. La gestione dei cavi è semplice ma molto efficace, in quanto questi vengono convogliati nella zona centrale dal coperchio posteriore e poi girano sul retro dove si trova un anello che li contiene. Allineandoli con un minimo di cura non se ne vedrà neanche uno frontalmente, eccezion fatta per quello che si collega all'Hotkey Puck G2.
Il monitor dispone di tutti i pulsanti operativi sul retro, nella zona destra, con un piccolo joystick molto utile per navigare nei menu. Questi sono abbastanza semplici e direi canonici per BenQ, piuttosto ricchi di funzionalità evolute. Grazie ai quattro ingressi video possiamo lavorare in PiP oppure affiancando due sorgenti e addirittura anche con quattro contemporaneamente mostrate a scacchiera, ognuna delle quali avrà a disposizione una superficie di 13,5" di diagonale in FullHD.
Altra cosa davvero utile è la possibilità di utilizzare lo stesso set di mouse e tastiera su due diverse sorgenti. Ad esempio io ho collegato un PC sulla HDMI ed il MacBook Pro sulla Thunderbolt 3, mettendo il ricevitore Logitech Unifying dietro il monitor. Dal menu KVM si possono scegliere le due sorgenti correlate alla funzione così quando si passa dall'una all'altra il monitor sa che deve indirizzare lì il suo hub. Ovviamente non sarà il caso di utilizzare queste porte per dischi o altre periferiche dato il continuo attacca e stacca, ma sono perfette per mouse e tastiera, anche se io ne ho occupata una sola visto che il dongle Unifying li gestisce entrambi.
Sia su Mac che su Windows consiglio di installare subito l'app BenQ Pilot, perché cambia completamente l'esperienza di visione ed uso. Oltre ad offrire tutte le principali funzioni di controllo in punta di clic, evitandoci di entrare nel menu OSD, dispone della comodissima ICC Sync. Questa è in sostanza un ponte tra il computer e lo schermo, che va ad installare ed attivare i profili icc adeguati allo spazio colore selezionato. Sono rimasto davvero stupito di come cambia la qualità di riproduzione attivando il DCI-P3 su macOS, poiché ci porta ad avere quel contrasto tipico dei monitor Apple arrivando davvero vicino alla resa cromatica a cui sono abituato sull'iMac Pro e sul MacBook Pro, con un nero bello profondo e colori della giusta vividezza.
Parte del BenQ AQCOLOR è il fatto che ogni schermo arrivi con un report della calibrazione di fabbrica. Non ricordo di aver mai avuto uno schermo di terze parti capace di raggiungere questo tipo di allineamento con i colori dei Mac con pochissime correzioni manuali. Basterà attivare la modalità P3 per avere una resa già molto soddisfacente, al punto che in pochi sentiranno la necessità di andare oltre. Pur essendo già molto soddisfatto ho voluto fare dei test hardware con la sonda e riporto qui i risultati di quella Spyder5 che genera un report sintetico non super preciso ma comunque chiaro. Se si lavora con il P3 si perde chiaramente la copertura completa AdobeRGB, che scende più meno all'89% (difatti gli stessi valori si ottengono sui pannelli dei computer Apple). Ma per chi produce contenuti destinati ai dispositivi mobile, TV o computer, che siano foto, video o illustrazioni, lo spazio colore P3 è al momento il più interessante, perché inizia ad essere abbastanza supportato ed espande quello sRGB senza introdurre variazioni di rilievo.
Se invece si vuole sfruttare l'AdobeRGB si deve prima attivare la specifica modalità dal menu e in questo modo si arriva ad averne il 97% secondo la mia sonda (che comunque rimane un po' approssimativa). Devo dire però che nutro qualche riserva sull'utilizzo esclusivo di AdobeRGB a meno che non si lavorino fotografie destinate alla stampa fine art, alla conservazione storica di opere d'arte e simili. È una mia considerazione personale, non dico che sia giusto o sbagliato, vi voglio solo far riflettere sul fatto che se sviluppate una fotografia con quel profilo su un monitor calibrato che lo supporta, nel momento in cui la pubblicherete sul web quasi nessuno la vedrà come voi. E spesso neanche voi, dal momento che non tutti i browser web reagiscono adeguatamente ai profili colore incorporati nelle immagini. E se stampate presso servizi online la situazione non migliora, poiché il 90% di questi (e sono ottimista sul 10%) convertono tutto in sRGB, per giunta con profili standard. Per cui ancora una volta otterrete un risultato differente rispetto a quello previsto.
Vi consiglio dunque di riflettere con attenzione su questa scelta e se optate per lavorare in AdobeRGB assicuratevi di fare la conversione in sRGB voi stessi prima di pubblicare le immagini online o mandarle in stampa, almeno così potrete avere il pieno controllo sul risultato. Diverso è il discorso se avete uno stampatore locale di fiducia poiché in quel caso potete presenziare e/o allinearvi con i profili di stampa. Ed è diverso ancora il caso della stampa tipografica, poiché quella avviene solitamente in CMYK e non in RGB, con RIP e profili colore ancora una volta differenti.
Personalmente ho provato sia la modalità AdobeRGB che P3 (pure le altre, ovviamente) ma alla fine ho optato per quella personalizzabile Utente. Sempre dall'app Pilot, quindi senza accedere al menu OSD, ho modificato poi la luminosità all'80% (che è simile al 100% del MacBook Pro 15"), ridotto un po' la nitidezza (4 o 3 a seconda dei gusti) e infine sono intervenuto togliendo un po' di saturazione ai rossi e spostando leggermente la tinta del blu verso il verde. Ho messo diversi sfondi con colori molto accesi sullo schermo interno del Mac e su quello esterno, effettuando qualche altra leggerissima variazione su giallo e magenta, arrivando ad un grado di allineamento che mi sembra davvero ottimo, soprattutto in termini di contrasto e di neri, cosa che non è affatto facile comparando uno schermo lucido ed uno opaco.
Il pannello presenta una copertura opaca che svolge ottimamente il compito di ridurre i riflessi e non sottrae qualità e contrasto all'immagine. Con visione laterale la tenuta dei colori è davvero molto buona, mentre la luminosità scende mano a mano che ci si allontana dal centro, pur rimanendo del tutto apprezzabile nel range dei 120°. La compatibilità con HDR10 non offre la stessa resa che si può avere su un TV data la minore luminosità (ha 350 nits mentre lo standard ne richiederebbe 1000), ma i veri plus di questo monitor si ritrovano nei colori e nella stabilità dell'immagine, cose che offrono un elevato comfort visivo per non affaticare la vista.
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Conclusione
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BenQ PD2720U è un monitor che non ho dubbi nel valutare eccellente. Si basa su un pannello di qualità molto elevata, ha un'ottima resa cromatica, è costruito davvero bene e con un piedistallo ergonomicamente riuscito, ha un ricco set di connessioni ed una bella linea, il tutto condito da un'elettronica affidabile, funzionalità utili ed un software validissimo. Certo il prezzo sfiora quasi i 1000€, dunque inizia ad essere davvero importante, avvicinandosi a quello di alcuni medio-gamma di EIZO, ma il PD2720U ha più frecce al proprio arco sia in termini di connessioni che di design. In una parola direi che è molto più versatile e anche se non sarebbe certo la prima scelta per il gaming o per la fruizione di contenuti multimediali, se la cava dignitosamente pure in questi ambiti. In base alla mia personale esperienza, si tratta di un monitor professionale completo e forse anche un po' insolito, perché si spinge decisamente più in là di quello che ci si aspetterebbe da un prodotto definito "per designer" e riesce a raggiungere una qualità più che sufficiente anche nei settori a me più cari della fotografia e del video. Non mi stupisce che non abbia delle casse interne più potenti o che manchi un hub di porte laterali, perché sono scelte assolutamente giustificate dalla sua natura, però mi dispiace che non ci sia la palpebra che troviamo nei modelli superiori, neanche a volerla acquistare separatamente.
Considerando le sue qualità mi avrebbe fatto piacere completare con questa l'ottima esperienza di visione offerta. Infine una nota doverosa per gli utenti Apple, sempre alla ricerca di monitor di elevata qualità da affiancare ai propri Mac e mai davvero soddisfatti dopo l'uscita di scena del vecchio Thunderbolt Display. Non è facile trovare una certa continuit�� con i profili colore degli schermi usati nei Mac ma questo BenQ ci riesce molto meglio di tutti quelli che ho provato finora e, soprattutto, senza dover fare nulla: basta installare l'app e attivare l'ICC Sync. Pur non avendo lo schermo lucido riesce ad allinearsi piuttosto bene a quella resa visiva e costa meno del solo stand del nuovo Apple Pro Display XDR 32". Non voglio dire che siano prodotti completamente comparabili, ma se si guarda da questa prospettiva i suoi circa 900€ sembrano decisamente più moderati. A questo punto mi piacerebbe provare anche i modelli specifici per foto e video per capire cosa davvero possano offrire in più di questo ottimo DesignVue.
PRO
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Design elegante e pulito, bordi sottili
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Ergonomia ottima, stand e base in metallo
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Buona gestione dei cavi
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Pannello IPS 100% sRGB, P3, Adobe RGB
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Modalità colore specifiche per Video, CAD, Animazione, Camera oscura
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Comodo controller Hotkey Puck G2
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Eccellente app Display Pilot con ICC Sync
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Calibrazione di fabbrica abbastanza valida e già quasi perfetta abbinata ad un Mac
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Angoli di visuale molto ampi con buona tenuta di luminosità e colore
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4 Ingressi video di alta qualità
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Connessione Thunderbolt 3 con PD da a 65W
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Uscita Thunderbolt 3 in cascata
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KVM sposta l'upstream dell'hub USB in base alla sorgente attiva
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Funzionalità molto evolute di PiP e PbP fino a 4x con molte opzioni
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Possibilità di selezionare un metodo colore diverso in base all'app attiva
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Alimentatore interno
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Possibilità d'uso in verticale (con rilevamento automatico)
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Colori vividi e ottimo contrasto per un IPS
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Supporta HDR10
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Ha due piccoli speaker integrati (di servizio, ma utili)
CONTRO
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 Qualche scricchiolio delle plastiche mentre si orienta
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 Uniformità di luminanza solo soddisfacente
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 Le connessioni sono tutte posteriori ed un po' scomodo arrivarci in seguito
DA CONSIDERARE
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  Prezzo parecchio superiore rispetto al PD2700U
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from Recensione BenQ PD2720U: il monitor perfetto per i creativi a 360°
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paoloxl · 8 years ago
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Il cittadino: maschio, adulto, eterosessuale Libertà, uguaglianza, solidarietà. I tre principi che costituiscono la modernità, rompendo con la gerarchia che modellava l’ordine formale del mondo prima delle rotture rivoluzionarie della fine del Settecento, hanno il loro lato oscuro, un’ombra lunga fatta di esclusione, discriminazione, violenza. Tanta parte dell’umanità resta(va) fuori dal loro ombrello protettivo: poveri, donne, omosessuali, bambini. L’universalità di questi principi, formalmente neutra, era modellata sul maschio adulto, benestante, eterosessuale. Il resto era margine. Chi non era pienamente umano non poteva certo aspirare alle libertà degli uomini. Una libertà comunque soggetta a norma, regolata, imbrigliata, incasellata. La cultura dominante ne determina le possibilità, le leggi dello Stato ne fissano limiti e condizioni. Limiti e condizioni che variano in base ai rapporti di forza tra i vari soggetti sociali. . Le nonne delle ragazze di oggi passavano dalla potestà paterna a quella maritale: le regole del matrimonio le mantenevano minorenni a vita. Se una donna lasciava la casa che divideva con il marito commetteva il reato di “abbandono del tetto coniugale”. In Italia le donne stuprate, sino al 1981, potevano sottrarsi alla vergogna ed essere riammesse nel consesso sociale, se accettavano di sposare il proprio stupratore. Una violenza più feroce di quella già subita. Se una donna era uccisa per motivi di “onore”, questa era una potente attenuante. Uccidere per punire le donne infedeli era considerato giusto. Sono passati 34 anni da quando quelle norme vennero cancellate dal codice penale. Poco prima era stato legalizzato il divorzio e depenalizzato l’aborto. Abortire, sino a quel momento, era un reato punito con il carcere. Sino a metà degli anni Novanta per la legge italiana lo stupro era un reato contro la morale. Solo dal 1996 la legge lo definisce reato contro la persona. Sulla strada della libertà femminile e – con essa – quella di tutt*, sono stati fatti tanti passi. Purtroppo non tutti in avanti. Il lutto è privato La palude è un mondo sospeso, in bilico tra acqua, cielo, terra. Solo le fronde agitate dallo stormire degli uccelli e qualche quieto sciabordare d’acqua spezzano il silenzio, senza tuttavia muovere il tempo. La palude è stata una delle cifre del femminile. Quello borghese, europeo, decoroso. Le donne delle classi povere erano incastrate nel tempo immobile, ma decisamente meno romantico, delle servitù familiari e non, tipiche della sfera domestica. I femminismi hanno attraversato, scuotendoli alle radici, i tempi fermi, ripetuti, ossessivi del femminile. Una vera rivoluzione, tanto potente che si è a più riprese tentato di mitigarne la portata, imprigionandola nella sfera del costume, delle relazioni interpersonali, della famiglia. Il femminile ha frantumato lo specchio in cui si rifletteva un ruolo sociale considerato immutabile, perché determinato da una sorta di destino biologico investito da sacralità, senza dimensione culturale. Chi lo rifiutasse era (è) contro natura, contro dio, contro le regole di un gioco fissato per sempre. Il femminile è quanto di più simile alla natura sia stato prodotto dalla cultura. La differenza segnata dalla biologia viene assunta come dato immutabile, programmato per sempre. Il percorso della libertà femminile spezza le catene simboliche e materiali dell’ordine patriarcale. La libertà sessuale, riproduttiva, di rimodellamento del proprio stesso corpo rimescola le carte e spezza la gerarchia tra i sessi. Le donne libere generano se stesse, si rimettono al mondo, costruiscono un mondo nuovo. Oggi di fronte al dispiegarsi violento della reazione patriarcale si tenta di privatizzare, familizzare, domesticare lo scontro. Le donne sono vittime indifese, gli uomini sono violenti perché folli. La follia sottrae alla responsabilità, nasconde l’intenzione disciplinante e punitiva, diventa l’eccezione che spezza la normalità, ma non ne mette in discussione la narrazione condivisa. La violenza maschile sulle donne è un fatto quotidiano, che i media ci raccontano come rottura momentanea della normalità. Raptus di follia, eccessi di sentimento nascondono sotto l’ombrello della patologia una violenza che esprime a pieno la tensione diffusa a riaffermare l’ordine patriarcale. La narrazione prevalente sui media è distorta, perché nasconde la realtà cruda della violenza maschile sulle donne. Non solo. Trasforma le donne in vittime da tutelare, ottenendo l’effetto paradossale di rinforzare l’opinione che le donne siano intrinsecamente deboli. Tutto si consuma nel privato, tutto deve restare privato. I panni sporchi si lavano in famiglia. L’utilizzo degli stili di vita, delle personalità delle donne e degli uomini coinvolti come chiavi di lettura degli eventi, facilita la sottrazione alla sfera pubblica della violenza maschile contro le donne. Anche i femminicidi vengono privatizzati, ridotti a esito di relazioni malate. Eppure. Eppure, ad ogni latitudine del pianeta, c’è strage quotidiana di donne. Uccise perché donne. Questo è il senso del termine femminicidio, un neologismo che ormai tutti usano. Un neologismo inventato per dare rendere consapevoli dell’esistenza di un crimine che colpisce le donne, per disciplinarle, piegarle, spaventarle, per tenerle sotto controllo, per (ri)affermare, attraverso la violenza, l’ordine patriarcale. Le migliaia di donne messicane povere, torturate a morte e abbandonate nel deserto, come cose inutili, con la complicità della polizia e della magistratura, sono solo la punta di un iceberg in buona parte sommerso. Sommerso anche alle nostre latitudini, perché la stessa parola “femminicidio” è stata masticata al punto da indebolirne la potenza. Femminicidio diviene il delitto domestico, privato, familiare. L’amore romantico, la