#come si diventa critici musicali?
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CALL laboratorio gratuito di giornalismo musicale
Questo blog tramite il canale YouTube Ubu Dance Party apre una chiamata pubblica per un laboratorio gratuito di critica e giornalismo. L’invito è rivolto a giovani appassionati di musica, musicisti, amanti di concerti e ascoltatori entusiasti a cimentarsi con la scrittura, sperimentando la narrazione transmediale e le potenzialità dei social media. Il laboratorio, gratuito, si svolgerà…
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I 10 ARTISTI CHE STANNO RIDEFINENDO L’HIP-HOP
di Viviana Bonura
Sin dall’inizio l’hip-hop è un genere di protesta, nato dal disagio degli emarginati che raccontano le violenze, gli sforzi e le subordinazioni vissuti nella quotidianità. Gradualmente diventa la musica di chi non vuole rimanere incastrato nella miseria e di chi sogna una vita diversa, poi diventa il genere di chi ce l’ha fatta e può permettersi tutti i lussi più esagerati. Oggi, dai palchi dei locali e tra i vicoli che una volta ospitavano battle di freestyle, l’hip-hop si è spostato su internet. E’ su Soundcloud, su Spotify e tra i canali dei critici musicali amatoriali che gli artisti hanno la possibilità di costruirsi i propri trampolini di lancio ed ancora prima è dalle camerette e dalle sale di registrazione rudimentali che nascono le tracce più interessanti. Niente grandi etichette, niente produttori leggendari che scovano giovani prodigi, i rapper lasciano che sia il pubblico a sceglierli per primi. Le personalità che animano la scena sono più variopinte - di conseguenza lo è anche il loro background culturale - e loro per primi manifestano il bisogno di allargare i restrittivi canoni che per anni hanno costituito lo stereotipo del rapper. In questo articolo daremo spazio a chi non si conforma, a chi muove il genere nella giusta direzione capendo che per rimanere attuale la musica che da voce alle minoranze deve riflettere il presente. Questi sono dieci artisti che stanno ridefinendo l’hip-hop.
10. JPEGMAFIA
In occasione dei 50 Migliori Album Del 2018 abbiamo definito JPEGMAFIA, per gli amici Peggy, una scheggia impazzita nelle nicchie dell’hip-hop. Pare che da quella nicchia sia destinato ad uscire, mano a mano che il suo Veteran si fa strada tra i festival statunitensi e che i nuovi singoli accendono l’entusiasmo su internet ci rendiamo conto di quanto questo soggetto strano e nebuloso stia creando fermento nella scena. Notevole per le sue produzioni sempre anticlimatiche, inafferrabili e decostruite sulle quali sfoggia un flow improbabile e flessibile che si destreggia tra glitch e campionamenti che vogliono punzecchiare di proposito gli ascoltatori di hip-hop più inquadrati o sprovveduti. Peggy ha la lingua tagliente ed ironica, morde sul palco e poi si accascia tra la folla, a forza di trotterellare senza respiro riesce a dire e a fare quello che vuole, sputando sentenze su qualsiasi cosa. Tenetelo d’occhio perché ha intenzione di sbeffeggiare stereotipi musicali ed estetici.
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TRACCE CONSIGLIATE: 1539 N. Calvert; Thug Tears; Real Nega
09. Tierra Whack
Tierra Whack, da Philadelphia, ve la avevamo già consigliata tra le 10 Voci Femminili da Tenere d’Occhio Nel 2019. Nel settore dell’hip-hop la sua risonanza è ancora più forte, sgomitando con una personalità colorata ed ironica che già al primo album si dimostra capace di catturare le sfumature della contemporaneità, sempre più disattenta e superficiale, per sfruttarle a suo favore. Il suo punto di vista teatrale, bizzarro, distorto ed indubbiamente particolare sulla realtà che ci circonda ne coglie la velocissima mutevolezza, il tutto incorniciato da un flow che scalpita per essere messo alla prova, rime frizzanti e produzioni mai monodimensionali. Tierra Whack non ha paura di essere ingombrante, di uscire fuori dal coro per rifugiarsi nel suo mondo, un mondo che a primo impatto può sembrare infantile ed alienato, ma nel quale si celano i mostri più veri.
TRACCE CONSIGLIATE: 4 Wings; Pretty Ugly; Unemployed; MUMBO JUMBO
08. BROCKHAMPTON
I Brockhampton hanno completamente spazzato via ciò che credevamo fosse il concetto di boy-band ambientandolo nella scena hip-hop statunitense. Già questo basterebbe per garantirgli un posto nella lista, in più questa dozzina di giovanissimi sono capaci di lavorare in totale simbiosi ed evolversi in brevissimo tempo, pensando il loro come un progetto che oltre alla musica include regia, fotografia, direzione artistica e moda. Attraverso gli occhi di chi ha appena compiuto vent’anni danno voce alle urgenze e alle problematiche del millennio dal razzismo, all’omofobia, alla famiglia, alla salute mentale fino alla cultura popolare. Un altro degli elementi fondamentali del collettivo capitanato da Kevin Abstract è quello di spingere le barriere del genere con il quale sono stati identificati e nonostante usino il rap come mezzo prediletto le loro canzoni non sono confinabili all’hip-hop.
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TRACCE CONSIGLIATE: HEAT; SWEET; IF YOU PRAY RIGHT
07. Rico Nasty
Rico Nasty è una delle voci più vivaci ed impertinenti del rap odierno. Anche lei giovanissima, le piace cambiare spesso cambiare aspetto, qualsiasi cosa che la distingua e non la categorizzi. L’ostilità degli altri verso questa personalità discola e ruggente non tarda a mancare, per questo Rico risponde a tono nella sua musica, sputando impettita con rabbia e dinamismo su chiunque osi oltrepassare il limite tra giudizio e discriminazione ed aprendo parentesi sulle tribolazioni dell’essere giovani adulti. Il futuro per Rico è imprevedibile ma radioso, specialmente dopo Nasty ed il mixtape Anger Management aspettiamo che altro può riservarci la rapper americana oltre a campionamenti cartoneschi, un’attitudine un pò punk e influenze trap, perché abbiamo l’impressione che abbia ancora degli assi nella manica.
TRACCE CONSIGLIATE: Countin Up; Smack A Bitch; Trust Issues
06. slowthai
Slowthai, da Northampton, è probabilmente il rapper più promettente della scena hip-hop inglese. Nato dove fiorisce il grime e si svolgono i rave più all’avanguardia, la sua musica sta avendo una notevole risonanza dentro e fuori la sua città tanto da guadagnarsi con l’album di debutto una nomination per il Mercury Prize 2019. Thai ha sempre saputo di voler parlare di casa, offrendo osservazioni che spesso mancano in un genere centralizzato negli Stati Uniti come questo. Nei suoi testi non c’è solo la crisi dell’Inghilterra, la Brexit e l’emarginazione del ceto operaio, ma anche l’insicurezza del non essere abbastanza e la vulnerabilità assoluta che sfida le norme di genere, espressa attraverso un flow crudo ed una striatura inquietante di fondo, il tutto accompagnato da video musicali sempre stimolanti che ritraggono con cura il suo paese d’origine tanto amato ed altrettanto odiato.
