#che si impone sotto la quiete
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“Come vedi tutto è normale
in quest'inutile sarabanda
ma nell'intreccio di vita uguale
soffia il libeccio di una domanda.
Punge il rovaio di un dubbio eterno,
un formicaio di cose andate
di chi aspetta sempre l'inverno
per desiderare una nuova estate.”
#Guccini#Lettera#D'amore di morte e di altre sciocchezze#il susseguirsi delle stagioni#rifiorire dei ciliegi#pioppi ricoperti di neve#scandiscono il tranquillo procedere#di un'esistenza#eco di un desiderio forte#che si impone sotto la quiete#della quotidianità#desiderio di quello che non c'è#desiderio più affascinante di tutto il presente#tangibile#di chi aspetta l'inverno#per desiderare una nuova estate
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Nice Girls Don’t Ride - Roni Loren, RECENSIONE
Titolo: Nice Girls Don’t RideAutore: Roni LorenEditore: Virgibooks Vuoi ricevere in anteprima le nostre uscite ?
Recensione
Nice Girls Don’t Ride – Roni Loren Salve readers, oggi parliamo della novella di un’autrice per me nuova, Roni Loren, che grazie alla Virgibooks ho potuto leggere in anteprima in attesa del 4 maggio, data della sua uscita, sto parlando di Nice Girls Dont’t Ride.Ho letto che la Loren ha iniziato a scrivere a 15 anni, che ha vinto premi prestigiosi e che è autrice bestseller del New York Times e di USA Today, ma è solo dopo aver letto Nice Girls Don’t Ride che ho capito perché sia tanto apprezzata. Una scrittura fluida e coinvolgente, erotica e avvolgente, una narrazione a pov alternati che ti conquista a 360°. Nel suo modo di raccontare non manca niente, ogni sfumatura emozionale viene presa in considerazione e resa palese agli occhi del lettore.Lo sportello anteriore del carro attrezzi si spalanca, e come prima cosa spunta fuori un braccio tatuato. Per una qualche ragione, gli occhi mi si bloccano su singole porzioni di quell’uomo, piuttosto che sulla sagoma intera, come se non fossi ancora in grado di gestirne la visuale nell’insieme, ma solo delle istantanee. Quel braccio muscoloso, quando il guidatore scende dal carro attrezzi. Gli stivali neri da motociclista, tutti consunti, che impattano sul terreno. Mi forzo di alzare lo sguardo, facendolo correre sui jeans sbiaditi e sulla T-shirt nera aderente, finché non incrocio due occhi di un azzurro scuro.“Sembra che ti occorra un passaggio.”Natalie viene da una situazione familiare “particolare”, quando si traferisce ad Austin per l’università si impone un certo tipo di comportamento, vuole essere accettata, vuole un futuro migliore di quello che ha vissuto fino a quel momento. È fidanzata da quasi un anno con Caleb un ragazzo affidabile, solido e innamorato, così tanto affidabile e innamorato da andare a cena con un’altra dopo aver dato buca a lei nella sera del suo ventunesimo compleanno.“Ma vedi… noi non abbiamo mai detto che avremmo avuto un rapporto esclusivo,stricto sensu…” continua Caleb.Boom!Bomba esplosa.L’espressione sulla faccia di Natalie passa dalla quiete alla rabbia ribollente. Allunga le mani verso i risvolti della giacca di Caleb, come se volesse lisciarli. Una passata delle dita, poi due, perfettamente controllate. Poi lo strattona verso di sé. Al tizio non passa neanche per l’anticamera del cervello che il ginocchio di Natalie possa scattare all’insù.Io faccio una smorfia, quando lo vedo piegarsi in due con un gemito rumoroso. Natalie non scherzava, quando diceva che era abituata a mirare alle parti basse. Ma usare la locuzione stricto sensu così, in un contesto qualunque? Il ragazzo si è meritato quella ginocchiata nei coglioni.Quando Natalie vede quella scena tutta la sua compostezza, tutta la ���signorilità” che ha ostentato, tutta la sua eleganza va a farsi benedire, permettendo alla vera Natalie di uscire allo scoperto mostrandosi per quella che è davvero: una donna con le palle!Monroe, ha l’aspetto del classico bad boy, tattoo, moto e arroganza, pacchetto completo, ma quello che mostra non è quello che è; dietro la sua facciata da sbruffone si nasconde un bravo ragazzo dal cuore d’oro e di rara bravura fra le lenzuola.Questa ragazza finirà per uccidermi. Imbocco la statale, facendo del mio meglio per concentrarmi sulla strada, mentre Natalie mi sta avvinghiata addosso come una scimmia ragno. Mi sta affondando la faccia nella spalla, e riesco a sentire ogni singola, dannata curva del suo corpo premuta contro la mia schiena. Anche se ho simulato tutta la discrezione del caso quando è montata in sella, ne ho approfittato per dare comunque una sbirciata. E adesso riesco a pensare solo al fatto che, sotto a quel vestito che metterebbe in ginocchio qualunque maschio in circolazione, la tizia sul sellino dietro di me indossa un paio di slip rossi che gridano ti prego scopami.Ma lei non è la mia ragazza, ed io non finirò per vedere né quegli slip, né altro stasera.Non vi dirò altro della storia, la trama dice fin troppo, ed essendo così breve non potrei evitare gli spoiler.Normalmente se qualcuno mi raccontasse una storia come questa direi che è poco credibile, che gli eventi si sono svolti troppo velocemente, ma in questo caso ogni cosa, ogni sviluppo, ha il suo giusto tempo e il suo perché, niente risulta forzato, ogni azione è perfettamente giustificata. L’intensità della narrazione crea dipendenza nel lettore che si ritrova all’ultima pagina con una voglia immensa di averne di più.Una storia breve, ma nella quale non manca nessun ingrediente: bella ragazza che scappa dal suo passato c’è, fidanzato stronzo c’è, ragazzo figo c’è, amore, sesso, passione, rabbia, delusione, felicità… c’è tutto, una sola cosa manca: che voi corriate a leggerlo, Nice Girls Don’t Ride vi aspetta, intanto io vi auguro buona lettura, Jenny. SCOPRI IL NOSTRO TEAM Vuoi ricevere in anteprima le nostre uscite ?
Trama
Nice Girls Don’t Ride – Roni Loren Era la serata di compleanno perfetta per Natalie Bourne. Aveva addosso uno dei suoi vestiti più sexy e stava per andare a cena col suo fidanzato nel ristorante più in voga di tutta Austin. E invece si è trasformata in un inferno. La macchina l'ha lasciata in mezzo alla strada, non può passare a prenderla nessuno e il suo ragazzo ha appena annullato la cena per un impegno di lavoro.Come se non bastasse, l'unico uomo che incontra, e che potrebbe darle una mano, è un tizio fin troppo arrogante e pieno di sé, che sembra avere un'abilità innata nel mettere a dura prova la sua calma... e non solo quella. Ma come fa Natalie ad accettare un passaggio da questo tal Monroe, uno sconosciuto troppo bello per essere vero, con quei jeans e quelle mani sporche che farebbero scappare tutte le brave ragazze del Texas?E va bene, vada per il passaggio. Ma Natalie decide di farsi lasciare comunque al ristorante, convinta che il fidanzato le stia facendo una sorpresa di compleanno. E gliela sta facendo davvero... perché lo trova a cena con un'altra.Visto che Monroe insiste per cercare di salvare la sua serata, portandola a festeggiare in una Austin per lei del tutto inedita e promettendo di farle passare un compleanno memorabile... a Natalie non resta altro che accettare la sfida e montare in sella... verso la serata più indimenticabile e folle di tutta la sua vita! Nice Girls Don’t Ride – Roni Loren Buona lettura, Jenny. Se ti è piaciuta questa recensione ti consiglio di acquistare questo libro direttamente su Amazon Cliccando qui Ringraziamo di cuore a tutti quelli che continueranno a sostenerci seguendoci e per chi farà una piccola donazione! Grazie di cuore! Autrice consigliata : monique vane SERVIZI ONLINE PER IL TUO LIBRO Read the full article
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Anime 008 - The Skycrawlers
The Skycrawlers - I cavalieri del cielo (Oshii Mamoru)
In un futuro imprecisato e un luogo indefinito, due signorie delle guerra, la euro-giapponese Rostock e l’americana Lautern, si combattono con la sola forza aerea. Il conflitto pare in perenne equilibrio talché l’equilibrio pare lo scopo del conflitto. Per tutti, tranne che per il maggiore Kusanagi che comanda uno degli stormi con la forza e la convinzione di una vittoria finale. Per chi segue il cinema di Oshii Mamoru, il nome Kusanagi fa subito venire un brivido. Non sembra una semplice omonimia col maggiore Kusanagi Motoko. Lo si capisce dalla sua prima apparizione, una bambina quasi perfettamente uguale a quella del finale di "Ghost in the Shell" e alla bambola che Togusa regala a sua figlia nel finale di "Ghost in the Shell: Inosensu" cui rimanda soprattutto nel suo sguardo a occhi spalancati e ambigui. In effetti, i tre anime hanno molti punti in comune, a partire dallo stesso tipo di attacco: nel primo Ghost l’incipit è un sorvolo aereo della città prima dell’attacco del maggiore Motoko; il secondo riprende lo schema e introduce l’attacco di Batou; ne "I cavalieri del cielo" assistiamo a un vero e proprio duello aereo. In tutti i tre casi, a missione compiuta partono le sigle, tutte composte da Kawai Kenji. In una prospettiva temporale, invece, Kusanagi Suito potrebbe essere la genitrice di Motoko perché l’ambientazione del film (che diventerebbe un prequel) è un futuro più prossimo rispetto ai due Ghost come si inferisce dai soggetti in azione: nei Ghost sono già dei cyborg; nel film in oggetto sono protagonisti invece i Kildren, uno status intermedio, ambiguo e non facilmente riconoscibile salvo la totale aderenza al modello umano esclusa la bizzarria di non riuscire a crescere oltre l’adolescenza e di non poter morire se non in battaglia aerea. Cosa effettivamente siano e chi essi siano si scoprirà man mano che il film procede. Kusanagi Suito, qualunque cosa sia, si distingue per almeno due particolari: è l’unica a vivere interrogandosi sulle cose invece di ignorarle o compierle ritualmente e ha una figlia (che non si chiama Motoko ma Mizuki) che ha avuto con Jin-Roh, il pilota scomparso misteriosamente e che è sostituito dal protagonista del nostro film, Kannami. Una terza affinità che appare nei tre film è, infine, il ghost che "stricto sensu" sarebbe il fantasma, figura aleggiante nel nostro film e non si tratta solo di Jin-Roh, e il suo senso lato di "sede dello spirito o meglio della coscienza umana" come ebbe a definire Cartesio la ghiandola pineale, vale a dire la più protetta materia umana, incuneata tra i lobi del cervello, oppure quella più inaccessibile, rivestita dal titanio, che i cyborg chiamano appunto ghost. Tutti i nostri eroi hanno comunque un rapporto molto complicato con la loro esistenza, sempre messa in dubbio, in una curiosa sciarada che mette