passione coprono e mutano di segno al femminicidio. Le donne sono uccise per eccesso d’amore, per frenesia passionale. Un alibi preconfezionato, che ritroviamo negli articoli sui giornali, nelle interviste a parenti e vicini, nelle arringhe di avvocati e pubblici ministeri. Questa narrazione falsa non serve (più) a salvare dalla galera gli assassini, ma a nascondere la guerra contro le donne, in quando donne, che viene combattuta ma non riconosciuta come tale. Rinchiudere nelle mura domestiche i femminicidi serve ad addomesticarli, renderli meno pericolosi per l’ordine sociale. La casa, il “privato”, è il luogo dove si consumano la maggior parte delle violenze e delle uccisioni. Le donne libere vengono picchiate, stuprate e ammazzate per affermare il potere maschile, per riprendere con la forza il controllo sui loro corpi e sulle loro menti. Gli assassini e gli stupratori sono uomini a loro vicini, vicinissimi. Significativo è il fatto che se la violenza domestica cade sotto il segno della malattia, la violenza operata da sconosciuti ri-mette al centro la bestialità umana, una natura ferina, non adeguatamente civilizzata. La metafora della giungla, i branchi di stupratori in strada, specie se stranieri, lontani, diversi riassume una narrazione, dove il nemico delle donne è posto costitutivamente fuori dal consesso sociale. Qui la violenza maschile esce dallo stereotipo del folle, per assumere quello della bestia. La società è sana: chi uccide le donne o è un pazzo o è una bestia. Non umano, fuori dall’umano. L’ordine è salvo. Il lutto è privato. Il mutuo appoggio femminista Da qualche anno ai vari angoli del pianeta le donne hanno deciso di rimettere al centro la lotta contro il patriarcato, spezzando l’immaginario che privatizza la violenza e trasforma i violenti in anomalie, che non intaccano la pace sociale. Al centro di marce, assemblee, proteste rumorose, i contenuti di un’azione femminista, che parte dalla narrazione delle storie che segnano il nostro quotidiano, per rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa fuori e contro chi vuole le donne inchiodate nello ruolo di vittime. La difesa delle donne è sin troppo spesso alibi per politiche securitarie, che usano i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società. Le donne in lotta sanno che lo stereotipo della vittima serve solo a giustificare una perenne messa sotto tutela. I movimenti cresciuti negli ultimi anni rifiutano tutele e tutori, con o senza divisa, traendo forza dalla solidarietà e dal mutuo appoggio. Vivere, solcare le strade con la forza di chi sta intrecciando una rete robusta, capace di combattere la violenza di chi vuole affermare la dominazione patriarcale è la scommessa che rimbalza dall’Argentina al Messico, dall’Italia alla Polonia, dalla Spagna agli Stati Uniti. Itinerari di libertà Le lotte delle donne hanno cancellato tante servitù. Ma ne paghiamo, ogni giorno, il prezzo. La violenza reattiva è solo un lato della medaglia, l’altro è più subdolo e complesso. Il prezzo dell’emancipazione femminile è stato anche l’adeguamento all’universale, che resta saldamente maschile ed eterosessuale. Lo scarto, la differenza femminile, in tutta l’ambiguità di un percorso identitario segnato da una schiavitù anche volontaria, finisce frantumata, dispersa, illeggibile, se non nel ri-adeguamento ad un ruolo di cura, sostitutivo dei servizi negati e cancellati negli anni. Serve uno sguardo maggiormente critico che colga le aporie insite nella dimensione rivendicativa di servizi per i bambini, gli anziani, i disabili. Questi servizi, comunque affidati prevalentemente a lavoratrici, portano all’istituzionalizzazione forzata di chi ha bisogno di essere aiutato a vivere. Una riflessione seria sulla crescita di ambiti pubblici non statalizzati, né mercificati potrebbe aprire percorsi di sperimentazione che sciolgano le donne dal lavoro di cura, liberando dalle gabbie istituzionali bambini, anziani, disabili. Smontare il concetto di famiglia, per dar spazio ad una dimensione sociale più ampia, includente, libera, è un passaggio che sarebbe facile dare per scontato. La famiglia eterosessuale con figli è tornata ad essere al centro della società, senza essersene mai allontanata realmente. È un perno tanto forte da attrarre anche chi, per orientamento sessuale, ne è escluso. In questa partita complessa, dove si gioca l’estendersi dell’universalità formale dei diritti a chi ne è tenuto fuori, si contribuisce paradossalmente a rinforzare la famiglia. Lo spazio della sperimentazione, della messa in gioco dei percorsi identitari, tanto radicati nella cultura, da parere quasi «naturali», spesso si estingue, polverizzato dalle tante cazzutissime donne in divisa, dalle manager in carriera, dalle femministe che inventano le gerarchie femminili per favorire operazioni di lobbing. Lo scarto femminile non è iscritto nella natura ma nemmeno nella cultura, è solo una possibilità, la possibilità che ha sempre chi si libera: cogliere le radici soggettive ed oggettive della dominazione per reciderle inventando nuovi percorsi. Contro la normalizzazione delle nostre identità erranti il femminismo libertario si svincola dalla mera rivendicazione paritaria, per mettere in gioco una scommessa dalla posta molto alta. Una scommessa che scardina l’ordine simbolico, perché è capace di sperimentare, nel conflitto con l’esistente, nella lotta contro le tante linee di cesura che la società gerarchica e di classe ci impone, relazioni politiche, sociali, umane libere. Libertà ed uguaglianza si impastano per mettere sul tavolo tante diverse pietanze, perché la rivoluzione è anche un pranzo di gala. Il femminismo libertario lotta per spezzare l’ordine. Morale, sociale, economico Miliardi di percorsi individuali, che attraversano i generi, costituiscono l’unico universale che ci contenga tutt*, quello delle differenze. Il percorso di autonomia individuale si attua nella sottrazione conflittuale dalle regole sociali imposte dallo Stato, dal capitalismo dal patriarcato. È una strada che ciascun* fa per se, assieme agli altri: si frantuma la gerarchia, per esserci, ciascun* a proprio modo. maria matteo (quest’articolo è uscito sul numero di marzo di Arivista)
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viaggiatricepigra · 5 years ago
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Opinione: Veleno. Una Storia Vera, di Pablo Trincia
 Alla fine degli anni Novanta, in due paesi della Bassa Modenese separati da una manciata di chilometri di campi, cascine e banchi di nebbia, sedici bambini vengono tolti alle loro famiglie e trasferiti in località protette. I genitori sono sospettati di appartenere a una setta di pedofili satanisti che compie rituali notturni nei cimiteri sotto la guida di un prete molto conosciuto nella zona. Sono gli stessi bambini che narrano a psicologi e assistenti sociali veri e propri racconti dell'orrore. La rete dei mostri che descrivono pare sterminata, e coinvolge padri, madri, fratelli, zii, conoscenti. Solo che non ci sono testimoni adulti. Nessuno ha mai visto né sentito nulla. Possibile che in quell'angolo di Emilia viga un'omertà tanto profonda da risultare inscalfibile? Quando la realtà dei fatti emergerà sotto una luce nuova, spaventosa almeno quanto la precedente, per molti sarà ormai troppo tardi. Ma qualcuno, forse, avrà una nuova occasione.  Nota: niente di quello che è scritto in questo libro è stato in alcun modo romanzato dall'autore.
Nato come podcast su Repubblica, ad inizio anno è diventato un libro, che ha riportato a galla, grazie ad anni di ricerche, una delle vicende più controverse italiane, facendo un po' di chiarezza per il pubblico e che si spera porti a nuovi riesami di quei processi, per dare giustizia e la parola fine dopo vent'anni. Quando questa storia iniziò avevo 7 anni. Nonostante lo scalpore che posso solo immaginare abbia potuto causare, non ne ho mai sentito parlare fino a qualche mese fa quando, in un gruppo horror, si raccontava un evento simile. Un'altra "corsa ai pedofili", finita in tragedia sempre di quegli anni. E nei commenti, il riferimento a questa storia e a questo libro. Lo avevo messo in wish, per ricordarmi di cercarlo, perché volevo saperne di più. Ed è stato un caso che, durante la promo Einaudi, mi è saltato fuori questo volume e come un flash ho ricordato il titolo.  L'ho preso subito, ma l'ho letto qualche mese dopo. Una lettura piuttosto veloce, ma dai temi decisamente pesanti per varie ragioni. Si parla di pedofilia, di abusi in famiglie e fuori, si parla di violenze, fino al satanismo. E le vittime sono tutte bambini sotto i 12 anni. Alcuni dei loro racconti sono troppo strani per esser veri.  Troppo raccapricciante che possa esser successo oppure è tutta fantasia? Eppure sono così tanti, non possono esser tutti "bugiardi". Cosa c'è di reale? In quel periodo, dagli Stati Uniti per poi coinvolgere il mondo, è iniziata una folle ed assurda caccia ai pedofili unita alle sette sataniche. Tantissime persone furono arrestate per questi reati, il tutto poi risolto in assoluzioni (spesso dopo anni di carcere). Alla base di tutto una paura illogica che portava a vedere abusi e satanismo ovunque, sopratutto nei racconti dei bambini. Ma a far precipitare le cose erano gli "esperti" che pressavano così tanto le presunte vittime, da far dir loro qualunque cosa, a volte creando falsi ricordi, pur di far smettere le domande. Vediamo un po', a grandi linee, questo romanzo che altro non è che un reportage di un giornalista che, trovatosi ad un punto della carriera in cui niente sembrava toccarlo, ha voluto mettere un freno e trovare una storia su cui indagare che lo riportasse alla realtà ed alla passione di fare il giornalista. E si è imbattuto nel 2014 in questa vicenda, nemmeno da lui conosciuta fino a quel momento. Nelle pagine c'è quello che successe, raccontato attraverso le sue ricerche, fra fascicoli e interviste. Prima di tutto, scritto anche all'interno della copertina, niente è stato romanzato dall'autore. Non sono fatti puri e semplici, ma ci sono illustrati dall'autore che mette una scaletta temporale agli eventi ed ogni tanto si inserisce per presentarci varie figure, con cui ha avuto a che fare durante questo reportage. Si parte nel 1993. Una famiglia povera, disagiata, con tanti figli, che si trovava spesso sfrattata e a dover chieder aiuto. Arrangiandosi come poteva, anche affidando il figlio più piccolo, Dario di 3 anni, a degli amici mentre cercavano di risollevarsi.  (Giustamente) Compariranno delle assistenti sociali che lo porteranno via da tutto quello, per garantirgli una vita più stabile e normale.  E fin qui, nulla di strano. Purtroppo (e capirete come mai più avanti) incrociò la strada con una giovane psicologa tirocinante, Valeria Donati, che gli trovo una nuova famiglia affidataria.  Negli anni successivi poteva comunque tornare nei fine settimana dai suoi genitori naturali, ma nessuna delle due famiglie sopportava bene l'altra. Fino al gennaio 1997. Quando scoppia la bomba. Dario era sempre stato un bambino problematico, ma da alcune sue parole la madre affidataria vide qualcosa di più e lo fece tornare da quella psicologa. Aveva parlato di "scherzi sotto le coperte" da parte del fratello alla sorella. Da lì la valanga. Lentamente quel bambino iniziò a raccontare cose sempre più raccapriccianti che accadevano in famiglia. Ma non solo. Una rete si iniziò ad allargare, coinvolgendo sempre più famiglie, conoscenti, amici,... Una caccia alle streghe che portò più di 20 persone ad essere accusate, processate, condannate e poi molte assolte; alcuni attendono giustizia ancora oggi, che forse grazie a questo libro potranno avere un processo giusto. 16 bambini, da meno di 1 anno fino ai 12 anni, vennero presi e portati via dalle famiglie, che non poterono rivedere. Nemmeno quando furono dichiarate innocenti, davanti alle stesse prove che erano state così "fondamentali" per condannarli, ma che invece (ad altri occhi) non dimostravano niente. I diavoli della Bassa modenese, o pedofili della Bassa modenese, come li chiamavano i giornali fomentando la follia (che porto anche ad altri processi in altre città italiane in quel periodo). Due paesi coinvolti: Mirandola e Massa Finlandese (nella Bassa modenese). Dopo Dario molti altri bambini iniziano a raccontare cose simili, partendo da abusi in famiglia, a pagamenti strani, visite notturne in cimiteri, strani riti, tombe, sangue, animali uccisi, bambini uccisi,... Insomma: un incubo! Le autorità avevano salvato quegli innocenti da dei mostri. Eppure, nessuno aveva mai visto niente di quello che i numerosi bambini raccontavano. Com'era possibile? Sono le domande che si fa anche l'autore.  Cosa c'era di vero? Perché non può essere tutto inventato... O si?! Purtroppo, invece, fu tutto causa di quella caccia e di interrogatori gestiti davvero malissimo da parte di psicologi (fulcro di tutto la Donati e una Onlus da cui provenivano lei ed altre psicologhe) e da una ginecologa (Maggioni) che vide segni di violenza (confermando quindi i sospetti), dove molti altri esperti non videro assolutamente nulla.  Erano novità questi casi e ci si affidó a quei pareri "esperti", che furono smontati. Alcuni già in tribunale, ma che non cambiarono le prime sentenze di colpevolezza. Ma non solo loro, perché vennero poi portati avanti solo alcuni frammenti da chi sosteneva le accuse. C'erano tante incongruenze su cui non si investigò mai in maniera approfondita. Frasi incoerenti dei bambini, a cui non si diede il giusto peso. Piuttosto che controllare, si presero le parti che servivano e si portò tutto in tribunale. La cosa davvero grave, e che fa arrabbiare moltissimo, è che queste persone hanno mantenuto lavoro e status, affiancando processi. Hanno rovinato famiglie, distrutto reputazioni e la vita di tanti bambini innocenti... Senza mai pagare alcun conto e continuando indisturbati. Nessuna scusa, nessun "pentimento". E viene difficile credere che sia stato fatto solo per "errore". Infatti si fanno due conti e si capisce che qualcosa puzza (la Donati, per il suo lavoro con questi bambini è diventata la responsabile del Centro Aiuto al Bambino di Reggio Emilia che, tra il 2002 e il 2013, ha ricevuto dai comuni della zona circa 2 milioni di euro per “l’assistenza psicologica e la cura” per occuparsi di questi minori). Alla fine del romanzo alcuni dei bambini vengono intervistati e ricordano quelle sedute dalla psichiatra in modo molto brutto. Volevano che dicessero quelle cose, che dessero le risposte che loro volevano. Venivano fatte domande pressanti che portavano il bambino a dire sì o no, premiandolo se la risposta era "corretta". Venivano fatte intimidazioni ("se vuoi vedere la tua mamma devi dirci la verità"), solo per sentirsi confermare una versione creata dagli adulti. Una bambina viene ritenuta "omertosa" perché non conferma le loro teorie. Una bambina! E giusto per non farci mancare niente, la Onlus che assisté i bambini e li fece seguire da proprie psicologhe è il Centro Studi Hansel e Gretel di Torino, ora al centro della vicenda "Angeli e Demoni" (Bibbiano). Vent'anni dal caso dei "diavoli". Insomma...... Per concludere, una lettura davvero affascinante che dimostra quanto poco basti a rovinare vite e famiglie, nonostante si possa partire con buoni propositi (salvare dei bambini), ma che alla fine di tutto sembra l'ennesima corsa per sembrare degli eroi, usando ogni mezzo per riuscirci (interrogatori pressanti sui minori, minacce, suggestione,...).  Per non parlare del "rifiuto" delle autorità a rimettere insieme i figli con le famiglie quando tutte le accuse sono cadute. Battaglie che alcuni combattono ancora oggi, per non parlare dei traumi subiti da entrambe le parti (alcuni di quei bambini hanno evitato qualsiasi contatto con la famiglia biologica perché hanno detto loro che non erano voluti, e si sono sentiti feriti. E non si può dar loro torto). Una lettura forte, pesante, che ti scava dentro un macigno e fa sorgere mille dubbi. "E se fosse capitato a me?"  Una domanda banale, ma che non può esser liquidata con un: impossibile.   Nonostante uno possa essere una persona onesta e buona, potrebbe succedere. Queste famiglie ne sono l'esempio, come tutte quelle che le circondavano e che si sono fatte indietro per non finire pure loro nel mirino di questa caccia così folle.  Agghiacciante e, ahimè, ancora tristemente attuale.  from Blogger https://ift.tt/2ZDasAm via IFTTT
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patriziadidio · 6 years ago
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La democrazia paritaria: la rivoluzione culturale della parità nella differenza
Quando si parla di occupazione, ancora una volta emerge in modo preoccupante il divario endemico tra nord e sud del paese. Se si prende in esame ad esempio la regione Sicilia, il tasso di disoccupazione nei primi 9 mesi del 2018 è stato pari al 21,4%, contro una media nazionale del 10,5%. A questa percentuale va aggiunta, purtroppo, quella di coloro che il lavoro non lo cercano perché hanno perso addirittura ogni speranza di trovarlo. Allo sconfortante 21,4% deve sommarsi il 38,1% di giovani che oltre a essere disoccupati non frequentano più la scuola, l’università o un corso di formazione professionale. Ancora più allarmante è che in questa classifica il podio per province sia tutto siciliano. Palermo è la città metropolitana in cui i “Neet”, fra i cittadini che hanno un’età compresa fra 15 e 29 anni, sono il 41,5%. Solo poco meglio fanno Catania, con il 40,1%, e Caltanissetta, con il 39,8.
