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“Le spine e i fiori”. Il messaggio di pace di Mario Longo parla anche inglese
Lo aveva annunciato l’autore Mario Longo in occasione della prima pubblicazione del suo libro, trascritto anche in arabo, dal titolo “Le spine e i fiori”, ed ora, è fresca di pubblicazione la versione del testo tradotto in inglese
italianewsmedia.com : Lo aveva annunciato l’autore Mario Longo in occasione della prima pubblicazione del suo libro, trascritto anche in arabo, dal titolo “Le spine e i fiori”, ed ora, è fresca di pubblicazione la versione del testo tradotto in inglese. La silloge arricchisce la collana “Altre Frontiere” dell’Aletti editore. Il bilinguismo è qualcosa su cui punta molto l’autore, che vive a Torre…
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Naturalmente si deve accettare come presupposto l'esistenza di dispute tra psicologi cognitivi, filosofi della mente e neuroscienziati su cosa sia la coscienza. Il fatto che la suddetta domanda venga posta almeno dai tempi dell'antica Grecia e dai primi buddhisti indica che la specie umana presuppone, da un certo punto in poi, la propria coscienza, e che la coscienza ha un certo effetto sul nostro modo di vivere. Per Zapffe, l’effetto è «una violazione nell’unità della vita, un paradosso biologico, un abominio, un’assurdità, un’esagerazione di natura disastrosa. È la vita che oltrepassa il suo scopo, e lo fa a pezzi. Una specie è stata armata troppo pesantemente, da uno spirito onnipotente esterno a essa, ma ugualmente minaccioso per il suo benessere. La sua arma è come un gladio senza l’impugnatura o la lama, una spada a doppio taglio che fende qualsiasi cosa; chi la brandisce però deve afferrare la spada e volgere una lama contro di sé.» [Wessel Zapffe, L'ultimo messia] _______________ «Perché» si chiede Zapffe «l’umanità non si è estinta già da tempo nel corso delle grandi epidemie di follia? Perché soltanto un numero discretamente piccolo di persone muore non riuscendo a sostenere lo sforzo del vivere? La coscienza dà loro un carico più difficile da portare?» Questa la risposta di Zapffe: «La maggior parte delle persone impara a salvare se stessa limitando artificiosamente la capacità della coscienza». _______________ Sappiamo di essere vivi e sappiamo che moriremo. Sappiamo anche che soffriremo durante la vita, prima della sofferenza – lenta o veloce – che ci condurrà alla morte. Questa è la conoscenza di cui «gioiamo» in quanto organismi più intelligenti a nascere dal ventre della natura. Stando così le cose, ci sentiamo imbrogliati se per noi non c’è altro che sopravvivere, riprodursi e morire. Vogliamo che ci sia qualcosa oltre a questo, o almeno pensare che ci sia. È questa la tragedia: la coscienza ci costringe alla posizione paradossale di doverci sforzare a vivere inconsapevolmente ciò che siamo, pezzi di carne destinata a corrodersi su ossa che vanno disgregandosi. ________________ Come accennato sopra, Zapffe arriva a due centrali conclusioni riguardo al «problema biologico» dell'umanità. La prima è che la coscienza era andata troppo oltre per essere un attributo tollerabile dalla nostra specie, e minimizzando questo problema siamo costretti a minimizzare la nostra stessa coscienza. Tra i tanti modi in cui questo può essere fatto, Zapffe sceglie di dedicarsi a quattro principali strategie: «1. ISOLAMENTO. Per non vivere precipitando nella trepidazione, isoliamo i fatti terribili dell’essere vivi, relegandoli in un remoto comparto della nostra mente. [...] 2. ANCORAGGIO. Per stabilizzare le nostre vite nelle acque tempestose del caos, cospiriamo per ancorarle in verità metafisiche e istituzionalizzate – Dio, Moralità, Legge naturale, Patria, Famiglia – che ci inebriano facendoci sentire solenni, autentici e al sicuro nei nostri letti. 3. DISTRAZIONE. [...] 4. SUBLIMAZIONE. […] In così tante parole, questi artisti e pensatori confezionano prodotti che offrono una fuga dalla nostra sofferenza, attraverso una sua simulazione artefatta – una tragedia o una distrazione filosofica, per esempio.» _______________ «Nessuno vuole ascoltare quelle ansie che teniamo chiuse dentro di noi. Soffocate l’urgenza di andare in giro a raccontare a tutti le vostre pene e i vostri brutti sogni. Seppellite i vostri morti ma non lasciate tracce. E assicuratevi di continuare a tirare avanti oppure andremo avanti senza di voi» [Zapffe, UM]. Nella sua dissertazione dottorale del 1910, pubblicata postuma con il titolo La persuasione e la rettorica (1913), il ventitreenne Carlo Michelstaedter verificò le tattiche con cui falsifichiamo l’esistenza umana in modo da barattare quello che siamo, o potremmo essere, con una speciosa visione di noi stessi. _______________ Sono i limiti dell’individuo in quanto essere, non l’atto di superarli, a creare l’identità della persona e a preservare in essa l’illusione di essere speciale, non uno scherzo del destino, prodotto di cieche mutazioni. […] La lezione: «Amiamo i nostri limiti, perché senza di essi a nessuno sarebbe permesso essere qualcuno» [Zapffe, UM]. _______________ La seconda delle due conclusioni centrali di Zapffe – che la nostra specie dovrebbe smettere di riprodursi – ci fa venire subito in mente un insieme di personaggi della storia teologica noti come gnostici. _______________ …Philipp Mainländer […] previde un'esistenza non coitale come il più sicuro patto di redenzione per il peccato di essere congregati in questo mondo. Tuttavia la nostra estinzione non sarebbe la conseguenza di un’innaturale castità, ma un fenomeno naturale che si verificherà quando l’uomo si sarà abbastanza evoluto da comprendere che la nostra esistenza è così vana, così senza speranza e insoddisfacente, che non saremo più soggetti a impulsi generatori. Paradossalmente, tale evoluzione verso un disgusto per la vita, verrebbe agevolata dal diffondersi della felicità tra gli uomini. Questa felicità si raggiungerebbe più velocemente seguendo gli insegnamenti evangelici di Mainländer al fine di ottenere la giustizia e la carità universali. Solo realizzando ogni possibile bene ottenibile in vita – così ragionava Mainländer – potremo comprendere quanto poco siano preferibili alla non-esistenza. _______________ Mainländer era certo che la Volontà di morire, che secondo lui sarebbe sgorgata nell’umanità, fosse stata innestata nel nostro spirito da un dio che ha pianificato la propria morte dal principio. L’esistenza era un orrore per lo stesso Dio. Sfortunatamente, Dio era immune agli effetti del tempo. L’unico modo che aveva per liberarsi di Se stesso era attraverso una forma di suicidio divino. Il piano di Dio per suicidarsi non poteva però funzionare fintanto che Egli fosse esistito come entità unica al di fuori dello spazio‑tempo e della materia. Nel tentativo di annullare la Propria unità in modo da potersi dissolvere nel nulla, Si frantumò – come una sorta di Big Bang – nei pezzi dell’universo soggetti al tempo, ovvero tutti gli oggetti e gli organismi che si sono accumulati in giro lungo miliardi di anni. Nella filosofia di Mainländer, «Dio sapeva di poter passare da uno stato di superrealtà al non‑essere soltanto attraverso lo sviluppo di un mondo reale e multiforme». Attraverso questo stratagemma Egli riuscì a escludere Se stesso dall’esistenza. «Dio è morto» scrive Mainländer «e la Sua morte è stata