insieme Cartesio e Camus, largamente citati in tutti i tre episodi. Se tre indizi fanno una prova, possiamo parlare infine di una trilogia. Spiazzamenti Nel film, gli elementi esteriori, le facce innanzitutto, non hanno nulla di giapponese: esse sono caucasiche. La stessa Suito assomiglia sì a Motoko, è lei, nella frangetta nera con gli occhioni che la fanno tanto "canone anime" ma il suo corpo è pre-puberale, manca di qualsiasi tensione sessuale, quell’eccesso di curvature col quale l’animazione giapponese rappresenta in gran parte l’adolescenza tentatrice, quella che noi europei abbiamo confinato nella quasi unica figura della Lolita di Nabokov e del corrispondente film di Kubrick. L’architettura, ancor di più, è di struttura squadrata e desolante, non pende come quella estremo-orientale e molto ricorda l’Oshii in trasferta in Polonia, dove ha girato "Avalon". La brughiera, entro cui scorazza l’immancabile Gabriel, il bassotto di Oshii, (non) è tagliato all’irlandese ed è molto presente in inquadrature basse come contrasto al preponderante e inquieto cielo. Battaglie in cielo Il nostro immaginario, da Hiroshima a oggi, è fortemente incentrato sull’immagine della forza aerea il cui compito si limita in realtà alla ricognizione-intercettazione oppure al bombardamento di obiettivi sensibili in quasi totale sicurezza per poi tornare alla base come un lavoro di concetto. Da questo punto di vista, la tele-guida dei droni ne rappresenta una evoluzione anche un po’ inquietante, di cui magari un giorno Oshii si occuperà. I combattimenti sono semmai dominio degli elicotteri d’assalto i quali si svolgono in uno spazio spurio, a mezz’aria e puntando a terra e sono una realtà così cruenta da essere poco documentata. “I cavalieri del cielo” è al contrario una storia di combattimenti aerei a quota medio-alta i cui piloti non per nulla sono cavalieri. Guidano, si destreggiano, sparano dalle mitragliatrici. I loro sono aerei a doppia elica, quelli degli scontri cavallereschi di inizio 900. La memoria va ai pionieri ante-seconda guerra mondiale e alla rappresentazione che ne volle fare Howard Hughes ("Gli angeli dell’inferno", 1930): quattro anni di produzione, 560 ore di negativo, quattro milioni di costo, cinque telecamere aggiuntive chieste in prestito a Samuel Goldwyn (o almeno questo dice Scorsese in "The Aviator", 2004). Difficile dimenticare l’anime di Miyazaki, "Porco rosso" di ambientazione italiana e fascista ma narrato al modo dei pionieri con tanto di combattimenti a colpi di chiavi inglesi in alta quota. D’altra parte il cielo, nel film di Miyazaki, è statico con nuvole grasse come bomboloni e spesso perde il confronto con il Mediterraneo che, ai suoi piedi, la vince in fascino. Nel nostro film è invece protagonista, come fosse una serie di Luigi Ghirri. In una storia che è indeterminatezza e coazione ripetitiva, l’intro è una sorta di mozzafiato: un duello aereo sembra avere in un solo secondo spazzato via la quiete degli elementi e ha spappolato le nuvole che si sono allargate a macchia e confuse col cielo nel mentre due aerei ne fronteggiano un terzo e il terzo si distingue come l’unico elemento dominante, evocato prima di essere visto in un solo particolare straniante: una pantera serica serigrafata sulla carlinga. È Il Professore e contro di lui si perde sempre. La sigla iniziale sembra così il finale di un film che non abbiamo visto o che, meglio, andremo a rivedere circolarmente. La de-saturazione dei colori e gli elementi messi in disordine sono appena contrastati dalle tracce delle mitragliatrici e dai globi delle esplosioni di un arancione a più sfumature che le rendono molto simili al fuoco reale, se reali possono definirsi i traccianti della contro-aerea irakena nella prima guerra televisiva del mondo, quella del Golfo atto I. Inferno in Terra In una storia che è alternanza meccanica tra vita a terra e guerra in cielo, il gioviale Naofumi Tokino è l’unico personaggio portatore sano di adrenalina (gioia e paura), tra l’eloquenza flemmatica di Kannami, il piglio autoritario di Kusanagi e l’acidità centellinata della "mamma" (il meccanico che si occupa degli aerei). Non a caso viene ricordato Camus, il filosofo per il quale gli avvenimenti che fanno una vita non sono altro che registrazioni di vanità destinate alle sconfitta. Per quanto bambini, i Kildren non sono incoscienti ma semmai fin troppo consapevoli del loro destino che attendono bevendo e fumando in ogni momento e aspettando il turno della loro morte come un gioco sicché la Morte è nient’altro che il Professore che nel suo status di semi-divinità si manifesta con singole qualità e mai per intero: la pantera nera rampante, le incursioni fulminee, l’urlo disperato che lo evoca appena un secondo prima di soccombere. Eppure Kusanagi, in una missione suicida, ne sopravvive perché tenere testa all’Iniquo è un sogno vecchio dell’Umanità. Quando non sono in missione, il corpo-piloti si ritrova al "Daniel’s Dinner", un perfetto non-luogo in cui un vistoso gestore ebreo fa da moderatore tra il mondo-Kildren e gli adulti, i beneficiari della guerra eterna, quella che assicura la Pace (qui i riferimenti ai tempi nostri si sprecano). In realtà il pacifico signor gestore, come nelle migliori tradizioni del Witz, sembra anche il procuratore del bordello che ci porta alla ribalta la gioviale Kusumi che fa coppia con il gioviale Tokino e l’indecifrabile Foko che dopo esser stata compagna di Jin-Roh si lega immediatamente all’appena arrivato e come lei indecifrabile Kannami. Figura riuscitissima, Foko si distingue in una storia dominata dagli "stati psichici" per una sua sospensione pneumatica, di totale assenza rispetto alle cose del mondo e ai suoi dolori. La civetta stilizzata e ad ali aperte che sfoggia sul petto, la fanno insieme creatura della notte e persona cara alla dea della Sapienza, essa stessa sapiente. Foko, si scoprirà, ha avuto il ruolo di sensale tra Jin-Roh e Kusanagi, da cui è nata una bambina: ha insomma giocato una sua carta che sarà probabilmente un’altra storia. Così, arriviamo finalmente al bordello (malvisto dalla "mamma", come impone il suo ruolo) e vi si accede infatti tramite una selva oscura, sterzando bruscamente dalla diritta via in una stradina sterrata e ballonzolante: il regno di Foko (e di Kusumi). Siamo passati dall’arancione della guerra, attraverso lo squallore di una bettola scura di legno invecchiato, alla ricognizione minuziosa di tutte le tonalità del rosso, lontano dall’indeterminatezza delle guerre in cielo: accappatoi, lampade, tappezzerie, tavolini da tè… costruiscono lo spazio sessualizzato di un orgasmo che non è gioia né scarica; semmai una distrazione cromatica. Quando, inopinato, il bellico arancione compare a terra, in un hangar, sotto forma delle scintille di una riparazione, Kannami ha un moto quasi isterico di protezione della piccola Mizuki cui sono subito imposti degli occhiali neri dai quali, protesta lei, non vede più nulla. In tutto ciò, la colonna sonora di Kawai Kenji a differenza dei due Ghost (in special modo il II) riecheggia essenzialmente nel tema malinconico iniziale e variamente riproposto, una composizione già passata, storicizzata, come un ineluttabile già successo e destinato a ripetersi per sempre. Parole, gesti e l’eterno ritorno Se i "Ghost" sono caratterizzati da una alluvione di frasi apodittiche e citazioni (a volte pedanti), nel nostro film l’apatia ha ammantato tutto come coscienza di morte. Il ralenti delle due mani che si cercano e si trovano, quelle di Kusanagi e sua figlia, ripropongono così un momento di suggestione giustamente dilatato, come un gesto di ribellione muta, un destino già scritto… per che cosa? L’Umanità che stanno salvaguardando è vista in dettagliata rassegna durante una visita dei civili allo stormo di Kusanagi. Senza essere crudeli, diciamo che si distingue per una insignificanza che non giustifica alcun sacrificio. Ancor prima dei Social Network, riprendono gli hangar e intervistano Kannami con telecamerine in quello che appare un gioco sì ma di ruolo, adulto in senso deteriore. Poco più avanti, un aereo abbattuto (di provenienza imprecisata, a voler dire che la guerra è frammentata, un tutto contro tutti) raccoglie un pubblico che si lancia in una pietà falsa e manierata. Lo sdegno di Kusanagi, accorsa anche lei, si manifesta in un topos del cinema di Oshi: la ragazza cambia improvvisamente sguardo che si spalanca e diventa cattivo, inveisce contro gli ipocriti ed è fermata da una sorta di poliziotto che allarga le braccia a mo’ di alt come a voler significare il netto confine tra il mondo dei Kildren e quello adulto. E quello che conta è proprio quest’ultimo. Poi qualcosa cambia. La ricognizione notturna col tema arpeggiato di Kawai azzera i rumori dei rombi del motore e nell’assenza di nuvole squarcia un cielo sgombro e violaceo come un immenso livido. Le luci calde del pannello di controllo e la pacifica illuminazione notturna degli agglomerati urbani operano una nuova inversione, un transfer questa volta; così il tema del film diventa incerto e in questo cortocircuito si apre l’opzione del tragico. Su, in alto, i Kildren procedono lentamente, quasi ieratici, con nobiltà. Giù, nel mondo, l’Umanità dorme innocente e incosciente, vegliata dai bambini. I Kildren stanno raggiungendo un quartier generale dove sarà pianificato un pomposo "Attacco Risolutivo" ma che, in inversione, li riporta una volta atterrati ai bambini che sono, in una festa con pop-corn, giostre e ammiccamenti pre-adolescenziali. Qui compare Mitsuya, la kildren-pilota che non sa di esserlo o meglio che non se ne rassegna, il che equivale all’Ultimo Tabù. Oshii, dopo aver descritto senza freni, avverte il momento di stringere e diventa quasi didascalico. Si dichiarano le cose non dette: le immagini della guerra non bastavano più, era necessario che l’Umanità le vivesse sulla propria pelle. E, con una ultima inversione, dopo tutte quelle viste in aria, il tema ridiventa finalmente giapponese sicché non è questione, all’europea, de "i figli che uccidono il padre" ma del Professore che annienta le sue creature. E così altri Kannami arriveranno alla base, forse riconosciuti forse no, sempre flemmatici, consapevoli appena di essere nati per morire il che è, dopotutto, la Condizione Umana, da Oporto a Tokyo. "I cavalieri del cielo" è tratto da una serie (cinque) di romanzi omonimi di Mori Hiroshi. Presentato alla 65° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia, è tuttora in attesa di una distribuzione in sala. Nel 2010 è stato trasmesso su Rai4.