A questo quadro si aggiunge anche un altro triste primato: i dati degli ultimi anni indicano che le ultime quattro regioni in Europa per tasso di occupazione femminile sono in Italia, con la Sicilia che si conferma fanalino di coda[1].Tra il 2016 e il 2017 l'occupazione è aumentata ma la Sicilia mantiene il primato negativo con solo il 29,2% delle donne tra i 15 e i 64 anni che risulta occupata a fronte del 62,4% medio Ue e del 48,9% medio in Italia. Seguono la Campania (29,4%), la Calabria (30,2%) e la Puglia (32%).
Sul gender gap nel mondo del lavoro, i numeri parlano fin troppo chiaro e mostrano come l’Italia continui ad arrancare. Gli ultimi dati Istat[2] di novembre 2018 rilevano come a essere penalizzate sono soprattutto le donne: mentre cresce l’occupazione maschile (+19mila), torna a calare la – già bassa – occupazione femminile (-23mila). In un solo anno si contano 129mila occupati in più tra gli uomini, 30mila in meno tra le donne, attestandoci agli ultimi posti nelle classifiche europee. L’analisi dei dati dimostra sempre più che la situazione dell’occupazione maschile è legata ai cicli economici globali, mentre quella femminile è di natura strutturale.
Nonostante il ritardo del nostro paese rispetto ai partners europei, non si può affrontare il tema dell’uguaglianza di genere e delle pari opportunità senza travalicare i nostri confini nazionali e gli stessi confini europei. Bisogna essere consapevoli che si tratta di un problema, prima che politico, soprattutto culturale, e come tale riguarda il cambiamento di mentalità di tutta la società.
È un problema che investe diversi aspetti e che mostra molte sfaccettature, come è emerso durante il Forum mondiale della democrazia. L’evento, promosso lo scorso novembre dal Consiglio d'Europa, aveva come tema “Uomo donna: la stessa lotta?”[3]. Molti sono stati gli interventi, e le testimonianze delle differenze, delle discriminazioni e delle violenze che ancora oggi ricadono sull'universo femminile. Secondo Gabriella Battaini-Dragoni, vice-segretario generale del Consiglio d’Europa, la questione è il potere, ma non solo, “l’uguaglianza nella rappresentanza politica è una condizione per la democrazia”.  Continua ad essere rilevante l’esigua presenza femminile nei ruoli politici, e in quelli di grande responsabilità nel mondo del lavoro e della giustizia. Ma il punto non è più solo una questione di “quote rosa”, che risulta comunque una misura di successo ma ormai del tutto insufficiente. Problemi si presentano ancora nei 17 Paesi europei che le hanno introdotte: oltre al persistere nelle rappresentazioni dell’immagine stereotipata della donna e del suo ruolo, aumentano le aggressioni e le violenze che ora si sono spostate anche sui nuovi media.
Illuminanti, sul concetto fuorviante di uguaglianza, sono le parole di Claude Chirac, figlia del presidente francese Jacques, in occasione del Forum: “Ci sono differenze e specificità” tra uomini e donne; “complementarietà, rispetto e armonia sono parole che mi piacciono di più”. E in maniera significativa si è espresso anche Philippe Muyters, ministro fiammingo del lavoro, secondo cui “ci sono diritti uguali ma non ancora uguali opportunità”. La ricetta del ministro Muyters è “essere consapevoli delle differenze e valorizzarle”, qualsiasi esse siano. Per sperare in un cambiamento radicale nella cultura c’è bisogno di “donne di successo, che siano modelli di ruolo e ispirino altre donne”.
Le donne imprenditrici sono ancora più coinvolte quindi nell’obiettivo di promuovere attraverso il loro esempio la parità di genere e di opportunità, ed emancipare tutte le donne e le ragazze. In generale le donne sono chiamate in causa per la loro speciale sensibilità verso i diritti umani e per il loro approccio verso la sostenibilità, riconducibile al senso di cura, al saper prendersi cura delle persone e delle cose. La componente femminile della società deve essere posta nelle condizioni di operare serenamente e compiutamente nel mondo del lavoro, per apportare il proprio fondamentale contributo.
I 57 Stati partecipanti dell’OSCE[4], compresa l’Italia, si sono impegnati ad adottare numerose iniziative politiche e misure specifiche a sostegno della parità di genere, della parità di diritti per le donne e per gli uomini. Queste misure sono riconosciute come essenziale per favorire la pace, la democrazia sostenibile e lo sviluppo economico.
Le scelte politiche tuttavia non sempre vanno in questa direzione. Come viene rivendicata la presenza delle donne nel mondo imprenditoriale, e il loro modus operandi come una delle chiavi del cambiamento, bisogna altrettanto decisamente esigere politiche di sostegno chiare e convinte a favore della famiglia.  Solo così può iniziare un ragionamento scevro da ipocrisie sul ruolo delle donne come soggetto economicamente rilevante.
In occasione dell’approfondimento sul gender gap “Occupata meno di una su due. Che otto marzo è per le donne italiane?”[5] la giornalista Sandra Zampa ricorda che “l’occupazione femminile è al 48% circa, ben al di sotto dell’obiettivo di Lisbona stabilito al 60%”, ed “è la Banca d’Italia a dichiarare che, se questo traguardo fosse raggiunto, il Pil del nostro Paese crescerebbe di 7 punti”. A dimostrazione che non è un problema che riguarda solo le donne, ma l’intero Paese.
La ricercatrice INAPP (Istituto Nazionale per le Analisi delle Politiche Pubbliche) e studiosa di mercato del lavoro ed esclusione sociale, Valentina Gualtieri, aggiunge dati importante tra cui il fatto che l’inattività femminile è intorno al 45% mentre l’occupazione è sotto la soglia del 50%, con una differenza rispetto al tasso di occupazione maschile di più di 18 punti percentuali.
Durante l’approfondimento rappresentanti trasversali del mondo della politica hanno provato a fornire delle risposte: seppur interessanti si tratta ancora di proposte. Maria Edera Spadoni, la vicepresidente della Camera dei deputati, ha ricordato la proposta di Tiziana Ciprini “sull’imposizione del curriculum anonimo: competenze e capacità senza età e senza sesso”. E ha lanciato, in anteprima, appena depositata, la sua proposta di “considerare le donne vittime di violenza domestica come categoria protetta per l’inserimento nel mondo del lavoro”. Anna Rossomando, vicepresidente del Senato ha ricordato che “in Italia tutto è aggravato dalla diminuzione dell’occupazione generale e c’è bisogno di un atteggiamento progettuale e non a spot”. Ha ricordato anche il problema della “disparità di retribuzione” e della “maternità che vede tutto il welfare sulle spalle delle donne”. La vicepresidente del Senato ha proposto due emendamenti: “uno per ottenere il reddito di cittadinanza con una corsia privilegiata per le donne vittime di violenza, che al momento non è passato, e uno relativo a quota 100“.
Si può notare come c’è convergenza sulle “proposte positive”. Ma l’atteggiamento “costruttivo” dovrà essere sostenuto da un’azione politica coesa che proceda secondo i livelli della pianificazione, dell’attuazione strategica e della valutazione. La strada per la democrazia paritaria è ancora lunga: la costruzione di una nuova cittadinanza che si articoli e si completi nei due generi implica una trasformazione profonda e complessa del sistema sociale e richiede di affrontare la questione del gender gap, che è soprattutto culturale ed economica, nel cuore dei meccanismi democratici.
Patrizia Di Dio
[1] http://www.ansa.it/sicilia/notizie/2018/05/05/sicilia-ultima-ue-donne-occupate-292_7b5c5bdf-1fdc-487e-8f82-ee51973945a9.html
[2]https://www.inps.it/docallegatiNP/Mig/Dati_analisi_bilanci/Osservatori_statistici/Osservatorio_precariato/Osservatorio_Precariato_Gen_Ott_2018.pdf
[3] https://agensir.it/europa/2018/11/20/parita-donna-uomo-e-pilastro-per-la-democrazia-strasburgo-ospita-il-forum-mondiale/
[4] https://www.osce.org/it/gender-issues
[5] http://www.dire.it/05-03-2019/305075-video-in-italia-piu-del-50-delle-donne-non-occupate-serve-rivoluzione-culturale/
di Patrizia Di Dio Articolo originale http://bit.ly/2UKBBmz
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stefyishere-blog · 7 years ago
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La mia famiglia perfetta non esiste più
Siamo al primo mattone sul muro, parafrasando i leggendari Pink Floyd.
Da dove iniziare?
Ho pensato a lungo sul come poter intavolare il discorso senza perdermi in giri di parole oppure senza omettere dettagli importanti (i dettagli fanno sempre la differenza, così dicono).
Proprio oggi facevo le pulizie, pensavo a mille frasi ad effetto da poter scrivere qui, le mani quasi prudevano dalla voglia di correre sulla tastiera, ma ora che sono qui davanti il vuoto.
Cercherò di arrangiarmi, per cui perdonatemi se non seguirò un filo logico. Nessuna vita lo segue, in ogni caso, e qui sto raccontando la mia vita, dunque ha senso. Credo.
Penso di essere stata un figlia voluta, ma è complicato. I miei genitori non hanno evitato una gravidanza, ma non l’hanno nemmeno cercata. Come mi ha detto mia madre, “se questo figlio viene va bene, altrimenti va bene comunque”, questo era il loro pensiero. Insomma, concepita nell’indifferenza, ma non mi lamento. Il problema della mia nascita è, i miei genitori erano molto giovani e per nulla adatti al loro ruolo; non lo sono tutt’ora.
Per essere genitori non bastano cinque minuti di su e giù su un letto e nemmeno il dolore del parto. Non basta vestire e nutrire tuo figlio.
Procreare è istintivo, accudire è obbligatorio, ma educare e sostenere... per quello devi essere una persona sana di mente, e i miei genitori non lo sono.
Si sono sposati all’età di venticinque anni mio padre e diciotto mia madre, dopo appena un anno dal loro primo incontro. Molti hanno pensato che mia madre fosse rimasta incinta e si siano sposati per questo, ma non è così. Si sono sposati perché mio nonno era molto all’antica e non permetteva a mia madre di star fuori più tardi delle nove di sera.
Essenzialmente, ecco una delle cause della mia rovina: un banale coprifuoco.
Se solo avessero avuto più tempo per frequentarsi, magari avrebbero ralizzato di non essere per nulla fatti l’uno per l’altra e tutti i miei problemi (e la mia vita in primo luogo) non avrebbero avuto luogo.
Comunque sia.
I miei primi quattro anni sono andati piuttosto bene. Ero amata, viziata, coccolata. I miei genitori si amavano, sembrava. Avevamo anche appena cambiato casa, una bella villetta con giardino. Avevo una grande stanza tutta mia. Tutto splendido, fin quando mio padre non ha tradito mia madre con la stessa donna con cui anche mio zio contemporaneamente ha tradito sua moglie.
Mia madre doveva immaginarselo, mio padre aveva appena iniziato a far palestra e ripreso a curarsi. Forse pensava che lo stesse facendo per compiacere lei, invece era per l’amante. Tipico.
Ovviamente la brava donna era la migliore amica di mia madre e di mia zia, e mio zio e mio padreerano perfettamente consapevoli che entrambi stavano andando a letto con lei nello stesso periodo. Ah, mio zio ha comunque deciso di divorziare e andare a convivere con la vipera (poi si sono sposati e fortunatamente hanno divorziato anche con loro, ma questa è un’altra storia). Insomma, Beautiful chi? La mia famiglia non lo conosce.
Questo evento è la chiave di volta della mia vita, credo. Ovviamente all’epoca non ne sapevo nulla, i miei occhi di bambina riuscivano solo a vedere oggetti volar via dalle finestre. O sulla testa di mio padre.
La mia famiglia perfetta si era appena frantumata.
Avevo due fratelli più piccoli all’epoca, C di un anno e D di pochi mesi. Eravamo allo sbaraglio. Nessuno si prendeva più cura di noi, i miei genitori erano troppo impegnati ad ammazzarsi a vicenda. Ricordo che mia nonna materna veniva a casa nostra per farci da mangiare o per cambiarci i vestiti sporchi.
Quella casa era diventata asfissiante. Non riucivo a capire perché mia madre piangesse e urlasse tanto, perché mio padre non tornasse più da lavoro.
Ricordo di aver avuto continuamente incubi su una persona che rapiva mio padre, io le gridavo “papà è mio, ridammelo!”. Anche se non ero cosciente del fatto che quel qualcuno esistesse davvero, il mio subconscio aveva comunque compreso su per giù che effetivamente quella persona c’era. La mente è davvero affascinante.
Mio padre tornava a casa di tanto in tanto, anche se ho solo ricordi confusi. Sto facendo uno sforzo enorme per richiamare quel periodo, come se il mio cervello avesse selettivamente eliminato quella parte della mia vita, questo però non le impedisce di condizionarmi ancora oggi.
Sono sempre stata una bambina molto precoce, ho imparato a leggere e scrivere a soli tre anni e a un anno non sapevo più cosa fosse un pannolino. Eppure ho ricominciato a bagnare il letto. Prima di tanto in tanto, poi ogni sera. Ricordo di aver provato molta vergogna nel dover mettere il pannolino a quasi cinque anni. Sembrerebbe una cosa da poco, ma ero molto condizionata da quel mio problema notturno, soprattutto perché mio padre non mancava di sottolineare “Non ti vergogni? Tuo fratello sta quasi imparando a levarlo e tu lo stai rimettendo”. Nella sua ignoranza (perchè sì, tra le tante cose è anche un uomo ignorante), non si era forse reso conto che tutto quello era la diretta conseguenza delle sue cazzate, e passatemi il termine.
Adesso lo so, non incolpo più la me stessa di quattro anni per aver bagnato il letto.
Da bravi idioti, i miei genitori hanno deciso di continuare a stare insieme “per il nostro bene”; sarebbe stato meglio se non l’avessero mai fatto. Ricordate mio nonno, quello all’antica? Non vedeva bene nemmeno il divorzio, quindi penso che alla fine siano rimasti insieme anche per quel motivo.
Non vorrei davvero dover incolpare mio nonno (la pesona più cara che abbia avuto in vita mia), e giuro che mi sto rendendo conto di tutto questo solo ora, ma nuovamente il suo essere troppo severo ha causato il secondo disastro della mia vita: i miei genitori non hanno divorziato quando avrebbero dovuto.
Mia madre ha seplicemente detto di essere disposta a mettere una pietra sopra, ovviamente non lo ha mai fatto. Dopo quasi vent’anni rinfaccia ancora quel tradimento alla prima occasione buona. A proposito, è così che ne sono venuta a conoscenza. Una volta hanno iniziato a litigare furiosamente e io ero lì davanti a loro, ma ai due non è mai importato più di tanto se noi assistessimo o meno ai loro litigi (anzi, spesso ci chimavno di proposito per poterci usare come “testimoni” delle loro affermazioni). In un momento di rabbia, mia madre gli ha urlato di “tornarsene da quella zoccola con cui era stato a letto”. Avevo quindici anni ma è stato comunque un colpo. Ho chiesto spiegazioni in un secondo momento e lei mi ha raccontato tutta la storia. Nuovamente, i miei non sono in lista peril premio “genitori del secolo”.
Riprendendo la nostra (mia) storia, mio padre ha tadito mia madre ma è tornato a casa e hanno deciso di ricominciare, se così si può dire.
Da qui, le cose si fanno decisamente complicate. La mia storia prende una svolta sovrannaturale. Intendo, letteralmente.
So che sembrerebbe tutto preso di punto in bianco e senza un filo logico ma di nuovo, la mi vita e questa storia non hanno il benchè minimo filo logico.
Potete credermi o no, siete liberi di pensare quello che volete. Questa è la mia vera storia nuda e cruda, non sto cercando di spacciarvi uno pseudo romanzo noir o altro, e nemmeno sto cercando di rendere la mia vita più interessante parlando di demoni e fantasmi fittizi.
Quello che ho vissuto non può essere solo frutto della mia mente, o di un’allucinazione collettiva.
Se non ci credete, più che comprensibile.Vedete quella “x” rossa, in alto a destra? Vi prego di chiudere ora.