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TRACCE CONSIGLIATE: Ladies; Gorgeous; T N Biscuits
05. Noname
La cultura hip-hop può essere davvero disinibita nello sfoggiare l’assenza di pudore e nel glorificare l’attività sessuale. In un panorama del genere Noname, rapper di Chicago, è stata inizialmente molto riservata per poi parlarne con tutta la delicatezza e la vulnerabilità che caratterizzano le sue liriche nell’ultimo disco Room 25. Noname si porta dietro tutta l’esperienza della poesia per formulare il suo personale stile rap, caratterizzato da un tono pacato e particolarmente discorsivo, senza voler sorprendere a tutti i costi con testi pieni di rime esplosive ma rivelando un’intelligenza notevole e un’attitudine coscienziosa, umile ed intima. Il suo flow è sempre un’unione particolare tra un intenso sentimento di gioia ed un certo senso di malinconia, espresso tramite agili giochi di parole su sonorità delicatamente jazz e soul, mentre nei testi continua ad offrire un’analisi delle sue esperienze di vita come fanno pochi dei suoi colleghi.
TRACCE CONSIGLIATE: Diddy Bop; Reality Check; Blaxploitation; Don’t Forget About Me
04. Denzel Curry
Con una carriera iniziata grazie a Soundcloud - è stato uno dei primi - Denzel Curry sembrava essere il nuovo predestinato alla trap, invece negli ultimi anni si è dimostrato molto di più. Non soltanto il rapper della Florida si è distinto dai colleghi trapper per la sua maturità lirica, un’attitudine genuinamente molto più aggressiva ed un solido background musicale che gli permette di affrontare qualsiasi sfida, ma ha saputo costruirsi dei personaggi da disco a disco ed aprirsi dei momenti in cui la sua creatività musicale al di fuori dell’hip-hop ha potuto esprimersi. La sua ascesa alla fama è stata rapida e adesso è uno dei rapper più apprezzati negli Stati Uniti, tuttavia nei prossimi anni potrebbe sfondare anche nel mainstream.
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TRACCE CONSIGLIATE: BLACK BALLONS; SUMO; Psycho
03. Tyler, The Creator
Tyler, The Creator è uno degli artisti più polarizzanti e intransigenti del decennio. La sua evoluzione nel corso degli anni è altrettanto affascinante ed è stato capace di mostrare le tantissime sfumature del suo progetto artistico che ormai ha definitivamente sconfitto l’idea del rap - e del rapper - nell’hip-hop, tanti personaggi quante sono le fasi che il musicista, produttore, designer e scopritore di talenti ha attraversato. Tyler Okonma - questo il suo vero nome - è riuscito semplicemente a rettificare la sua natura di artista in continua mutazione, mostrandosi intenzionato a non imporsi nessuna barriera per realizzare la sua visione. Per svincolarsi dalle preclusioni dell’identificarsi in qualcosa di preciso, preferisce invitarci a non avere nessuna aspettativa quando si tratta di lui, perché ogni volta sarà sempre diverso.
TRACCE CONSIGLIATE: Domo23; Answer; 911 / Mr. Lonely; EARFQUAKE
02. Kendrick Lamar
Kendrick Lamar è un artista che non ha bisogno di tante presentazioni. Sembra ormai di parlare di un veterano dell’hip-hop, ma il rapper di Compton inizia a fare scalpore circa sette anni fa, influenzando una nuova generazione di artisti - inclusi molti dei nomi in lista - con la stessa rilevanza dei maestri degli anni ‘80 e ‘90. Grazie alla sua incredibile padronanza del flow, una penna da fuoriclasse ed un autentico gusto per le strumentali Lamar è uno di quelli che saranno senza dubbio ricordati.
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TRACCE CONSIGLIATE: Sing About Me, I’m Dying Of Thirst; i; The Heart Part 4
01. ?
Come starete notando manca il numero uno di questa lista, ma vogliamo lasciare questo posto vuoto di proposito per far in modo che rimanga aperta. Abbiamo di sicuro lasciato fuori qualcuno, forse perché non lo conosciamo o forse perché gli spazi sono davvero pochi rispetto a tutte le personalità attive all’interno dell’hip-hop. Quindi, vogliamo siate voi a scegliere l’ultimo. Chi è il vostro artista che sta ridefinendo l’hip-hop?
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[ARTICOLO] Come i BTS sono diventati la boyband più famosa al mondo
“I BTS giungono per i loro primi concerti di sempre nel Regno Unito con un jet privato, lo stesso con cui hanno viaggiato durante le tappe americane del loro tour mondiale, culminate con uno show di fronte a 40,000 persone al Citi Field di New York il 6 ottobre, tre giorni prima di esibirsi davanti ad altrettante persone durante due serate alla O2 Arena di Londra. I BTS contano due album numeri uno negli Stati Uniti e miliardi di stream a livello globale. Recentemente sono stati invitati alle Nazioni Unite come ambasciatori dell’Unicef. Qui, il loro leader carismatico ha tenuto un discorso in inglese sull'accettare se stessi. Pietre miliari come queste sono colossali per qualunque artista, ma nel raggiungerle i BTS, formati dai rapper Suga, RM e J-Hope e dai cantanti Jimin, V, Jin e Jungkook, hanno cambiato il volto del pop in quanto primo gruppo coreano a raggiungere i piani più alti dell'industria musicale occidentale.
Jimin, dall'aspetto etereo, è scoppiato in lacrime al termine del concerto al Citi Field. Il gruppo si è esibito in posti di simile capienza in altri Paesi, ma l'America è sempre stata il punto d'arrivo più importante per il K-pop ed è un mercato che si è tentato più volte di conquistare conseguendo solo risultati minori con artisti come i BigBang, gli EXO e CL delle 2NE1. “Lo sentiamo tutto il tempo”, dice Jimin. “Durante questo tour ci siamo esibiti in posti molto grandi e questo ci fa capire che le persone ci amano davvero. Mi sono sentito preso da tutte queste emozioni”.
In un hotel di Londra, prima dei concerti nel Regno Unito, la sicurezza sorveglia i corridoi. Uomini massicci accompagnano i membri del gruppo in bagno. I BTS hanno raggiunto un livello dissociativo di successo tale per cui sono trattati come bambole di porcellana. “Sappiamo che la popolarità non dura per sempre”, dice RM con un sorriso. “Quindi ci godiamo il momento e quando finisce, finisce. Saliamo sugli aerei e ci esibiamo negli stadi, ma non mi sento come se tutto ciò fosse mio. È come se avessimo contratto un prestito con qualcuno”.