la vita del mondo.» […] Sotto questa luce, il progresso umano non è altro che il sintomo beffardo del fatto che la nostra caduta verso l’estinzione procede di buon passo, poiché più le cose cambiano in meglio, più progrediscono verso una fine certa. _______________ Il bisogno di queste idee nasce dal fatto che l’esistenza è una condizione priva di qualsiasi qualità redentrice. Se così non fosse, nessuno sentirebbe la necessità di idee come la nonesistenza ecumenica, un aldilà felice o il cammino verso la perfezione in questa vita. _______________ Ogni altra creatura del mondo è insensibile al significato. Ma quelli come noi, sul più alto gradino dell’evoluzione, sono saturi di questa brama innaturale, che ogni esauriente enciclopedia filosofica riporta alla voce VITA, SIGNIFICATO DELLA. _______________ Forse potremmo avere una giusta prospettiva sulla nostra scadenza terrena se smettessimo di pensarci come delle entità che mettono in scena una «vita». Questa parola è carica di sfumature di significato a cui non ha alcun diritto. Invece, dovremmo sostituire «esistenza» a «vita» e lasciar perdere quanto bene o male la mettiamo in scena. Nessuno di noi «ha una vita» nel modo narrativo‑biografico in cui intendiamo queste parole. Quello che abbiamo sono un certo numero di anni di esistenza. Non ci verrebbe mai da affermare che un uomo o una donna sono «nel fiore della loro esistenza». Parlare di «esistenza» invece che di «vita» spoglia quest’ultima parola del suo fascino. _______________ In parole povere, non possiamo vivere se non autoingannandoci, mentendo a noi stessi su noi stessi, e anche sull’invincibilità della nostra condizione in questo mondo. […] Isolamento, ancoraggio, distrazione e sublimazione sono tra i sotterfugi che usiamo per impedirci di lasciar dissolvere tutte le illusioni che ci tengono in piedi e in funzione. Senza questo imbroglio cognitivo saremmo messi a nudo per quello che siamo. _______________ A opporsi agli standard assolutisti del pessimismo, per come li abbiamo qui delineati, troviamo i pessimisti «eroici», o piuttosto gli eroici «pessimisti». […] Lo scrittore spagnolo Miguel de Unamuno, nel suo Del sentimento tragico della vita negli uomini e nei popoli (1913), parla della coscienza come di una malattia generata dal conflitto tra razionale e irrazionale. Il razionale viene identificato con le conclusioni a cui giunge la coscienza, principalmente con il fatto che moriremo tutti. L’irrazionale rappresenta tutto ciò che vi è di irrazionale nell’umanità, compreso il desiderio d’immortalità in uno stato fisico o non fisico. La coesistenza del razionale e dell’irrazionale trasforma l’esperienza umana in un groviglio di contraddizioni davanti alle quali possiamo chinare il capo rassegnati, o sfidarle eroicamente, e futilmente. La preferenza di Unamuno andava alla scelta eroica, posta l’implicita condizione che un individuo possedesse il fegato, fisico e psicologico, per affrontare la lotta. _______________ L’unica differenza è nel fatto che Unamuno, Dienstag e Brashear acconsentono volontariamente a una finzione che la gente comune non riconosce, almeno come regola generale, dato che talvolta anche i comuni mortali sono costretti ad ammettere l’esistenza di questa finzione: è solo che non ci si soffermano abbastanza da farne un punto d’orgoglio filosofico per poi complimentarsi con se stessi. Sodale filosofico di Unamuno, Dienstag e Brashear è il filosofo francese Albert Camus. Nel saggio Il mito di Sisifo (1942), Camus vede nello scopo irraggiungibile del personaggio del titolo una scusa per continuare a vivere anziché smettere. Nel suo commento all’orrenda parabola, insiste: «Dobbiamo immaginare Sisifo felice» mentre spinge il suo masso sulla sommità della montagna da cui rotolerà poi giù, infinitamente, per sua disperazione. _______________ L’obiezione che il pessimista debba uccidersi per essere all’altezza dei suoi ideali è spia, crediamo, di un tale crasso intelletto da non meritare risposta. Risposta che non è tutto questo affanno dare, peraltro. Semplicemente perché qualcuno ha raggiunto la conclusione che la quantità di sofferenza nel mondo è tale che sarebbe meglio non essere mai nati, questo non significa che per forza di logica o per sincerità costui debba uccidersi. Significa solo che ha raggiunto la conclusione che la quantità di sofferenza nel mondo è tale che sarebbe meglio non essere mai nati. […] La morte volontaria può apparire come una linea d’azione totalmente negativa, ma non è così semplice. Ogni negazione è adulterata o furtivamente innescata da uno spirito affermativo. _______________ «Per questa palese sproporzione tra la fatica e la sua ricompensa, la Volontà di vivere ci appare, da questo punto di vista, come una follia, se la consideriamo oggettivamente, oppure, intendendola soggettivamente, come un’illusione, che cattura ogni essere vivente e lo porta a esaurire le sue forze, per conseguire un risultato che non ha alcun valore. Se però esaminiamo le cose con più attenzione, troveremo anche qui che essa è piuttosto un impeto cieco, un impulso completamente infondato e immotivato.» [Arthur Schopenhauer, Il mondo come volontà e rappresentazione] _______________ Per gli ottimisti la vita umana non necessita di spiegazioni, non importa quanti dolori si accumulino, perché possono sempre dirsi che le cose andranno meglio. Per i pessimisti non c’è abbastanza felicità – sempre che una cosa simile alla felicità possa essere raggiunta dagli uomini se non attraverso un errato luogo comune – che possa compensarci dei dolori della vita. _______________ In Better Never to Have Been: The Harm of Coming into Existence (2006), Benatar sostiene in modo convincente che, siccome una certa misura di sofferenza è inevitabile per tutti coloro che nascono, mentre l’assenza di felicità non danneggia quelli che potrebbero essere nati ma non lo sono, il piatto della bilancia pende a favore del non mettere al mondo figli. Quindi, chi si riproduce viola ogni sistema morale ed etico concepibile perché è colpevole di infliggere una sofferenza. Per Benatar la quantità di questa sofferenza, che si verifica sempre, non ha importanza. Una volta che la sofferenza è diventata inevitabile con la procreazione di un bel fagottino, è già stato oltrepassato il confine tra un comportamento morale ed etico e un comportamento immorale e non etico. Questa violazione della morale e dell’etica esiste in ogni caso di procreazione, secondo Benatar. _______________ «Le orrende visioni del folle sono tratte dalla materia dei fatti quotidiani.» [William James, Le varie forme dell'esperienza religiosa] _______________ Nella sua conferenza La vita è degna di essere vissuta, James sosteneva che gli esseri umani, a differenza dei cani, possono immaginare un ordine di esistenza superiore al loro, che possa legittimare le peggiori avversità della vita. _______________ Una volta che i meccanismi repressivi sono stati riconosciuti, devono essere cancellati dalla memoria – o nuovi meccanismi devono sostituire i vecchi – affinché si possa continuare a essere protetti dai bozzoli delle nostre vite. […] Anche se talvolta ammettiamo i mezzucci ingannevoli con cui continuiamo a fare quello che facciamo, si tratta solo di un livello ancora superiore di autoinganno e paradosso, e non della dimostrazione del fatto che risiediamo