#come si fa a citare un intero capitolo?
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princessofmistake · 2 years ago
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La felicità, Giorgia, è una carezza che ferisce. È ghiaccio che ti scotta fra le mani. È rumore e frastuono ma, se la ascolti bene, è la sola cosa che potrai chiamare davvero musica.
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fondazioneterradotranto · 5 years ago
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Dialetti salentini: "rinacciare"
di ArmandoPolito
carboncino di Henri Toulouse-Lautrec, 1882
  Fin dal 1957 Vance Packard in The hidden persuaders aveva individuato i nefasti effetti della pubblicità connessa con una politica industriale basata sulla creazione di bisogni, certamente non primari e neppure secondari e che sfruttava tecniche cinicamente mutuate dalla psichiatria e dalla psicologia del profondo.  Da allora acqua, sempre più inquinata …,  ne è passata, e continua a passarne,  sotto i ponti, e da formule pubblicitarie che oggi fanno tenerezza si è passati alle attuali, alcune delle quali mi fanno dubitare della salute mentale dei geni che le hanno partorite, nonostante, in un sussulto di modestia, ogni tanto mi chieda se non dipenda da mia deficienza la loro da me presunta demenzialità.
Nel frattempo, mentre il pianeta appare già in uno stato comatoso irreversibile, e l’obsolescenza programmata è diventata lo strumento fondamentale per alimentare il consumismo ed il connesso profitto di pochi, i grandi della terra nelle loro, immagino costosissime, cene di lavoro riescono solo a rilasciare dichiarazioni tanto roboanti nei toni quanto banali e scontate nella sostanza e bene che vada sini capaci solo di mettersi d’accordo con un formale impegno, privo di qualsiasi concretezza, a ridurre le emissioni nocive entro un ventennio, salvo revisione, naturalmente al rialzo …
Qualcuno si starà chiedendo che rapporto possa mai esserci tra questa sparata iniziale ed il verbo del titolo. Lo scoprirà leggendo e, soprattutto, riflettendo su quale futuro attende i suoi discendenti col presente che stiamo vivendo e sul quale per quelli della mia generazione aleggia ancora il ricordo del passato, non condizionato più del dovuto dalla scontata laudatio temporis acti (lode del tempo trascorso).
Rinacciare corrisponde all’italiano rammendare e, per quanto s’è detto all’inizio, le due voci continueranno ad essere usate solo in senso metaforico, magari soltanto a livello letterario: a rinacciare un calzino, per esempio non sarà più (veramente non lo è più da decenni) una nonna, una madre o una sorella ma un medico a farlo maldestramente con una ferita o una coppia con la sua unione bisognosa di una ricucitura.
Rinacciare è una di quelle voci dialettali formate da componenti che, separatamente, sono presenti nella lingua comune. Nel nostro caso esse sono: ri– (prefisso indicante ripetizione); in (preposizione); accia (sostantivo, sinonimo di gugliata, che è il pezzo di filo che si infila nella cuna dell’ago per cucire). La voce dialettale ha unito i tre componenti con eliminazione, per intuitivi motivi eufonici,  della i del prefisso ripetitivo, dando al totale (con l’-are finale) la marca di verbo.
Se ri– deriva dal prefisso latino re– con le stesse funzioni di ripetizione dell’azione, se in è anch’essa dalla stessa preposizione latina, da dove deriva accia?
È anch’essa dal latino acia(m), voce presente in quello classico e che continua, tal quale (poi dalla fine del XIII secolo ci sarà la geminazione della c), nel latino tardo, come mostra la scheda che riproduco, traducendola con l’aggiunta di qualche nota, dal lessico del Du Cange.