Non criticatemi, non prendetemi per pazza.
Chiudete e sarete in pace con voi stessi.
Se avete deciso di restare, invece... beh, avete coraggio.
Continuerò ad essere onesta, ma niente rimborsi.
Siete stati avvisati.
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bastianoenrico · 7 years ago
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Settimana Crucca #49/2017
Lunedì, 5 dicembre: 🔵⚪️👨‍❤️‍👨❓
Il paziente bavarese ha scelto la sua cura. I vertici del partito conservatore bavarese CSU - uscito malconcio dalle elezioni politiche di settembre - hanno  trovato una soluzione alla lotta intestina che era esplosa nelle ultime settimane. I due protagonisti di questa lotta, il Primo Ministro della Baviera Horst Seehofer e il Ministro delle Finanze Markus Söder, si spartiscono il potere: Seehofer rimane alla guida del partito. Söder diventerá, agli inizi del 2018, Primo Ministro della Baviera. Seehofer, poi - a patto che a Berlino si trovi finalmente un accordo su una nuova coalizione di governo - con ogni probabilità otterrà un posto da Ministro nel quarto governo federale di Angela Merkel.
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I due uomini forti della CSU: Horst Seehofer (a sinistra) e Markus Söder. Foto: Freud/Wikimedia
Se a questo punto doveste chiedervi perché chi si interessa di Germania dovrebbe interessarsi così tanto a chi governa la Baviera, eccovi la spiegazione, secca e banale: 
Senza i bavaresi non si governa a Berlino. 
La CSU è un partito particolare: Mentre in tutto il resto della Germania, chi vuole votare un partito conservatore in cabina elettorale mette la croce vicino alla scritta CDU - la sigla dell’Unione Cristiano-Democratica guidata da 17 anni abbondanti da Angela Merkel - in Baviera la CDU non è eleggibile. Nel land tedesco più grande per superficie si può votare solo la CSU. La CSU governa la Baviera ininterrottamente da 60 anni, è sempre stata confermata dagli elettori. E, mentre negli altri länder tedeschi le coalizioni di governo sono cambiate regolarmente, in Baviera, per quasi tutti questi 60 anni, la CSU ha governato con la maggioranza assoluta. E tutto questo con un sistema elettorale misto, quindi con un parlamento comunque composto da almeno tre-quattro partiti diversi. Grazie a questo strapotere in casa, la CSU anche a livello nazionale conta. Pur candidandosi solo in Baviera, a livello nazionale arriva sempre intorno al 6-7 percento dei voti complessivi. Nel Bundestag a Berlino, la CSU forma, fin dalla nascita della Repubblica Federale Tedesca nel 1949, un gruppo unico con la CDU.
Spesso, comunque, CDU e CSU hanno litigato: negli anni ‘70 e ‘80 il contrasto era tra il Cancelliere Helmut Kohl (CDU) e il suo amico-nemico Franz-Josef Strauss (CSU), Primo Ministro Bavarese. Negli ultimi anni, c’è stato un aspro contrasto tra la Cancelliera Merkel (CDU) e il Primo Ministro Bavarese Seehofer (CSU) - soprattutto sulla politica di immigrazione, in seguito alla decisione della Merkel di accogliere centinaia di migliaia di profughi nell’estate e nell’autunno del 2015.
Ora, con la CSU riappacificata, i vertici dei conservatori tedeschi sperano di ritrovare l’unità, tra bavaresi e non-bavaresi. Ma questo è tutt’altro che scontato. Come spiegavo nella Settimana Crucca #46/2017, giá Seehofer e Söder, i due capi della CSU, non si sopportano l’un l’altro. E nonostante la batosta elettorale di settembre per i conservatori, con una dolorosa emorragia di voti (meno 8,6 percento rispetto al 2013),  la discussione su come risalire la china non è ancora nemmeno iniziata. 
Martedì, 5 dicembre: 👨‍🏫🏫😒
L’obiettivo principale di questo blog è spiegarvi cosa succede in Germania. E questo obiettivo ne porta con se un altro, apparentemente poco patriottico quanto decisamente necessario: sfatare i falsi miti sulla Germania diffusi in Italia. E questo martedì arriviamo alla madre dei falsi miti: “in Germania le cose funzionano.” Funzionano le grandi opere pubbliche, funzionano i trasporti, funziona la scuola. Macché. I grandi progetti? Vi consiglio di approfondire le vicende del nuovo aeroporto di Berlino, che doveva essere aperto nel 2012 e che a oggi non si sa esattamente quanto aprirà e che nel frattempo ha divorato miliardi di soldi pubblici in eccesso rispetto al previsto. I trasporti? Provate a chiedere a qualche pendolare tedesco: rivaluterete le Ferrovie dello Stato. E la scuola? 
Martedì, appunto, sono stati pubblicati i risultati dello studio internazionale PIRLS, sulla capacità di lettura e comprensione degli alunni di quarta elementare. E mentre i bambini italiani superano la media europea e sono risultati più bravi rispetto ai loro coetanei di 15 anni fa, quelli tedeschi sono peggiorati. 
Ben il 19 percento degli allievi tedeschi dimostra scarse capacità di comprensione. E, oltre a questo, il PIRLS ha confermato alcuni mali cronici dell’istruzione pubblica tedesca. In Germania, il successo scolastico dei bambini dipende troppo dall’istruzione e dallo status economico dei genitori: la scuola, insomma, non riesce a colmare le lacune di quei bambini che vivono in famiglie in cui si legge poco. E il problema si intensifica con gli anni, anche questo viene ri-confermato dal PIRLS: i ragazzi provenienti da famiglie con reddito basso hanno una probabilità moito più bassa di andare al liceo e successivamente all’università.
Sul sistema scolastico tedesco, insomma, c’è molto da fare per la politica, nazionale e regionale: l’istruzione scolastica, infatti, in Germania è di competenza dei länder. Il governo federale ha poche possibilità di intervenire sui deficit in alcune aree geografiche. E così, mentre in un land ricco come la Baviera le scuole sono per lo più in buono stato e dotate di mezzi moderni e i professori hanno stipendi relativamente alti, in un land con meno risorse come Berlino o Vestfalia-Renania Settentrionale, molte strutture sono fatiscenti, gli stipendi degli insegnanti più bassi. 
Un altro falso mito da seppellire.
Mercoledì, 6 dicembre: 👩‍🎓💰🤷‍♀️
Comunque, non siamo disfattisti: in molti campi, la Germania effettivamente offre di più ai suoi cittadini rispetto all’Italia. Basti guardare gli studenti universitari: in Germania, chi ha genitori dal reddito basso, ha diritto al BaföG. Il BaföG è un aiuto statale dato dal Governo Federale a studenti bisognosi: arriva fino a 735 Euro al mese, l’importo esatto dipende dal reddito dei genitori. Metà dell’importo è un sussidio vero e proprio, l’altra metà è un prestito a tasso zero che, una volta finiti gli studi, lo studente dovrà restituire a rate. Ma la fase di restituzione inizia solo se l’ex studente guadagna almeno 1.135 Euro netti al mese - e l’importo totale da restituire non supererà mai i 10.000 euro totali. Insomma, il BaföG consente anche a tutti di laurearsi. Almeno in teoria.
Perché nel 2017, il numero di persone che hanno percepito il BaföG è calato a un minimo storico: secondo i dati pubblicati mercoledì dall’istituto di statistica nazionale, solo 823.000 studenti ne hanno beneficiato, meno di un quinto del totale. Dieter Timmermann, Presidente dello Studentenwerk, dell’associazione che gestisce mense scolastiche e studentati in Germania, ha dichiarato che solo il 37 percento degli universitari con genitori non laureati fa richiesta di BaföG - spesso per paura di indebitarsi (quando il rischio, per il tetto di 10.000 euro e le regole sulla restituzione, è in realtà minimo). Timmermann ha anche denunciato la carenza di studentati, in cui gli studenti possano abitare ad affitti economici. Specie nelle grandi città tedesche, infatti, pagare una stanza affittata da un privato può avere costi proibitivi. La soluzione, secondo Timmermann: Lo Stato investa di più e informi meglio i futuri studenti universitari - in modo da garantire anche ai flgli degli operai pari opportunità nel mondo accademico.
Il BaföG, insomma, è un potente motore per l’ascensore sociale tedesco. Ma si è inceppato.
Giovedì, 7 dicembre: 🔴⚫️😕
Lunedì è stata la volta dei conservatori bavaresi, da giovedì sono i socialdemocratici a gestire le conseguenze della loro sconfitta elettorale. La SPD guidata dall’ex presidente del parlamento europeo Martin Schulz, alle elezioni politiche di settembre ha ottenuto solo il 20,5 percento di consensi: è stato il peggior risultato del dopoguerra. Da giovedì, i socialdemocratici tengono il loro congresso di partito a Berlino. E la questione più spinosa di cui i delegati hanno discusso è: governare o non governare? Perché a quasi tre settimane dal fallimento delle trattative per una coalizione giamaicana e a due mesi e mezzo dalle elezioni politiche, la Germania non ha ancora un nuovo governo.
Le opzioni realistiche sul tavolo per un nuovo esecutivo restano sempre tre: un governo di minoranza guidato dai conservatori di CDU/CSU; elezioni anticipate; una nuova Grosse Koalition tra conservatori e SPD, come quella che è ancora formalmente in carica dal 2013. Il governo di minoranza non piace per niente ai conservatori e in particolare Merkel, perché a detta loro, obbligando i conservatori a cercare una maggioranza parlamentare nuova per ogni proposta, garantirebbe poca stabilità politica. Le elezioni anticipate rischiano di non portare a nulla di nuovo: i sondaggi più recenti, infatti, mostrano solo leggeri spostamenti di voto, che non prospettano certe altre maggioranze di quelle sul tavoio. Sulla Grosse Koalition, contrari sono soprattutto i socialdemocratici. Il candidato premier Schulz, la sera delle elezioni, aveva dichiarato nella sede degli SPD, davanti ai suoi sostenitori: “La nostra collaborazione con i conservatori finisce oggi.”  E i compagni presenti lo avevano applaudito freneticamente. 
Il passaggio del discorso di Schulz la sera delle elezioni in cui dichiara finita la Grosse Koalition:
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Perché la maggior parte dei socialdemocratici è convinta che la Grosse Koalition (GroKo in politichese tedesco) li abbia danneggiati oltremodo. Il motivo? I cittadini, vedendo al lavoro un governo composto da centrodestra e centrosinistra, vedrebbero scemare le differenze tra i due campi politici - e questo, rafforzerebbe i partiti più estremi: il partito di sinistra Die Linke da una parte, i populisti di destra dell’AfD dall’altra. E i risultati elettorali di questo settembre sembrano dar ragione a chi è contrario a una nuova GroKo: l’AfD ha avuto un exploit arrivando a oltre il 13 percento, la Linke (in cui sono confluiti molti ex-elettori dell’SPD) è ferma intorno al 9 percento.
Il problema è che la SPD reclama per se, da sempre, anche un atteggiamento responsabile nel confronto dello Stato tedesco e delle sue istituzioni. E lasciare il Paese in una situazione di instabilità politica causa non poco mal di testa a molti socialdemocratici. Oltretutto il Presidente Federale Frank Walter Steinmeier, che prima della sua elezione alla massima carica nello Stato era stato membro dell’SPD (oltre che ministro degli esteri e candidato premier)  per decenni, ha invitato tutti i partiti, compresi i suoi ex compagni, ad assumersi la propria responsabilità, entrando chi può potenzialmente formare un governo a entrare in colloqui - ma con alcuni punti fermi che devono assolutamente  entrare in un eventuale contratto di coalizione: tra questi, salari minimi garantiti in tutta la Unione Europea, più investimenti in scuole e case popolari, aliquote fiscali più alte per redditi alti, ricongiungimento familiare per profughi di guerra. I colloqui dovrebbero iniziare la prossima settimana. Sono settimane davvero intense per la politica tedesca. 
Venerdì, 8 dicembre: 📺😱🇩🇪
Netflix, la piattaforma di streaming più diffusa del mondo, sta scombussolando il panorama mediatico in Germania: da anni, diminuisce, soprattutto tra i più giovani, il tempo passato guardando canali TV tradizionali. E anche in Germania, tra compagni di scuola e colleghi in ufficio, si parla ormai molto di più della nuova serie di Stranger Things che non del film in prima serata TV del giorno prima. Ora è uscita la prima serie Netflix interamente prodotta in Germania: Si chiama Dark, è ambientata in un paese della Germania meridionale - e tratta di bambini scomparsi, fenomeni paranormali ed è piena di flashback. Ora, se questo concetto vi pare parecchio simile a quello di Stranger Things, non siete gli unici: alcuni critici tedeschi e, stando ai commenti su Facebook, anche molti spettatori, hanno criticato questa strana somiglianza. Ma sta di fatto che l’idea di Dark è nata prima dell’uscita della prima stagione di Stranger Things - e che le critiche, tutto sommato, non sono poi così negative: insomma, sembra una serie piuttosto godibile per gli amanti di horror e thriller vagamente nostalgici degli anni ‘80 e ‘50. Con il buon proposito di guardare io stesso Dark, vi auguro un buon weekend e una buona settimana pre-natalizia, vi propongo una mini-recensione dei colleghi di Wired.it - e il trailer italiano della serie.
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intotheclash · 3 years ago
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Erano appena le tre e le si era liberata la giornata. Non aveva voglia di ritornare nel suo appartamento, in un anonimo palazzone della sterminata periferia romana. Aveva bisogno d'aria e di camminare per rammendare le idee. Puntò decisa verso Villa Borghese. Quel polmone verde, che dava respiro a tutto quel cemento che lo circondava, le ricordava vagamente la campagna dove era nata. Scelse con cura una panchina e si sedette a fumare e riflettere. Riavvolse il nastro della sua vita, con particolare attenzione a quell'ultimo anno. non le sembrava di avere davanti un bilancio troppo positivo. La linea spezzettata sul grafico, anche se non cadeva a picco, scendeva inesorabilmente verso il segno meno. Solo il lavoro faceva eccezione. Era un'agente immobiliare, vendere case le piaceva e con la gente ci sapeva fare. Aveva chiuso diversi contratti, alcuni molto travagliati e al limite del possibile; ciò le aveva permesso di guadagnare bene, oltre che in vile moneta, anche nella stima dei suoi colleghi. Ci sapeva davvero fare. Ma, tolto il lavoro, cosa le restava? Tolto il lavoro si poteva tranquillamente parlare di disastro. Disastroso il  rapporto con i suoi genitori, disastroso il rapporto con gli amici, disastroso il rapporto con gli uomini. Già, gli uomini…ma che razza di bestie erano? Aveva trentaquattro anni, era una bella donna, lo sapeva e ne riceveva conferma ogni giorno. Ancora catturava occhi e sorrisi. Allora come mai si ritrovava da sola? Che fosse colpa sua? Certo, era finita da un pezzo l'epoca dei vent'anni. Col passare del tempo, era diventata molto più esigente ed insofferente. Non aveva voglia di accontentarsi, si rifiutava di accettare ciò che non riusciva a digerire. non voleva saperne degli altrui difetti, quelli che, come tutti dicono, poi impari ad amare. Se ne fotteva. E, soprattutto, non era disposta a cambiare, a cambiarsi. Non poteva condividere i sogni con chi, in ultima analisi, era incapace di sognare. O tutto, o niente. Forse davvero era colpa sua! Era diventata insofferente.
Anche gli uomini, però, ci mettevano del loro. E ne avevano da metterci! Anche quell'Umberto, per esempio, non era male…era un bell'uomo, elegante, curato, pulito, in sporadici casi, anche brillante, ma, come tipico della sua “razza”, demandava troppo spesso il compito di ragionare al suo fratellino più piccolo. Quanto piccolo sarà stato poi? Tale riflessione la fece ridere come una scema, ma riprese subito il controllo, sbirciando in giro a sincerarsi che nessuno se ne fosse accorto. Le venne in mente un brano di Davide Van De Sfroos, La ballata del Genesio, dove cantava: ho dato retta al cuore e qualche volta all'uccello. Centro. Era ciò di cui aveva bisogno: qualcuno che sapesse dar retta al cuore e all'uccello contemporaneamente. Non le sembrava chiedere troppo!
Accese un'altra sigaretta, guardò l'orologio: le cinque e trenta del pomeriggio. Alzò il viso e, solo allora, si avvide dell'uomo che, non più distante di una quindicina di metri, stava puntando dritto verso di lei. Lo soppesò con lo sguardo e decise che non c'era da preoccuparsi. Era decisamente attraente, si muoveva con estrema leggerezza, sembrava scivolare sul terreno come l’acqua; certo che era vestito in maniera del tutto anonima e pensò che fosse un vero peccato. E peccato anche che l'avesse puntata. Voleva starsene da sola e in silenzio. Niente mosconi a ronzarle intorno. Non oggi.