I BTS sono il frutto dell'ingegno del veterano scrittore e produttore Bang Shi Hyuk che in passato ha lavorato in uno dei giganti del K-pop, l'agenzia JYP, e che ha poi fondato la Big Hit Entertainment e debuttato i BTS nel 2013. Normalmente nell’ambito del K-pop si usa controllare ogni elemento della vita dei giovani “idol”, così chiamati in Corea. Tuttavia, Bang ha dato ai BTS la libertà di gestire il proprio account Twitter e di girare vlog dal loro studio; ha inoltre permesso ai rapper di comporre canzoni insieme con il team di produzione interno della Big Hit. I loro testi sono emotivamente vulnerabili e consapevoli, qualche volta quasi esprimono rabbia e vanno contro le radici del K-pop: 'Baepsae’, che si traduce come 'cucchiaio d'argento’, difende la loro generazione 'maledetta’.
I critici hanno provato a scoprire il segreto del loro successo in America: per molti è merito dei social media che hanno permesso la diffusione del loro messaggio, ma i fan dei BTS, conosciuti come ARMY, affermano che sono la musica e i testi le ragioni per cui hanno sentito una connessione così profonda con il gruppo. Questo è il motivo, cui si aggiunge la fine degli One Direction, il crescente interesse verso il K-pop negli Stati Uniti e l'infinità di contenuti visivi da parte dei BTS (dalle riprese dietro le quinte ai reality show). Tutto ciò attira i curiosi e li cattura con le personalità del gruppo. All���interno di un contesto tipico di una boyband, essi offrono qualcosa a tutti.
Come tutte le popstar con un fanbase dalle grandi dimensioni e potente, i BTS camminano su una linea delicata che sta tra il celebrare i loro ammiratori e potenzialmente alienarsi da loro. “La fama è come un’ombra”, dice Suga, il loro membro più serio. “C’è la luce e c’è l’oscurità; è qualcosa che ti segue costantemente e qualcosa da cui non puoi scappare. Le persone tuttavia tendono a rispettare la nostra privacy. Andiamo spesso a vedere gallerie d’arte e le persone tendono a non infastidirci, poi dopo che ce ne siamo andati scrivono un post [sui social].”
“Se diventa troppo e si oltrepassa un certo limite, allora può diventare una fonte di stress ma per me, almeno, è un segno del loro affetto” dice J-Hope, un ex street dancer. In una traccia di un loro album recente, Pied Piper, il gruppo ha giocosamente ammonito gli ossessionati: “Smettila di guardare [video] e comincia a studiare per i tuoi esami, i tuoi genitori e il tuo capo mi odiano / Hai già abbastanza mie foto nella tua stanza”.
Quella sorprendente franchezza - nel mondo del K-pop - ha sorretto il concept della loro più recente trilogia “Love Yourself” (Her, Tear e Answer), che ha prevedibilmente incentrato la propria trama intorno all’imparare ad amare se stessi. Il discorso di RM alle Nazioni Unite ha rimandato a questo tema: “Non importa chi tu sia, da dove tu venga, quale sia il colore della tua pelle o la tua identità di genere: fai sentire la tua voce”. Questa affermazione relativamente semplice ha fatto clamore in Corea del Sud, dove il presidente si oppone pubblicamente all’omosessualità.
Durante la loro carriera la band ha usato Haruki Murakami, Ursula K Le Guin, Jung, Orwell, Hesse e Nietzsche come fonti di ispirazione. L’ultimo figura in modo notevole nella teoria del destino che si intreccia attraverso Her, dove l’amore è qualcosa di destinato e per questo indistruttibile (solo per poi crollare in Tear). Come i fan indie degli Anni 80, gli ARMY dei BTS leggono le opere di questi scrittori per capire appieno la visione della band, mentre spendono cifre non indifferente di denaro in lightstick telecomandati attraverso un sistema Bluetooth per i loro concerti.
Per molte ragioni, tuttavia, i BTS sono il simbolo di un’industria che è molto più di un distributore di gomme da masticare ben funzionante. Il K-pop viene percepito come crudele per il suo sistema intensivo di allenamenti, che possono iniziare quando gli artisti hanno appena 7 anni e che possono durare per altri 10 senza nessuna garanzia che il gruppo debutti, e per il suo approccio duro nei confronti degli idol che hanno difficoltà a gestire la loro estrema stanchezza e la loro salute mentale. Molti sono svenuti sul palco, mentre Leetuk dei Super Junior ha aperto un gruppo ora in disuso di suoi pari, il Milk Club, per gli idol che lottano contro la depressione. Nel mentre, i fan vengono dipinti come ragazzine adolescenti immature. “Non ha senso discuterne o litigare” dice Suga, a tono basso. “Francamente, non riesco a capire le persone che rifiutano a priori un certo tipo di musica, qualsiasi esso possa essere. Ai suoi tempi la musica classica equivaleva per popolarità alla musica pop di adesso. È una questione di gusti e di comprensione - non c’è nulla di buono o cattivo, non ci sono intellettuali o ignoranti.”
La musica dei BTS è partita dall’hiphop e dell’R&B vecchia scuola, ma da allora ha incorporato una miriade di generi diversi, andando dall’EDM arrivando all’house sudafricano. Anche i testi sono diventati sempre più complessi, più vicini alla prosa che ad un semplice pop dalle rime scontate.
Sotto molti aspetti i BTS si adattano allo stile della classica boyband: sono di bell’aspetto e cantano bene, ma sono anche degli uomini adulti che piangono, comprendono ed espongono le loro vulnerabilità e i loro errori nonostante sia online che offline prosperi una cultura tossica incentrata sulla virilità. Ciò rafforza i loro messaggi di forza, amore, speranza ed accettazione che vanno oltre a quello che gruppi precedenti avevano proposto.
Gli idol K-pop lavorano intensamente in un mondo in cui solo poche carriere durano più di 10 anni e molte altre invece spariscono solo dopo 12 mesi. Quest’anno i BTS hanno pubblicato tre album (due in coreano e uno in giapponese), sono stati in tour in giro per il mondo e hanno registrato la terza serie del loro reality show ��Bon Voyage”. I loro impegni sono pianificati minuto per minuto. “Penso ci siano state volte in cui siamo stati vicini ad un esaurimento” ha ammesso Suga “ma è inevitabile e vale lo stesso per le persone che fanno qualsiasi altro lavoro.”
Idol di adesso e del passato si sono dati alla recitazione, sono apparsi in show televisivi sudcoreani e hanno provato carriere da solisti. Gli interessi di Suga includono l’architettura e l’illuminazione. Jungkook, il più giovane del gruppo (21 anni), ha preso a realizzazione video in stile documentario. Il suo più recente lavoro cattura gli estremi della sua vita: l’intensità del palco e la successiva quiete. Ha detto: “Mi sento molto felice quando penso alle cose che potrei fare in futuro”. Ha energia da vendere. Più tardi si ferirà il tallone prima del primo concerto a Londra e passerà l’intero show seduto su uno sgabello, chiedendo scusa in lacrime per non aver potuto partecipare completamente alle esibizioni.