sulla cima di una metarealtà dove siamo davvero reali. […] Troppi di noi devono intorpidire la propria coscienza in modo da essere molto meno coscienti di quanto potrebbero, questa è la tragedia della razza umana, se qualcuno se lo fosse dimenticato. Quelli che non riescono a farlo ne pagheranno le conseguenze. _______________ Infine, molti di coloro che studiano l'autoinganno credono che noi non siamo in grado di autoingannarci, perché non possiamo consapevolmente sapere qualcosa e non saperla allo stesso tempo, poiché questo genererebbe in noi un paradosso. Ma altri studiosi. Hanno cercato di venire a capo di questo supposto paradosso. Un esempio di tale ragionamento è quello di Kent Bach (An Analysis of Self‑Deception, in Philosophy and Phenomenal Research, 1981), che illustra tre metodi per evitare quei pensieri indesiderati che sarebbero comunque accessibili alla coscienza di un individuo: razionalizzazione, evasione e interferenza. Questi sono identici alle strategie di isolamento, ancoraggio e distrazione evidenziate nella vita umana da Zapffe. Ognuno di questi metodi può mantenere il soggetto in uno stato di autoinganno. _______________ [David Livingstone] Smith è infatti uno psicoanalista e questo è chiaro dalla sua affermazione secondo cui la «costante possibilità dell’inganno è una dimensione cruciale di qualsiasi relazione umana, anche nella più centrale di tutti: la relazione con noi stessi». Per mettere in pratica tale inganno l’individuo deve reprimere la coscienza dell’inganno, cosa che non esclude un autoinganno a proposito della coscienza stessa e di cosa ciò svela sulla vita umana. _______________ «Non è l’anima a essere malata, sono le sue difese che cedono o che vengono rigettate essendo – correttamente – percepite come un tradimento del potenziale più elevato dell’ego.» [Zapffe, UM] _______________ In quanto specie ossessionata dalla sopravvivenza, il nostro successo è calcolato in base a quanto abbiamo allungato l’esistenza media, e la riduzione della sofferenza è solo un effetto collaterale di tale scopo. Restare in vita in ogni circostanza è una malattia che ci consuma. ________________ Per certe persone un sistema che comprende un aldilà di beatitudine eterna non è inutile. Potrebbero affermare che questo sistema è necessariamente utile perché gli dà la speranza di cui hanno bisogno per attraversare questa vita. Ma un aldilà di beatitudine eterna non è, e non può essere, necessariamente utile perché qualcuno ha bisogno che sia così. Fa solo parte di un parametro relativo, nulla di più. _______________ Nessun filosofo è mai riuscito a dare una risposta soddisfacente alla domanda: «Perché deve esistere qualcosa piuttosto che il nulla?». A prima vista sembrerebbe una domanda legittima, ma in fondo qualcuno di noi trova inspiegabile, addirittura illogico, che si arrivi a porla. Il quesito è un chiaro sintomo del nostro disagio nei riguardi del Qualcosa. Al contrario, nel Nulla non c’è niente di preoccupante, perché non siamo in grado di prenderlo in esame. […] Il perturbante genera una sensazione di erroneità. Traspira una violazione che allarma l’autorità interiore riguardo a come una certa cosa dovrebbe accadere, esistere o comportarsi. _______________ Un giorno le scarpe sul fondo dell’armadio attraggono la tua attenzione come mai prima. In qualche maniera si sono separate dal tuo mondo, sono apparizioni a cui non sai dare un posto, brandelli di materia senza qualità e significato stabili. Ti senti confuso mentre stai lì a fissarle. Che cosa sono? Qual è la loro natura? Perché deve esistere qualcosa piuttosto che il nulla? Ma prima che la coscienza possa fare altre domande viene azzerata in modo che le calzature tornino a essere, nella loro esistenza, familiari e non più straordinarie. […] La genialità dell’esempio di Jentsch [Ernest Jenstsch, Sulla psicologia del perturbante] sta nel fatto che egli spiega il perturbante non come qualità oggettiva di un qualcosa situato nel mondo esterno, ma come esperienza soggettiva di chi percepisce il mondo esterno. Così va nella vita reale: il perturbante è un effetto della mente, e basta. Eppure, in questo caso, almeno per l’osservatore medio, il perturbante ha un’origine efficace nello stimolo oggettivo, in qualcosa che sembra sprigionare un potere proprio. _______________ Trasformando traversie naturali in soprannaturali troviamo la forza di affermarne e simultaneamente negarne l’orrore, di assaporarle e al contempo patirle. […] Tramite l’orrore soprannaturale possiamo tirare, senza collassare, i fili del nostro stesso destino di marionette naturali, le cui labbra sono dipinte con il nostro stesso sangue. _______________ Coloro che con più veemenza si oppongono alla declinazione pessimista del determinismo sono i seguaci dell’indeterminismo libertario. Sostengono che noi disponiamo del libero arbitrio assoluto e possiamo divenire individui capaci di scegliere di voler fare una certa scelta e non un’altra. Dichiarano che siamo ciò che Michelstaedter negava potessimo diventare: individui incontestabilmente padroni di se stessi, e non il prodotto di un’indeterminabile serie di eventi e condizioni che risultano nella possibilità, per noi, di fare una sola scelta piuttosto che un certo numero di scelte, perché fattori al di là del nostro controllo hanno già badato a chi siamo come individui e a quali scelte, infine, faremo. Nella storia delle elucubrazioni filosofiche le tesi a favore del determinismo sono tradizionalmente le più contestate. Per quale ragione, a parte il fatto che esso trasforma l'immagine umana in immagine di marionetta? Il motivo è che le tesi a favore del determinismo vanno oltre la sacrosanta fede nella responsabilità morale. […] Nella vita di tutti i giorni il determinista duro e puro non è mai esistito, perché nessuno può affrancarsi dalla sensazione di disporre del libero arbitrio. Il massimo che possiamo fare è dedurre che subiamo determinazioni basandoci sull’osservazione della normale legge di causalità tra le cose del mondo e applicandola a noi stessi. Ma non possiamo percepire noi stessi in quanto determinati (un filosofo ha detto, e forse altri hanno pensato, tra sé: «Si può davvero credere al determinismo senza diventare pazzi?»). Il determinismo nel pensiero e nelle azioni non si può distinguere con l’esperienza, ma può essere soltanto dedotto sul piano astratto. Sarebbe impossibile per chiunque dire: «Io non sono altro che una marionetta umana». L’unica eccezione sarebbe un individuo che, vittima di una malattia psicologica, creda di essere controllato da una forza estranea. Se questo individuo dicesse: «Io non sono altro che una marionetta umana», egli verrebbe spedito seduta stante al più vicino ospedale psichiatrico, presumibilmente colto dall’orrore di aver percepito di essere una marionetta umana controllata da una forza estranea che opera al suo esterno o al suo interno o in entrambi. […] Odiare le nostre illusioni o tenercele strette non fa che legarci più saldamente a esse. Chi tiene al proprio mondo non può contrastarle senza vederlo poi crollare. _______________ In mancanza della sensazione di essere o possedere un io, sarebbe inutile discutere se siamo o non siamo liberi, determinati o una via di mezzo. Perché abbiamo un senso dell’io è stato spiegato in vari modi (per una delle spiegazioni possibili