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La pioggia (29/10/2018)
Il mondo si divide tra chi ama la pioggia e chi la odia. Certo che quando è troppa e fa danni anche gli irriducibili amanti della pioggia ritirano la propria convinzione e si spostano nel gruppo avversario, almeno temporaneamente, per poi ritornare ad amarla quando cade più sommessa e gentile, come a carezzarci i capelli e a rinfrescarci gli abiti. E' un po' il simbolo della nostra mutevolezza, il sentimento verso la pioggia, siamo sempre pronti a cambiare ma è un cambiamento talvolta estemporaneo, che il cuore ci impone come per salvarci da situazioni eccezionali.Poi però, noi o meglio voi che la amate, vi lasciate esposti a tutti i danni collaterali non appena la tempesta è passata e siete di nuovo pronti a gettarvi sotto la pioggia, anche senza ombrello, pur di mantenere fede al vostro ideale romantico di passione verso questo fenomeno così frequente.
Proprio pensando a questi effetti mi viene di domandarmi a quante metafore si presti la pioggia.
Io non posso non pensare alla metafora dell'Amore. Così talvolta ci innamoriamo della persona giusta sbagliata, che ci provoca la tempesta nel cuore, e lo sappiamo che ci bagnerà intensamente fino a rendere fradici i nostri sentimenti, mentre vorremmo la meritata quiete e questa tarda sempre ad arrivare, e talvolta non arriva mai. Ma sta nella nostra natura non solo accettare, ma addirittura ricercare, queste tempeste come se fossero parte integrante dell'Amore, come se fossero necessarie per dimostrare a noi stessi che il nostro ombrello è resistente e saprà essere così ampio da salvarci da tutte le conseguenze negative. Questo perché crediamo nel lieto fine. Quel lieto fine che difficilmente arriva. Perché sembra così scontato che la pioggia non abbia interesse a bagnare solo noi, anzi sembra vada alla ricerca di amanti della tempesta, così stoici da sopportarne ogni aspetto deleterio. E quindi non siamo mai soli, in questo senso, ed il concetto di fedeltà si disgrega facilmente.
E poi, lo dobbiamo proprio dire, il nostro cuore non può vivere immerso sempre nell'acqua piovana, ha bisogno di raggi di sole e non soltanto di quiete, ha bisogno di pensieri e gesti così positivi che forse non producono alcuna tempesta, ma tante goccioline che dissetano i nostri sentimenti, piano piano, perché sanno che sono necessarie alla vita dell'Amore, perché sono esattamente il contrario delle lacrime, anzi le mandano lontane, perché il sole dell'Amore, in fondo lo vogliamo tutti.
(Copyright 2018-2019 Fabrizio Sartor)
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Installazione di condizionatori in condominio: cosa c’è da sapere
http://tinyurl.com/zrusu4e Ormai il condizionatore è diventato un oggetto di largo consumo all’interno delle nostre case. A favorirne la grande diffusione è stato in particolare il calo dei prezzi che ha fatto seguito ad un aggiornamento tecnologico sempre più pronunciato, comportando l’abbattimento delle economie di scala. Con il drastico calo dei prezzi riscontrato nel tempo, molte famiglie hanno così deciso di adottarne uno all’interno della propria abitazione, in modo da porre almeno un primo argine alle situazioni critiche create dall’innalzamento della colonnina di mercurio. Un argine prezioso soprattutto in quei nuclei ove siano presenti anziani, piccoli o comunque soggetti che presentino problematiche dell’apparato respiratorio. I dispositivi presenti nei cataloghi delle case produttrici, tengono in conto sempre maggiore queste tematiche, offrendo una serie di funzioni tese non soltanto a raffrescare l’aria, ma anche a depurarla dalla presenza di agenti patogeni potenzialmente pericolosi per la salute umana. Inoltre una particolare attenzione viene riservata al discorso dell’efficienza energetica, ormai centrale in un momento storico in cui è necessario guardare all’ambiente come un bene da preservare a vantaggio delle nuove generazioni. In conseguenza di normative sempre più stringenti, i nuovi condizionatori sono stati adeguati ad esempio alla tecnologia inverter, molto più proficua della tradizionale on/off, in quanto capace di evitare i continui stop & go che vanno ad appesantire le bollette energetiche, contribuendo in maniera intelligente al comfort abitativo. Va però sottolineato come proprio una presenza così rilevante, abbia spinto le istituzioni politiche a prendersi carico delle problematiche innescate, che non sono solo quelle relative alla necessità di abbattere le emissioni nocive, ma anche a preservare il cosiddetto decoro architettonico. Un tema, quest’ultimo, particolarmente pressante in un Paese come il nostro, strapieno di edifici e centri storici di grandissimo valore storico, paesaggistico e architettonico. Una presenza che impone di stroncare gli eventuali abusi e di stendere una serie di norme in grado di far si che l’installazione di questi dispositivi non vada a procurare danni all’estetica degli immobili, oltre ad assicurare il loro miglior funzionamento possibile. Da questo secondo punto di vista, va peraltro ricordato il punto fermo rappresentato dall’entrata in vigore del nuovo regolamento per l’installazione di tutti i dispositivi che funzionino con la presenza di F-Gas, ovvero i florurati. Si tratta di quei gas che pur non essendo causa di inquinamento, stanno al contempo contribuendo al surriscaldamento globale. Proprio per cercare di limitarne l’azione, il nuovo regolamento prevede che ad installare i condizionatori e gli altri prodotti che contengano florurati debba essere un tecnico provvisto di certificazioni, tagliando fuori gli installatori della domenica e il fai da te. Chi inoltre intenda acquistare un condizionatore, dal 2016 è obbligato a produrre una autocertificazione dalla quale risulti chiaramente il nome o ragione sociale del tecnico chiamato a farlo. Pensare di violare la normativa può comportare grossi rischi, con sanzioni che partono da un minimo di 500 euro, per salire sino ad un massimo di 3mila. Tra le tematiche più delicate in assoluto, c’è anche quella dell’installazione di condizionatori in condominio, un problema capace di smuovere grandi discussioni e provocare situazioni di attrito che andrebbero attentamente evitate.