Durante una recente live sulla piattaforma streaming VLive, V, la cui voce leggermente roca dà al gruppo una sfumatura profonda, ha fatto ascoltare dei pezzi di alcuni suoi lavori da solista. I rapper dei BTS hanno già pubblicato dei mixtape scritti e prodotti da loro stessi ma i cantanti del gruppo devono ancora seguire i loro passi. “Ci sto lavorando”, ha affermato Jungkook, facendo ridere J-Hope. RM è intervenuto divertito: “Si sta preparando per troppe cose! Film, boxing. Sta progettando così tanto che nessuno sa quando qualcosa uscirà.”
È scoppiato così un divertente battibecco. “Quando J-Hope mi darà le basi musicali forse potrò iniziare a lavorare alle mie canzoni,” ha detto in modo impassibile Jin, il più grande del gruppo (25 anni). J-Hope ha finto indignazione prima di replicare. “Gli ho mandato le basi! E gli sono piaciute!” ha detto mentre Jin è scoppiato a ridere. “In tutte le canzoni che faccio,” è intervenuto V, che era rimasto in silenzio per la maggior parte dell’intervista “sento come se mancasse qualcosa. È un mio limite, non riesco a terminare una canzone, ho bisogno di qualcuno che mi aiuti. Quando farò qualcosa che posso presentare lo pubblicherò.” Suga ha lanciato così un’ultima frecciatina: “Ci vorranno circa 20 anni allora.”
Per i fan è proprio questo stuzzicarsi in modo scherzoso e questo naturale gioco di squadra che rende i BTS così interessanti. Per la band questo legame li aiuta a sostenere il ritmo frenetico del loro lavoro.
L’esplicitamente ambizioso Suga ha ripetutamente affermato che la vittoria di un Grammy è il loro prossimo obiettivo e recentemente alla lista si è aggiunta l’esibizione nell’intervallo del Super Bowl (71.000 persone nell’arena; 120 milioni di spettatori da casa). Una delle due potrebbe essere ciò che consoliderà lo status dei BTS. Ora nulla sembra impossibile. “Vogliamo mostrare più che possiamo” ha detto Jimin con sguardo deciso. “Vogliamo solo essere in grado di mostrare il meglio di noi.””
Traduzione a cura di Bangtan Italian Channel Subs (©Cam, ©CiHope, ©lynch) | ©TheGuardian
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Senza voler andare ad aprire ulteriori vortici interpretativi su un'annosa questione che riguarda il virtuosismo e la musica, si può senza dubbio affermare che gli ultimi vent'anni di essa (in linea generale), abbiano premiato il sentimentalismo e non la capacità tecnica con cui produrlo. Non è che i musicisti non le abbiano apprese quelle capacità nelle rispettive scuole di musica (conservatori, accademie, corsi, etc.), piuttosto le hanno tramutate in relazione ai gusti del pubblico che, ad un certo punto, ha rifiutato la complessità trascinando anche i musicisti nell'idiozia di un pensiero generalizzato. Sarebbe ora di ripristinare un tantino l'equilibrio a favore dell'equazione abilità tecnica=contenuto emotivo, che per secoli ha dominato il pensiero occidentale della musica. E' su queste premesse che ho selezionato questi quattro nuovi cds di musicisti (più conosciuti e trattati in questa rubrica o ancora talenti che si trovano ad un epidermico stato di conoscenza dell'audience). L'approdo di Francesco Massaro sulle pagine di Musica Jazz e di molti punti critici dell'informazione, mi rendono molto felice. Con molta modestia, penso di aver intuito, prima degli altri, il talento che il sassofonista già serbava qualche anno fa: non siamo solo stati "fans" reciproci delle nostre attività, c'era un'intesa di fondo sulle prospettive del mondo e della vita. Francesco, dopo aver accantonato l'idea di ulteriori elaborazioni tra la musica improvvisata e le tradizioni salentine (assieme a Rocco Nigro, vedi qui la mia recensione dell'epoca), ha partorito il progetto del Bestiario, ossia un quartetto pro-patafisica con la flautista Mariasole De Pascali, il pianista Gianni Lenoci e il percussionista Michele Ciccimarra, spostando l'attenzione dalla prelibatezza di una forma improvvisativa fondata essenzialmente sull'assolo ad una basata sul collettivo. Indiscutibilmente pensato nei suoi particolari, il Bestiario ha affinato la percezione delle proprie intenzioni dopo il debutto (leggi qui le parole che scrissi su quel cd), giungendo al nuovo episodio di Meccanismi di Volo. Sgomberando il campo da possibili equivoci, vorrei sottolineare come l'ispirazione di Massaro e soci, nella costruzione del pensiero musicale, non sia una derivazione di idee sfruttate nella storia contemporanea: non aspettatevi di trovare le condensazioni musicali di Messiaen, Feldman o di altri illustri autori chiamati in causa, perché lo scopo di Francesco è quello di proporre un proprio approccio, che delle idee di quei compositori ha solo lo scheletro dell'idea. In tal senso, Meccanismi di volo vi sembrerà un irrazionale apoteosi di quei linguaggi, un predicare sviluppi senza congruenze; ed invece, sta tutta lì l'incandescente verità della musica improvvisata del futuro, basterebbe solo scorgerla. Queste 9 nove tracce migliorano ciò che era stato detto in Bestiario marino poiché presentano un paio di maturazioni: la prima sta nella maggiore intraprendenza della De Pascali, una flautista che sta ampliando le sue doti velocemente; l'altra è incastonata nel progetto del gruppo e sta nel fatto che i "meccanismi" cominciano a rodarsi nella maniera giusta, con una distribuzione degli interventi equilibrata e nella quale spesso Massaro non assume in nessun modo una posizione da leader. Come dire è il nodo di una corda dove ognuno spinge con la sua creatività. Così mentre l'introduzione pianistica in solo di Lenoci, seguita nel suo sviluppo da brevi ed implacabili sottolineature di Ciccimarra, è un tuffo del tutto personale nelle oasi degli spazi di risonanza alla Feldman, le successive Paradisea (courtship dance) e Esercizio di distaccamento pongono in primo piano la De Pascali e una considerevole serie di tecniche non convenzionali (tra cui un'eccellente abilità nel passaggio tra il soffio e il parlato, dove quest'ultimo presenta caratteri emotivi diversi da quelli classici di Kirk). Massaro viene introdotto da Murmuration, come un effetto girandola del clima vissuto dalla musica, si introduce in simulazione e si innesta in corale; il suo clarinetto basso viaggia tra strozzature e pigre soffiate nella apprensiva Tecniche di ornitomanzia, dove il quartetto raggiunge un primo zenith; la breve The Cabinet of the Dr Stroud offre una sorta di tecnica granulare di gruppo, mentre Sagittarius serpentarius affila le armi del sax baritono nei toni sporchi e dissonanti, tre minuti intensi in cui Francesco simula le tonalità del canto difonico, una circostanza che si ripete nella conclusiva Canis Major, un corale quasi all'unisono che si pone in antitesi con l'introduzione, dove quest'ultima era l'apertura di un sogno, mentre il finale diventa una sovversiva requiem. Un pezzo magistrale, massimale, che viene arricchito dalle chitarre di Adolfo La Volpe e Valerio Daniele, qui in vesti di ospiti ed aggiotatori di live electronics.