si veda il prossimo paragrafo). Possederlo è ciò che mette sul tavolo il dibattito «libero arbitrio contro determinismo». Anzi, è ciò che mette tutto sul tavolo, perlomeno sul tavolo dell’esistenza umana, perché nient’altro che esista ha la sensazione di essere un io che può fare o non fare qualsiasi cosa a piacimento. _______________ Non ci limitiamo a vivere le esperienze: le possediamo. Questo significa essere una persona. […] Ma la logica non può esorcizzare l’«Io», l’ego che ti guarda dallo specchio, così come la logica non può rimuovere l’illusione del libero arbitrio. _______________ Forse l’unico motivo di interesse nei confronti dell’io è questo: qualunque cosa ci faccia pensare di essere ciò che pensiamo di essere dipende dal fatto che possediamo una coscienza, la quale ci dà la sensazione di essere qualcuno, nello specifico un qualcuno umano, qualunque cosa esso sia, perché una definizione di «umano» condivisa e universale non l’abbiamo. Ma conveniamo che, anche se solo in pratica, siamo tutti io reali perché siamo coscienti di noi stessi. E una volta varcate tutte le soglie che qualificano in qualche modo il nostro io – siano essi il nome, la nazionalità, il genere o il numero di scarpe – eccoci sulla soglia della coscienza, genitrice di tutti gli orrori. E la nostra esistenza è tutta qui. _______________ Nel saggio The Shadow of a Puppet Dance: Metzinger, Ligotti and the Illusion of Selfhood (in Collapse, vol. IV, maggio 2008), James Trafford riassume così il paradosso di Metzinger: «L’oggetto “uomo” consiste di densissimi strati di simulazione, profilattico necessario alla quale, se si vuole tenere a bada il terrore concomitante con la distruzione delle nostre intuizioni a proposito di noi stessi e della nostra condizione nel mondo, è il realismo ingenuo: “La soggettività conscia è il caso in cui il singolo organismo ha imparato a soggiogare se stesso”». La frase che chiude Being No One di Metzinger si può considerare un’estensione del paradosso di Zapffe, per effetto del quale reprimiamo dalla coscienza tutto ciò che nella vita è sconvolgente e orribile. Per Metzinger questa repressione prende la forma del già citato realismo ingenuo, che maschera quella che in assoluto è la più sconvolgente e orribile rivelazione per un essere umano: che non siamo ciò che pensiamo di essere. A mitigare la vertigine di fronte a una così deplorevole illuminazione, Metzinger conferma che è «praticamente impossibile» per noi giungere alla consapevolezza della nostra irrealtà, per via delle manette della percezione umana che abbiamo dentro e che tengono la mente imprigionata nel sogno. _______________ «Un modo – tra un’infinità di modi – di guardare all’evoluzione biologica sul nostro pianeta è considerarla il processo che ha creato un oceano in continua espansione di sofferenza e confusione dove prima non c’era. Poiché a crescere senza sosta non è soltanto il numero dei soggetti consci individuali ma anche la dimensionalità dei loro spazi‑stati fenomenici, questo oceano aumenta anche in profondità. A mio giudizio è una robusta tesi contro la creazione dell’intelligenza artificiale: non dovremmo aumentare questo terribile caos senza prima aver capito a fondo che cosa sta davvero succedendo qui.» [Metzinger, BNO] _______________ Appare improbabile che uno possa mai vedere se stesso com’è nei termini di Metzinger. Vedrebbe l’orrore, allora, e saprebbe di saperlo: gli sarebbe impossibile credere che non è nient’altro che una marionetta umana. E adesso? Risposta: adesso diventi pazzo. […] Adesso sappiamo di essere paradossi perturbanti. Sappiamo che la natura ha sconfinato nel soprannaturale fabbricando una creatura che non può e non dovrebbe esistere secondo le leggi naturali, e invece esiste. Lo sprezzo di Metzinger per il volgare materialismo sembra basarsi sulla convinzione ottimista che la futura tecnologia della coscienza ci porterà in luoghi dove la «forma biologica della coscienza, nel grado di evoluzione a cui è giunta sul nostro pianeta» non ci ha condotti. […] Metzinger deve avere fede nel fatto che quando il resto dell’umanità avrà capito come funziona, giocheremo – in tutta sincerità e senza fingere – in un mondo nel quale, di giorno in giorno, in ogni modo, le cose andranno sempre meglio. Ma ci vorrà del tempo, e parecchio. _______________ Il significato che la nostra vita sembra avere è opera di un sistema emotivo di costituzione relativamente robusta. Mentre la coscienza ci dà l’impressione di essere persone, la nostra psicofisiologia è responsabile del renderci personalità convinte che al gioco dell’esistenza valga la pena di partecipare. Possiamo avere ricordi unici e distinti da quelli di chiunque altro, ma senza le emozioni giuste a rivitalizzarli essi hanno lo stesso valore dei file digitali nella memoria di un computer, frammenti sconnessi di dati che non si uniscono mai in un individuo confezionato su misura per il quale le cose sembrano avere un senso. Puoi concettualizzare che la tua vita abbia un significato, ma se quel significato non lo percepisci allora la concettualizzazione non ha senso e tu non sei nessuno. […] Una brutta depressione invece fa evaporare le emozioni e ti riduce a guscio di persona abbandonata in un panorama brullo. Le emozioni sono il sostrato dell’illusione di essere un qualcuno tra altri qualcuno, oltre che della sostanza che vediamo nel mondo, o crediamo di vedere. _______________ Senza emozioni cariche di significato a tenere il cervello sulla strada maestra, perderesti l’equilibrio e cadresti in un abisso di lucidità. E per un essere cosciente la lucidità è un cocktail senza ingredienti, un intruglio cristallino che lascia i postumi di una sbronza di realtà. Nella perfetta coscienza non c’è che il perfetto nulla, conclusione perfettamente dolorosa per chi cerca di dare un senso alla sua vita. _______________ Questa è la grande lezione che impara il depresso: niente al mondo è intrinsecamente irresistibile. Qualunque cosa ci sia davvero «là» non ha il potere di proiettarsi come esperienza affettiva. È tutta una faccenda vacua dal prestigio unicamente chimico. Niente è buono o cattivo, desiderabile o indesiderabile o chissà cos’altro, tranne ciò che è reso tale dai laboratori interiori che producono le emozioni di cui ci nutriamo. E nutrirsi di emozioni è vivere in maniera arbitraria, inaccurata: attribuire un significato a ciò che non ne è provvisto. E però, che altro modo c’è di vivere? Senza lo sferragliante e inarrestabile macchinario delle emozioni tutto andrebbe in stallo. Non ci sarebbe nulla da fare, nessun luogo dove andare, niente da essere, nessuno da conoscere. Le alternative sono chiare: vivere nel falso, da pedine degli affetti, o vivere nei fatti come depressi o individui a cui è noto ciò che è noto al depresso. _______________ Il motivo: a intimidirci è la depressione, non la follia; a impaurirci è la demoralizzazione, non la follia; a mettere in pericolo la nostra cultura della speranza è la disillusione della mente, non la sua alienazione. _______________ Nonostante sia Schopenhauer che Nietzsche parlino a un pubblico di soli atei, sul piano delle pubbliche relazioni l’errore del primo è il non concedere all’umano alcun prestigio speciale nel mondo delle cose organiche o inorganiche, o di non agganciare alcun significato alla nostra esistenza. Al