ACIA, in Glossario latino-greco è definita ῥάμμα1, che è lo stesso che sutura; e usa acia Petronio2 in un suo passo3: Mi espose tutto per filo ed ago4, cioè in francese: M’ha raccontato tutto, dal filo all’ago. Voce di antica origine, che designa propriamente il filo usato per cucire. La usò con questo significato il poeta comico Titinnio secondo quanto si legge in Nonio Marcello5; la medesima anche Celso6 libro 5 capitolo 267. Su quest’argomento parecchio si trova in Turnèbe8 libro XVII capitolo 21 di Adversaria. Per gli italiani accia è il lino o la stoppa. Questa voce ricorre negli Statuti milanesi, seconda parte, capitolo 308.
Riporto di seguito la scheda del Turnébe, anche perché il Du Cange sarebbe stato più corretto se l’avesse copiata così com’è per intero o avesse dichiarato che non “parecchio” ma “tutto” vi si trovava.
(per facilitare la lettura della traduzione ho scelto per questa il carattere corsivo ed ho racchiuso volta per volta il commento in parentesi quadre)
Come l’ago, parimenti l’accia era tra gli strumenti del ricamatore in oro ed era il filo del piccolo ago
[acicula dell’originale è diminutivo di acus; il dialetto salentino ha il suo esatto corrispondente in acuceddha, usata in passato soprattutto per infilzare le foglie di tabacco o per rammendare i sacchi]
d ha il nome da acies:
[acies=punta; fa parte di una vasta famiglia connessa con una radice ac– indicante cosa appuntita, di cui fanno parte in italiano acciaio, acacia, acuto, acre, acido, aceto, aguglia, guglia …,  tutti derivati da altrettanti termini latini; per il greco basti citare l’aggettivo ἄκρος (leggi acros)=estremo,  primo elemento di composti come acrobata, acropoli, acrostico …; per il dialetto salentino oltre alla citata acuceddha (anche nella forma cuceddha per errata deglutinazone della a– (l’acuceddha>la cuceddha>cuceddha) favorita forse dall’influsso di cucire) àcura corrispondente all’italiano aguglia (il pesce)]
Titinio: Mi ebbe come schiavo per primo un frigio; appresi questo lavoro./Ho lasciato gli aghi e i fili al padrone e alla mia padrona. Celso libro 5 capitolo 26: entrambe sono ottime di filo molle non troppo ritorto, perché più delicatamente penetri nel corpo. In un antico lessico latino-greco acia è tradotta in ῥάμμα  [vedi nota 1], anzi acia e aciela in esso sono spiegati come ἀκαλύφη [errore di stampa per ἀκαλήφη=asprezza].     
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1 Leggi ramma.  Con essa non ha nulla a che vedere rammendare, che è da ri+ammendare (quest’ultimo da ad+menda)
2Petronio Arbitro (I secolo d. C.)
3 Satyricon, XVII.
4 Corrisponde al nostro per filo e per segno, in cui, però il filo è quello usato un tempo dagli imbianchini per delimitare con precisione la superficie da trattare. Intinto nella vernice, veniva rilasciato di colpo a lasciarvi la linea di demarcazione.
5 Grammatico romano del III-IV secolo, autore del De compendiosa doctrina per litteras ad filium, dove il frammento citato dal Du Cange è al lemma Phrygiones: Reliqui acus aciasque ero atque erae nostrae (Ho lasciato i fili e gli aghi al padrone ed alla nostra padrona)