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“Suono Rossini con il monta latte, d’altronde, come diceva Frank Zappa, senza deviazione dalle norme non c’è progresso”: Francesco Consiglio dialoga con Mario Mariani, pianista rivoluzionario
Quando Mario Mariani suona il Waltz 2 di Shostakovich su una melodica appoggiata al pianoforte, io penso a tutti quelli che ritengono la musica classica troppo seria, anzi seriosa. E vorrei dire a ognuno di loro: “Cosa vi state perdendo!”. Ascoltando questo genio pesarese (genio, nel senso del Treccani: “Chi, all’originalità dell’ingegno, unisce la capacità di dare forma e tradurre in atto quanto la fantasia o l’immaginazione gli detta”) mi sono venute in mente le parole di Peter Kivy, filosofo e musicologo: “L’arte dell’interprete è simile a quella dell’arrangiatore, e il prodotto dell’interprete, l’interpretazione, è un’opera d’arte molto simile a un arrangiamento, una versione dell’opera. In musica, come in tutte le arti interpretative, si ottengono due opere al prezzo di una”. Con Mario Mariani le due opere diventano tre, e la terza è la messa in scena, l’ironica rappresentazione che il pianista fa dello spartito interagendo con i più svariati oggetti: un cappuccino shaker dell’Ikea, righe e righelli, biglie che fanno il bending sulle corde e altri bizzarri oggetti usati per accrescere le potenzialità del pianoforte.
Non sto a dilungarmi: dopo avere letto l’intervista visitate il suo canale Youtube. Ha un nome che è un manifesto programmatico: “Mario Mariani – another piano is possibile”.
Sì, è possibile.
*
Mario Mariani si è diplomato in pianoforte presso il Conservatorio di Musica ‘Gioacchino Rossini’ di Pesaro. È un pianista eclettico in grado di spaziare dalla musica contemporanea alle performance teatrali, alla scrittura di colonne sonore per il cinema. Vanta un migliaio di concerti come solista, con ensemble e orchestre in Italia, Europa e Stati Uniti, oltre a numerose tournée negli Istituti Italiani di Cultura all’Estero.
Ha vinto il premio Novaracinefestival (assegnato da Spike Lee) per la migliore colonna sonora con il cortometraggio Under my garden di Andrea Lodovichetti. Nel 2003 ha scritto la musica di scena de Il Borghese Gentiluomo, spettacolo prodotto dal Teatro Stabile delle Marche con Giorgio Panariello protagonista e Giampiero Solari alla regia.
Ha attirato ulteriore attenzione in tutto il mondo con alcune esibizioni non convenzionali, come “Residenza artistica estrema”, dove ha portato un pianoforte a coda nella Grotta di Monte Nerone, sull’Appenino Umbro-Marchigiano, e ha suonato un concerto a notte per un mese intero.
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Amo gli artisti eccentrici, gli scapigliati della musica, i creativi che cercano instancabilmente una bellezza che sta oltre la partitura. Come le è venuto in mente – puro genio all’opera – di usare il montalatte sul rullante per aprire la Gazza Ladra di Rossini?
Come sosteneva Frank Zappa, “senza deviazione dalla norma il progresso non è possibile” e questo è vero non solo per la musica ma in ogni campo. La ricerca che faccio da tantissimi anni sul pianoforte e le sue tecniche estese (preferisco sempre evitare il termine ‘pianoforte preparato’ perché fa pensare troppo al mondo di John Cage e porta fuori strada rispetto a quello che è il mio mondo musicale) è derivata tanto dalla ricerca di un suono ‘utopico’ nel pianoforte – non a caso il mio primo album di pianoforte solo si chiamava Utopiano – che il tentativo di unire altre discipline, come la performance con tutto ciò che di teatrale e fisico comporta. Possiedo uno Steinway “O” del 1906 dai tempi degli studi in Conservatorio e fino a un paio d’anni fa era abbastanza insuonabile, per problemi di meccanica e di corpo sonoro. Ciò mi ha portato probabilmente a cercare all’interno del pianoforte, laddove il suono ha origine, quello che non trovavo suonandolo in maniera canonica e dopo i primi timidi tentativi (unghie su corde, palmi e così via) ho preso gusto a sperimentare tecniche e oggetti dalla più varia natura: biglie, catene, massaggiatori elettrici che aleatoriamente si spostano sulle corde e naturalmente lo sbattilatte IKEA che è diventato un po’ un mio tratto distintivo, dato che spesso lo uso per imitare il suono del mandolino (come nella Tarantella Napoletana di Rossini o nel tema di Amarcord di Nino Rota) o come in questo caso per ricostruire il rullante solo che apre l’ouverture della Gazza Ladra. Non è solo un sorprendente effetto ma anche un piacevole complemento sonoro, visto che il rullante con la cordiera attaccata, durante la prima parte dell’Ouverture, vibra per simpatia continuando l’effetto percussione mentre sto suonando.
Sulle riviste specializzate sopravvivono (mai verbo fu più esatto, perché solo di strenua sopravvivenza si tratta) le rubriche di recensioni discografiche. Mi chiedo quanto conta oggi per un artista il giudizio di un critico e quanto invece la scrittura di pancia dei tanti appassionati che impugnano il mouse e scrivono sui blog o sui social network.
La critica specializzata conta se non altro per fare curriculum, visto che sulla qualità avrei molto da eccepire essendo una grande quantità di critici affetti dal ‘molliconismo’, cioè parlare bene di tutto, specie se prezzolati e foraggiati da potenti Uffici Stampa. Credo allora più nella ‘scrittura di pancia’ dei tanti appassionati che dedicano le loro energie ad una sincera ricerca della novità in quello che si crede essere lo stagnante panorama artistico, che in verità non è stagnante per niente. Spesso mi capita di essere contattato da giornalisti e blogger indipendenti ed è per me sempre un piacere rispondere alle loro domande, visto che entrambi facciamo parte in un certo senso dell’underground, quello vero.
La musica fa parte di noi, l’ascoltiamo dappertutto: nelle sale d’attesa dei medici, negli aeroporti, nei supermercati, nelle pubblicità televisive. “Non posso immaginare me stesso senza musica, anche quella brutta”, scriveva Stravinskij, rivelando, a metà Novecento, una profetica rassegnazione di fronte al futuro proliferare di sottofondi musicali per clienti, dipendenti e ascoltatori distratti. Tanta musica, poco ascolto.
Quanto è vero! Ho sempre pensato che quando si ascolta musica si debba fare solo quello, e farlo in religioso silenzio. Per me ascoltare un brano di musica è come entrare in un museo e nel poco tempo che si ha solitamente a disposizione cercare di capire e di carpire quanto più possibile dal capolavoro che si sta osservando, e capire quanto quel capolavoro ‘sta lavorando’ in noi. Il rispetto e la comprensione per la musica e per l’opera d’arte porterebbero a rispettare anche gli artisti, visti spesso come creature aliene ‘fuori dal mondo reale’ e quindi compatiti, spesso con una punta di invidia – incomprensibile perché spesso sono persone dallo scarso ‘potere sociale’ e sottoposti a continue umiliazioni – poiché, sotto sotto, si vorrebbe essere come loro.