“Mi perdoni, ma avrei bisogno di accendere.” Disse l'uomo senza inflessioni dialettali nella sua voce, sbollando un pacchetto di Pall Mall.
La donna sbuffò infastidita e col tono del: con me non attacca, bello! Rispose:“ E’ un po’ vecchiotta, forse ti conviene provare altrove.”
“Non importa che sia vecchia, non a me, comunque. L'importante è che abbia ancora voglia di accendersi e di accendere. Mi creda, non desidero altro.”
Lo fissò dritto negli occhi, occhi in moto perpetuo, non inebetiti sulle sue tette. Forse… ma no, l'approccio era stato di una banalità disarmante, così:“Mi dispiace, non ho da accendere” Soffiò fuori in fretta.
“Fa niente, andrò a cercare miglior fortuna altrove. Ma capita anche che le cose siano esattamente come sembrano. Mi perdoni l'intrusione. Le auguro che la sua giornata migliori.” Le disse con un accenno di sorriso e guardandola, per la prima volta negli occhi.
Fu sinceramente colpita da quella sorta di congedo. Lo seguì con lo sguardo e lo vide avvicinarsi ad una coppia di anziani, ottenendo, ormai era evidente, quello che stava cercando. Si era comportata come un qualsiasi idiota. Si era dimostrata prevenuta e scortese, Non le piacque affatto il suo comportamento di poc'anzi e tentò di rimediare.
“Ehi!” Gridò, agitando la mano per richiamare l'attenzione dell'uomo. Lui si voltò, le mostrò la sigaretta accesa, sorrise apertamente e tornò a voltarsi per la sua strada.
“Aspettami!” Disse ad alta voce, alzandosi dalla panchina per raggiungerlo. Non lo avrebbe lasciato andare portandosi via un'immagine di lei così odiosa.
“Non serve che si giustifichi, una brutta giornata capita a tutti.” La anticipò.
Fu di nuovo colta di sorpresa, le parole stentarono ad uscire, ma parlare era parte del suo mestiere, la parte che le riusciva meglio e se lo ricordò appena in tempo.
“Toccata! Mi sono comportata come una stupida. Ti avevo cucito addosso un bel giudizio precotto. Scusami di nuovo e, credimi, di solito non succede.”
“Sono felice per te. Perché, al contrario, di solito, è esattamente quel che succede. Affibbiare etichette sembra essere lo sport nazionale. Altro che il calcio. Forse è come con i cani, che hanno bisogno di marcare il territorio. Allo stesso modo, gli uomini devono orinare sui propri simili per avere l'illusione di saperli riconoscere.”
“Posso farti una domanda?” Non capiva cosa le fosse preso, ma ormai era andata.
“Certo, basta che non implichi il dovere di una risposta.”
“Ho smesso da un bel pezzo di pretendere.”
“Allora puoi andare con la domanda.”
“Di che colore sono i miei occhi?”
“Domanda a doppio taglio. Non è così facile come potrebbe sembrare…”
“Lo sapevo, peccato.” Pensò la donna, ma, ancora una volta, era giunta a conclusioni affrettate.
“Oggi, con questo sole abbagliante, di un bel celeste trasparente, ma direi che il più delle volte potrebbero essere sul verde, con tendenze al grigio nelle giornate di pioggia.” Sentenziò l'uomo, dopo una profonda boccata di sigaretta.
Partì anche la seconda domanda. Partì prima del pensiero, prima che la vergogna per averla fatta le incendiasse il viso:“E le mie tette come sono?”
Lui non si scompose e, senza distogliere lo sguardo da quello di lei rispose: “Dovresti fare più attenzione. Perché, a volte, potrebbe capitare che rubino il palcoscenico agli occhi.”
“Posso offrirti un caffè? Per rimediare!”
L'uomo la trapassò con la vista come una freccia di balestra e trapassò anche tutto quello che c'era dietro di lei, per finire dove nessuno sapeva dove. “Rimediare è un verbo privo di significato.” Disse “Non c'è possibilità di rimediare al passato; per quanto prossimo. Possiamo solo comportarci diversamente.”
“Sarebbe un no?”
“Al contrario, sarebbe un si. Non so se tu ti aspettassi un'altra risposta, nell'eventualità, mi dispiace. Ma io non rifiuto mai un buon caffè.” E sorrise.
“A proposito, non ci siamo ancora presentati. Io mi chiamo Andrea.” Disse la donna.
“Avrei potuto usare le stesse parole.”
“Cosa?”
“Se prometti di non scambiarlo per un segno del destino, sono pronto a farti una rivelazione: anch'io mi chiamo Andrea.” Anche se quello non era il suo vero nome. Era quello che si trovava stampato sulla sua carta di identità, sotto alla sua vera foto. La carta non era la sua. Era stata rubata in un'altra città poco prima della sua comparsa nella capitale.
“L'uomo medio si cura se le cose siano vere o false, ma il guerriero no. L'uomo medio procede in modo specifico con le cose che sa essere vere e in modo diverso con le cose che sa essere non vere…Il guerriero agisce in entrambi i casi.”
Il libro non concedeva tregue durature.
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lucas-reading-list · 7 years ago
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Lo stile non va vacanza
I don’t know italian, and this article is great (you can use google translate) =))
Source: http://www.stilemaschile.it/2012/06/18/lo-stile-non-va-vacanza/
Siamo oramai entrati nella stagione più pericolosa dell’anno, per l’uomo che desidera essere elegante. Come resistere e offrire agli occhi inconsapevoli dei più un esempio concreto e virtuoso di stile maschile? 
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I tempi – complessi e certamente poco eccitanti – in cui è dato vivere pongono l’uomo al centro di numerose tensioni. Chi sia giunto alla maturità aspira ancora a consolidare le mete che faticosamente ha ottenuto; al contempo, rifugge decisamente l’assunzione di troppe responsabilità. Anela a una tranquillità economica che qualunque onesta professione concede sempre più tardi e, al tempo stesso, convive con un bruciante desiderio di libertà. Sempre più impegnativa e difficile diviene l’acquisizione di un ruolo pieno e convinto nelle principali dimensioni del suo vivere sociale. Il matrimonio e la famiglia, in particolare, non costituiscono più spartiacque tra l’età del disimpegno e quella cd. “della ragione”.
Nell’abbigliamento maschile si osservano tendenze opposte ed egualmente preoccupanti.
Da un lato, è crescente il numero di uomini di mezza età (e oltre) affetti da penose sindromi giovanilistiche che si traducono nel culto esasperato di taluni capi d’abbigliamento: i jeans o i pantaloni a vita bassa entro cui si costringono – evidenziandole ancor di più – pancette e altre inevitabili imperfezioni fisiche; gli indumenti comodi e informali che – traducendo incontenibili smanie di libertà – lasciano spesso intravedere vaste aree di epidermide pelosa e informe; i capi cd. “tecnici” che, dovunque e comunque, richiamano il senso di eroiche avventure, vittorie sportive o imprese estreme (ovviamente solo immaginate, nel comodo tepore dei tinelli, sotto l’ipnotico effetto di giganteschi schermi al plasma). A tali atteggiamenti si affianca il rifiuto di accessori più impegnativi e simbolicamente più rappresentativi della maturità, quali il cappello, la cravatta, il cappotto.
Dall’altro lato, sono sempre più numerosi anche i nuovi (e falsi) dandies che, in nome di improbabili pretese di originalità, si dedicano con disinvolto e cinico accanimento alla rivisitazione dell’abbigliamento classico (molto spesso si tratta di veri e propri saccheggi), alla estremizzazione degli stili, delle dimensioni, delle forme e dei colori, al sistematico disconoscimento dell’etimologia e della storia dei capi che indossano.
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Tra queste due opposte tendenze si colloca la gran massa di coloro che si professano del tutto disinteressati ai propri abiti, limitandosi ad accettare quel minimo di convenzioni che ancora resiste e che ancora suggerisce, ad esempio, di indossare l’abito a giacca e la cravatta per recarsi in ufficio, a un colloquio di lavoro, a un pranzo formale o a una cerimonia. Vi è, in molti di questi uomini, una sorta di rifiuto di considerare l’abbigliamento e il rispetto dei suoi codici come un aspetto importante della vita quotidiana; vi è una qualche vergogna o pudore nel dedicarvi tempo o nel parlarne. In molti casi, questi atteggiamenti – sospesi tra il senso di colpa e la compiaciuta mortificazione del piacere di vivere – tradiscono la ferma convinzione che preoccuparsi dei propri vestiti sia esclusivo appannaggio di vanitosi, superficiali, nullafacenti; di gente, insomma, vuota e inaffidabile.
Sospinto da quelle tensioni, costretto a muoversi tra differenti esemplari maschili (peraltro, di gran lunga più numerosi e influenti), l’uomo di stile, il vero uomo di stile, ha due possibilità: ripiegarsi su sé stesso e, inevitabilmente, soccombere sotto il travolgente avanzare delle nuove tendenze o sotto sferzanti giudizi di narcisistica frivolezza; oppure affidarsi – con orgoglio e silente consapevolezza – ai tradizionali valori e ideali dell’immaginario estetico maschile, alla sobrietà propria dell’eleganza classica, all’armonia che porta a vivere pienamente e naturalmente la vita, ad ogni età, anche attraverso la scelta dell’abbigliamento più appropriato.
L’estate ormai iniziata è, tuttavia, la stagione dell’anno più insidiosa per l’uomo di stile: le temperature elevate e la maggiore propensione al tempo libero e alla vacanza rischiano infatti di attenuare l’attenzione per i presidi estetici cui egli è naturalmente predisposto. Maggiori, inoltre, sono le occasioni di contatto e di confronto con le specie maschili in precedenza citate, di fronte alle quali ogni cura, anche minima, dedicata al ben vestire rischia di risaltare eccessivamente, di assumere un’evidenza innaturale e, nei casi peggiori, di essere additata quale fonte di esecrabile diversità.
Nelle righe che seguono, vorrei fornire modeste indicazioni circa taluni capi d’abbigliamento che considero più adatti ad affrontare le occasioni vacanziere offerte dall’incombente stagione estiva, senza tralasciare le insidie che, come già detto, esse possono riservare.
Occorre innanzitutto precisare che l’uomo di stile non dovrebbe mai vivere la vacanza come un’occasione che autorizzi qualsivoglia mutamento nelle proprie abitudini e attitudini. Come in altre situazioni e stagioni dell’anno, egli semplicemente si limiterà ad adeguare il proprio guardaroba al clima, agli impegni e ai programmi, alle località in cui trascorrerà il meritato riposo, alle attività ricreative in cui sarà presumibilmente più coinvolto.
Non solo le località e le modalità di vacanza, ma anche i capi d’abbigliamento da riporre in valigia saranno diversi a seconda che si vada in vacanza da soli ovvero con la propria famiglia e, in particolare, con bimbi ancora piccoli. In quest’ultimo caso, l’uomo di stile, quand’anche possa permettersi una o più bambinaie cui affidare le incombenze più gravose e fastidiose che la gestione dei piccoli comporta, non rinuncerà a trascorrere buona parte della giornata a contatto con i figli, vivendo tali momenti (più frequenti rispetto agli ordinari periodi lavorativi) come ulteriori occasioni di piacere. Sarebbe perciò auspicabile, per affrontare queste occasioni con la dovuta scioltezza e il massimo del godimento, che la scelta dei capi da indossare scontasse preventivamente un accurato calcolo dei rischi di macchie, strappi o altri tipi di danni. In definitiva, la grazia e l’eleganza di un uomo di stile si misurano anche attraverso la particolare “sprezzatura” con cui egli si mostra in grado di godere, con l’abbigliamento più adeguato, di ogni dono che la vita abbia voluto generosamente concedergli e, tra tutti, di quello – meraviglioso – della paternità.
Fatte queste premesse, vorrei richiamare l’attenzione su capi  d’abbigliamento particolarmente versatili e dotati di notevole capacità d’adattamento a situazioni diverse. Essi saranno da considerare, in qualsiasi tipo di vacanza, come “irrinunciabili”.
Tra le giacche, il blazer blu occupa un posto privilegiato. In trasparente lana ritorta a due capi, in fresca saglia, addirittura in seta shantung, prevalentemente sfoderato, in versione monopetto (a tre bottoni) o doppiopetto (a sei), con tasche a filo o (meglio) a toppa, bottoni in metallo o in spessa madreperla, esso sarà un fedele compagno nelle occasioni formali (abbinato a pantaloni in tela vaticana grigio medio o antracite), oppure in quelle più mondane ma meno impegnative (con pantaloni in lana o lino nelle gradazioni comprese tra il bianco, il ghiaccio e il beige). Oltre a quelli appena citati, la gamma dei pantaloni da indossare con il blazer dovrebbe comprenderne almeno un paio in tela o cotone rosso (splendidi quelli nel classico Nantucket red), un paio a righe bianche e azzurre in tessuto seersucker e alcuni in cotone chiaro (divertenti anche in colori insoliti come il verde mela, il rosa antico, il giallo limone, il rosso prugna).
L’abito a giacca in lino chiaro, tabacco o in un bel blu non troppo scuro, ha un fascino speciale. Da non sottovalutare, per i soggiorni in campagna, la potenza evocativa della canapa in colori naturali, declinata in abiti interi mono o doppio petto. Nell’indossare i capi appena citati in luoghi di vacanza, tuttavia, occorre una buona dose di disinvoltura (che è uno dei pilastri su cui poggia l’eleganza), onde sopportare con nonchalance inevitabili sguardi curiosi, divertiti o irridenti. Anche le località più rinomate, infatti, sono ormai prese d’assalto da orde di “ciabattanti”, al cui cospetto un abito di tal fatta può far sentire spaesati o fuori luogo.
Altri pantaloni indispensabili in vacanza sono quelli da indossare con la sola camicia. Occorrerebbe farsene confezionare alcune paia in drill di cotone blu, crema o bianco. Ad essi aggiungerei i classicissimi e pressoché indistruttibili chinos, di taglio più sportivo, e alcuni bermuda in drill di cotone chiaro o a righe seersucker con tasca tagliata, pinces e risvolto. In montagna, oltre a quelli in tela o cotone, faranno figura comodi pantaloni in velluto a coste, nei classici colori del bosco.
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È doveroso dedicare qualche cenno specifico ai jeans, che occupano uno spazio più che degno nell’abbigliamento classico. Si tratta di un capo sportivo, da utilizzare in contesti coerenti con la sua natura, abbinandolo a capi altrettanto sportivi e informali (come camicie in tela, giubbini di cotone tipo “bomber”, ecc.). Sembra quasi superfluo ricordare che la linea asciutta e aderente di questi pantaloni ne sconsiglia l’adozione a chiunque non sia dotato di un fisico altrettanto asciutto, plasmato da almeno qualche ora settimanale di attività sportiva. L’uso del blazer blu con i jeans, praticato all’inizio solo da taluni fuoriclasse dell’abbigliamento (tra tutti, l’avvocato Agnelli) e diffusosi rapidamente tra tristi epigoni e “originali a tutti i costi”, mi pare oggi francamente detestabile, al pari dell’orribile verbo “sdrammatizzare” spesso usato per giustificarlo.
Per ciò che concerne le calzature, l’estate – e, in particolare, la vacanza – concede ampio spazio ai mocassini, sia in pelle liscia e suola in cuoio (bellissimi quelli con le nappine), sia in pelle scamosciata e suola in gomma o gommini (gli unici da portare senza calze). Al blazer e ai pantaloni chiari potrà essere efficacemente abbinato anche un bel paio di derby in pelle scamosciata chiara, con suola in gomma rosso mattone. Si tratta di una scarpa che, se realizzata a regola d’arte, mostra una classe travolgente.
In località marine si troveranno a loro agio, indossate senza calze, le intramontabili Superga in lino bianco o blu (ancora meglio se scolorite dall’uso), le espadrillas in colori vivaci, nonché le scarpe da barca, anch’esse in colori decisi e fondo chiaro. Zoccoli, infradito e altre tipologie di ciabatta saranno riservate – senza alcuna deroga! – ai pochi metri quadri da percorrere tra l’ombrellone e il bagnasciuga, ovvero a bordo piscina.
In montagna, le uniche scarpe da considerare, oltre ai mocassini per il passeggio in paese o le serate in albergo, saranno gli scarponcini da trekking in pelle o pelle e tela che, sopra pesanti calzettoni (magari a rombi), assicureranno il massimo comfort nelle escursioni.