Non conta solo la legge
Quando si affronta il tema relativo all’installazione di condizionatori in condominio, si deve fare particolare attenzione, in quanto sono in molti a ritenere, erroneamente, che a regolarla sia il concetto di decoro architettonico evocato dall’articolo 1120 del Codice Civile. Va ricordato al proposito come esso vada a coincidere con l’insieme di tutte le strutture tali da andare a contraddistinguere da un punto di vista estetico l’edificio, contribuendo in maniera decisiva a conferirgli una distintiva fisionomia. In effetti non è così, in quanto occorre tenere nel debito conto anche quanto venga deciso a livello condominiale, ove si potrebbe optare per una regolamentazione addirittura più severa di quella imposta dalla legge. L’interdizione elevata nei confronti dell’installazione di un impianto sulla facciata condominiale, ove venga espressamente indicata dal regolamento predisposto dal costruttore del caseggiato e successivamente accolta dai singoli acquirenti degli appartamenti all’interno degli atti di acquisto oppure oggetto di espressa delibera approvata dalla totalità dei condomini, diventa in pratica incontrovertibile per tutto il condominio. Proprio per questo, sarebbe quindi opportuna una verifica anche in relazione alla non sussistenza di particolari limitazioni all’interno dei regolamenti comunali. Non è raro, infatti, il caso che proprio quest’ultimi possano contenere regole estremamente severe, come, ad esempio, il divieto di installare condizionatori sulle sezioni esterne di tutti gli stabili dislocati all’interno del centro storico. Il vero punto in discussione, infatti, è quello che considera il decoro architettonico un bene comune, il quale va quindi preservato nella sua interezza, a prescindere da considerazioni più o meno valide di carattere estetico. Soprattutto ove si vada ad installare un dispositivo per la termoregolazione sulla facciata di un edificio, si compie una operazione tale da impattare in maniera rilevante sul decoro architettonico e violare quindi il miglior godimento del bene comune da parte di tutti i condomini. Altro problema che occorre tenere nel debito conto, quando si affronti il tema dell’installazione di condizionatori in condominio, è quello relativo alle immissioni. Sotto tale punto di vista, infatti, occorre sottolineare come l’impianto non possa essere distinto da immissioni giudicate intollerabili in direzione della proprietà attigue. Mentre per quanto concerne il rumore, in sede giudiziaria è stato specificato con assoluta chiarezza come la linea di demarcazione da non oltrepassare sia quella dei tre decibel, ovvero la soglia oltre la quale verrebbe a essere la cosiddetta rumorosità di fondo, in pratica l’insieme dei rumori di diversa origine i quali si presentano normalmente nello specifico contesto ambientale. Ma il tema del rumore non riguarda solo quello che può essere avvertito dalle abitazioni vicine a quelle in cui operi un condizionatore, in quanto una condanna di carattere penale può scattare anche nei confronti di tutti coloro che installino impianti di condizionamento troppo rumorosi all’interno della propria casa o attività professionale. Una evenienza di questo genere, infatti, farebbe scattare il reato di disturbo della quiete pubblica, anche nella eventualità che a lamentarsi dell’eccessiva rumorosità sia un solo nucleo familiare.
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1946-1989, IL SECOLO BREVISSIMO DEL MODERNO GENOVESE
di VALTER SCELSI
Scrivere un elenco, anche breve e incompleto, di architetture genovesi del secondo Novecento, come lo chiamiamo, è scrivere di Genova, che poi è scrivere di molte città del mondo, in «un'idea di mondo dove ci si deve labirinticamente smarrire, ma dove, sempre, da qualche parte, si può scoprire un luogo privilegiato, quasi magico, dove tutto si ordina e si compone, almeno in emblema, almeno in allegoria» [1]. Poi dall'elenco, costruito a più mani, leggendo molte riviste di architettura, undici testate [2] nei numeri pubblicati tra l'inizio del 1946 e la fine del 1989, una sorta di “secolo brevissimo” ad uso pratico, o meglio, dalla combinazione dell'elenco con le memorie degli autori di questo lavoro collettivo, emerge la vecchia questione di quanto noi, comunemente, usiamo l'architettura come “fatto espressivo”, anche senza escluderne funzionalità o altri elementi di senso [3]. Ma in questa molteplice attribuzione di significato, l'architettura ci complica il lavoro, consegnandosi principalmente attraverso la propria immagine, che, come tale, pone resistenza a offrirsi come un sistema di significazione, per via di quello che viene definito il suo carattere “analogico”, che la distingue dal linguaggio articolato e organizzato.[4] Tale carattere analogico è espressione del carattere continuo delle immagini, organizzate in concatenazioni spaziali che poi, nel caso esemplare del cinema, vengono rafforzate dall'essere, secondo Roland Barthes, anche successioni temporali. Un edificio visto in un film, viene proposto secondo una sequenza selezionata e selettiva di punti di vista, ordinati linearmente. Così il film, che si pone come uno strumento, a suo modo classico, in grado di tentare la costituzione di un rapporto di senso tramite il montaggio, la scelta delle sequenze e la disposizione dei singoli “frame”, ha ospitato il racconto del nostro elenco, breve e incompleto, che è poi è anche una guida, ancor più lacunosa e parziale, di questa città.
La possibilità di montaggio-assemblaggio, o meglio, la combinazione di queste azioni con l'apertura dei personali archivi mnemonici, consente il recupero di due brevi (e lontani, e giacenti) testi dove, scrivendo di Genova, trattavo di cinema e di guide (il primo scritto nel 1996, il secondo nel 2004). In sostanza, la combinazione di questi depositi intende proporre una dialettica tra dimensione narrativa e codici di interpretazione di un'epoca.
La cinepresa viaggia verso ponente lungo la sopraelevata, filmando la palazzata della Ripa, il fronte della città storica. Con le immagini scorrono i titoli di coda del cortometraggio di Giorgio Bergami “Genova alla finestra”. L'anno è il 1977. Nell'ambito della rassegna “I set di Genova e della Liguria”, ospitata durante il mese di maggio nella sala Pietro Germi, il film di Bergami ci ha offerto, il solo, la testimonianza di un passato prossimo – gli anni settanta – di crisi e di sedimentazione dell'assetto urbanistico cittadino; nel centro gli ultimi sventramenti del tessuto antico, sulle alture la faticosa ricostruzione delle identità locali confuse o sovrastate dal caos edilizio del dopoguerra. Bergami racconta, sul sottofondo di voci e dialetti diversi, una città di finestre che si affacciano su strade strette dove, nella quiete della sera, si confondono i suoni e le parole delle televisioni, le grida dei bimbi, i rumori delle cucine.
Bergami è un fotografo genovese, uno di quelli che vogliono bene alla città – parlando la dice straordinaria, bellissima – e che sanno dove puntare l'obiettivo, dove cercare. Vent'anni fa, come prova generale alla vigilia di un incarico di direttore della fotografia in RAI, gira il documentario lungo 25 minuti che considera “riassunto e prodotto del suo lavoro sulla città”, e commette un errore.
Genova è, in quegli anni, una città senza turismo, sconfortata dalla crisi del porto e dal conseguente degrado generale della propria immagine, che conosce bene le proprie vergogne, sente parlare di speculazione edilizia e si accorge di esserne piena. Certo – a ben vedere – l'epoca d'oro dei palazzinari si è conclusa da un pezzo, ma, sotto la luce fredda della recessione economica (la crisi, come si dice), la cementificazione delle colline appare in tutto il suo irrimediabile squallore.
Intanto, nell'atmosfera di attesa fiduciosa del nuovo piano regolatore (quello che sarà il P.R.G. dell'80), si ritiene giusto, allo scopo di costituire un'immagine divulgabile della città, concentrare l'attenzione sull'enorme qualità del tessuto storico ancora pressoché intatto.
E le periferie? Di quelle si parla soprattutto in privato, a volte sulle pagine dei giornali cittadini, ma conviene non farle tanto vedere in giro, magari all'estero, se non si vuole rovinare tutto. Ecco perché Bergami ha sbagliato. E dire che era partito bene, la sua lunga soggettiva sui vicoli piaceva un po' a tutti. I tetti, le finestre, le vecchie botteghe, il colore dei carruggi sembravano cose ben esportabili. Erano le immagini di una città antica e misteriosa, ricca di una fotogenia mai completamente compresa e sfruttata prima. Le amministrazioni locali si interessarono al lavoro di Bergami, gli fecero sapere che avrebbero utilizzato volentieri il suo cortometraggio – che, intanto, a Roma negli ambienti vicini alla RAI raccoglieva consensi – come biglietto da visita della nascente anima turistica genovese. A un patto, però. I dieci minuti finali, con tutto quel caos edilizio, quella speculazione senza rimedio, quelle migliaia di metri cubi composti a caso sulle colline dovevano scomparire. Le periferie enormemente più estese e densamente popolate della città storica erano, nei tardi anni settanta, un dato di fatto che si poteva negare senza tanta pena. Non avevano, i quartieri collinari, neanche il diritto di possedere un'immagine.
La storia finisce con Bergami che rifiuta di mutilare il film.
Quando circa un anno fa, nel tentativo di mostrarmi arguto, chiesi a Edoardo Sanguineti se avrebbe mai potuto scrivere una guida turistica della propria città, sul tipo di quella scritta da Fernando Pessoa per Lisbona, lui mi rispose che, in effetti, lo stava proprio facendo. Città di mare Lisbona e poeta, come sapete, Pessoa. Città di mare Genova e poeta Sanguineti, come sapete. Un simile intreccio analogico impone un po’ di cronologia, così come di seguito. Nel 1888 Pessoa nasce a Lisbona. Nel 1905 Pessoa torna a Lisbona dopo gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza trascorsi a Durban, in Sudafrica. Nel 1925 Pessoa scrive in inglese, ma non pubblica, l’ultima stesura della guida “Lisbon, What the Tourist Should See”. Nel 1930 Sanguineti nasce a Genova. Nel 1934 Sanguineti si trasferisce con la famiglia a Torino. Nel 1935 Pessoa muore (o, come dicono, si spegne) a Lisbona. Nel 1974 Sanguineti torna a Genova, usque ad mortem, come egli suppone (mentre, per inciso, a Lisbona è l’anno della rivoluzione dei garofani). Nel 1988 è riscoperta tra le carte di Pessoa la guida di Lisbona, che viene pubblicata nel 1992 dalla casa editrice Livros Horizonte, di Lisbona. Nel 1994 Lisbona è città europea della cultura. Nel 2004 Genova è capitale europea della cultura (che poi è la stessa cosa della città europea della cultura: hanno solo cambiato il nome). Sempre nel 2004 esce la guida Genova per me, scritta da Sanguineti per Alfredo Guida Editore. Nel 2005 il libro raggiunge le nostre librerie. In occasione dell’evento GeNova 2004, chiedono a Sanguineti di partecipare, con una poesia (inedita) che parli di Genova, a un volume collettivo di testimonianze varie. Sanguineti risponde che non può: è proprio sul punto di partire per - pensate un po’ - Lisbona. Gli spiegano che può scriverla a Lisbona, una piccola poesia per Genova, e consegnarla al suo ritorno. «Così scrivo davvero, laggiù, un acrostico di s ei versi, che sono questi:
Guardala qui, questa città, la mia:
E' in riva al Tejo che io cerco Campetto,
Nel Barrio Alto ho trovato Castelletto,
O un Cable Car su in vico Zaccaria;
Vedilo, il mondo: in Genova è raccolto
A replicarne un po' la psiche e il volto.»