contrario di Schopenhauer, Nietzsche non soltanto prende le letture religiose della vita tanto sul serio da poterle criticarle in lungo e in largo, ma ha la caparbietà di rimpiazzarle con valori che tendono a un fine e a un senso ultimo, che persino i non credenti bramano come cani: un progetto in cui l’individuo possa perdere (o trovare) se stesso. La chiave della popolarità di Nietzsche tra gli amoralisti atei è il misticismo materialista, un trucchetto mentale che tramuta l’insensatezza del mondo in qualcosa di significativo, e rimodella sotto i nostri occhi la sorte a guisa di libertà. ________________ «In certi casi una persona può sviluppare un’ossessione per la gioia distruttiva, rimuovere del tutto l’apparato artificiale della propria vita e cominciare a farne piazza pulita con orrore ed entusiasmo. L’orrore deriva dallo smarrimento di tutti i valori che gli davano riparo; l’entusiasmo dalla sua ormai spietata identificazione e armonia con il segreto più profondo della nostra natura – l’instabilità biologica, la costante predisposizione a una fine tragica». [Zapffe, UM] In quanto negazione della vita, il pessimismo ha perso un grande portabandiera quando Nietzsche ha cominciato a gioire di ciò che dovrebbe far rabbrividire, una posizione psichica che di per sé è la più paradossale di tutte. __________ Come chi crede nel libero arbitrio libertario, i transumanisti credono che noi possiamo fare noi stessi. Ma è impossibile. Noi siamo stati fatti, lo testimonia l’evoluzione. Non ci siamo tirati fuori da soli dalla poltiglia primordiale. E tutto ciò che abbiamo fatto da che siamo una specie è una conseguenza dell’essere stati fatti. Non importa cosa facciamo: sarà ciò per cui siamo stati fatti e nient’altro. […] Ma non è che l’essere postumani sia un’idea del tardo XX secolo. Nella sua ricerca del «bene» o, come minimo, del meglio, essa ricapitola le nostre più antiche fantasie. […] Per definizione, i transumanisti sono insoddisfatti da ciò che siamo in quanto specie. Naturalmente credono che essere vivi vada bene – anzi, lo credono a tal punto che non sopportano l’idea di non essere vivi e hanno architettato strategie per restare vivi per sempre. Il loro problema è che vorrebbero rendere l’essere vivi qualcosa vada enormemente meglio di ora. E il potere del pensiero positivo non basta a portarli dove vogliono andare. Sono oltre tutto questo, o vorrebbero esserlo. Sono anche oltre la fede in Dio o in un aldilà di eterna beatitudine. […] I transumanisti hanno rimpiazzato l’alternativa alla disperazione del credente con la propria. Partono dal presupposto che trarremo un beneficio enorme dall’autotrasformazione in postumani, ma l’approdo del loro programma rimane sconosciuto. Esso potrebbe inaugurare un nuovo e dinamico capitolo nella storia della nostra razza, così come annunciare la nostra fine. Comunque sia, il balzo che profetizzano sarà anticipato da congegni di ogni genere e in qualche modo coinvolgerà l’intelligenza artificiale, la nanotecnologia, l’ingegneria genetica e altre declinazioni dell’alta tecnologia. Saranno, questi, gli strumenti della Nuova Genesi, il Logos del domani. […] Il transumanesimo incapsula un errore diffuso e longevo tra i portabandiera della scienza: in un mondo che va verso l’ignoto, non ci è dato neanche di iniziare i lavori della nostra Torre di Babele; mettiamoci pure tutto l’impeto e la fretta che possiamo, ma non cambierà niente. Andare verso l’ignoto non è una malattia curabile; se il problema fosse l’andarci alla velocità più alta possibile, forse potremmo risolverlo, anche se probabilmente no. E che differenza farebbe rallentare la progressione verso l’ignoto? […] Ma una possibilità che i transumanisti non hanno preso in considerazione è che l’essere ideale posto al termine dell’evoluzione possa dedurre che il migliore dei mondi possibili è inutile, o persino maligno, e che la miglior strada da imboccare sia l’autoestinzione del nostro futuro io. […] Questo mondo è pieno di gente che non smette di rivolgersi alla scienza chiedendole che la salvi da qualcosa. Altrettanta gente, forse anche di più, preferisce chiedere la salvezza ai vecchi e rispettabili sistemi di credenze, con le loro derivazioni settarie. [...] Crede in qualsiasi cosa comprovi la sua importanza come persone, tribù, comunità, e in particolar modo come specie che resisterà in questo mondo e forse in un aldilà che sarà pure incerto nella sua realtà e poco chiaro nella sua struttura, ma che sazia nella gente la brama di valori non di questa Terra: il deprimente, insignificante posto che la sua coscienza è costretta ogni giorno a schivare. _______________ La prima Nobile Verità [del buddismo] è l’equiparazione tra la vita del comune mortale e il dukkha (che significa pressappoco «sofferenza» ma a conti fatti indica qualunque condizione di pena vi possa venire in mente). La seconda è che a questo mondo bramare qualunque cosa – la salute fisica o mentale, la longevità, la felicità, persino l’eliminazione della brama stessa – è l’origine di ogni sofferenza. Queste due Nobili Verità stanno in cima a una religione che, quanto a disposizioni da seguire per la salvezza, non ha paragoni. Tali disposizioni cominciano con la terza Nobile Verità: che esiste un modo per cessare di soffrire; e continuano con la quarta Nobile Verità: che per liberarsi dai ceppi della sofferenza occorre seguire il Nobile Ottuplice Sentiero, una lista di cose da fare e cose da non fare molto simile al Decalogo dell’Antico Testamento, ma non altrettanto accomodante né espressa in parole altrettanto semplici. […] Eppure buddhismo e pessimismo non si possono districare l’uno dall’altro. Si somigliano troppo per non notarne le affinità. I buddhisti sostengono di non essere pessimisti ma realisti. Lo stesso dicono i pessimisti. _______________ Tutte le religioni devono avere eccezioni, altrimenti imploderebbero sotto il peso delle loro stesse dottrine. _______________ Ma qui sta il vero inghippo: se vuoi diventare illuminato non lo diventerai mai, perché nel buddhismo volere una cosa è esattamente ciò che ti impedisce di ottenere la cosa che vuoi. Detta meno tortuosamente, se vuoi porre fine alla tua sofferenza, non lo porrai mai. È il «paradosso del volere» o «paradosso del desiderio» e i buddhisti sono già pronti a fornire spiegazioni razionali e irrazionali del perché questo paradosso non è un paradosso. […] Non c’è niente di più futile che cercare consciamente, in qualcosa, la salvezza. Ma la coscienza fa sembrare che non sia così. La coscienza fa sembrare che 1) c’è qualcosa da fare; 2) c’è un posto dove andare; 3) c’è qualcosa che si può essere; 4) c’è qualcosa da sapere. […] Il «paradosso del volere» buddhista si può assimilare a un correlativo del paradosso di Zapffe (il paradosso degli esseri consci che cercano di rinunciare alla coscienza delle possibilità palesemente tristi della loro vita). La differenza tra il paradosso del buddhismo e il paradosso di Zapffe è che quest’ultimo non è disponibile a farsi risolvere, spiegare o negare, né razionalmente né irrazionalmente. ________________ Al mercato della salvezza, almeno a prima vista, l’illuminazione sembra l’offerta più conveniente di sempre. Piuttosto che dibatterti in un mondo che non vale il vuoto su cui è scritto, puoi impegnarti a ottenere una visione finale di cosa è e cosa non