Una parte della sua attività concertistica è decisamente estrema e non convenzionale. Ha suonato insieme al pittore Giuliano Del Sorbo in una performance dal titolo “Action Music Action Painting”. Ha dato musica a un racconto disegnato con la sabbia dall’artista Massimo Ottoni. Ha collaborato con attori, danzatori e performer vari. E però, lancio una provocazione: questo continuo esplorare linguaggi alternativi, sonorità non convenzionali, nuove modalità di fruizione dello spettacolo musicale, non è come affermare che alla musica pura manca sempre qualcosa?
Tutto questo esplorare fa parte della mia natura, che mi piace definire come un incrocio tra un uomo rinascimentale e un hacker. Questa stessa natura mi ha portato a conoscere e ibridare mondi anche non proprio adiacenti e conoscere artisti e personaggi interessanti che mi hanno profondamente influenzato, e spesso ho direttamente collaborato con loro. Cinema, teatro, danza, performance, discipline scientifiche, psicologiche e anche sciamaniche: tutto per me ha interesse e la musica è un centro polare che attrae e trasforma tutto ciò. Alla musica ‘pura’ non manca nulla, anzi. Ma nel caotico e distratto mondo di oggi la cosa più complicata come artisti è quella di ‘rendersi esistenti’ e attrarre l’interesse sia degli intermediari che si frappongono fra artista e pubblico e dare un motivo di interesse a quest’ultimo per farlo decidere di uscire di casa, spostarsi e spendere eventualmente i soldi in un biglietto. Inventarsi del ‘valore aggiunto’ rende più appetibile e interessante la proposta artistica e sapere raccontare tutto ciò è fondamentale. Purtroppo nel nostro paese, ma non solo, lo storytelling conta spesso molto di più del contenuto musicale e artistico, ma questo apparente compromesso se utilizzato in maniera ‘proattiva’ può essere però una ulteriore fonte di stimolo e ispirazione.
Lei crede che dietro una sequenza di note debba esserci necessariamente un sentimento, o per meglio dire: l’intenzione di un sentimento? Oppure la musica è pura astrazione e l’unica via per avvicinarsi all’essenza di quest’arte è ascoltare un brano nella sua pura oggettività, mettendo a tacere il cuore?
Le note sono già una codificazione se vogliamo semplificata di quello che è il suono, che una volta organizzato (o comunque, come nel caso della musica indeterminata e aleatoria ascrivendolo in una cornice ‘artistica’) diventa musica. Si può parlare tanto della musica. Solitamente inizio i miei workshop di Creative Music chiedendo ai presenti cos’è per loro la musica, e ogni volta ricevo risposte completamente differenti, ma ognuna di esse è a suo modo giusta essendo un aspetto dei tanti, forse infiniti, che definiscono questa magia che è la musica. Di conseguenza ci sono tanti modi per approcciarvisi. Prova ne è che se esaminiamo il cervello di una persona che ascolta musica vediamo attivarsi numerose aree cerebrali (e infatti la musica è un oggetto di studio tra i preferiti delle neuroscienze), tanto quelle deputate alla logica, che quelle spaziali, uditive, del piacere e così via. Io suggerisco di avvicinarsi alla musica senza sovrastrutture, senza aspettative e lasciarsi trasportare da ciò che arriva e che sorge dentro di sé.
Infine, la più classica e inevitabile delle domande: progetti per il futuro?
La classica risposta potrebbe essere di non dire nulla per scaramanzia! In realtà ci sono molti progetti che sto preparando. Prima di tutto continuando il mio filone delle variations (nel 2017 usciva The Soundtrack Variations e nel 2018 The Rossini Variations) sto preparando, in occasione del 100° anniversario della nascita di Federico Fellini, le Fellini Variations per cui ho già diverse date in giro per il mondo. Sto poi lavorando a un progetto di 10 anni fa, risalente a quando trascorsi un mese in una grotta con un pianoforte a coda in cima al Monte Nerone, tra le Marche e l’Umbria e dove ho registrato diversi brani. Vorrei registrare i rimanenti nel mio studio (sempre sul famoso Steinway, ora finalmente restaurato) e avendo ricostruito il suono della grotta utilizzando la tecnica del riverbero a convoluzione, è come se portassi il pianoforte in quel luogo e sarà probabilmente il mio quinto album di pianoforte solo. Infine ho ideato a Pesaro uno spazio artistico chiamato HOBO all’interno di una bottega solidale per il riuso dove quasi ogni giorno ci saranno concerti, eventi, incontri e performance tutte basate sull’improvvisazione (che preferisco chiamare “improvvisazione istantanea”) che sta riscuotendo molto interesse. Una specie di factory dove confluiscono persone, storie, oggetti e culture. Con la musica ancora una volta al centro.
Francesco Consiglio
L'articolo “Suono Rossini con il monta latte, d’altronde, come diceva Frank Zappa, senza deviazione dalle norme non c’è progresso”: Francesco Consiglio dialoga con Mario Mariani, pianista rivoluzionario proviene da Pangea.
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RECENSIONE: Bon Iver - 22, A Million (Jagjaguwar, 2016)
Ci sono dischi e dischi. Dischi che portano con sé quell’immediata certezza del loro essere un capolavoro, dischi incompresi che vengono sottovalutati e solo dopo che la loro risonanza si insinua col tempo nella musica degli altri ci si rende conto del loro valore. Questo ultimo caso è ciò che è successo con 22, A Million, terzo album dei Bon Iver, progetto creato da Justin Vernon, uno dei musicisti moderni più visionari. Se da un lato i critici l’hanno subito accolto con giudizi estremamente positivi, lo stesso non è successo tra il pubblico che si è diviso dopo l’ascolto di un album così diverso dal folk spoglio e struggente del debutto For Emma, Forever Ago e dai viaggi terreni e solennemente corali dell’omonimo sophomore, eppure fastidiosamente coerente al suo testamento artistico, pur nella sua estraneità a qualsiasi cosa da lui mai realizzata prima.
A scrivere questa recensione c’è qualcuno che non si è sottratto allo scetticismo iniziale, all’inganno di suoni che sembrano scorie inutilizzabili, fossilizzatesi sulla crosta di un pianeta inospitale. Il primo giudizio è stato quello di un album pretenzioso ed ottuso, ma dopo mesi di respingimenti dovuti alla sua natura criptica, capita che nella vita succedano cose che ti cambiano, eventi che squarciano domande immense e dubbi inconfessabili, creando un buco che vorresti ricucire, ma che più lo tocchi più si sfilaccia, finendo per allargarsi sfuggendo al tuo controllo. Prima di essere inghiottita io stessa, è capitato un replay illuminante di 22, A Million che ha cristallizzato le cose, lasciandomi il tempo di cicatrizzare le perdite e le decisioni prese ed accettare il fatto che ci sono risposte incomunicabili o forse non ci sono proprio, un ignoto enigmatico e permanente con cui convivere. Cogliere dei frammenti di questo capolavoro bellissimo ed ambizioso lo ha reso per me un rifugio per ritrovare la serenità e crescere.
