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10 litri di #mandarini fatti a succo e messi a depositare con #bentonite e #chiarificante Vediamo un po' come estrarne più succo possibile una volta depositato prima di procedere con i prossimi passaggi #icoloridellidromele #batino #mead #idromele #melomele #casaparrini #pazzomele (presso Siena, Italy) https://www.instagram.com/p/CpFgH9Jt3Bz/?igshid=NGJjMDIxMWI=
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“ensauvagement” = inselvaggimento
Il punto è capire se e quando questa “criminalità molecolare” diventa “guerra”, magari “ibrida”: lo dice Eric Werner, docente di filosofia a Ginevra dopo essersi laureato a Parigi, polemologo, ossia capace di “pensare la guerra”. Una distinzione intellettuale preliminare e chiarificante: se è guerra., i metodi da adottare sono diversi da quelli della polizia e della magistratura. E l’autodifesa è legittima. Werner ha scritto Légitimité de l’autodéfense : Quand peut-on prendre les armes ? – In cui si riconosce la specifica chiarezza di pensiero civile del soldato-cittadino elvetico, che ha l’arma di Stato nell’armadio , pronto alla chiamata, e con la precisa nozione che i diritti della libertà collettiva nascono dal dovere di difenderla.
“La criminalità, in sé, non è guerra. Lo diventa quando diventa mezzo della politica; ma allora lo diventa molto chiaramente. Ci si può chiedere se oggi non sia così”, dice Werner nell’intervista che gli ha fatto un blog studentesco. .
E’ già così?
“La risposta è resa confusa dal fatto che proprio la questione se si è in pace o in guerra che, oggi, sembra superata. È per una semplice ragione, e cioè che tutto oggi è guerra. La guerra è diventata “Senza Limiti” (per usare il titolo del capitale trattato dei colonnelli Qiao Liang e Wang Xiangsui, Guerra senza limiti. L’arte della guerra asimmetrica fra terrorismo e globalizzazione). Non c’è quindi più dubbio se si è in pace o in guerra. Perché a priori siamo in guerra. Questo è particolarmente vero all’interno”.
A questo punto va ricordato che nel 1998, Werner aveva pubblicato “L’avant-guerre civile – Le chaos sauvera-t-il le Système?”dove descriveva con anni di anticipo le conseguenze del crollo dell’URSS. Una volta sparito il Grande Nemico, cosa avrebbe fatto il sistema di potere occidentale per legittimarsi? Reinventarsi un nemico, prendendolo se occorre dal proprio pollaio. “Il potere incoraggia il disordine, addirittura lo sovvenziona, ma non per sé; lo sovvenziona per l’ordine di cui è il fondamento, al cui mantenimento contribuisce. Ordine attraverso il disordine, questa è la formula”: governare con la paura ed il caos si dimostra estremamente efficace, come prova la dittatura terapeutica in corso. I jihadisti francesi che coi loro attentati hanno insanguinato la Francia (la cui dirigenza li aveva formati e mandati in Siria) sono lì a dimostrarlo.
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‘Intenzionalità’ è un termine che solitamente esprime la capacità della mente di essere diretta nei confronti della realtà. Ma spesso si dimentica, quanto questa parola contenga un valore morale di responsabilità, che spiega l’azione umana. E se ‘intenzionalità’ fosse compresa come la direzione di un adattamento? La crescita nel mondo non dovrebbe distogliere l’umano dal significato, che ha l’essere in vita, ovvero mettersi in relazione: è in questa scenografia che si dovrebbe creare la comunità, con una condivisione fortemente valida dei valori più importanti, che riguardano tutti, senza trascendere dalla consapevolezza di essere uniche parti in un sistema complesso.
In presenza delle opere di Coquelicot Mafille (1975), sono questi i pensieri che emergono nell’osservatore. Eppure, in un primo momento, tutto appare così semplice. La comprensione, come una rivelazione, è soltanto il passato e ripassato sguardo su quelle linee tremolanti, non incerte, solo elettriche pulsioni naturali, derivate da una conoscenza intensa e raffinata. Un’artista cosmopolita, che coglie i punti deboli della società, anche grazie ai suoi studi in Scienze Politiche e alla sua passione per le lingue, trasgredendo, però, le regole del giudizio comune e ponendo questi in una luce nuova e politicamente corretta.