è. In termini generali, l’illuminazione è la correzione della coscienza e la costituzione di uno stato d’essere in cui l’illusione torbida viene spazzata via e soltanto un diamante di comprensione risplende. È il deserto supremo… se soltanto lo si potesse avere, se avesse una realtà al di fuori dello scalpiccio di locuzioni critiche che vi fanno riferimento. _______________ Come aveva scritto Zapffe molto prima che U.G. [Krishnamurti] cominciasse a fustigare ogni credenza del mondo, qualsiasi attività mentale andata oltre i programmi basilari del nostro animalismo non ha portato che alla sofferenza. («Nell’animale, la sofferenza è confinata in se stessa; nell’uomo apre squarci sulla paura del mondo e sulla disperazione per la vita».) _______________ Ma allora perché continuare a vivere? Naturalmente nessuno lo domandò in maniera così diretta a U.G. Ma la sua risposta giunse: non c’è alcun «tu» che vive, soltanto un corpo la cui unica occupazione è essere vivo e obbedire alla biologia. Ogni volta che qualcuno gli chiedeva come si diventava come lui, U.G. rispondeva che per loro era impossibile anche soltanto desiderare di diventare come lui, perché a spingerli verso l’obiettivo era l’interesse personale, e fintanto che avessero creduto in un io interessato a cancellare se stesso, quell’io si sarebbe mantenuto vivo e non avrebbe voluto la morte dell’ego. _______________ Come cerca di spiegare Segal parlando di sé: «L’esperienza del vivere senza un’identità personale, senza esperire un qualcuno, un “Io” o un “me”, è straordinariamente difficile da descrivere, ma assolutamente originale. È davvero un’altra cosa rispetto a una giornata storta, all’avere l’influenza o al sentirsi turbati, arrabbiati o in estasi. Quando l’io personale sparisce, dentro non c’è più nessuno che si possa localizzare e identificare con te. Il corpo è un semplice contorno, privo di tutto ciò di cui fino a poco prima si era sentito così pieno. La mente, il corpo e le emozioni non si riferivano più a nessuno: non c’era nessuno che pensava, nessuno che provasse sensazioni, nessuno che percepiva. La mente, il corpo e le emozioni continuavano a funzionare indenni, però; all’apparenza non avevano bisogno di un “Io” per continuare come sempre.» [Suzanne Segal, Collision with the Infinite: A life beyond the personal self (1996)] _______________ Gli ego‑morti tornerebbero al punto di partenza della specie: sopravvivere, riprodursi, morire. La consuetudine della natura si ristabilirebbe in tutta la sua insensatezza marionettesca. Ma sebbene si possa considerare il modello perfetto di esistenza umana, di liberazione da noi stessi, l’ego‑morte resta un compromesso con l’essere, una concessione all’errore madornale della creazione. _______________ «Lo scopo della vita umana è stato rivelato. La vastità ha creato questi circuiti umani per avere un’esperienza di se stessa fuori da se stessa che in loro assenza non avrebbe potuto avere» [Segal, CWTI]. Vivendo nella vastità come lei, nulla era inutile per Segal, perché tutto serviva allo scopo della vastità. Ed era una bella sensazione, superata la paura iniziale di essere uno strumento della vastità anziché una persona. _______________ «Trovai che per gli uomini della mia cerchia vi sono quattro vie d’uscita dalla terribile situazione in cui tutti ci troviamo. La prima via è quella dell’ignoranza. Essa consiste in ciò, nel non sapere, nel non comprendere che la vita è male e nonsenso. [,…] La seconda via è quella dell’epicureismo. Essa consiste in ciò: pur conoscendo la situazione disperata della vita, nel profittare per il momento dei beni che ci sono, nel non guardare né il drago né i topi, ma nel leccare il miele nel miglior modo possibile, specialmente se sul cespuglio ce n’è molto. […] La terza via è quella della forza e dell’energia. Essa consiste in ciò, nel distruggere la vita, dopo aver compreso che la vita è un male e un nonsenso. […] La quarta via è quella della debolezza. Essa consiste in ciò, nel continuare a trascinare la vita, pur comprendendone il male e l’insensatezza, e sapendo in anticipo che non ne può risultare nulla. » [Lev Tolstoj, La confessione (1882)] _______________ Il piano qui è cambiare la cornice nella speranza di creare l’illusione che la propria vita abbia un qualche valore. È un piano ateo, non dichiaratamente ma lo è. I teisti non hanno bisogno di cornici per affibbiare alla loro vita un significato, perché credono di poter identificare una cornice assoluta nel Potere Superiore anche se, in fondo, non ci credono. […] La fede in un assoluto o, in alternativa, la fede in una cornice di significato non teistica rischia di zoppicare senza preavviso. Crollata la cornice, ci tocca affidarci alle nostre risorse e cercarne un’altra. Nessuna di queste cornici garantisce protezione costante al nostro benessere mentale né assistenza mentre cerchiamo di dare un senso alla vita. Passare di cornice in cornice può darci un po’ di sollievo e di senso, almeno per qualche tempo, ma rimane sempre quell’ultima cornice, da cui non ci libereremo mai perché è un luogo di prigionia che attende di riempirsi di dolore e infine, in qualche forma, di morte. _______________ Nella sua opera più nota, Il rifiuto della morte (1973) Ernest Becker scrive: «A mio parere, chi ipotizza che conoscendo in pieno la propria condizione l’uomo impazzirebbe ha ragione, letteralmente ragione». Zapffe concludeva che riusciamo a non perdere la testa «limitando artificialmente il contenuto della coscienza». Becker trae la sua identica conclusione così: «[L’uomo] si va letteralmente a cacciare in uno stato di cieca indifferenza grazie a giochi sociali, trucchi psicologici, preoccupazioni personali così lontane dalla realtà della sua situazione che sono forme di pazzia, ma pur sempre pazzia». _______________ Nelle sue ricerche e studi clinici, la TMT [Terror Management Theory] indica la radice del comportamento umano nella tanatofobia, la paura di morire che determina l’intero panorama della vita. Per placare l’ansia di morte abbiamo quindi inventato un mondo che, con l’inganno, ci convince di poter continuare a esistere – anche solo simbolicamente – anche dopo la distruzione del corpo. […] All’immortalità personale siamo disposti a preferire la sopravvivenza di persone e istituzioni che consideriamo nostre estensioni: le nostre famiglie, i nostri eroi, le nostre religioni, le nostre nazioni. […] Neanche a dirlo, però, i nostri teorici della gestione del terrore indicano una scappatoia ottimista quando dicono che «le migliori visioni del mondo sono quelle che apprezzano la tolleranza del diverso, quelle flessibili e aperte alle modifiche, che aprono percorsi verso l’autostima in cui la prospettiva di nuocere al prossimo è ridotta al minimo». (Handbook of Experimental Existential Psychology, a cura di Jeff Greenberg et al.) _______________ Come specie condividiamo la preferenza per la differenza piuttosto che per l’unità. (Vive la différence! Vive la guerre!) Nessuno ci ha progettati per essere così: è soltanto il modo in cui siamo approdati, tentoni, all’incubo dell’essere. La vita fa preda della vita, come dicono Schopenhauer e la storia naturale. Il corpo di un organismo è il pasto di un altro. _______________ Uno dei grandi svantaggi della coscienza – della coscienza in quanto genitrice di tutti gli orrori – è senza