In primo luogo bisogna partire dal fatto che 22, A Million è un progetto da scoprire incessantemente ed impossibile da capire nella sua completezza. Niente è convenzionale o casuale, a partire dai titoli delle canzoni, dalla copertina e dai riferimenti religiosi obliqui, tutti immersi in un’estetica precisa fatta di codici matematici e simbologie Tao - un concetto che ha come base la coesistenza degli opposti, la tensione tra la finitezza terrena e la dimensione spirituale - dissezionati, decostruiti ed immortalati nella loro totalità in un unico fotogramma come in un quadro cubista, attraverso tecniche di produzione innovative che convergono sensazioni crescenti di sentimenti fratturati ed intercalando campionamenti finemente rifiniti. Vernon ha creato qualcosa di speciale e curato in ogni dettaglio, qualcosa che, se guardiamo bene, non ha rinnegato il vecchio stile electro-folk, ma allo stesso tempo ha esaminato esperimenti musicali innovativi.
22, A Million è un viaggio verso la comprensione di se stessi come se fosse una religione, una collezione di tormenti e salvezze nel contesto di momenti sacri e ricordi intensi, segni ai quali si può affibbiare un significato o ignorare come coincidenze. Bon Iver si è trasferito da un’altra parte, in un posto non concreto ed è riuscito ad afferrare qualcosa di così sfuggente ed immateriale come lo spirito, una presenza universale eppure così incomprensibile. Anche se secondo l’artista il suo è un tragitto non concluso, una meta non raggiunta, ci è arrivato davvero vicino, dall’esile e minuscola prospettiva di un mortale qualunque, cogliendo degli impulsi che descrivono un pò tutta la complessa esistenza umana, spesso senza riuscire a parlarne con cognizione di causa e perdendone il controllo.
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La numerologia è una parte importantissima della simbologia e del motif dell’album. Il 2 rappresenta Vernon, la persona, ripetuto due volte perché indica la sua identità legata dal dualismo: la consapevolezza di sé e la consapevolezza di sé in relazione col resto del mondo. Il milione è il resto del mondo: il milione di persone che non conosceremo mai, l’infinito e lo sconfinato, tutto ciò al di fuori di noi stessi che ci rende chi siamo. Questo altro lato del suo dualismo è ciò che lo completa e ciò che egli cerca.
Appresa questa nozione, l’album si apre con 22 (OVER S∞∞N) che indica la partenza da Vernon e si conclude con 00000 Million - il titolo diventa completo se letto considerando il numero del brano, ovvero il decimo, quindi diventa 10 00000 - che completa il viaggio verso l’infinito. “There isn't ceiling in our garden / And then I draw an ear on you / So I can speak into the silence” canta Vernon nella prima traccia evocando i giardini biblici dell’Eden e quindi, un tempo in cui l’umanità viveva senza conflitti, un’utopia rovinata dall’imperfezione dell’uomo stesso col peccato. Con questa semplice strofa egli crea infinite interpretazioni, una di queste può essere la perdita di contatto con Dio ed il volerne a tutti i costi creare uno a cui parlare per non ascoltare più l’insopportabile silenzio della solitudine, oppure, dell’incapacità moderna nel comunicare tra di noi che porta ad una disperazione tale da voler disegnare letteralmente un orecchio su chi non riesce a sentirci. “What a river don't know is to climb out and heed a line / To slow among roses or stay behind” canta, invece, nell’ultima traccia, indicando che un fiume, ovvero l’uomo nel corso della sua vita, non è a conoscenza delle forze che lo guidano, ma segue il suo percorso senza sapere ciò che lo aspetta, senza avere accesso alle ragioni profonde delle sue azioni. E’ un’accettazione bellissima della natura della nostra esistenza, la consapevolezza di sé in relazione all’infinito che Vernon stava cercando, una conclusione che abbraccia la mancanza del sapere.
Questi sono solo due dei tantissimi esempi del magnetico uso della parola all’interno dell’album, un altro importantissimo aspetto da considerare che lo rende irripetibile a confronto di qualsiasi altro testo musicale, una parola comunicativa ma non proprio, a volte è un muro ed a volte è una porta, radicata nell’intellettualismo astruso e visivamente evocativa. Vernon inverte continuamente la struttura grammaticale come se la scompostezza dei suoni si stesse traducendo anche nelle liriche, inventa parole perché quelle che esistono hanno un limite legato alla loro natura umana, ricerca riferimenti alla Bibbia e alle religioni con una lucidità spiazzante.
Questo è uno dei pochi casi in cui riportare i testi o analizzare la musica sembra superfluo, perchè 22, A Million va oltre ciò che è tangibile ed in ogni modo penso che non gli si possa fare giustizia. Potremo dire di come 10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄ suoni come l’aggressiva catastrofe del battito di un cuore impazzito, coi suoi synth dilatati fino al punto di spaccarsi, sui quali si intersecano interferenze, sassofoni e voci sdoppiate, contrazioni di una vita sul punto di cadere giù dal filo ed espansioni che ricominciano il galoppo cieco, ma ci scontreremo sempre con quell’incomunicabilità della parola davanti alla quale Vernon ha dovuto arrendersi.
Chiamare 33 “GOD” una canzone organica è un eufemismo, un paradosso, ma lo faremo considerato il contesto dell’album. 33 è il numero che rappresenta la presunta età di Cristo al momento della sua morte, è il numero della Trinità, sono i giorni di anticipo coi quali è stata pubblicata la traccia rispetto all’album, sono i numeri che compongono la sua stessa durata. Questo brano vuole spiegare l’immensa distanza tra l’uomo e Dio che si annullerebbe nel momento in cui il primo ricevesse la salvezza del secondo, ma questo non succede e, piuttosto, si verifica la perdita della fede dovuta ad una sensazione di abbandono, al contempo questo rapporto difficile è descritto a tratti con le dinamiche di una relazione sentimentale tra due persone e, perciò, può anche raccontare della fine di una storia d’amore. “Is the company stalling? / We had what we wanted: your eyes / With no word from the former / I'd be happy as hell, if you stayed for tea / This is how we grow now, woman / A child ignored” canta attraverso un tuning incorporeo derivato dal Messina - uno strumento di sua invenzione che sdoppia la voce in diverse armonizzazioni e sembra correggerne l’intonazione come una specie di auto-tune - su una strumentale che inizia con delle note di tastiera ed un tappeto infinito di frammenti di campionamenti manipolati e messi in loop, per poi aprirsi con il suggestivo accompagnamento completo della band e sempre tantissimi synth.