6 Aulo Cornelio Celso (I secolo a. C-I secolo d. C.).
7 De medicina, V, 26: Utraque optima est ex acia molli … (Entrambe [le suture] sono ottime di filo molle …
8 Adrien Turnèbe o Tournebeuf (nome  latino Adrianus Turnebus), filologo del XVI secolo, autore di Adversaria.
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pangeanews · 5 years ago
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“Guardandosi, l’uomo si scopre disumano, un’anima mostruosa”: dialogo con Franco Rella
Il pensatore mette l’indice nella ferita, la slabbra, fino al virus che diventa gioia. Dà accesso all’inaccessibile, scaraventa gli occhi in ciò che va ignorato, non va detto, celato dal fondotinta del consenso e del corretto. Il pensatore va al fondamento, al cadavere primo che ha dato origine alla civiltà, alla parola che pone un ago sull’ombelico, sta nel gorgo della stimmate. Da Scritture estreme (Feltrinelli, 2005) a Immagini e testimonianze dell’esilio (Jaca Book, 2018), per citare due libri da una bibliografia poderosa, Franco Rella fa così: s’intride nell’oscuro, esplora l’inenarrabile e l’escluso. Così, nell’ultimo libro, Territori dell’umano (Jaca Book, 2019), il filosofo fa scempio di ogni retorica e ci scaglia in petto il Minotauro: la mostruosità dell’uomo, l’ineluttabile disumanità, l’avvio al tremendo (“Molte ha la vita forze/ tremende; eppure più dell’uomo nulla,/ vedi, è tremendo”, è l’apice di Antigone secondo la traduzione di Hölderlin). “L’io faccia a faccia con se stesso si scopre ‘un’anima mostruosa’. Trova in sé l’inumano e il disumano. Cosa ci ha raccontato Shakespeare di Macbeth, del suo incontro con le streghe, e dell’incubo di sangue che lo perseguita? Cos’altro ha detto Melville raccontando la lotta di Achab con la balena bianca, e Bartleby immobile con la faccia contro un muro? Cos’è la metamorfosi dell’umano nel mostruoso nel bal des têtes che Proust ci presenta come un atroce cerimoniere, quasi a conclusione della Ricerca del tempo perduto? Cosa racconta Odradek con quella voce che sembra il fruscio di foglie cadute?”. Con devozione amanuense, Rella scava nelle grandi opere letterarie – qui c’è Cuore di tenebra di Conrad e Pornografia di Gombrowicz, Simone Weil e Kafka, Ballard, Baudelaire, Canetti –, in ciò che sfugge perfino alla volontà dello scrittore, sfogando enigmi. Non conta il florilegio delle citazioni (ma l’“ultima annotazione” di Rilke dal “suo ultimo quaderno”, alla mercé di sconfitta e dolore è sconfinata: “Vieni tu, tu ultimo ravvisato,/ Tu, insanabile dolore, intramato/ ora nel corpo. Un tempo nello spirito,/ ecco, in te, sonio io ora calcinato…/ Salii, nudo, puro, né progetti,/ né futuro, sull’intrico/ del rogo del dolore”): i verbi servono per affondare nell’uomo, per sondarne le ossessioni, con una quieta veemenza che ha sentore di necessità. (d.b.)
L’io faccia a faccia con se stesso “si scopre ‘un’anima mostruosa’. Trova in sé l’inumano e il disumano”. Dunque, è questo l’uomo? Della sua vita labirintica scopre di essere Minotauro. Dimmi.
Nel libro ho citato un pensiero di Valéry che ho più volte richiamato. L’uomo, dice Valéry, incontra l’indefinibile: l’indefinibile della morte e l’indefinibile dell’io. Credo che andare a fondo dell’io sia un’impresa problematica e coraggiosa. Qualche anno fa ho scritto un testo, Alla ricerca dell’io perduto. Perduto o forse mai davvero ritrovato. Ci vuole animo per percorrere i labirinti che ci portano nella profondità dell’io, che ci fanno avvertire il gusto aspro del buio e delle tenebre, per poi salire sulla vertigine dei sogni più audaci. In un altro testo – anche questo citato nel mio libro – Valéry proponendo un suo Faust fa affermare a Mefistofele: “Felice l’uomo che va dal Bene al Male, dal Male al Bene, ponendosi tra la luce e le tenebre; e adora e rinnega; percorre tutti i valori che la carne e lo spirito, gli istinti, la ragione, i dubbi e i casi, introducono nel suo assurdo destino, può vincere o perdere… ma IO!… essere il diavolo è ben misera cosa”. Ma già sant’Agostino aveva detto che l’io è una incontenibile molteplicità. L’uomo che si china scrutare dentro il proprio io si scopre angelo e bestia, scopre la densità dell’umano che tiene in sé anche il disumano e l’inumano. È il grande insegnamento di Kafka.