Le scarpe da ginnastica (cui gli attenti cultori delle effimere leggi della moda hanno da tempo attribuito il suggestivo e onnicomprensivo nome di sneackers) sono oggi largamente abusate (persino sotto abiti completi) da aspiranti originaloni, sedicenti “neo-eleganti” e amanti del comfort estremo, in nome di una praticità che nulla concede alla bellezza e al gusto. L’uomo di stile trarrà da tali discutibili pratiche le dovute conseguenze, ignorando completamente le scarpe in questione al di fuori delle specifiche attività sportive per le quali esse sono state ideate.
Se ci si lascia guidare dal faro del buon gusto, non vi è limite, in vacanza, al numero e al colore delle camicie da mettere in valigia. Molte saranno button-down in oxford leggero, lino irlandese, chambrai o popeline, di taglio piuttosto ampio e rigorosamente con maniche lunghe. Le uniche concessioni alla mezza manica riguarderanno le polo in cotone a nido d’ape e, senza esagerare, qualche classica “caprese” (con il collo morbido e senza pistagna) o qualche “hawaiana” a colori e fantasie vivaci. In montagna, invece, avrà il giusto risalto ogni specie di cotone quadrettato.
L’uomo di stile nutre un’autentica venerazione per il cappello a tesa e, d’estate, sarebbe naturalmente propenso a indossare il Panama in ogni occasione consentita. Si tratta di un cappello che, per citare il mio carissimo amico Lorenzo Villa, “è metafora di una maniera di vivere e pensare”. Risalente al 1600 e definitivamente annoverato tra i grandi classici dell’abbigliamento maschile nel primo decennio del 1900, quando il presidente americano Theodore Roosevelt lo indossò in occasione dell’inaugurazione dell’omonimo canale, il Panama è il risultato dell’intreccio della toquilla, una paglia elastica ricavata dalla palma “carludovica palmata”. La sua lavorazione può richiedere fino ad alcuni mesi, per i modelli con trama più fine e leggera come il Montecristi, il che giustifica il limitato numero di esemplari in commercio e il conseguente costo assai elevato.
Anche per questo prestigioso complemento dell’abbigliamento elegante valgono talune avvertenze: si tratta di un capo da indossare con la massima disinvoltura, quando si è sicuri che ne vengano comprese non solo l’indiscutibile bellezza, ma anche l’appropriatezza rispetto al contesto e la coerenza con la mise e la peculiare sensibilità del proprietario. Purtroppo, sono sempre più rare le occasioni in cui è dato cogliere tali sforzi di comprensione, sicché l’uomo in Panama, avvistato per strada dalla solita folla di ignavi, rischia di scatenare irriverenti sberleffi piuttosto che sentimenti di soggiogata ammirazione.
Al mare o in campagna, chi voglia destare minori attenzioni potrà affidarsi, in modo del tutto adeguato, anche a cappelli in paglia di modesta fattura ma di indubitabile versatilità, ovvero a cappelli in cotone o lino, con tese abbassate, stile “pescatore”. Per i berretti tipo “baseball” e simili valgono le considerazioni svolte in precedenza per le sneackers, le camicie a mezze maniche e per tutti quei capi con i quali numerose specie d’uomini si limitano, con allegra incoscienza, a coprirsi.
In definitiva, un guardaroba è il frutto della lenta e accurata accumulazione di capi e accessori. Esso, poco a poco, grazie anche a un’attenta e sapiente selezione, finisce con l’essere il più fedele ritratto della personalità, del carattere e dello stile di un uomo. Gusto e conoscenza vi si trovano mirabilmente distillati. Anche il guardaroba per le vacanze risponde a questi principi fondamentali. Non solo la sua composizione e il suo assortimento, ma anche il concreto utilizzo dei capi che lo compongono saranno la misura di come l’uomo di stile, il vero uomo di stile, interpreta, secondo uno spartito unico e irripetibile, l’arte di vivere. In questo gioco (perché nient’altro che di un gioco si tratta…), equilibrio, sobrietà, armonia saranno le uniche regole cui sarà bene evitare di concedere troppe deroghe.
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sounds-right · 7 years ago
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Meet Music Follonica (GR) 28 - 30 giugno: crescono le iscrizioni al workshop gratuito per dj con Tommy Vee, Mauro Ferrucci ed altre star del mixer. E poi: test di nuovi prodotti, party & pure cibo d'eccellenza (…)
È ancora possibile iscriversi gratuitamente a Meet Music, workshop gratuito per dj a cui parteciperanno per condividere le loro esperienze anche star come Tommy Vee e Mauro Ferrucci, cliccando sul sito (http://www.meetmusic.it). Lo si potrà fare fino alla mezzanotte del 27 Giugno… meglio farlo prima, comunque, onde evitare brutte sorprese. Infatti le iscrizioni sono tante e in crescita costante.
Il programma, al di là di quanto già previsto per i tre giorni di workshop, sta diventando ancora più ricco. Infatti, grazie alla collaborazione con Dj Hub (www.djhub.it) i partecipanti a Meet Music potranno testare nuovi prodotti davvero interessanti per chi fa il dj o vuol iniziare a farlo. Ad esempio giovedì 29 dalle 13 alle 15 i partecipanti al meeting potranno testare la nuova console  Prime Series di Denon DJ, in particolare i lettori SC5000 Prime e il mixer X1800 Prime. In un altro momento verrà testato anche Toraiz SP16 di Pioneer, un prodotto decisamente innovativo.
Si è poi definito il programma dei tre Meet Music Party in programma al Ganesh Follonica (GR). Nella serata di mercoledì 29 giugno si potranno ascoltare i dj set di Federico Scavo e Max Zotti, mentre giovedì 29 si alterneranno Alex Kenji & Marco Lys. Venerdi 30 giugno  insieme a Luca Guerrieri e Giacomo Donati suonerà un dj scelto tramite estrazione tra i partecipanti al meeting. Parlando di cibo, nella serata di mercoledì se ne occuperà lo staff di Acciuga, giovedì ci sarà un "back to back" chiamato Sushi&Tapas a cura di Zenzero Cibo E Perditempo e YOKU. Il venerdì invece sarà interamente dedicata al Sushi sempre a cura di YOKU e del suo staff. L'ingresso ai party Meet Music è gratuito con consumazione facoltativa.  Ganesh Lounge Bar & More è in Viale Italia 305 (vicino a Giardino Beach) a  Follonica (GR) info: 3355849391.
Ma cos'è Meet Music?
Meet Music (www.meetmusic.it) è un workshop gratuito di tre giorni dedicato a chi vuol capire come si fa a diventare un dj professionista. Prende vita il 28, 29 e 30 giugno 2017 al Teatro Fonderia Leopolda, nel cuore di Follonica (GR). Per partecipare basta iscriversi su www.meetmusic.it e poi scaricare il voucher da presentare all'ingresso. La location d'eccezione, il mare di Follonica a due passi, per cui l'occasione sembra perfetta per parlare di musica, fare musica e poi rilassarsi. Sei ore di meeting al giorno, dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18 circa. Poi iniziano i party al Ganesh...
Meet Music si rivolge a tutte quelle persone che hanno domande specifiche sulla professione del dj e sulla produzione discografica ma non sanno a chi farle. Ad ideare la manifestazione è il dj producer toscano Luca Guerrieri, originario proprio di Follonica, un professionista con oltre vent'anni di carriera alle sue spalle che in questa manifestazione collettiva ha coinvolto colleghi e amici. Tra gli altri interverrà Tommy Vee, professionista della console che ha iniziato a mixare ben prima di arrivare in tv e ha continuato ad imporsi per la sua capacità di produrre musica e di mixarla in dj set eccellenti. Ci saranno anche Mauro Ferrucci, veneto come Tommy Vee ed il toscano Federico Scavo, anche loro da tempo protagonisti nelle console di mezzo mondo.
"Faremo incontrare persone che hanno domande con persone di esperienza, che daranno valide risposte", spiega Luca Guerrieri. "Ho partecipato a tanti workshop, in mezzo mondo. Quasi tutti erano ben fatti, ma fin troppo specialistici e dedicati a chi è già un professionista della materia. Meet Music abbiamo scelto invece di dedicarlo ai giovani e ai giovanissimi, che spesso hanno talento ma non sanno come indirizzarlo. In tre giorni daremo delle linee guida, mettendo in luce la bellezza del lavoro del dj, ma anche le difficoltà che questo mestiere comporta".
Durante Meet Music si parlerà di tutto ciò che può essere utile a trasformare il sogno di fare il dj nella possibilità di fare davvero un mestiere che sembra a molti facile…  Ma in realtà, probabilmente, non lo è. Non ci sono solo le luci del palco, anzi della console: quello del dj è un lavoro che si fa soprattutto di giorno, in studio e non solo. Durante il workshop si parlerà davvero di tutto: dalla club life alla produzione musicale;  dalle esperienze di dj professionisti alle pratiche burocratiche che ogni dj deve necessariamente adempiere per non incorrere in multe spesso pesanti.
Parleranno, come anticipato, vere star del mixer come Mauro Ferrucci, Tommy Vee, Federico Scavo e Max Zotti. Interverranno tra gli altri produttori stimati e conosciuti a livello internazionale come Gianni Bini, Alex Kenji, Marco Lys e pure Franco Fraccastoro, produttore musicale e product specialist Steinberg. Pierangelo Mauri, rappresentante di SIAE, spiegherà come tutelarsi, mentre Paolo Bartelloni, commercialista che spesso lavora con i dj, racconterà problemi e soluzioni fiscali per chi svolge questa professione. Infine, non mancherà un incontro con etichette discografiche di rilievo come Claps Records, Airplane Records, Area 94 e Natura Viva.
Tra gli sponsor e i partner che hanno reso possibile Meet Music vanno senz'altro citati APIA Pro Audio che fornirà tutto il necessario a livello tecnico e Tree Agency che ha realizzato le grafiche. L'hotel ufficiale del workshop è l'Hotel Giardino, mentre ogni sera al Ganesh prenderanno vita dj set con i protagonisti del workshop. Il Comune di Follonica ha infine fornito il suo Patrocinio, un riconoscimento senz'altro importante per un evento alla sua prima edizione.
La Fonderia Leopolda, la location di Meet Music L'evento si svolgerà nella suggestiva Fonderia Leopolda, una ex fabbrica della ghisa trasformata oggi in teatro della città di Follonica. La Fonderia è situata nella dismessa area ex ILVA. Nel progetto di restauro è stato sistemato un allestimento che ha dotato la fonderia di un palcoscenico e di strutture per l'installazione di impianti audio e luci. La platea, suddivisa in due settori, contiene 268 persone. Il teatro è stato inaugurato con il concerto di apertura di Franco Battiato il 27 ottobre 2014.
Il programma di Meet Music
Day 1: Djing Interverranno Mauro Ferrucci, Tommy Vee, Federico Scavo e Max Zotti. Racconteranno come la professione del DJ sia cambiata nel corso degli ultimi 25 anni. Spiegheranno quali sono i loro metodi per la ricerca della musica e quale sia il loro metodo per "interpretare" le serate. Parleranno anche dell'importanza che hanno oggi i social e la cura della propria immagine per ogni dj.
Day 2: Produzione Discografica Interverranno Gianni Bini, Alex Kenji, Marco Lys, Alex Kenji ed Alex Marton. Questi professionisti parleranno del proprio approccio alla produzione discografica avvalendosi anche di alcuni loro progetti smontandoli e riassemblandoli in diretta. Avendo tutti esperienze abbastanza diverse, sarà interessante confrontarle per arricchire la propria tecnica. Interverranno anche Franco Fraccastoro, produttore musicale e docente di Cubase (Steinberg), uno dei software di produzione musicale più importanti e diffusi ed Alex Marton, produttore ed ingegnere del suono.
Day 3: Regolamentazioni SIAE ed ENPALS / Incontro con alcune etichette discografiche Durante la prima parte della giornata interverranno Pierangelo Mauri e Paolo Bartelloni. Il primo in qualità di rappresentante della SIAE e spiegherà come tutelare le proprie opere e come ottimizzare tutte le possibilità di guadagno derivanti dalla propria produzione discografica. Paolo invece aiuterà i partecipanti a capire come lavorare nel pieno della legalità. E' infatti un commercialista che esercita nel campo del djing e della produzione discografica da anni. Nella seconda parte della giornata ci sarà un incontro con le etichette discografiche tra le quali Claps Records, Airplane Records, Area 94, Natura Viva (etc) e verrà spiegato come approcciarsi al mondo della discografia, partendo dall'invio di una demo fino ad arrivare alla lettura di un contratto.
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djs-party-edm-italia · 7 years ago
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Meet Music Follonica (GR) 28 - 30 giugno: crescono le iscrizioni al workshop gratuito per dj con Tommy Vee, Mauro Ferrucci ed altre star del mixer. E poi: test di nuovi prodotti, party & pure cibo d'eccellenza (…)
È ancora possibile iscriversi gratuitamente a Meet Music, workshop gratuito per dj a cui parteciperanno per condividere le loro esperienze anche star come Tommy Vee e Mauro Ferrucci, cliccando sul sito (http://www.meetmusic.it). Lo si potrà fare fino alla mezzanotte del 27 Giugno… meglio farlo prima, comunque, onde evitare brutte sorprese. Infatti le iscrizioni sono tante e in crescita costante.
Il programma, al di là di quanto già previsto per i tre giorni di workshop, sta diventando ancora più ricco. Infatti, grazie alla collaborazione con Dj Hub (www.djhub.it) i partecipanti a Meet Music potranno testare nuovi prodotti davvero interessanti per chi fa il dj o vuol iniziare a farlo. Ad esempio giovedì 29 dalle 13 alle 15 i partecipanti al meeting potranno testare la nuova console  Prime Series di Denon DJ, in particolare i lettori SC5000 Prime e il mixer X1800 Prime. In un altro momento verrà testato anche Toraiz SP16 di Pioneer, un prodotto decisamente innovativo.
Si è poi definito il programma dei tre Meet Music Party in programma al Ganesh Follonica (GR). Nella serata di mercoledì 29 giugno si potranno ascoltare i dj set di Federico Scavo e Max Zotti, mentre giovedì 29 si alterneranno Alex Kenji & Marco Lys. Venerdi 30 giugno  insieme a Luca Guerrieri e Giacomo Donati suonerà un dj scelto tramite estrazione tra i partecipanti al meeting. Parlando di cibo, nella serata di mercoledì se ne occuperà lo staff di Acciuga, giovedì ci sarà un "back to back" chiamato Sushi&Tapas a cura di Zenzero Cibo E Perditempo e YOKU. Il venerdì invece sarà interamente dedicata al Sushi sempre a cura di YOKU e del suo staff. L'ingresso ai party Meet Music è gratuito con consumazione facoltativa.  Ganesh Lounge Bar & More è in Viale Italia 305 (vicino a Giardino Beach) a  Follonica (GR) info: 3355849391.
Ma cos'è Meet Music?
Meet Music (www.meetmusic.it) è un workshop gratuito di tre giorni dedicato a chi vuol capire come si fa a diventare un dj professionista. Prende vita il 28, 29 e 30 giugno 2017 al Teatro Fonderia Leopolda, nel cuore di Follonica (GR). Per partecipare basta iscriversi su www.meetmusic.it e poi scaricare il voucher da presentare all'ingresso. La location d'eccezione, il mare di Follonica a due passi, per cui l'occasione sembra perfetta per parlare di musica, fare musica e poi rilassarsi. Sei ore di meeting al giorno, dalle 10 alle 13 e dalle 15 alle 18 circa. Poi iniziano i party al Ganesh...
Meet Music si rivolge a tutte quelle persone che hanno domande specifiche sulla professione del dj e sulla produzione discografica ma non sanno a chi farle. Ad ideare la manifestazione è il dj producer toscano Luca Guerrieri, originario proprio di Follonica, un professionista con oltre vent'anni di carriera alle sue spalle che in questa manifestazione collettiva ha coinvolto colleghi e amici. Tra gli altri interverrà Tommy Vee, professionista della console che ha iniziato a mixare ben prima di arrivare in tv e ha continuato ad imporsi per la sua capacità di produrre musica e di mixarla in dj set eccellenti. Ci saranno anche Mauro Ferrucci, veneto come Tommy Vee ed il toscano Federico Scavo, anche loro da tempo protagonisti nelle console di mezzo mondo.