Dalla combinazione di questi due reperti (combinazione variabile, per la verità: cinema e turismo, periferia e poesia, porto e città) potrebbe risultare, per via analogica, l'immagine di un luogo in carenza di definizione, in un paesaggio dove quello che perde l'architettura del secondo Novecento è la “levigatezza”, la qualità che Elias Canetti aveva individuato come espressiva dell'architettura moderna della prima parte del secolo [5], e dove, anzi, il carattere scabro delle superfici diventa programmatico; la bocciardatura in opera dei conci del museo del tesoro di San Lorenzo o della tomba Galli, il cemento scalpellato del Centro dei Liguri e l'intonaco a rinzaffo dell'impianto sportivo di Valletta Cambiaso [6] esprimono una volontà di opacità anti-purista, capace di farsi espressione di una posizione critica. Quello che restituisce, quindi, la Genova del secondo Novecento è l'espressione di un prodotto poetico, generato anche attraverso il suo variegato e incerto processo architettonico.
Nel 1972, quasi a metà di questo “secolo brevissimo” del Moderno genovese, una mostra [7] espone due immagini di soggetto analogo: il porto di Genova. Si tratta di un'opera di Max Beckmann, dipinta del 1927, e di una tela di Oskar Kokoschka, del 1933. Quasi simultanee opere di due pittori di lingua tedesca, praticamente coetanei [8].
Nel tentativo di aprire un discorso intorno all'immagine della città e di rendere Genova caso emblematico di tale ricerca, nel catalogo della mostra l'esposizione del “discorso per immagini” del movimento radicale viene affiancato alle letture strutturaliste che propongono l'architettura come “linguaggio debole” che si esprime secondo catene analogiche di immagini. In tale tentativo, i due dipinti che rappresentano la città e il porto nel pieno sviluppo dell'era della macchina descrivono un'architettura che, se perde alcuni dei propri connotati storici, lo fa fissandosi come elemento del paesaggio, al pari del mare, delle macchine e degli uomini. «La modificazione potrà avvenire - avverte Vittorio Gregotti nel testo “Architettura della città”, presente nella pubblicazione -, come nella lingua, secondo il contributo di opere di alta poesia, secondo piccoli spostamenti funzionali o secondo vasti rimaneggiamenti strutturali.»
[1] Edoardo Sanguineti, Genova per me, Alfredo Guida Editore, Napoli, 2004.
[2] Abitare, Casabella, Controspazio, Domus, L'Architettura Cronaca e Storia, L'Industria delle Costruzioni, Lotus, Metron, Spazio e Società, Urbanistica, Zodiac.
[3] Umberto Eco, La struttura assente. La ricerca semiotica e il metodo strutturale, Milano, 1968.
[4] Roland Barthes, Sémiologie et Cinéma, 1964.
[5] «si parla di funzionalità, di chiarezza, di ma ciò che veramente ha trionfato è la levigatezza e il segreto del potere che vi è insito.» Elias Canetti, Masse und Macht, Hamburg, 1960; ed. it. Massa e potere, Milano, 1972.
[6] Franco Albini, Museo del Testoro di San Lorenzo, Genova, 1952-1956; Carlo Scarpa con P. Terrasan, G. Tommasi, M. Pastorino, Tomba Galli, cimitero di Sant'Ilario, Genova-Nervi, 1981; Marco Dasso, Angelo Bruzzone, Centro Direzionale dei Liguri, via Madre di Dio, Genova, 1972-1980; Franco Albini, Franca Helg, Stadio del tennis di Valletta Cambiaso, 1955-1956.
[7] L'immagine della città, a cura di Gianfranco Bruno, Palazzo dell'Accademia e Palazzo Reale, 8 aprile – 11 giugno 1972
[8] Max Beckmann, Lipsia, 12 febbraio 1884 – New York, 27 dicembre 1950.
Oskar Kokoschka, Pöchlarn, 1 marzo 1886 – Montreux, 22 febbraio 1980.
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Di “Freud” (la serie) preferisco Fleur, cioè Lou Salomé. Ovvero: sull’incontro tra il padre della psicanalisi, la musa fatale e Rilke
Più che altro, è lei – lui, pur somigliante, a vedere le fotografie coeve, ha sempre la stessa espressione tra il trepidante e il cretino – a vivacizzare la serie, altrimenti tramortita da trivialità splatter e banalità psicanalitiche. Mi sono informato, perché il mix – bella & visionaria, rapace & innocente, feroce & perduta – è cocaina nei giorni della reclusione dove le mura di casa sono specchi e tutto è immagine di altro, immaginazione. Solo che, come sempre, la verità tradisce gli infingimenti: Ella Rumpf, fotografata dal vero, è una ragazzona non più affascinante di quella a fianco e di quell’altra. In stola tardottocentesca, quinta viennese e stregoneria magiara è – ai miei occhi ingenui, proni a ogni malia – superba. Ma forse tutti saremmo splendenti nella Vienna del 1886, dove, tra lampadari e strade viola si distraggono le certezze.
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Insomma, la serie di Netflix, Freud, funziona perché c’è Vienna, quella Vienna, c’è lei, Ella, che ha nome Fleur Salomé – e basta. Anzi, ci aggiungo l’uomo d’ordine e d’onore – poi agente del disordine – Alfred Kiss (cioè Georg Friedrich). L’unico personaggio, in una serie che calca termini psicanalitici, con una psiche. Gli altri – a partire da Francesco Giuseppe – sono macchiette. Piuttosto, la serie mi ha rimesso in mano Freud, che è un po’ come andare in smoking al supermercato usando una maschera veneziana al posto della mascherina. Il divo Sigmund è rétro, ma ha inventato uno stile, un ‘tono’: per questo va letto. Pensa scrivendo; di ogni atto esplicita il contrario e il conturbante. In fondo – lo sappiamo – dietro un sorriso cova un coltello, alla foce di un ‘grazie’ alligna il ‘ti ammazzo’, le parole significano il contrario di ciò che denunciano.
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In questo brano Freud sembra Seneca. “Nessun uomo si concede l’illusione che la natura sia stata ormai dominata; pochi osano sperare che sia stata sottomessa dall’uomo una volta per tutte. Ecco gli elementi che sembrano farsi beffe di ogni costruzione umana, la terra che trema, dilania, sotterra tutto ciò che è umano e ogni sua opera, l’acqua che tumultuosamente inonda e sommerge ogni cosa, la tempesta che spazza via tutto, ecco le malattie… infine l’enigma doloroso della morte, contro la quale finora non è stato trovato alcun rimedio né probabilmente verrà mai trovato. Con queste forze la natura si erge contro di noi imponente, terribile, inesorabile, ci pone ancora dinanzi agli occhi la nostra debolezza e impotenza, che abbiamo pensato di eludere con il lavoro della civiltà… Come per l’umanità nel suo complesso, così per l’individuo la vita è dura da sopportare. Una parte di privazione gliela impone la civiltà della quale è membro, un certo grado di sofferenza glielo procurano gli altri uomini, o malgrado le imposizioni della civiltà o per l’imperfezione di questa civiltà”. Un brano de L’avvenire di un’illusione, 1927. Sul “Criterion”, nel dicembre del 1929, Thomas S. Eliot, paladino anglicano, definirà quel libro “scaltro ma stupido”.
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Fleur Salomé, quella della fiction, è elevata a bellezza ipnotica perché si riferisce a Lou Andreas-Salomé, donna fatale, figlia di una generale russo. La confusione cronologica beatifica la fiction. Negli anni ottanta dell’Ottocento, la Salomé non incanta Freud, ma Friedrich Nietzsche. Freud, piuttosto, lo incontra nel 1911, quando decide di darsi alla psicoanalisi. Nel necrologio – Lou muore il 5 febbraio 1937 – Freud ne parla come di una “donna straordinaria… chiunque l’avvicinasse riceveva un’impressione fortissima dell’autenticità e dell’armonia della sua natura e poteva asserire, non senza stupore, che tutte le debolezze femminili, e forse la maggior parte delle debolezze umane, le erano estranee o erano da lei state superate nel corso dell’esistenza”. Riguardo a Freud – che morì due anni dopo di lei – Lou Salomé scrisse pagine da cui estraggo questo sketch: “Assalita da un irrefrenabile moto di ribellione contro il suo destino, dissi con labbra tremanti: «Quello di cui allora ho solo fantasticato, Lei lo ha fatto!», e spaventata per la brutale sincerità delle mie parole scoppiai a piangere. Freud non mi rispose. Sentii solo il suo braccio intorno a me”. Disse di averlo seguito nel sogno, fin da quando era giovane, incompreso.