Nel tuo libro ti riferisci spesso a Melville e a Kafka. Cosa tiene insieme la Balena Bianca e lo scarafaggio, Achab e Odradek?
Melville e Kafka sono più che due immensi scrittori. Sono degli ossessi, ossessionati della propria ricerca che è per loro un destino. Ciò che li tiene insieme è essere arrivati all’estremo. La nave che affonda in Moby Dick portando con sé tutto, compreso un pezzo di cielo, meno Ismaele che sopravvive a cavallo di una bara per raccontare il faccia a faccia di Achab con la sua ossessione, con il mostro bianco. Il faccia a faccia di Gregor Samsa, di Franz Kafka, con l’immane insetto della Metamorfosi è anch’esso un confronto con l’animalità che è indissolubilmente legata all’umanità, perché l’insetto continua nell’orrore della sua mostruosa animalità ad avere pensieri umani. È questo che sconvolge e che fa di questo racconto un’esperienza unica che si imprime nelle nostre coscienze. Infine Odradek che è il personaggio di Kafka che va oltre tutto. Non è uomo, anche se parla, non è animale. È uno strano oggetto che vaga sui corridoi, sulle scale, nelle soffitte, senza fissa dimora, da tutto esiliato. È un essere disumanato, come tanti esseri che sfilano davanti a noi resi muti dalla sofferenza. Forse, come ha detto George Steiner, Kafka è in modo inquietante profetico.
Fin da subito imponi un tema: da testimoni di un fatto, di cui dunque portiamo testimonianza (il ‘testimone’ si passa anche nella staffetta…), siamo passati a essere spettatori di uno spettacolo subito. Come mai?
L’alternativa – spettatore/testimone – si è sempre posta. Essere spettatori di ciò che accade senza esserne coinvolti, oppure testimoniare. Nel primo caso c’è, a mio giudizio, complicità con le forze che si abbattono sui deboli, penso per esempio alla tragedia dei migranti, con cui siamo confrontati ogni giorno. O, invece, essere testimoni, per quanto debole possa apparire la forza della nostra testimonianza. Con il mio libro ho cercato di farmi testimone dei terribili tentativi di sottrarre umanità agli esseri umani.  Sto parlando del destino dei migranti, ma anche dell’orrore dei regimi tirannici e dittatoriali, con cui non solo conviviamo ma con cui concludiamo affari. Un mercato osceno in cui a prezzi stracciati si smercia umanità. Parlo anche della colonizzazione delle coscienze tesa, appunto, a far tacere il testimone, a trasformarlo in spettatore.
Metto insieme due citazioni. Canetti che parla di Kafka: “Bisogna sdraiarsi per terra tra gli animali per essere salvati”. E l’ultimo verso della poesia estrema di Rilke: “E io in fiamme. Da Nessuno riconosciuto”. Forse l’uomo, per compiere la propria umanità, deve essere a sé irriconoscibile, forse deve mutarsi in altro da sé. Lavorare per sconfiggersi. Comunque, deve mutare stato, deve abbassarsi, deve sparire, deve bruciare. Ritieni sia così?
Credo che Rilke voglia dire che il dolore è in grado di assorbire tutto, di ingoiare tutto, anche a nostra identità: “Da Nessuno riconosciuto”. Canetti attribuisce a Kafka una lotta contro il potere a cui ci si sottrae anche mettendosi a terra, dunque al di sotto della furia del potere. Si è così salvati? In realtà i topi della Ferrovia di Kalda temono e al contempo sono aggressivi, non danno tregua, premono dalle fessure che stanno rasoterra, tra parete e il terreno. Cosa teme poi l’essere protagonista del racconto La tana? Cosa può incontrare nei cunicoli che egli ha scavato sotto terra per proteggersi, se non feroci piccoli animali? Ecco, forse si potrebbe dire che attraversando l’impenetrabile cortina del dolore, e avvicinandosi ai terrori animali, si scopre un’ignota dimensione dell’umano. Ma non ho certezze a proposito.