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29 #Strafford APTS è un allucinazione sonoramente molto vicina all’acustico country folk, semplice, se non fosse per i movimenti ultra sensoriali che sembrano provenire da un altro mondo e, talvolta, escono dai tessuti come glitch. Anche lo smarrimento di 715 - CRΣΣKS è molto semplice, ma risulta un esperimento completo, un abbandono di qualsiasi musica per centrare l’attenzione su un acapella che viene dall’anima - benché sempre stortissimo e quasi incomprensibile - così sentito da spezzarsi e strapparsi, una dimostrazione suprema della poesia di Vernon. “Honey, understand that I have been left here in the reeds / But all I'm trying to do is get my feet out from the crease”. 666 ʇ, appropriatamente la sesta traccia dell’album, è un collage in cui non manca nulla, dai synth che sembrano provenire da un qualche computer in fase di decodificazione o da un orologio che scandisce il tempo, ad un riff di chitarra elettrica dai colori caldi, fino ad una sezione di fiati che perfettamente si uniscono al falsetto di Vernon.
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Ci sono dischi e dischi. Dischi che puoi dimenticare e dischi che non puoi dimenticare. 22, A Million, terzo album dei Bon Iver è proprio uno di questi. Sicuramente una delle evoluzioni musicali più riuscite del decennio ed azzarderemo a dire anche del secolo.
TRACCE MIGLIORI: 715 - CRΣΣKS; 33 “GOD”; 29 #Strafford APTS; 666 ʇ; 8 (circle)
TRACCE PEGGIORI: quali tracce peggiori?
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RECENSIONE: Pale Seas - Stargazing For Beginners (Abbey Records, 2017)
Sui Pale Seas non si sa molto e dopo un'approfondita ricerca sul web le uniche informazioni che sono riuscita a trovare sono le seguenti: sono un quartetto di Southhampton, Inghilterra e sono in attività ben dal 2011, su Youtube e sulle piattaforme di streaming musicali, prima di adesso, l'unico materiale disponibile erano un paio di canzoni ed un solo video. Qualche anno fa, sotto un'improbabile suggerimento di Spotify, mi sono imbattuta sul doppio singolo del 2012 Bodies / My Own Mind, pubblicato in collaborazione con la Communion Records (Catfish & The Bottlemen; Twin Peaks), ed è stato amore a primo ascolto. Da allora la band sembra aver attraversato un periodo un pò travagliato, pubblicando singoli con altre etichette o un EP senza averne alcuna, aprendo dei concerti per The War On Drugs e Beach Fossils, fino a scomparire per tre anni.
I Pale Seas sembravano essere l'ennesima band dalla vita breve, stroncata prima di germogliare, ma si scopre che non è così. In realtà, il quartetto si è rintanato in un'abbazia medievale in una parte remota dell'isola di Wight per lavorare sul loro album di debutto. Registrato per la maggior parte di notte per catturare la sensazione di malinconia pensierosa e l'incorporea percezione di librarsi in volo che essa suscita. Il processo di creazione non può essere più che riuscito, ascoltando Stargazing For Beginners, infatti, la visione a cui si viene rimandati è esattamente quella della notte portatrice di nostalgia; “stargazing”, inoltre, è il termine usato per indicare l'azione dell'osservare le stelle ed effettivamente se dovessi farlo questa sarebbe la mia colonna sonora. Il loro è un alternative rock che sembra composto solo da cuore e anima, non ci sono altri strati a proteggere questo nucleo pulsante, la loro musica arriva diretta e immediata con tutte le fragilità, i sentimenti ed una sensibilità cristallina. Il loro sound ricorda il dream-pop dei Beach House e la malinconia di Elliot Smith, mentre la particolarissima voce del frontman Jacob Scott si può paragonare solo a quella dei Cigarettes After Sex, ma con un'emozione meno controllata e più tridimensionale; il raffronto diventa naturale soprattutto nella traccia In a Past Life, in cui lo stile narrativo dolce e sognante e il tono fanno pensare che sia stato un riferimento intenzionale: “The stars shine bright now”. Il disco si apre con il primo singolo Into the Night, che ha spezzato in grande stile il silenzio artistico prolungato negli anni; la differenza è colossale ma sono sempre i Pale Seas che però esplodono in una monumentalità che erano destinati a raggiungere dagli inizi, la produzione è tutta un'altra storia, gli strumenti sono chiari e presenti, la linea di basso così come la chitarra fanno innamorare. La colonna portante è sempre la voce: “In my body was a hole straight through / An endless shadow whose soul was bruised / Sometimes I wonder why you lead me so blindly / When I’m trying to see the light that’s fading inside of you” sono le prime parole pronunciate da Jacob Scott, che mostra una capacità cantautorale niente male. Posso sembrare esagerata, ma questa canzone ha le potenzialità per diventare una hit indie senza tempo.
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Provo dei sentimenti simili anche per Someday, il secondo singolo, in cui le chitarre hanno una radice ancora più shoegaze, un pò alla Slowdive nella loro ultima fase post-hiatus. Blood Return e la title-track offrono sonorità più folk, l'ultima in particolare risuona come una vera e propria ninnananna medievale che racconta di leggende antiche.
Nella tracklist ricompaiono anche vecchie canzoni, come le adorate My Own Mind, Bodies e la traccia di chiusura Evil is Always One Step Behind, le prime due re-registrate con qualche modifica come meno radice acustica e quindi più strumentazione e, occasionalmente, una cadenza diversa nelle parole; mi ritrovo comunque a preferire le versioni originali, in primo luogo perchè sono sempre più emotivamente legata a quelle, in secondo luogo perchè non penso avessero bisogno di una pulizia così precisa nella produzione, una terza ragione è dovuta all'avere fatto a meno della seconda voce femminile che era presente agli inizi, conferiva corposità e si sposava perfettamente in fatto di armonizzazioni. Nell'ultima, invece, non sono state apportate modifiche e sicuramente preferisco così; Seconda voce qui presente a parte, il crescendo di quest'ultima canzone è sinceramente emozionante, all'inizio le parole sono lente e ben scandite, concentrando una potenza che è in grado di evocare la speranza sopra la disperazione: “You do things, spaces cry / Time is never on your side / Evil is always one step behind / Now all my love will change your mind”. Le chitarre partono ariose per poi riempire tutto lo spazio, prevalendo su una tramatura di strumenti sempre più fitta e lasciando concludere l'album con una lunga strumentale.
Stargazing For Beginners è un'album solido dall'inizio alla fine, la tracklist è ben organizzata per dare la stessa consistenza sia alla prima che alla seconda parte. C'è tutto, dal sentimento, alla bella musica, ai bei testi, a una forte sensazione sinestetica tra sensi. L'unico dispiacere è quello che, almeno fino ad ora, è stato un album totalmente ignorato dai critici e che è riuscito a raccogliere poco pubblico ma, che è senza dubbio uno dei migliori dell'anno.
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TRACCE MIGLIORI: Into The Night; Someday; Evil Is Always One Step Behind
TRACCE PEGGIORI: Blood Return
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