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“Due contrastanti esperienze di vita mi hanno particolarmente predisposto per l’incontro con la psicoanalisi di Freud: in primo luogo l’aver assistito all’eccezionale e raro destino di un individuo e poi l’essere cresciuta in mezzo ad un popolo, quello russo, caratterizzato da una connaturale tendenza all’interiorità”, ricorda Lou. Lui, Freud, d’altronde, la prende per confidente. In una lettera del 6 gennaio 1935 le scrive riguardo al lavoro più travagliato, L’uomo Mosè e la religione monoteistica, riassumendo temi e perplessità. “Mosè non era ebreo, bensì un nobile egiziano, alto dignitario, sacerdote, zelante seguace della fede monoteistica che il faraone Ekhnaton IV impose come religione di Stato”.
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Il punto d’unione tra Freud e Lou Salomé è Rainer Maria Rilke. Rilke conosce Lou il 12 maggio del 1897, a Monaco, ne è l’amante. Lou svela a Rilke la Russia, dove conosce Lev Tolstoj e Leonid Pasternak, il padre di Boris. Di Rilke, Lou percepisce l’altezza e l’abisso (“Queste crisi depressive ravvisavano con estrema evidenza quanto la natura originaria di Rilke anelasse, al di là dell’opera d’arte, anche la più perfetta, all’esperienza vissuta, alla rivelazione della vita come unica fonte di quiete e di pace”). C’è qualcosa di primitivo e di infantile nel desiderio di questi uomini di testa di precipitare nella bocca di Lou, tra le maglie del suo incantesimo.
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Una lunga lettera di Rilke, da Parigi, il 18 luglio 1903, a Lou, di rara violenza, scandisce l’uomo nella metropoli. “Che gente ho incontrato, quasi ogni giorno: rovine di cariatidi su cui gravava ancora tutto il dolore, l’intero edificio di un dolore, sotto il quale esse vivevano lente come tartarughe. Ed erano passanti, lasciati soli e indisturbati nel loro destino. Al massimo li si coglieva come impressione, e li si osservava con pacata curiosità scientifica come una nuova specie di animali, ai quali la necessità ha sviluppato particolari organi, organi per la fame e per la morte. E portavano lo sconsolato mimetismo, dai colori malati, delle città troppo grandi, e resistevano sotto il piede di ogni giornata, che li schiacciava come scarafaggi duri a morire, duravano come se dovessero ancora aspettare qualcosa, guizzavano come pezzi di un gran pesce massacrato, che già marcisce ma vive ancora. Vivevano, vivevano di niente, di polvere, di fuliggine e della sporcizia sulla loro pelle, vivevano di ciò che i cani perdono di bocca, di un qualche oggetto insensatamente rotto che forse qualcuno può sempre comprare per un suo inspiegabile scopo. Che mondo è questo. Pezzi, pezzi di uomini, parti di animali, resti di cose passate, e tutto che si muove ancora, spinto e aggrovigliato come da un vento cattivo, tutto porta e viene portato, cade e si soprassa nella caduta”.
*
I tre si incontrano a Monaco, l’8 settembre 1913. Rilke accompagna Lou al IV Congresso di Psicoanalisi, presieduto da Jung. Passano la serata e la notte con Freud. In un testo del 1915, Caducità, Freud ricorda quel momento, una specie di spillo nel tempo. “Non molto tempo fa, in compagnia di un amico silenzioso e di un poeta già famoso nonostante la sua giovane età, feci una passeggiata in una contrada estiva in piena fioritura. Il poeta ammirava la bellezza della natura intorno a noi ma non ne traeva gioia. Lo turbava il pensiero che tutta quella bellezza era destinata a perire, che col sopraggiungere dell’inverno sarebbe scomparsa: come del resto ogni bellezza umana, come tutto ciò che di bello e nobile gli uomini hanno creato e potranno creare. Tutto ciò che egli avrebbe altrimenti amato e ammirato gli sembrava svilito dalla caducità cui era destinato”. Il tema della caduta e della caducità s’imprime nelle Elegie, che Rilke termina nel 1922; l’anno dopo Freud pubblica L’Io e l’Es. Su questi incroci, che si svolgono come nell’aula concava di un lago svuotato, non si potrebbe filare una fiction.
*
Per devianza scenica, molti anni fa, studiai Psicopatologia della vita quotidiana. Partii dai lapsus, in onore di Amelia Rosselli; mi inerpicai tra sbadataggini, errori, dimenticanze. Giocando tra i reami di una dimenticanza – davanti al Giudizio Universale del Duomo di Orvieto al pensatore appaiono in mente i nomi Botticelli e Boltraffio al posto di Signorelli – Freud fa scaturire una galassia di allusioni, di rimozioni, di timori, fino ad arrivare a “un breve soggiorno a Trafoi: un malato, per cui mi ero dato molto da fare, si era suicidato perché soffriva di un incurabile disturbo sessuale”. Quello mi piaceva – come esercizio pindarico più che psicoanalitico – scavare nei recessi di ogni parola, evidenziarne i torbidi, i possibili. Fin da giovane, Freud è affascinato dal mostro dietro il sacro, dal sacrilegio. In una lettera a Wilhelm Fliess, 31 maggio 1897: “Il ‘sacro’ si basa sul fatto che gli uomini hanno sacrificato, per il vantaggio di una più vasta comunità, una parte della loro libertà sessuale e perversione… Gli inglesi hanno scavato un vecchio palazzo a Creta (Cnosso), che dichiarano essere il vero labirinto di Minosse. Sembra che Zeus fosse originariamente un toro. Anche il nostro vecchio Dio fu venerato presumibilmente come toro, prima della sublimazione istigata dai Persiani”. Ecco. Dietro il velo delle parole c’è sempre il Minotauro – cioè, il dio. (d.b.)
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Il vocabolario del virus. Le città sono “spettrali”, la situazione è “surreale”, ognuno “deve fare la propria parte”. Ecco come gli slogan diventano mistica
Le città sono “spettrali”, la situazione è “surreale”, d’altronde, “ognuno deve fare la propria parte”. Il contagio impone un nuovo vocabolario, un inedito rosario di aggettivi ricorrenti, certe parole che emergono, improvvise, dall’anonimato del discorrere. Ogni parola ha in sé un carico di avvertimenti, di emergenze culturali, di sensi sottili. Cominciamo a dare forma al vocabolario del virus.
Spettrale: La città vuota di umani è “spettrale”, alcova di spettri – i nostri ricordi, le malinconie affilate dalla solitudine? –, degna scenografia dell’oltretomba. D’altronde, la città, a differenza del bosco, non ha vita, dall’asfalto non cresce un bosco di betulle, i pilastri di cemento non cibano scimmie o poiane. La letteratura e il cinema – dalla città di Dite alla New York di Io sono leggenda – non ci hanno abituati alla metropoli “spettrali” e leggere Edgar Allan Poe, Lovecraft o Stephen King non aiuta a misurare la perplessità che lega il deserto urbano agli ospedali gonfi di malati. Per questo, forse, vedere una città in rovina, le rovine accerchiate di piante, colonizzate da tigri e cervi, dona una profilata idea di benessere: abbiamo creato spazi infelici, inadatti alla vita, “spettrali”. Meno ancora che “spettrali”, però, perché la città non è il luogo dove appaiono i morti, ma quello in cui muoiono i vivi. Tuttavia, spectrum si fonda sul verbo specere, vedere: la città deserta è uno spettacolo, questo tempo è qualcosa che fonda una attesa, una aspettativa.
Surreale: Magari fosse “surreale” la vita capovolta che ci capita di vivere, costretti alla reclusione, contagiati dal panico o da una sotterranea forma di quiete. Surreale è ciò che supera la realtà per eccesso di profondo, “che esprime o evoca il mondo dell’inconscio, della vita interiore del sogno”, dice la Treccani. Magari le nostre case diventassero incubatrici del sogno, cubi in cui s’incuneano desideri inauditi. Magari, da ora, la nostra vita reale fosse quella al di là della realtà, nel paradigma degli enigmi, nella foresta dell’estro onirico. “Surreale” rimanda per ovvietà al Surrealismo, movimento estetico e d’estasi coniato da André Breton, che postulava la “massima libertà dello spirito”. “Le allucinazioni, le illusioni, eccetera, sono una fonte non trascurabile di godimenti”, scrive Breton nel “Manifesto” del 1924. “Viviamo ancora sotto il regno della logica… Il razionalismo assoluto che rimane di moda ci permette di considerare soltanto fatti strettamente connessi alla nostra esperienza. I fini logici, invece, ci sfuggono. Inutile aggiungere che l’esperienza stessa si è vista assegnare dei limiti. Gira dentro una gabbia dalla quale è sempre più difficile farla uscire. Anch’essa poggia sull’utile immediato, ed è sorvegliata dal buon senso. In nome della civiltà, sotto pretesto di progresso, si è arrivati a bandire dallo spirito tutto ciò che, a torto o a ragione, può essere tacciato di superstizione, di chimera; a proscrivere qualsiasi modo di ricerca della verità che non sia conforme all’uso”. Più che avere note negative o grevi, la parola surrealismo significa disporsi alla ricerca della verità, rompere le gabbie, o meglio, fare della propria casa-gabbia un Everest, il Tabor. D’altronde, ci è mai garbata la realtà? Superiamola con un salto.