Tra i testi che citi. Il Kurtz di Conrad che vede solo l’orrore, Gombrowicz, invece, che ha lo sguardo lascivo, che si lascia al grottesco, al comico dell’uomo. Come conciliare le visioni? L’uomo è orrendo, è grottesco, è inumano… cosa?
Marlow è il grande testimone della follia e dell’orrore di Kurtz. È questo che egli porta con sé dal cuore di tenebra fin dentro la city of dead che è nel cuore dell’Europa. Gombrowicz è grottesco, lascivo, come dici, ma al tempo stesso fa emergere in molti suoi testi, attraverso le maglie del grottesco, la percezione di un dolore assoluto, che diventa la trama non solo dell’uomo ma dell’universo intero, del “Cosmo”, come egli intitola uno dei suoi libri più emblematici. La follia di Kurtz, l’orrore della foresta, il grottesco, l’inumano, accanto all’ebbrezza e magari alla gioia: tutto questo e molto altro è l’uomo, è l’umano. Siamo noi.
Concludi dando lettura di alcune icone dell’arte, come mai? Che testimonianze vedi in quelle raffigurazioni e quale opera ti ha sconvolto?
Credo che alcune delle raffigurazioni che ho riportato nel penultimo capitolo siano iconiche nel dare forma e figura all’umano nel rapporto con il dolore, con la morte, con il potere, dunque con le istanze a cui ci troviamo costantemente confrontati. Sono solo alcune icone. Leggendo credo si capisca quanto io ne sia stato colpito, quando continui ad esserne colpito e inquietato. Queste sono solo alcune. Potrei ricordarne molte altre. Ne ricordo solo una: lo sguardo del ragazzo in primo piano de Le dejeneur dans l’atelier di Manet che ho visto per la prima volta direttamente quest’estate a Monaco. Uno sguardo perduto verso un altrove che avvertiamo subito come un luogo misterioso che ci riguarda, che ci riguarda da vicino.
L’epilogo lo dedichi al bambino, all’infanzia. In una forma aforistica. “Nessuno sa la vita e la morte come la sanno in profondità i bambini… Nessuno sa la solitudine come i bambini”. Cosa testimoniano allora i bambini?
Quando ho scritto quelle pagine ho capito che il libro era finito. Che non avrei potuto scrivere una parola in più. Quelle pagine sono una sorta di raccomandazione a guardare, a cercare di guardare nella misteriosa umanità infantile, che si è declinata nelle grandi fiabe che oggi abbiamo dimenticato e che non siamo più in grado di leggere.
*In copertina: intorno all'”Annunciazione di Recanati” di Lorenzo Lotto, del 1534 circa, Franco Rella scrive pagine ispirate nell’ultimo libro, “Territori dell’umano” (Jaka Book, 2019)
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pangeanews · 6 years ago
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Ricostruire Notre-Dame: di vetro, ipertecnologica; di plastica riciclata e legno, ecologica; oppure “com’era dov’era”? Tutto dipende dalla forza del simbolo. Che cosa rappresenta per noi quella cattedrale?
Con questo articolo vorrei inserirmi nel dibattito sulla ricostruzione della copertura e della guglia di Notre-Dame distrutte dopo l’incendio dello scorso aprile. Ricostruire ciò che è stato distrutto com’era dov’era o proporre qualcosa di nuovo di diverso?