"Faremo incontrare persone che hanno domande con persone di esperienza, che daranno valide risposte", spiega Luca Guerrieri. "Ho partecipato a tanti workshop, in mezzo mondo. Quasi tutti erano ben fatti, ma fin troppo specialistici e dedicati a chi è già un professionista della materia. Meet Music abbiamo scelto invece di dedicarlo ai giovani e ai giovanissimi, che spesso hanno talento ma non sanno come indirizzarlo. In tre giorni daremo delle linee guida, mettendo in luce la bellezza del lavoro del dj, ma anche le difficoltà che questo mestiere comporta".
Durante Meet Music si parlerà di tutto ciò che può essere utile a trasformare il sogno di fare il dj nella possibilità di fare davvero un mestiere che sembra a molti facile…  Ma in realtà, probabilmente, non lo è. Non ci sono solo le luci del palco, anzi della console: quello del dj è un lavoro che si fa soprattutto di giorno, in studio e non solo. Durante il workshop si parlerà davvero di tutto: dalla club life alla produzione musicale;  dalle esperienze di dj professionisti alle pratiche burocratiche che ogni dj deve necessariamente adempiere per non incorrere in multe spesso pesanti.
Parleranno, come anticipato, vere star del mixer come Mauro Ferrucci, Tommy Vee, Federico Scavo e Max Zotti. Interverranno tra gli altri produttori stimati e conosciuti a livello internazionale come Gianni Bini, Alex Kenji, Marco Lys e pure Franco Fraccastoro, produttore musicale e product specialist Steinberg. Pierangelo Mauri, rappresentante di SIAE, spiegherà come tutelarsi, mentre Paolo Bartelloni, commercialista che spesso lavora con i dj, racconterà problemi e soluzioni fiscali per chi svolge questa professione. Infine, non mancherà un incontro con etichette discografiche di rilievo come Claps Records, Airplane Records, Area 94 e Natura Viva.
Tra gli sponsor e i partner che hanno reso possibile Meet Music vanno senz'altro citati APIA Pro Audio che fornirà tutto il necessario a livello tecnico e Tree Agency che ha realizzato le grafiche. L'hotel ufficiale del workshop è l'Hotel Giardino, mentre ogni sera al Ganesh prenderanno vita dj set con i protagonisti del workshop. Il Comune di Follonica ha infine fornito il suo Patrocinio, un riconoscimento senz'altro importante per un evento alla sua prima edizione.
La Fonderia Leopolda, la location di Meet Music L'evento si svolgerà nella suggestiva Fonderia Leopolda, una ex fabbrica della ghisa trasformata oggi in teatro della città di Follonica. La Fonderia è situata nella dismessa area ex ILVA. Nel progetto di restauro è stato sistemato un allestimento che ha dotato la fonderia di un palcoscenico e di strutture per l'installazione di impianti audio e luci. La platea, suddivisa in due settori, contiene 268 persone. Il teatro è stato inaugurato con il concerto di apertura di Franco Battiato il 27 ottobre 2014.
Il programma di Meet Music
Day 1: Djing Interverranno Mauro Ferrucci, Tommy Vee, Federico Scavo e Max Zotti. Racconteranno come la professione del DJ sia cambiata nel corso degli ultimi 25 anni. Spiegheranno quali sono i loro metodi per la ricerca della musica e quale sia il loro metodo per "interpretare" le serate. Parleranno anche dell'importanza che hanno oggi i social e la cura della propria immagine per ogni dj.
Day 2: Produzione Discografica Interverranno Gianni Bini, Alex Kenji, Marco Lys, Alex Kenji ed Alex Marton. Questi professionisti parleranno del proprio approccio alla produzione discografica avvalendosi anche di alcuni loro progetti smontandoli e riassemblandoli in diretta. Avendo tutti esperienze abbastanza diverse, sarà interessante confrontarle per arricchire la propria tecnica. Interverranno anche Franco Fraccastoro, produttore musicale e docente di Cubase (Steinberg), uno dei software di produzione musicale più importanti e diffusi ed Alex Marton, produttore ed ingegnere del suono.
Day 3: Regolamentazioni SIAE ed ENPALS / Incontro con alcune etichette discografiche Durante la prima parte della giornata interverranno Pierangelo Mauri e Paolo Bartelloni. Il primo in qualità di rappresentante della SIAE e spiegherà come tutelare le proprie opere e come ottimizzare tutte le possibilità di guadagno derivanti dalla propria produzione discografica. Paolo invece aiuterà i partecipanti a capire come lavorare nel pieno della legalità. E' infatti un commercialista che esercita nel campo del djing e della produzione discografica da anni. Nella seconda parte della giornata ci sarà un incontro con le etichette discografiche tra le quali Claps Records, Airplane Records, Area 94, Natura Viva (etc) e verrà spiegato come approcciarsi al mondo della discografia, partendo dall'invio di una demo fino ad arrivare alla lettura di un contratto.
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intotheclash · 4 years ago
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La coppia era seduta ad un tavolo in disparte, nello spazio esterno di quel minuscolo ristorante. La cornice era da mozzare il fiato. Antichi palazzi signorili incastonavano quella piazzetta di Trastevere, facendola risplendere senza arroganza, come un diamante grezzo non ancora tagliato. A prima vista, i due, avrebbero potuto essere scambiati per una coppia felice in luna di miele, o, quanto meno, per due furtivi amanti in vena di sfidare la gabbia dell'anonimato. Ma un attento osservatore avrebbe sicuramente colto il procedere incerto di chi veleggia su una rotta sconosciuta. Mangiavano poco o niente, parlavano molto. In verità era soprattutto lui a parlare. Troppo e con troppa enfasi. Come un attore consumato che, dopo aver ripetuto la parte un'infinità di volte e limato ogni sbavatura, va in scena la sera della prima convinto di ammaliare e catturare il suo pubblico. Si sentiva in forma, bello ed irresistibile. E bello ed in forma lo era pure, ma di una bellezza stereotipata, da rotocalco rosa. Indossava un impeccabile vestito firmato, grigio scuro, abbronzatura perfetta, denti sfavillanti; proprio non vedeva alcun motivo che potesse impedirgli di fare colpo.
Il problema era che le donne, una parte delle donne, almeno quella, lo vedeva benissimo. Fin troppo evidente. Lo sapeva ancor prima di accettare l'invito a pranzo. Lo sapeva, ma aveva tentato lo stesso. Voltando deliberatamente le spalle all'evidenza. Aveva paura della solitudine e aveva accettato.
Durante il pasto non aveva quasi aperto bocca, tranne che per poche frasi di cortesia e per assaggiare quel cibo, tanto ricercato quanto insipido. Non per mancanza di sale, ma di passione. Era bello, questo sapeva vederlo, ma quella bellezza che arrivava agli occhi era poi incapace di raggiungere la bocca dello stomaco. Niente da fare, la linea doveva essere interrotta. Come se non bastasse, aveva assunto l'atteggiamento del professionista della conquista, era evidente che si sentisse tale. Lei posò la forchetta sul piatto, sbuffò contrariata, si coprì gli occhi con una mano e chiese :"Di che colore sono i miei occhi?"
L'uomo fu colto alla sprovvista. Colpito ed affondato. Non era in grado di rispondere, così cercò, in maniera maldestra, di prendere tempo.
"Come dici Andrea?" Andrea era la donna.
"Ti ho chiesto: di che colore sono i miei occhi? Non è troppo difficile. Puoi farcela anche tu! Non si vince nulla, è tanto per giocare."
"Che razza di domanda è? Dove vorresti arrivare? Non capisco!" Aveva capito bene invece. Non era stupido. Non fino a quel punto, almeno.
"Lascia perdere, non importa. Chissà cosa succede se ti sforzi troppo. Ti faccio la domanda di riserva: quanti giorni sono che ci frequentiamo?"
L'uomo era in difficoltà. Sentiva il sudore iniziare ad imperlargli la fronte. E non era per il caldo. La situazione stava sfuggendogli di mano. E non riusciva neanche a trovare il tasto reset.
"Quattordici!" Quasi urlò. Cazzo, questa era facile!
"Bravo Umberto! Una l'hai presa! Quattordici giorni e non hai trovato un secondo di tempo per guardarmi negli occhi?"
"Non è vero! Nel modo più assoluto! I tuoi occhi sono bellissimi!" Rispose, ma con uno slancio eccessivo e un tono a metà strada tra l'offeso ed il piagnucoloso che la donna trovò infantile e disgustoso.
"Scommetto tutto quello che ho, anche se non è molto, che se ti chiedessi come sono le mie tette, che taglia porto di reggiseno e di che colore è, non esiteresti un istante a rispondere. Ti giocheresti pure il jolly. O sbaglio?"
Certo che non sbagliava! Aveva delle tette meravigliose. Che sfidavano sfrontatamente la legge di gravità. Sulla taglia del reggiseno, nutriva qualche perplessità. Se la giocavano alla pari la terza e la quarta. Non ne era sicuro. Il colore era facile, visto che ne sporgeva un pezzetto. Turchese. Probabilmente coordinato con le mutandine, che, ormai ne era sicuro, non avrebbe mai visto.
"Il tuo silenzio conferma che ho ragione. Eppure ancora avresti potuto salvare la faccia. Sarebbe bastato ammetterlo. Dirmi: è vero, non ho fatto altro che ammirare le tue tette! Non ci sarebbe stato niente di male. Anche se tu ti sei lasciato prendere un po' troppo la mano. D'altra parte a me non dispiace mostrarle. E fino a quando riusciranno a tenersi su da sole, continuerò a farlo. Anche in questo non c'è nulla di male. Solo una sana dose di civetteria. Ma, a rischio di sembrare banale, ti informo che c'è dell'altro."
"Eccome se c'è dell'altro!" Pensò l'uomo. E l'espressione trasognata e vagamente ebete lo tradì di nuovo.
Difatti non sfuggì alla donna. Evidentemente, oltre ad essere decisamente bella, doveva avere un cervello niente male. Non roba che si possa trovare ad ogni angolo di strada.
"Ascolta, Umberto," Era giunto il momento della disillusione, "Facciamola finita. Ho paura che, da adesso in avanti, tutto ciò che potresti dire, non farebbe che aggravare ulteriormente la situazione. Peccato, avrebbe potuto essere diverso. Ma non tra noi due. Questa è la mia parte, stammi bene e addio." Concluse sorridendo e lasciando trenta euro sul tavolo. Prese la sua borsetta, fece un mezzo giro sui tacchi e sparì per sempre dalla vista dell'uomo, accompagnata dallo sguardo di tutti i presenti. O, almeno, di quelli appartenenti al genere maschile.
Erano appena le tre e le si era liberata la giornata. Non aveva voglia di ritornare nel suo appartamento, in un anonimo palazzone della sterminata periferia romana. Aveva bisogno d'aria e di camminare per rammendare le idee. Puntò decisa verso Villa Borghese. Quel polmone verde, che dava respiro a tutto quel cemento che lo circondava, le ricordava vagamente la campagna dove era nata. Scelse con cura una panchina e si sedette a fumare e riflettere. Riavvolse il nastro della sua vita, con particolare attenzione a quell'ultimo anno. non le sembrava di avere davanti un bilancio troppo positivo. La linea spezzettata sul grafico, anche se non cadeva a picco, scendeva inesorabilmente verso il segno meno. Solo il lavoro faceva eccezione. Era un'agente immobiliare, vendere case le piaceva e con la gente ci sapeva fare. Aveva chiuso diversi contratti, alcuni molto travagliati e al limite del possibile; ciò le aveva permesso di guadagnare bene, oltre che in vile moneta, anche nella stima dei suoi colleghi. Ci sapeva davvero fare. Ma, tolto il lavoro, cosa le restava? Tolto il lavoro si poteva tranquillamente parlare di disastro. Disastroso il rapporto con i suoi genitori, disastroso il rapporto con gli amici, disastroso il rapporto con gli uomini. Già, gli uomini...ma che razza di bestie erano? Aveva trentaquattro anni, era una bella donna, lo sapeva e ne riceveva conferma ogni giorno. Ancora catturava occhi e sorrisi. Allora come mai si ritrovava da sola? Che fosse colpa sua? Certo, era finita da un pezzo l'epoca dei vent'anni. Col passare del tempo, era diventata molto più esigente ed insofferente. Non aveva voglia di accontentarsi, si rifiutava di accettare ciò che non riusciva a digerire. non voleva saperne degli altrui difetti, quelli che, come tutti dicono, poi impari ad amare. Se ne fotteva. E, soprattutto, non era disposta a cambiare, a cambiarsi. Non poteva condividere i sogni con chi, in ultima analisi, era incapace di sognare. O tutto, o niente. Forse davvero era colpa sua! Era diventata insofferente.
Anche gli uomini, però, ci mettevano del loro. E ne avevano da metterci! Anche quell'Umberto, per esempio, non era male...era un bell'uomo, elegante, curato, pulito, in sporadici casi, anche brillante, ma, come tipico della sua "razza", demandava troppo spesso il compito di ragionare al suo fratellino più piccolo. Quanto piccolo sarà stato poi? Tale riflessione la fece ridere come una scema, ma riprese subito il controllo, sbirciando in giro a sincerarsi che nessuno se ne fosse accorto. Le venne in mente un brano di Davide Van De Sfroos, La ballata del Genesio, dove cantava: ho dato retta al cuore e qualche volta all'uccello. Centro. Era ciò di cui aveva bisogno: qualcuno che sapesse dar retta al cuore e all'uccello contemporaneamente. Non le sembrava chiedere troppo!
Accese un'altra sigaretta, guardò l'orologio: le cinque e trenta del pomeriggio. Alzò il viso e, solo allora, si avvide dell'uomo che, non più distante di una quindicina di metri, stava puntando dritto verso di lei. Lo soppesò con lo sguardo e decise che non c'era da preoccuparsi. Era decisamente attraente, si muoveva con estrema leggerezza, sembrava scivolare sul terreno come l’acqua; certo che era vestito in maniera del tutto anonima e pensò che fosse un vero peccato. E peccato anche che l'avesse puntata. Voleva starsene da sola e in silenzio. Niente mosconi a ronzarle intorno. Non oggi.
"Mi perdoni, ma avrei bisogno di accendere." Disse l'uomo senza inflessioni dialettali nella sua voce, sbollando un pacchetto di Pall Mall.
La donna sbuffò infastidita e col tono del: con me non attacca, bello! Rispose:" E' un po' vecchiotta, forse ti conviene provare altrove."
"Non importa che sia vecchia, non a me, comunque. L'importante è che abbia ancora voglia di accendersi e di accendere. Mi creda, non desidero altro."
Lo fissò dritto negli occhi, occhi in moto perpetuo, non inebetiti sulle sue tette. Forse... ma no, l'approccio era stato di una banalità disarmante, così:"Mi dispiace, non ho da accendere" Soffiò fuori in fretta.
"Fa niente, andrò a cercare miglior fortuna altrove. Ma capita anche che le cose siano esattamente come sembrano. Mi perdoni l'intrusione. Le auguro che la sua giornata migliori." Le disse con un accenno di sorriso e guardandola, per la prima volta negli occhi.
Fu sinceramente colpita da quella sorta di congedo. Lo seguì con lo sguardo e lo vide avvicinarsi ad una coppia di anziani, ottenendo, ormai era evidente, quello che stava cercando. Si era comportata come un qualsiasi idiota. Si era dimostrata prevenuta e scortese, Non le piacque affatto il suo comportamento di poc'anzi e tentò di rimediare.
"Ehi!" Gridò, agitando la mano per richiamare l'attenzione dell'uomo. Lui si voltò, le mostrò la sigaretta accesa, sorrise apertamente e tornò a voltarsi per la sua strada.
"Aspettami!" Disse ad alta voce, alzandosi dalla panchina per raggiungerlo. Non lo avrebbe lasciato andare portandosi via un'immagine di lei così odiosa.
"Non serve che si giustifichi, una brutta giornata capita a tutti." La anticipò.
Fu di nuovo colta di sorpresa, le parole stentarono ad uscire, ma parlare era parte del suo mestiere, la parte che le riusciva meglio e se lo ricordò appena in tempo.
"Toccata! Mi sono comportata come una stupida. Ti avevo cucito addosso un bel giudizio precotto. Scusami di nuovo e, credimi, di solito non succede."
"Sono felice per te. Perché, al contrario, di solito è esattamente quel che succede. Affibbiare etichette sembra essere lo sport nazionale. Altro che il calcio. Forse è come con i cani, che hanno bisogno di marcare il territorio. Allo stesso modo, gli uomini devono orinare sui propri simili per avere l'illusione di saperli riconoscere."
"Posso farti una domanda?" Non capiva cosa le fosse preso, ma ormai era andata.
"Certo, basta che non implichi il dovere di una risposta."