“Ognuno deve fare la propria parte”: Lo dicono tutti, dai Ministri alle star che ci convincono quanto sia bello stare a casa (se la casa è bella; la casa imposta, per altro, è utile a comprendere l’origine nomade dell’uomo). È lo slogan del premier Conte. Nessuno, a dire il vero, potrebbe fare parti che non siano la propria; siamo partigiani del nostro privato, di una proprietà che sentiamo, ora, claustrofobica. Per il bene di tutti, ognuno deve farsi da parte, fare la parte. L’allusione è teatrale: bisogna recitare il proprio ruolo nel gran teatro del mondo contagiato. Piuttosto, il tutto esiste se le parti funzionano: sembra di udire San Paolo ai Corinti, “se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; se un membro ha gloria, tutte le membra gioiscono con lui. Ora, voi siete corpo di Cristo, ognuno secondo la propria parte, sue membra” (1 Cor 12, 26-27). Facendo scempio dell’ordine sacro, lo Stato esiste come corpo se tutti i cittadini-membra fanno la loro parte, in astrale armonia. Eppure, se ognuno fa la sua parte a ciascuno deve essere data, in verità, la propria parte… Il sostantivo femminile ci conduce anche a una considerazione mistica. Del tutto, infatti, rimarrà una parte – quella su cui si fonderà una nuova idea di tutto. Il concetto, terribile e salutare, è espresso nella Bibbia, ad esempio, nel capitolo 10 di Isaia. Israele sarà vagliata dal male, sarà dispersa, perduta. In ogni cosa c’è una necessità di dispersione e di disperazione. La luce si affievolisce, bisbiglia, ma da una brace si ripeterà il fuoco. “Il resto d’Israele, i superstiti della casa di Giacobbe/��si appoggeranno con fede/ sul Potente, sul Santo d’Israele/…anche se il tuo popolo, Israele/ fosse come la sabbia del mare/ solo un resto tornerà”. La giustizia si esprime nella prova; la prova scuote il tutto, lo vaglia, lo spezza; la parte superstite riconoscerà il grande, si affiderà, ricomponendo le luci perdute. In questo modo lo slogan politico assume valore di avvenire. Una cosa va spezzata perché si ricomponga in altro. (d.b.)
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“I morti sono un mondo, eccentrico o spirituale, da cui poter entrare e uscire per tutta la vita”. Le note di Francesca Ricchi intorno al suo romanzo (che squarcia il tema fondamentale) “L’incanto dei morti”
C’è una atmosfera da favola gotica, un sogno sfrenato dei fratelli Brontë, esagerato all’unisono. E l’acme della distopia, il fermento di J.G. Ballard. “L’incanto dei morti” già di per sé, nell’alcova del titolo, dice. I vivi vivevano nell’incantamento dei morti: i morti vegetano come un incantesimo sulla vita. Per questo, a loro intonano canti, i vivi – per vincere l’incantesimo e costruire un patto, con i morti. D’altronde, l’incanto è la vendita a chi fa l’offerta migliore – un patto in denaro. I morti, privi di incantesimi e di personalità, vengono venduti all’incanto – quasi ovvio il rimando meditato a Gogol’. In effetti, è uccidendo i morti che sregoliamo la vita. “Le tre bianche città di Belvisto si erano arricchite grazie ai morti. Rinnegandoli prima e sfruttandoli poi, trasformando i funerali nel più prodigioso circo di affari”. La ‘quarta’ de “L’incanto dei morti” (Emersioni, 2019) pare già l’aggancio al narrare. Il libro, che parte in annuncio (“Anche i morti hanno un cuore. Era inciso sul cassettone del tavolo che avevano comprato in un paesino tutto legno e mucche…”), ha una scrittura sospesa, arricchita in simboli (fin nella cruna dei nomi: Esmeralda, Melusina, Serafina, Adelaide…), raffinata, come una firma su oro: “La città funeraria, a nord dell’altopiano, era l’avanguardia sul dominio intrattabile di catene montuose immolate a indomabili freddi. Ed era l’ultimo gemito di vita su cimiteri sconfinati”. In realtà, il libro si legge proprio come un romanzo – dozzine di dialoghi, fatti, ‘storie’ – ma a me conquista il carato ‘morale’ della vicenda, la scrittura scandita. Che rapporto intratteniamo con i morti? Quale lotta al soffocamento? E come ci devia la mancanza? C’è, nel libro, una donna potente, un paese che ghigna, la scienza che alligna, l’ugola dell’amare. Contatto Francesca Ricchi per chiederle motivo del libro, attraverso una intervista. Lei, in sostanza, mi risponde con una specie di inatteso breviario, che mi pare l’ottima camera d’attesa al suo libro – e che dice del ‘carattere’ della scrittrice. Qui, quindi, ricalco le sue frasi. Prive di domande, che non hanno necessità.
***
Le tre città di Belvisto sono innanzitutto un’ossessione poetica, insieme a un richiamo alla tradizione letteraria distopica intesa non come realizzazione del peggior mondo possibile, ma come accettazione della già avvenuta attuazione del peggior uomo possibile, a prescindere dai mondi, e a partire dal nostro.
*
L’ossessione persecutoria è l’inevitabile incomprensione del male, e porterà all’inevitabile mancanza di risposta, se è una risposta quello che cerchiamo. L’ossessione poetica è la possibilità di una visione (comprensione) prima dell’errore.
*
La risposta è l’errore, se come pare, ha bisogno della razionalità che subisce la manipolazione dell’inconscio, e dunque del diabolico filtro: il vetro di Ritsos, che separa i vivi dai morti, non permette si tocchino e soprattutto si comprendano, o l’occhio di vetro sulla fronte dei morti in una casa di morti, da cui non si può uscire visto il fiume rosso che la circonda, se non accompagnati a un’uscita che è “un’altra morte, necessaria, inevitabile, scaltra”. Come se qualsiasi contatto fosse davvero impossibile, e quindi la Quarta Dimensione irraggiungibile, se non, forse, come effettiva verità prima della risposta, che Ritsos cerca nel “senza tempo” del mito (o meglio nei morti senza tempo del mito), e Belvisto annienta nel genocidio del sé.
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Le città dell’Incanto dei morti sarebbero dunque proprio il manipolatore, la dittatura inconscia, la tempesta di neve che si stende sui vivi e sui morti (“lievemente” direbbe Joyce, ma “continua” e quindi inesorabile), e al tempo stesso la sospensione intesa come quella verità che nulla ha a che fare con i “dati di fatto”, ma piuttosto con una dimensione di quiete, di coscienza, di beatitudine (Baudelaire) o contemplazione (Eliot), che è l’ossessione di partenza. Questa sospensione Belvisto parrebbe averla vissuta, ma l’ha perduta, colpevolmente, e deve annientare ogni rigurgito (indistruttibile) e ogni persona che immancabilmente la riproponga.
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Se Char è definito da Caproni “oscuro per troppa folgorazione” e Mallarmé vuole rievocare il senso delle cose dall’oscurità, dal non detto, solo tramite allusioni che possono apparire incomprensibili (e quindi sembrerebbe temere – o essere consapevole – che qualcosa potrebbe venire a disintegrare questa verità se solo la si nominasse), Belvisto deve mantenere la non-visione attraverso la luce accecante della neve, bianca, quindi a specchio, e non gialla, quindi penetrante. Il reale e l’irreale appaiono così come due specchi che si riflettono, non escludendosi ma definendosi in totalità e quindi in mancanza.
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La morte di Belvisto è insana in quanto viva imposizione di risposte, e dunque lontana dalla morte come verità, o liberazione in un’altra possibilità. Somiglia alla “morte apparente” di Artaud, richiamo a una certa condizione dell’uomo, che come “mummia”, quindi rinchiuso in un sepolcro (che è il mondo stesso, dapprima interiore), svolge unicamente i riti necessari per sopravvivere, o almeno non decomporsi: “E l’eternità ti sorpassa, poiché non puoi passare il ponte”, A. Artaud.
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La verità potrebbe esistere, ma sta nella tomba del più sperduto cimitero di Belvisto, in bilico sull’abisso in quanto in bilico sulle ipotesi: accettare l’abisso della grande rupe è accettare il vuoto della mancanza di risposta, come nucleo profondo in cui trovare la risposta. Se e quando si troverà una via, la tomba si potrà di nuovo svuotare, e rischiare una nuova presa sul mondo dei vivi.
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L’incanto dei morti narra di una società che svende le salme (e le speranze, e se stessa) nel fallimento più totale dell’essenziale, ma che si potrebbe salvare se dai morti si lasciasse sedurre (la doppiezza del termine incanto ne è testimone). Impone a tutti di avere un ruolo, pratico, legato alla catena di produzione mortuaria, che comincia dalla malattia: attrarre (ma anche fabbricare) malati è prodromico all’arricchimento. Immancabilmente questo paradigma subisce perdite, come guizzi vitali, da ogni poro, in una guerra serrata tra tutti (morti viventi, spiriti, e vivi che appartengono ai morti), sotto lo sguardo attonito e assoluto dell’abisso: “Non ho paura. Ho solo la vertigine” (R. Char).
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Le risposte sono necessità mortali (assassine), che annientano qualsiasi opzione di domanda, e uccidersi in vita per ottimizzarne l’ideale è il necessario prezzo o sacrificio alla luce bianca, che permette l’unica visione rassicurante. Morti viventi o drogati di infusi misteriosi, poco importa, le porte di Belvisto non si apriranno mai alla vita, né alla salvifica luce della morte. Non c’è salvezza benché non ci sia crimine, nessuno infatti (che non sia rinnegato) percepisce più il crimine come tale anche se commesso dai potenti, che sono ormai gli unici a commetterlo: Belvisto in questo è la dittatura perfetta, di cui non si percepiscono gli orrori, proprio come quelli che può arrivare a imporci l’inconscio, se in essa si fonde o meglio si realizza. La violenza repressiva è direttamente proporzionale alla debolezza delle vittime, e la razionalità è la più debole di tutte.