Notre-Dame fino a prima dell’incendio del mese scorso era una chiesa gotica, costruita a partire dal 1160, modificata nei secoli più volte. In particolare alla fine del Settecento, durante la Rivoluzione francese fu spogliata di tutti i suoi simboli, che poi furono ripristinati con il restauro ottocentesco, culminato con la ricostruzione della flèche sulla crociera (la guglia più alta) nel 1860 in stile neo-gotico. Notre-Dame è in stile gotico abbiamo detto, ma è costruita ove sorgeva prima un tempio pagano, poi una basilica. Questa stratificazione storica è presente in tanti edifici di culto, come (per citare un esempio eclatante, bellissimo) il Duomo di Siracusa ove l’edificio barocco ingloba un tempio dorico, o come il tempio malatestiano di Rimini, con la sua veste Rinascimentale che si sovrappone alla chiesa gotica di San Francesco.
Immediatamente capiamo che non è semplice pensare ad una ricostruzione dell’originale, quando è tutta la storia dell’edificio a costituire un unicum originale sedimentatosi nel tempo. La prima domanda che dobbiamo porci prima di fare ipotesi di ricostruzione quindi è: cosa rappresenta oggi Notre Dame per la Francia e per il mondo intero?
Ricostruirla con una libera interpretazione dello stile gotico come fece Viollet-le-Duc, ha ancora un senso? Senza la pretesa di voler rispondere a questa domanda proviamo ad analizzare questo stile cercando più chiavi di lettura al racconto della cattedrale scritto attraverso il linguaggio dell’architettura che è tecnica e simbolo insieme.
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La scienza delle costruzioni, ci dice che il gotico è l’esaltazione della forza peso, della gravità. L’arco a sesto acuto, le guglie, gli archi rampanti, i pinnacoli fanno parte di una struttura che tende ad incanalare le forze verso il basso secondo percorsi ben definiti che permettono di esaltare la resistenza a compressione del materiale principe col quale sono costruite le cattedrali: la pietra. La pietra, estratta dalla madre terra, alla quale si ricongiunge seguendo la legge immutabile della forza di gravità. Ma l’arco a sesto acuto, la tensione alla verticalità, alla leggerezza che caratterizza questo stile, simboleggiano anche il desiderio di ascensione verso l’alto, verso Dio, di togliere peso al materiale lapideo, alle lapidi. Come nel mondo immaginato da Dante, tutto basato sulla liberazione dal peso del corpo (del peccato) per potere ascendere dalle viscere della terra, fino al cielo, a Dio.
Il medioevo fu un periodo nel quale l’uomo cercava un sapere unico, esperienziale – oggi potremmo azzardare, un approccio olistico, sistemico – “incrinato” dal rinascimento e cancellato definitivamente per secoli da Cartesio e dall’epoca dei lumi. Così almeno la pensano John Ruskin e Fritjof Capra, che in momenti diversi della storia si ribellano alla macchina del mondo newtoniana, alla rivoluzione industriale, alla crescita “uber alles” usata ancora oggi per misurare la felicità di un popolo, alla ricerca della perfezione, di una verità assoluta.
La luce nelle cattedrali gotiche filtra attraverso le vetrate policrome (la struttura reticolare sopra descritta permette di alleggerire i potenti muri romanici favorendo l’inserimento di grandi aperture) trasfigura tutto ciò su cui si posa, divenendo ispirazione e azione di quella metafora che rende viva la materia inanimata. Ruskin, nel famoso capitolo “La natura del Gotico” all’interno del saggio “Le pietre di Venezia”, esalta l’imperfezione del lavoro svolto giorno per giorno dalla comunità che si ritrova nella “fabbrica” della cattedrale. Ruskin crede nel lavoro artigianale, imperfetto ma dotato di una forte impronta morale, religiosa. Crede quindi che l’architettura sia testimonianza della storia e che l’edificio al pari degli uomini debba vivere il proprio tempo, con la consapevolezza che ciò che resiste al tempo non sono i materiali, le forme, gli stili ma ciò che questi rappresentano.