"Ho smesso da un bel pezzo di pretendere."
"Allora puoi andare con la domanda."
"Di che colore sono i miei occhi?"
"Domanda a doppio taglio. Non è così facile come potrebbe sembrare..."
"Lo sapevo, peccato." Pensò la donna, ma, ancora una volta, era giunta a conclusioni affrettate.
"Oggi, con questo sole abbagliante, di un bel celeste trasparente, ma direi che il più delle volte potrebbero essere sul verde, con tendenze al grigio nelle giornate di pioggia." Sentenziò l'uomo, dopo una profonda boccata di sigaretta.
Partì anche la seconda domanda. Partì prima del pensiero, prima che la vergogna per averla fatta le incendiasse il viso:"E le mie tette come sono?"
Lui non si scompose e, senza distogliere lo sguardo da quello di lei rispose: "Dovresti fare più attenzione. Perché, a volte, potrebbe capitare che rubino il palcoscenico agli occhi."
"Posso offrirti un caffè? Per rimediare!"
L'uomo la trapassò con la vista come una freccia di balestra e trapassò anche tutto quello che c'era dietro di lei, per finire dove nessuno sapeva dove. "Rimediare è un verbo privo di significato." Disse "Non c'è possibilità di rimediare al passato; per quanto prossimo. Possiamo solo comportarci diversamente."
"Sarebbe un no?"
"Al contrario, sarebbe un si. Non so se tu ti aspettassi un'altra risposta, nell'eventualità, mi dispiace. Ma io non rifiuto mai un buon caffè." E sorrise.
"A proposito, non ci siamo ancora presentati. Io mi chiamo Andrea." Disse la donna.
"Avrei potuto usare le stesse parole."
"Cosa?"
"Se prometti di non scambiarlo per un segno del destino, sono pronto a farti una rivelazione: anch'io mi chiamo Andrea." Anche se quello non era il suo vero nome. Era quello che si trovava stampato sulla sua carta di identità, sotto alla sua vera foto. La carta non era la sua. Era stata rubata in un'altra città poco prima della sua comparsa nella capitale.
"L'uomo medio si cura se le cose siano vere o false, ma il guerriero no. L'uomo medio procede in modo specifico con le cose che sa essere vere e in modo diverso con le cose che sa essere non vere...Il guerriero agisce in entrambi i casi."
Il libro non concedeva tregue durature.
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intotheclash · 7 years ago
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Seconda parte
La coppia era seduta ad un tavolo in disparte, nello spazio esterno di quel minuscolo ristorante. La cornice era da mozzare il fiato. Antichi palazzi signorili incastonavano quella piazzetta di Trastevere, facendola risplendere senza arroganza, come un diamante grezzo non ancora tagliato. A prima vista, i due, avrebbero potuto essere scambiati per una coppia felice in luna di miele, o, quanto meno, per due furtivi amanti in vena di sfidare la gabbia dell'anonimato. Ma un attento osservatore avrebbe sicuramente colto il procedere incerto di chi veleggia su una rotta sconosciuta. Mangiavano poco o niente, parlavano molto. In verità era soprattutto lui a parlare. Troppo e con troppa enfasi. Come un attore consumato che, dopo aver ripetuto la parte un'infinità di volte e limato ogni sbavatura, va in scena la sera della prima convinto di ammaliare e catturare il suo pubblico. Si sentiva in forma, bello ed irresistibile. E bello ed in forma lo era pure, ma di una bellezza stereotipata, da rotocalco rosa. Indossava un impeccabile vestito firmato, grigio scuro, abbronzatura perfetta, denti sfavillanti; proprio non vedeva alcun motivo che potesse impedirgli di fare colpo.
Il problema era che le donne, una parte delle donne, almeno quella, lo vedeva benissimo. Fin troppo evidente. Lo sapeva ancor prima di accettare l'invito a pranzo. Lo sapeva, ma aveva tentato lo stesso. Voltando deliberatamente le spalle all'evidenza. Aveva paura della solitudine e aveva accettato.
Durante il pasto non aveva quasi aperto bocca, tranne che per poche frasi di cortesia e per assaggiare quel cibo, tanto ricercato quanto insipido. Non per mancanza di sale, ma di passione. Era bello, questo sapeva vederlo, ma quella bellezza che arrivava agli occhi era poi incapace di raggiungere la bocca dello stomaco. Niente da fare, la linea doveva essere interrotta. Come se non bastasse, aveva assunto l'atteggiamento del professionista della conquista, era evidente che si sentisse tale. Lei posò la forchetta sul piatto, sbuffò contrariata, si coprì gli occhi con una mano e chiese:"Di che colore sono i miei occhi?"
L'uomo fu colto alla sprovvista. Colpito ed affondato. Non era in grado di rispondere, così cercò, in maniera maldestra, di prendere tempo.
"Come dici Andrea?" Andrea era la donna.
"Ti ho chiesto: di che colore sono i miei occhi? Non è troppo difficile. Puoi farcela anche tu! Non si vince nulla, è tanto per giocare."
"Che razza di domanda è? Dove vorresti arrivare? Non capisco!" Aveva capito bene invece. Non era stupido. Non fino a quel punto, almeno.
"Lascia perdere, non importa. Chissà cosa succede se ti sforzi troppo. Ti faccio la domanda di riserva: quanti giorni sono che ci frequentiamo?"
L'uomo era in difficoltà. Sentiva il sudore iniziare ad imperlargli la fronte. E non era per il caldo. La situazione stava sfuggendogli di mano. E non riusciva neanche a trovare il tasto reset.
"Quattordici!" Quasi urlò. Cazzo, questa era facile!
"Bravo Umberto! Una l'hai presa! Quattordici giorni e non hai trovato un secondo di tempo per guardarmi negli occhi?"
"Non è vero! Nel modo più assoluto! I tuoi occhi sono bellissimi!" Rispose, ma con uno slancio eccessivo e un tono a metà strada tra l'offeso ed il piagnucoloso che la donna trovò infantile e disgustoso.
"Scommetto tutto quello che ho, anche se non è molto, che se ti chiedessi come sono le mie tette, che taglia porto di reggiseno e di che colore è, non esiteresti un istante a rispondere. Ti giocheresti pure il jolly. O sbaglio?"
Certo che non sbagliava! Aveva delle tette meravigliose. Che sfidavano sfrontatamente la legge di gravità. Sulla taglia del reggiseno, nutriva qualche perplessità. Se la giocavano alla pari la terza e la quarta. Non ne era sicuro. Il colore era facile, visto che ne sporgeva un pezzetto. Turchese. Probabilmente coordinato con le mutandine, che, ormai ne era sicuro, non avrebbe mai visto.
"Il tuo silenzio conferma che ho ragione. Eppure ancora avresti potuto salvare la faccia. Sarebbe bastato ammetterlo. Dirmi: è vero, non ho fatto altro che ammirare le tue tette! Non ci sarebbe stato niente di male. Anche se tu ti sei lasciato prendere un po' troppo la mano. D'altra parte a me non dispiace mostrarle. E fino a quando riusciranno a tenersi su da sole, continuerò a farlo. Anche in questo non c'è nulla di male. Solo una sana dose di civetteria. Ma, a rischio di sembrare banale, ti informo che c'è dell'altro."
"Eccome se c'è dell'altro!" Pensò l'uomo. E l'espressione trasognata e vagamente ebete lo tradì di nuovo.
Difatti non sfuggì alla donna. Evidentemente, oltre ad essere decisamente bella, doveva avere un cervello niente male. Non roba che si possa trovare ad ogni angolo di strada.
"Ascolta, Umberto," Era giunto il momento della disillusione, "Facciamola finita. Ho paura che, da adesso in avanti, tutto ciò che potresti dire, non farebbe che aggravare ulteriormente la situazione. Peccato, avrebbe potuto essere diverso. Ma non tra noi due. Questa è la mia parte, stammi bene e addio." Concluse sorridendo e lasciando trenta euro sul tavolo. Prese la sua borsetta, fece un mezzo giro sui tacchi e sparì per sempre dalla vista dell'uomo, accompagnata dallo sguardo di tutti i presenti. O, almeno, di quelli appartenenti al genere maschile.
Erano appena le tre e le si era liberata la giornata. Non aveva voglia di ritornare nel suo appartamento, in un anonimo palazzone della sterminata periferia romana. Aveva bisogno d'aria e di camminare per rammendare le idee. Puntò decisa verso Villa Borghese. Quel polmone verde, che dava respiro a tutto quel cemento che lo circondava, le ricordava vagamente la campagna dove era nata. Scelse con cura una panchina e si sedette a fumare e riflettere. Riavvolse il nastro della sua vita, con particolare attenzione a quell'ultimo anno. non le sembrava di avere davanti un bilancio troppo positivo. La linea spezzettata sul grafico, anche se non cadeva a picco, scendeva inesorabilmente verso il segno meno. Solo il lavoro faceva eccezione. Era un'agente immobiliare, vendere case le piaceva e con la gente ci sapeva fare. Aveva chiuso diversi contratti, alcuni molto travagliati e al limite del possibile; ciò le aveva permesso di guadagnare bene, oltre che in vile moneta, anche nella stima dei suoi colleghi. Ci sapeva davvero fare. Ma, tolto il lavoro, cosa le restava? Tolto il lavoro si poteva tranquillamente parlare di disastro. Disastroso il  rapporto con i suoi genitori, disastroso il rapporto con gli amici, disastroso il rapporto con gli uomini. Già, gli uomini...ma che razza di bestie erano? Aveva trentaquattro anni, era una bella donna, lo sapeva e ne riceveva conferma ogni giorno. Ancora catturava occhi e sorrisi. Allora come mai si ritrovava da sola? Che fosse colpa sua? Certo, era finita da un pezzo l'epoca dei vent'anni. Col passare del tempo, era diventata molto più esigente ed insofferente. Non aveva voglia di accontentarsi, si rifiutava di accettare ciò che non riusciva a digerire. non voleva saperne degli altrui difetti, quelli che, come tutti dicono, poi impari ad amare. Se ne fotteva. E, soprattutto, non era disposta a cambiare, a cambiarsi. Non poteva condividere i sogni con chi, in ultima analisi, era incapace di sognare. O tutto, o niente. Forse davvero era colpa sua! Era diventata insofferente.
Anche gli uomini, però, ci mettevano del loro. E ne avevano da metterci! Anche quell'Umberto, per esempio, non era male...era un bell'uomo, elegante, curato, pulito, in sporadici casi, anche brillante, ma, come tipico della sua "razza", demandava troppo spesso il compito di ragionare al suo fratellino più piccolo. Quanto piccolo sarà stato poi? Tale riflessione la fece ridere come una scema, ma riprese subito il controllo, sbirciando in giro a sincerarsi che nessuno se ne fosse accorto. Le venne in mente un brano di Davide Van De Sfroos, La ballata del Genesio, dove cantava: ho dato retta al cuore e qualche volta all'uccello. Centro. Era ciò di cui aveva bisogno: qualcuno che sapesse dar retta al cuore e all'uccello contemporaneamente. Non le sembrava chiedere troppo!
Accese un'altra sigaretta, guardò l'orologio: le cinque e trenta del pomeriggio. Alzò il viso e, solo allora, si avvide dell'uomo che, non più distante di una quindicina di metri, stava puntando dritto verso di lei. Lo soppesò con lo sguardo e decise che non c'era da preoccuparsi. Era decisamente attraente, si muoveva con estrema leggerezza, sembrava scivolare sul terreno come l’acqua; certo che era vestito in maniera del tutto anonima e pensò che fosse un vero peccato. E peccato anche che l'avesse puntata. Voleva starsene da sola e in silenzio. Niente mosconi a ronzarle intorno. Non oggi.
"Mi perdoni, ma avrei bisogno di accendere." Disse l'uomo senza inflessioni dialettali nella sua voce, sbollando un pacchetto di Pall Mall.
La donna sbuffò infastidita e col tono del: con me non attacca, bello! Rispose:" E' un po' vecchiotta, forse ti conviene provare altrove."
"Non importa che sia vecchia, non a me, comunque. L'importante è che abbia ancora voglia di accendersi e di accendere. Mi creda, non desidero altro."
Lo fissò dritto negli occhi, occhi in moto perpetuo, non inebetiti sulle sue tette. Forse... ma no, l'approccio era stato di una banalità disarmante, così:"Mi dispiace, non ho da accendere" Soffiò fuori in fretta.
"Fa niente, andrò a cercare miglior fortuna altrove. Ma capita anche che le cose siano esattamente come sembrano. Mi perdoni l'intrusione. Le auguro che la sua giornata migliori." Le disse con un accenno di sorriso e guardandola, per la prima volta negli occhi.
Fu sinceramente colpita da quella sorta di congedo. Lo seguì con lo sguardo e lo vide avvicinarsi ad una coppia di anziani, ottenendo, ormai era evidente, quello che stava cercando. Si era comportata come un qualsiasi idiota. Si era dimostrata prevenuta e scortese, Non le piacque affatto il suo comportamento di poc'anzi e tentò di rimediare.
"Ehi!" Gridò, agitando la mano per richiamare l'attenzione dell'uomo. Lui si voltò, le mostrò la sigaretta accesa, sorrise apertamente e tornò a voltarsi per la sua strada.
"Aspettami!" Disse ad alta voce, alzandosi dalla panchina per raggiungerlo. Non lo avrebbe lasciato andare portandosi via un'immagine di lei così odiosa.
"Non serve che si giustifichi, una brutta giornata capita a tutti." La anticipò.
Fu di nuovo colta di sorpresa, le parole stentarono ad uscire, ma parlare era parte del suo mestiere, la parte che le riusciva meglio e se lo ricordò appena in tempo.
"Toccata! Mi sono comportata come una stupida. Ti avevo cucito addosso un bel giudizio precotto. Scusami di nuovo e, credimi, di solito non succede."
"Sono felice per te. Perché, al contrario, di solito, è esattamente quel che succede. Affibbiare etichette sembra essere lo sport nazionale. Altro che il calcio. Forse è come con i cani, che hanno bisogno di marcare il territorio. Allo stesso modo, gli uomini devono orinare sui propri simili per avere l'illusione di saperli riconoscere."
"Posso farti una domanda?" Non capiva cosa le fosse preso, ma ormai era andata.
"Certo, basta che non implichi il dovere di una risposta."
"Ho smesso da un bel pezzo di pretendere."
"Allora puoi andare con la domanda."
"Di che colore sono i miei occhi?"
"Domanda a doppio taglio. Non è così facile come potrebbe sembrare..."
"Lo sapevo, peccato." Pensò la donna, ma, ancora una volta, era giunta a conclusioni affrettate.
"Oggi, con questo sole abbagliante, di un bel celeste trasparente, ma direi che il più delle volte potrebbero essere sul verde, con tendenze al grigio nelle giornate di pioggia." Sentenziò l'uomo, dopo una profonda boccata di sigaretta.
Partì anche la seconda domanda. Partì prima del pensiero, prima che la vergogna per averla fatta le incendiasse il viso:"E le mie tette come sono?"
Lui non si scompose e, senza distogliere lo sguardo da quello di lei rispose: "Dovresti fare più attenzione. Perché, a volte, potrebbe capitare che rubino il palcoscenico agli occhi."
"Posso offrirti un caffè? Per rimediare!"
L'uomo la trapassò con la vista come una freccia di balestra e trapassò anche tutto quello che c'era dietro di lei, per finire dove nessuno sapeva dove. "Rimediare è un verbo privo di significato." Disse "Non c'è possibilità di rimediare al passato; per quanto prossimo. Possiamo solo comportarci diversamente."
"Sarebbe un no?"
"Al contrario, sarebbe un si. Non so se tu ti aspettassi un'altra risposta, nell'eventualità, mi dispiace. Ma io non rifiuto mai un buon caffè." E sorrise.
"A proposito, non ci siamo ancora presentati. Io mi chiamo Andrea." Disse la donna.
"Avrei potuto usare le stesse parole."
"Cosa?"
"Se prometti di non scambiarlo per un segno del destino, sono pronto a farti una rivelazione: anch'io mi chiamo Andrea." Anche se quello non era il suo vero nome. Era quello che si trovava stampato sulla sua carta di identità, sotto alla sua vera foto. La carta non era la sua. Era stata rubata in un'altra città poco prima della sua comparsa nella capitale.
"L'uomo medio si cura se le cose siano vere o false, ma il guerriero no. L'uomo medio procede in modo specifico con le cose che sa essere vere e in modo diverso con le cose che sa essere non vere...Il guerriero agisce in entrambi i casi."
Il libro non concedeva tregue durature.
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