Il mondo non è perduto: i suoi colori, la sua gente, la sua natura, le sue forme vengono reinterpretati lucidamente da Coquelicot nella parabola dei generi, dei simboli, dei legami e del senso naturale che permane nell’essere dei viventi. Si fanno meno distinzioni, più che altro, si trovano ordini di grandezza, ritrovati nella storia dei rapporti tra Uomo e Donna, tra Donna e Terra, esprimendo così la giusta posizione degli animali, dell’altra vita, in rapporto a quella dell’umano. Ciò che affascina, soprattutto, è il mezzo attraverso il quale la missione di quest’artista si esprime. Semplicità ed essenzialità rammentano di prendersi meno sul serio, in questo sistema imposto, e scoprire l’anima della nostra capacità naturale e morale.
L’opera di Coquelicot Mafille si divide in serie, dalla numerazione ridotta, le quali creano un complesso sistema di tematiche contemporanee, da leggere come una sorta di libretto d’istruzioni al comportamento globale. Un atteggiamento questo, che connette Coquelicot alla tradizione francese della classificazione del sapere, nata nel contesto illuminista, anzi punto fondante di quello stesso pensiero rivoluzionario, per quanto, la stessa arte, la trattenga fortemente ancorata al continuo e veloce evolversi della società politica del XXI secolo, dimostrando, così, che ancora oggi si necessita di un’enciclopedia, non tanto per creare confini categorici, piuttosto per sopprimere il costante confondersi dei punti di riferimento della morale: l’uomo ha bisogno di sapersi comportare e si saper adeguare le proprie azioni ad ogni essere. Il complesso sistema conoscitivo che ne deriva, l’essere umano può viverlo attraverso i linguaggi creativi che lo contraddistinguono e tutta la comunità può, ogni qualvolta, beneficiarne.
L’arte di Coquelicot conferisce una forma, anche per i meno attenti, a tutti quegli eventi che scatenano confronti, prove d’ammissione di un Io disorientato. Si tratta di un’arte ribelle, che parla di azioni ribelli, una cesura con la violenza e una via alternativa per la pace.
Lo stesso atto del ricamo è simbolo di questo sinolo tra tradizione e innovazione, nell’ottica di un rinnovo lento e cosciente soprattutto della posizione della donna nella società. Queste opere, infatti, richiamano l’attenzione di chi intende liberare e liberarsi intellettualmente, educando la propria libertà all’indipendenza. Coquelicot Mafille ama trattare di temi difficili, sceglie percorsi impervi, predilige riferimenti elitari e comuni allo stesso tempo, dimostrando nella praxis creativa l’intento di base: usare forme elementari e riconoscibili per far emergere la semantica e il valore del simbolo. In questi termini, un esempio chiarificante è l’uso esteso che fa della “circonferenza”: comune denominatore tra tutti. La peculiarità di Coquelicot? Le sue circonferenze non sono mai perfette, eppure da sempre rappresentano il simbolo della purezza. Si voglia pensare che qui l’artista abbia un messaggio dedicato alla realtà umana, dove dire che non esiste purezza nell’uomo, ma egli deve consegnarsi alla coscienza delle proprie imperfezioni?
Federica Flore storica e critica d’arte
gennaio 2017
#sanremo#mostra#3febbraio#archimania#arte contemporanea#ricamo#pittura#mondo#federica flore#coquelicot mafille
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“Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto”. Ugo Foscolo, o dell’arte dell’autoritratto in versi
È un mondo senza aggettivi, il nostro. Un mondo dai nomi sbiaditi e privo di aggettivi, ché quelli che usiamo altro non sono che etichette, la temeraria attitudine, per dirla con Eliot, a usare parole sempre più raffinate per sentimenti sempre più rozzi.
Forse perciò, in quest’epoca di accuse sommarie giudizi sommari esecuzioni sommarie – sì, forse per questo è così sorprendente ritrovarsi per le mani i sonetti foscoliani, e in particolare mettere a confronto il suo autoritratto nella versione a stampa del 1803 e quella definitiva del 1824.