Se costruissimo esattamente ciò che c’era, ricostruiremmo il falso di Eugène Viollet-le-Duc, rifalsificandolo! Avrebbe un senso oggi?
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All’epoca non fu un incendio ma la Rivoluzione francese, che al grido “liberté, égalité, fraternité” distrusse i simboli, le sculture in particolare. Come hanno fatto di recente i talebani con le statue di Buddha, e nei secoli tanti altri, potremmo un poco provocatoriamente affermare. All’epoca la ricostruzione fu fortemente voluta da un manipolo di intellettuali capitanati da Victor Hugo con il suo romanzo Notre-Dame de Paris, usato come vessillo. La cattedrale torna luogo sacro ed assiste allo svolgersi della tragedia. Lo scrittore ha capito che l’edificio altro non è che un libro di pietra che fa paura a certi poteri che hanno attraversato le storia, bruciando libri, esiliando o uccidendo scrittori e poeti.
Oggi le nuove cattedrali sono i musei, i nuovi campanili, le nuove guglie, sono i grattaceli, si dice da tempo. Lo vediamo chiaramente ove è stata creata da zero una metropoli nel deserto. Guardiamo Dubai, c’è il grattacelo più alto del mondo, una guglia che si perde nelle nuvole a oltre ottocento metri di altezza. C’è il nuovo Louvre, la succursale; ecco dove sono i simboli e dove si sposta la cultura dell’Occidente. Del resto non è accaduto lo stesso anni orsono con le Americhe, con gli Stati Uniti, con New York e quelle sue torri gemelle che parevano i campanili di Notre-Dame? Distrutte perché anch’esse simbolo di qualcosa. Tutto cambia nulla cambia.
* Questa volta è stato un incendio a distruggere, non un attentato o una rivoluzione. Però le immagini di un simbolo in fiamme ci hanno fatto subito pensare al crollo della nostra civiltà, della nostra religione, per nostra stessa mano, generando un senso di colpa, inducendo tanti a fare donazioni generose immediate e firmate (opportunistiche?), per ripristinare immediatamente il simbolo di? La mancanza di una risposta è l’epigrafe sulla tomba della nostra civiltà.
È su questi argomenti, sui valori Cristiani che Notre-Dame come simbolo amplifica nel mondo, che dovremmo innescare un dibattito, cercare delle idee, delle provocazioni, prima che sullo stile, sulle forme, sui materiali. Ritornando a Capra: nel mondo dei consumi e dei desideri materiali indotti nel quale viviamo, abbiamo ancora qualcosa da imparare dalla lezione del gotico che vuole liberare lo spirito dal peso del corpo, accettando la nostra finitezza come esseri umani di fronte al mistero, oppure nonostante ciò che sta accadendo al nostro pianeta ci riteniamo ancora altro rispetto al resto del mondo, più forti del destino, della natura, di Dio?
A questo punto la nostra cattedrale possiamo farla come ci pare: con il tetto di vetro per portare – la luce della ragione – in un luogo reso mistico dai chiaroscuri generati delle vetrate colorate; di carbonio, supertecnologica; di luci, eterea; di legno o di plastica riciclata, ecologica; ricoperta di vegetazione, green; com’era dov’era, nostalgica; se non vogliamo costruire una cattedrale che “passa di moda” nell’arco di una stagione, la cosa che conta è avere chiaro ciò che rappresenta, la forza del simbolo, che la tecnica precisa, ma non sostituisce.
Fabio Mariani
Fabio Mariani, architetto, collabora da tempo con la Ambasz&Associates di New York e Bologna. Con l’architettura, coltiva la corsa e la poesia. Crede che l’architettura sia un’arte capace di favorire la felicità dell’uomo. Con Meltemi, nel 2017, ha pubblicato “La casa come ritratto”.
**In copertina: uno dei progetti di ricostruzione di Notre-Dame, in vetro
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