dubbio che essa esacerba le sofferenze necessarie e ne crea di superflue, come la paura della morte. Sprovvisti di quel che serve a togliersi la vita (domandatelo a Gloria Beatty), coloro che soffrono pene intollerabili imparano a nascondere i propri patimenti, necessari e superflui, perché il mondo non batte il ritmo del dolore ma della felicità, poco importa se sincera o indossata come una maschera a coprire il più cupo abbattimento. ______________ «Verrà il giorno» ci diciamo «in cui disferemo questo mondo dove siamo sballottati tra lunghi tormenti e brevi gioie, e vivremo nel piacere tutti i giorni.» La fede nella possibilità di piaceri durevoli, elevati, è una ciancia ingannevole ma adattiva. Sembra che la natura non ci abbia fatti per stare troppo bene troppo a lungo, cosa che non gioverebbe alla sopravvivenza della specie, ma soltanto per stare bene quel tanto che basta a non farci lamentare che non stiamo bene tutto il tempo. […] Forse il messaggio ti sarà chiaro, allora: se non stai abbastanza bene abbastanza a lungo, meglio che tu finga di stare bene e che addirittura pensi come se stessi bene. […] Hai due scelte: comincia a pensare come Dio e la società vogliono che pensi, o sii abbandonato da tutti. _______________ Nell’Ultimo messia Zapffe ipotizza che con il passare delle generazioni diverranno più licenziose le maniere in cui l’umanità nasconde a se stessa la disillusione: più stupido e fittizio il suo isolamento dalle realtà dell’esistenza; più rimbecillenti e rozze le distrazioni da ciò che sbalordisce e terrorizza; più maldestro e scriteriato l’ancoraggio all’irrealtà; più grette, autoironiche e distanti dalla vita le sue sublimazioni nell’arte. Questi sviluppi non renderanno il nostro essere più paradossale di così, ma potrebbero rendere le manifestazioni della nostra natura paradossale meno efficaci e più aberranti. _______________ Che porre fine a tutta la sofferenza umana e animale piuttosto che farla continuare sarebbe una tragedia ancora più grande è un’opinione spacciata per fatto. Ammesso che «con questa fine qualcosa andrebbe perso» rimane da stabilire se quel «qualcosa» sarebbe meglio perderlo o conservarlo. _______________ Nel saggio Happiness Is for the Pigs: Philosophy versus Psychotherapy (in Journal of Existentialism, 1967), Herman Tønnessen cita la domanda in un’altra forma: «Che senso ha?». Poi spiega il contesto e il significato della domanda: «[…] Pertanto, più umana di qualsiasi altra brama umana è la ricerca di una visione totale della funzione – o disfunzione – dell’Uomo nell’Universo, il posto e l’importanza che egli potrebbe avere nel disegno cosmico più ampio possibile. In altre parole è il tentativo di rispondere o perlomeno di articolare qualsiasi domanda sia implicita nel gemito morente della disperazione ontologica: che senso ha? Ciò rischia di rivelarsi biologicamente dannoso o addirittura fatale per l’Uomo. L’onestà intellettuale e le grandi pretese spirituali di ordine e significato rischiano di condurre l’Uomo alla più profonda antipatia per la vita e rendere necessario, come sceglie di definirlo un esistenzialista: «un no a questo scatenato, banale, grottesco e disgustoso carnevale nel cimitero del mondo». La frase che chiude questo estratto da Tønnessen viene da Sul tragico di Zapffe. _______________ «A rendere tragica la razza umana non è il suo essere vittima della natura, ma l’esserne conscia. Far parte del regno animale alle condizioni poste da questa Terra va benissimo, ma appena scopri la tua schiavitù, il dolore, la rabbia, la fatica comincia la tragedia. Non possiamo tornare alla natura perché non possiamo cambiare il nostro posto in essa. Il nostro rifugio è nella stupidità… non c’è moralità, né sapere né speranza; c’è soltanto la coscienza di noi stessi a mandarci avanti in un mondo che… è sempre e soltanto apparenza vana e fluttuante.» [Joseph Conrad, lettera a R.B. Cunninghame Graham (1898)] _______________ Nessun’altra forma di vita sa di essere viva, né sa di dover morire. È una maledizione tutta nostra. Senza questo malocchio non ci saremmo mai allontanati così tanto dalla natura: a tal punto e tanto a lungo che diventa un sollievo ammettere ciò che abbiamo provato con tutti noi stessi a ammettere, cioè che da quel momento siamo stati stranieri nel mondo naturale.
Thomas Ligotti, La cospirazione contro la razza umana
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RECENSIONE: Bon Iver - 22, A Million (Jagjaguwar, 2016)
Ci sono dischi e dischi. Dischi che portano con sé quell’immediata certezza del loro essere un capolavoro, dischi incompresi che vengono sottovalutati e solo dopo che la loro risonanza si insinua col tempo nella musica degli altri ci si rende conto del loro valore. Questo ultimo caso è ciò che è successo con 22, A Million, terzo album dei Bon Iver, progetto creato da Justin Vernon, uno dei musicisti moderni più visionari. Se da un lato i critici l’hanno subito accolto con giudizi estremamente positivi, lo stesso non è successo tra il pubblico che si è diviso dopo l’ascolto di un album così diverso dal folk spoglio e struggente del debutto For Emma, Forever Ago e dai viaggi terreni e solennemente corali dell’omonimo sophomore, eppure fastidiosamente coerente al suo testamento artistico, pur nella sua estraneità a qualsiasi cosa da lui mai realizzata prima.
A scrivere questa recensione c’è qualcuno che non si è sottratto allo scetticismo iniziale, all’inganno di suoni che sembrano scorie inutilizzabili, fossilizzatesi sulla crosta di un pianeta inospitale. Il primo giudizio è stato quello di un album pretenzioso ed ottuso, ma dopo mesi di respingimenti dovuti alla sua natura criptica, capita che nella vita succedano cose che ti cambiano, eventi che squarciano domande immense e dubbi inconfessabili, creando un buco che vorresti ricucire, ma che più lo tocchi più si sfilaccia, finendo per allargarsi sfuggendo al tuo controllo. Prima di essere inghiottita io stessa, è capitato un replay illuminante di 22, A Million che ha cristallizzato le cose, lasciandomi il tempo di cicatrizzare le perdite e le decisioni prese ed accettare il fatto che ci sono risposte incomunicabili o forse non ci sono proprio, un ignoto enigmatico e permanente con cui convivere. Cogliere dei frammenti di questo capolavoro bellissimo ed ambizioso lo ha reso per me un rifugio per ritrovare la serenità e crescere.
In primo luogo bisogna partire dal fatto che 22, A Million è un progetto da scoprire incessantemente ed impossibile da capire nella sua completezza. Niente è convenzionale o casuale, a partire dai titoli delle canzoni, dalla copertina e dai riferimenti religiosi obliqui, tutti immersi in un’estetica precisa fatta di codici matematici e simbologie Tao - un concetto che ha come base la coesistenza degli opposti, la tensione tra la finitezza terrena e la dimensione spirituale - dissezionati, decostruiti ed immortalati nella loro totalità in un unico fotogramma come in un quadro cubista, attraverso tecniche di produzione innovative che convergono sensazioni crescenti di sentimenti fratturati ed intercalando campionamenti finemente rifiniti. Vernon ha creato qualcosa di speciale e curato in ogni dettaglio, qualcosa che, se guardiamo bene, non ha rinnegato il vecchio stile electro-folk, ma allo stesso tempo ha esaminato esperimenti musicali innovativi.