*
L’autoritratto è una tradizione possibile ma abortita della nostra poesia a cavallo tra il XVIII e il XIX secolo: ne scrive uno celebre Alfieri, con il sonetto CLXVII, ne scriverà uno Manzoni; prima, dopo e intorno, poco altro di memorabile, oltre a questo foscoliano che colpisce fin da subito per l’esattezza priva di simbolismi. Mentre Alfieri infatti confonde spesso i piani descrittivi e metaforici e usa le stesse similitudini in modo espansivo e non chiarificante, di Foscolo piace proprio l’opposto, l’architettura chiara del sonetto e la precisione chirurgica delle parole.
Quando pubblica la prima versione, Foscolo ha venticinque anni; si trova, cioè, in quello che considera un momento di passaggio tra la giovinezza e l’età matura. E l’autoritratto, scritto nei due anni precedenti, è infatti lo schizzo di un giovane ancora vigoroso e, nonostante le botte prese, pieno di fede nel futuro.
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto, Labbro tumido acceso e tersi denti, Capo chino, bel collo e largo petto;
Giuste membra; vestir semplice eletto; Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti; Sobrio, umano, leal, prodigo, schietto; Avverso al mondo, avversi a me gli eventi:
Talor di lingua, e spesso di man prode; Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso, Pronto, iracondo, inquïeto, tenace:
Di vizi ricco e di virtù, do lode, Alla ragion, ma corro ove al cor piace: Morte sol mi darà fama e riposo.
Questa è l’immagine in cui Foscolo fissa i suoi venticinque anni. Intanto, dicevamo, l’architettura esatta. Ecco allora nell’ordine la descrizione fisica dei primi cinque versi; ecco il suo scivolare nel campo del carattere attraverso la fotografia dei gesti; ed ecco che dal carattere gestuale si va a quello morale, con l’elenco delle caratteristiche astratte (sobrio, umano, eccetera) e del rapporto io-mondo, che anche da questi caratteri è modellato. Infine, nell’ultima terzina, un riassunto sommario del proprio mondo intimo e il rimando all’aspirazione per una gloria che lo renda immortale.
*
Ma una fotografia, un ritratto, sono istantanei. Che cosa fare quando il tempo e le occorrenze schiacciano e deformano il soggetto, al punto che il vecchio ritratto somiglia troppo a un Dorian Gray che splende all’esterno e conserva all’interno il proprio marciume?
Possenza dell’arte e degli aggettivi – Foscolo ce lo mostra, che fare, e come farlo con pochissimi, lievi ritocchi. Possenza dell’arte e degli aggettivi – e chi dimentica che arte e artigianato hanno lo stesso seme, chi dimentica che al demone dell’ispirazione deve succedere l’oscuro e lungo lavorio appassionato dell’operaio, peste lo colga.
Eccoci allora vent’anni più avanti, AD 1824, ed ecco che Foscolo riprende in mano il sonetto giovanile per renderlo più adatto al sé attuale e al tempo trascorso. Pochissimo è cambiato dell’aspetto, ma un pochissimo che in una manciata di parole cambia tutto l’accento, tutta la prospettiva.
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto:
Fin qui tutto uguale, ma nel terzo verso sparisce il riferimento ai bianchi denti e nella descrizione puramente fisica della prima versione, si insinua un accenno morale, che dice di un uomo le cui labbra esprimono intelligenza, più che passione, e il cui riso è raro e misurato.
Labbro tumido acceso, e tersi denti (1803)
diventa perciò
Labbri tumidi, arguti, al riso lenti (1824).
Del pari, il «largo petto» del quarto verso resta evidentemente largo, ma è ormai anche «irsuto», ed è a questo tratto distintivo che la nuova versione dà voce.
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Nella seconda quartina, le parole che cambiano sono ancora meno, soltanto due. Eppure, anche qui, potenza dell’arte!, che mutamento descrittivo che questi due soli cambiamenti consentono!
Le «giuste membra» divengono allora «membra esatte», il che sposta l’accento da un canone oggettivo ed esterno a un’accettazione interna. Per quanto mutate possano essere, le membra foscoliane sono «esatte», quelle che la storia e il destino gli hanno consegnato. Ma ancora più interessante è il settimo verso, dove cambia un solo aggettivo, ma dove il cambiamento di questo singolo aggettivo e lo spostamento dell’ordine degli altri mostra una mutata scala di valori. Ecco allora che da
Sobrio, umano, leal, prodigo, schietto; (1803)
il nuovo Foscolo si descrive come
Prodigo, sobrio; umano, ispido, schietto (1824).