22, A Million è un viaggio verso la comprensione di se stessi come se fosse una religione, una collezione di tormenti e salvezze nel contesto di momenti sacri e ricordi intensi, segni ai quali si può affibbiare un significato o ignorare come coincidenze. Bon Iver si è trasferito da un’altra parte, in un posto non concreto ed è riuscito ad afferrare qualcosa di così sfuggente ed immateriale come lo spirito, una presenza universale eppure così incomprensibile. Anche se secondo l’artista il suo è un tragitto non concluso, una meta non raggiunta, ci è arrivato davvero vicino, dall’esile e minuscola prospettiva di un mortale qualunque, cogliendo degli impulsi che descrivono un pò tutta la complessa esistenza umana, spesso senza riuscire a parlarne con cognizione di causa e perdendone il controllo.
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La numerologia è una parte importantissima della simbologia e del motif dell’album. Il 2 rappresenta Vernon, la persona, ripetuto due volte perché indica la sua identità legata dal dualismo: la consapevolezza di sé e la consapevolezza di sé in relazione col resto del mondo. Il milione è il resto del mondo: il milione di persone che non conosceremo mai, l’infinito e lo sconfinato, tutto ciò al di fuori di noi stessi che ci rende chi siamo. Questo altro lato del suo dualismo è ciò che lo completa e ciò che egli cerca.
Appresa questa nozione, l’album si apre con 22 (OVER S∞∞N) che indica la partenza da Vernon e si conclude con 00000 Million - il titolo diventa completo se letto considerando il numero del brano, ovvero il decimo, quindi diventa 10 00000 - che completa il viaggio verso l’infinito. “There isn't ceiling in our garden / And then I draw an ear on you / So I can speak into the silence” canta Vernon nella prima traccia evocando i giardini biblici dell’Eden e quindi, un tempo in cui l’umanità viveva senza conflitti, un’utopia rovinata dall’imperfezione dell’uomo stesso col peccato. Con questa semplice strofa egli crea infinite interpretazioni, una di queste può essere la perdita di contatto con Dio ed il volerne a tutti i costi creare uno a cui parlare per non ascoltare più l’insopportabile silenzio della solitudine, oppure, dell’incapacità moderna nel comunicare tra di noi che porta ad una disperazione tale da voler disegnare letteralmente un orecchio su chi non riesce a sentirci. “What a river don't know is to climb out and heed a line / To slow among roses or stay behind” canta, invece, nell’ultima traccia, indicando che un fiume, ovvero l’uomo nel corso della sua vita, non è a conoscenza delle forze che lo guidano, ma segue il suo percorso senza sapere ciò che lo aspetta, senza avere accesso alle ragioni profonde delle sue azioni. E’ un’accettazione bellissima della natura della nostra esistenza, la consapevolezza di sé in relazione all’infinito che Vernon stava cercando, una conclusione che abbraccia la mancanza del sapere.
Questi sono solo due dei tantissimi esempi del magnetico uso della parola all’interno dell’album, un altro importantissimo aspetto da considerare che lo rende irripetibile a confronto di qualsiasi altro testo musicale, una parola comunicativa ma non proprio, a volte è un muro ed a volte è una porta, radicata nell’intellettualismo astruso e visivamente evocativa. Vernon inverte continuamente la struttura grammaticale come se la scompostezza dei suoni si stesse traducendo anche nelle liriche, inventa parole perché quelle che esistono hanno un limite legato alla loro natura umana, ricerca riferimenti alla Bibbia e alle religioni con una lucidità spiazzante.
Questo è uno dei pochi casi in cui riportare i testi o analizzare la musica sembra superfluo, perchè 22, A Million va oltre ciò che è tangibile ed in ogni modo penso che non gli si possa fare giustizia. Potremo dire di come 10 d E A T h b R E a s T ⚄ ⚄ suoni come l’aggressiva catastrofe del battito di un cuore impazzito, coi suoi synth dilatati fino al punto di spaccarsi, sui quali si intersecano interferenze, sassofoni e voci sdoppiate, contrazioni di una vita sul punto di cadere giù dal filo ed espansioni che ricominciano il galoppo cieco, ma ci scontreremo sempre con quell’incomunicabilità della parola davanti alla quale Vernon ha dovuto arrendersi.
Chiamare 33 “GOD” una canzone organica è un eufemismo, un paradosso, ma lo faremo considerato il contesto dell’album. 33 è il numero che rappresenta la presunta età di Cristo al momento della sua morte, è il numero della Trinità, sono i giorni di anticipo coi quali è stata pubblicata la traccia rispetto all’album, sono i numeri che compongono la sua stessa durata. Questo brano vuole spiegare l’immensa distanza tra l’uomo e Dio che si annullerebbe nel momento in cui il primo ricevesse la salvezza del secondo, ma questo non succede e, piuttosto, si verifica la perdita della fede dovuta ad una sensazione di abbandono, al contempo questo rapporto difficile è descritto a tratti con le dinamiche di una relazione sentimentale tra due persone e, perciò, può anche raccontare della fine di una storia d’amore. “Is the company stalling? / We had what we wanted: your eyes / With no word from the former / I'd be happy as hell, if you stayed for tea / This is how we grow now, woman / A child ignored” canta attraverso un tuning incorporeo derivato dal Messina - uno strumento di sua invenzione che sdoppia la voce in diverse armonizzazioni e sembra correggerne l’intonazione come una specie di auto-tune - su una strumentale che inizia con delle note di tastiera ed un tappeto infinito di frammenti di campionamenti manipolati e messi in loop, per poi aprirsi con il suggestivo accompagnamento completo della band e sempre tantissimi synth.
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29 #Strafford APTS è un allucinazione sonoramente molto vicina all’acustico country folk, semplice, se non fosse per i movimenti ultra sensoriali che sembrano provenire da un altro mondo e, talvolta, escono dai tessuti come glitch. Anche lo smarrimento di 715 - CRΣΣKS è molto semplice, ma risulta un esperimento completo, un abbandono di qualsiasi musica per centrare l’attenzione su un acapella che viene dall’anima - benché sempre stortissimo e quasi incomprensibile - così sentito da spezzarsi e strapparsi, una dimostrazione suprema della poesia di Vernon. “Honey, understand that I have been left here in the reeds / But all I'm trying to do is get my feet out from the crease”. 666 ʇ, appropriatamente la sesta traccia dell’album, è un collage in cui non manca nulla, dai synth che sembrano provenire da un qualche computer in fase di decodificazione o da un orologio che scandisce il tempo, ad un riff di chitarra elettrica dai colori caldi, fino ad una sezione di fiati che perfettamente si uniscono al falsetto di Vernon.
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Ci sono dischi e dischi. Dischi che puoi dimenticare e dischi che non puoi dimenticare. 22, A Million, terzo album dei Bon Iver è proprio uno di questi. Sicuramente una delle evoluzioni musicali più riuscite del decennio ed azzarderemo a dire anche del secolo.
TRACCE MIGLIORI: 715 - CRΣΣKS; 33 “GOD”; 29 #Strafford APTS; 666 ʇ; 8 (circle)
TRACCE PEGGIORI: quali tracce peggiori?
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