Prodigalità e sobrietà vanno in cima e si combattono come due facce di una stessa medaglia; la lealtà è caduta nelle disillusioni politiche e militari e al suo posto c’è la sgradevole caratteristica dell’essere ispido. L’aggettivo umano, infine, si sposta al centro, come ad assumere su di sé tutti gli altri.
*
Ed ecco la vecchiaia che avanza, che nelle due terzine si mostra con chiarezza e con chiarezza evidenzia la distanza tra l’uomo di oggi e il giovane di ieri. Il giovane di ieri era un eroe romantico, ardito, pronto a menare le mani e a battagliare, ma capace di solitudine e di introspettività.
Talor di lingua, e spesso di man prode; Mesto i più giorni e solo, ognor pensoso, Pronto, iracondo, inquïeto, tenace:
L’uomo di oggi vede la propria solitudine mesta salire in posizione dominante, come una virtù divenuta condanna. E vede ardore e speranza sostituite da disillusione e viltà.
Mesto i più giorni e solo; ognor pensoso; Alle speranze incredulo e al timore, Il pudor mi fa vile; e prode l’ira:
Svanita la tenacia e la prontezza, solo l’ira resta, un’ira amara. Così, nell’ultima terzina resta il contrasto tra la ragione e il cuore. Ma se da giovane questo contrasto era un vanto, un “sì certo, lodo la ragione ma faccio vincere il cuore”
Di vizi ricco e di virtù, do lode Alla ragion, ma corro ove al cor piace:
adesso, vent’anni dopo, è una sorta di rimpianto, un vizio non amato e purtroppo inemendabile.
Cauta in me parla ragion, ma il core, Ricco di vizi e di virtù delira –
*
Resta, al di là di tutto, l’attesa di un dono, di una ricompensa, che Foscolo non sa vedere altrove che nella grandezza lasciata dietro di sé, nella fama e nel riposo della morte. Ma anche questa attesa, questa aspettativa, si è fatta più incerta, più incrinata, sfumata dai colpi della vita e dalla coscienza dei propri difetti. Perciò la chiusa che nel 1803 era apodittica e profetica, «morte sol mi darà fama e riposo», nella versione tarda si fa allocuzione alla morte.
Morte, tu mi darai fama e riposo.
La morte non è più un principio impersonale, da trattarsi in terza persona. Diventa un «tu», un’entità sempre più vicina e perciò sempre più reale. E se il tono resta impositivo, il rivolgersi direttamente ad essa ordinando, o forse implorando, fama e riposo dice una volta di più della maturazione interiore di chi scrive. E dice una volta di più – possenza dell’arte – dell’abilità sartoriale con cui Foscolo prende un vecchio vestito inadatto e con pochi rammendi lo rende nuovo: più adeguato a chi è diventato, al mondo che gli è intorno, alla vita che gli resta da vivere e lottare.
Daniele Gigli
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Il proprio ritratto (versione 1824)
Solcata ho fronte, occhi incavati intenti, Crin fulvo, emunte guance, ardito aspetto: Labbri tumidi arguti, al riso lenti, Capo chino, bel collo, irsuto petto;
Membra esatte; vestir semplice eletto; Ratti i passi, i pensier, gli atti, gli accenti: Prodigo, sobrio; umano, ispido, schietto Avverso al mondo, avversi a me gli eventi.
Mesto i più giorni e solo; ognor pensoso; Alle speranze incredulo e al timore, Il pudor mi fa vile; e prode l’ira:
Cauta in me parla la ragion, ma il core. Ricco di vizi e di virtù delira – Morte, tu mi darai fama e riposo.
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Albert Camus, nato oggi nel 1913. Filosofo, scrittore, saggista e attivista francese.
Albert Camus, nato oggi #7novembre nel 1913. Filosofo, scrittore, saggista e attivista francese.
Albert Camus è nato il 7 novembre del 1913, e oggi avrebbe compiuto 104 anni se fosse ancora tra noi. Morì in un incidente d’auto nel 1960, ma le sue tracce sono indelebili nelle sue opere e nella memoria del pubblico. Premiato con il Premio Nobel per la Letteratura nel 1957, con la motivazione: “Per la sua importante produzione letteraria, che con serietà chiarificante illumina i problemi della…
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