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“Vivo sotto un’eterna repressione, che non si allenta mai, se non quando scrivo” (John Keats).
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Nella morte intravedo la chiave di risoluzione di alcune ossessioni predominanti, o tormenti che ci appartengono più di quanto ne siamo consapevoli, e che cerchiamo di allontanare proprio navigando solo sulla superficie della quotidianità, facendoci violenti con noi stessi e con gli altri per non affondare, non credendo che proprio sul fondale si possa celare la quiete, o verità, e si dipani il mistero.
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Cesellare e limare l’anima, grattare in sottrazione di costrizioni, di interruzioni di orizzonti, del peso dei limiti, seppur evidentemente impossibile, porterebbe a una condizione essenziale, a un eccesso di vita, che potrebbe consentire di afferrare il mistero da vivi. Questo tentato avvicinamento si può scorgere in molti luoghi della storia filosofico-letteraria, ma anche nella psicologia (magari in una delle intuizioni più importanti di Freud, per cui nell’inconscio non esisterebbe il tempo), nella pittura, nell’arte globalmente intesa, che sarebbe lei stessa un mondo altro che indaga questa opportunità.
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I morti per me sono appunto un mondo, eccentrico o spirituale che si voglia definire, da cui poter entrare e uscire per tutta la vita. I richiami, i consigli, le disperazioni o speranze, sono un flusso comunicativo costante, se ci si dispone all’ascolto, e credo siano una parte essenziale dell’esistenza, l’accesso ai quali dipende più da un eccesso di consapevolezza che di follia. La violenza più drammatica è tutta nell’etichettamento, che non è solo una teoria criminologica per cui noi tendiamo a diventare ciò che ci dicono che siamo, ma un subdolo modo per denigrare qualsiasi visione un minimo più alta che il descrittivo quotidiano, dotata dell’improbabile benedizione della certezza.
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Le letture che sconfinano tra le righe del libro sono tante, alcune più tangibili, altre disperse in emozioni, e molte le sto dimenticando. È difficile non scorgere subito il connubio neve-morte di Thomas Mann, e forse lo stesso incanto che altro non è che aver valicato già il passaggio, senza alcuna possibilità di ritorno a valle, che è semplicemente indietro, e dunque una montagna come sogno non onirico, ma palpabile premessa a una rivelazione dl cui assedio l’uomo per terrore e inconsapevolezza si ritrova terrorizzato, ancora più se ne percepisce la calma. Anche Joyce scorge una livella tra i vivi e i morti nella neve, che tutti ricopre senza distinzione, quieta, appunto, ma inesorabile.
Le atmosfere vagamente sospese della sorpresa, della frattura interiore come richiamo a una diversità necessaria, ricordano anche Henry James, la sua convinzione che agli scrittori spetti il compito di moltiplicare le visioni del mondo, e certamente il suo sentimento di emarginazione, che preferiva simboleggiare tramite figure femminili. Come forse certe atmosfere non di orrore, ma di paura come ineluttabile chiave di volta per il ripristino di coscienza, richiamano Lovecraft, e con lui il suo mentore Arthur Machen come simbolo dell’eterno desiderio (e mito) dello ‘scienziato pazzo’. Nel suo Il grande Dio Pan, l’uomo nel suo delirio di impossessarsi dell’aldilà vede sciogliersi il corpo umano pezzo per pezzo, e scomporsi di estasi in estasi fino a ridursi al bramato “principio della vita” in un’apoteosi di potenza, ma dura poco, in breve il principio diviene orribile, e muore, quasi che la verità del corpo sia solo orrore e la punizione necessaria sia mortale, e ancora una volta la pace stia altrove.
C’è molto dei surrealisti sudamericani: Pedro Paramo di Juan Rulfo è uno dei migliori dialoghi con i morti siano mai stati scritti. Non si possono non citare Gogol’, e le sue Anime Morte, o l’isteria della Pietroburgo di Belyj, ma anche il Diavolo di Bulgakov da qualche parte fa certamente capolino.
Rimanendo in Italia, si potrebbe pensare che la rupe di Belvisto somigli in qualche modo alla Fortezza di Buzzati: sollevando nuovamente l’inquietudine del non ritorno, come terrore e insieme invincibile necessità. I canti della mezza morte di Savinio richiamano la necessità dell’abisso come distruzione dei canoni prima di tutto dell’immaginario, per la liberazione non dall’ordine come concetto, ma dalla estrema inettitudine degli ordini umani. Belvisto somiglia pure ai luoghi impossibili di Landolfi, e qualche cosa del torbido, dello stregato interiore della Pietra Lunare gli appartiene, come la tensione verso il simbolo astrale per l’unica forse pensabile liberazione.
Per concludere in Esmeralda c’è anche Kaguyahime, la principessa lunare che cade sulla terra e prova a restarci, ma le è impossibile nonostante ogni tentativo, mentre di lei resta l’aleggiare del soprannaturale, senza motivi né un destino, ma come ineludibile restare del suo passaggio con cui nessuno avrebbe potuto sperare di non fare eternamente i conti.
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La repressione di cui parla Keats mi è profondamente chiara: tutto quello che non è creazione è costrizione, e se si prescinde da questo sarà difficile anche solo tentare di essere un solo gradino più verso l’alto.
Francesca Ricchi
*Venerdì 11 ottobre il libro di Francesca Ricchi, “L’incanto dei morti” sarà presentato a Roma, presso La Nuova Pesa (via del Corso, 530), alle ore 17,30, da Arnaldo Colasanti e Andrea Caterini
**In copertina: William-Adolphe Bougereau, “L’eguaglianza davanti alla morte”, 1848
L'articolo “I morti sono un mondo, eccentrico o spirituale, da cui poter entrare e uscire per tutta la vita”. Le note di Francesca Ricchi intorno al suo romanzo (che squarcia il tema fondamentale) “L’incanto dei morti” proviene da Pangea.
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“Da qui ti chiamo Definitiva e me ne copro il cranio”: l’epistolario estremo di Veronica Tomassini e Davide Brullo
Vera e Nathan sono soli al mondo, spogli, divisi, in un 1950 livido di tragedia. Lei è rifugiata a Tel Aviv, lui vaga per l’Europa, limpidamente ossessionato, in omaggio al tradimento, vendendo carte stellari di pregio. Colpito da un morbo contratto in Armenia, mentre cercava di raggiungerla, ora Nathan è bloccato a Tabriz, in frantumi di delirio. “Senza gestire l’ignoto” è un progetto letterario di Davide Brullo e di Veronica Tomassini. Sul blog della Tomassini potete leggere la lettera di Vera; qui la risposta di Nathan. Continueremo a fecondare l’ambiguo e l’astrale. L’ultima puntata del ciclo è qui.
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Tabriz, 20 giugno 1950
Tre sono le tue vite – una è questa. Aveva la lingua per metà blu, un cervo impennato disegnato sulla guancia destra, una longitudine di rovi tra i capelli – il male, che ha declinazione retorica nel sangue, mi fa sognare troppo e questo, pare, mi lacera le forze. Delle tre vite l’unica che non intendeva considerare – seduta nel cortile dell’ospedale, non chiede soldi per sondare il passato, non cede, ma la pazienza di uno che dia calibro all’oggi – era la quarta, questa, perché, diceva, “per ascendere al futuro bisogna capire ciò che è morto”. Mi svelò la prima – “alle altre arriverai di conseguenza”, disse, bisbigliando, come se avesse un millennio e la sua vigna tra i denti – e io pensai a quel nugolo di versi di William Butler Yeats – Once out of nature I shall never take/ My bodily form from any natural thing,/ But such a form as Grecian goldsmiths make –, che avevo letto a Reims, incisi sulla lama di una spada ornamentale, nella casa troppo sontuosa dell’uomo che avrebbe traviato mia madre, ti giuro, prima che lei mi dicesse. “Eri orafo tra gli Sciti, nel IV secolo prima di Cristo – ti uccisero dopo aver elaborato il collare della regina, perché è inconcepibile la vita di chi offre una forma pura”. Improvvisamente mi sembrò che i bambini orfani, nel cortile, stessero giocando con il sole, lo avessero staccato dalla sua orbita, come demoni minori e passeggeri, troppo capricciosi per curarsi degli inferi – mi parve che si stessero spartendo l’astro, a morsi, e la luce mi lavò l’iride – caddi – la donna, forse, d’età inutile, era il prodotto del secondo o del quarto sogno, geologicamente collegato agli altri.
Non riesco a uscire da Tabriz e tu sei il mio acquartieramento nella quiete – la tua povertà, la tua insufficienza, sono così risolte – Antartide non è abbastanza perché quel bianco – su cui l’astro con lascivia lava e dilata la sua colpa – non rende ragione alla tua bianchezza.
Dicono che a Urmia sia nato Zarathustra – mi sono recato lì con un rabbino – va in giro con un seguito di cani, gli trottano intorno, li tratta come se fossero le dita di Dio. Avrei chiesto di raggiungerti almeno con l’anima, introducendola a forza nel corpo di un colombo – le lettere evocano fraintendimenti, un cataclisma di interpretazioni contrapposte. Le parole hanno quel blu che porta al tradimento, per una banale scomposizione delle virgole in vizio. Ma il morbo mi ha massacrato – come se avessi una voliera nello stomaco – e il rabbino, che ha il nome di uno degli angeli maledetti, ride quando qualcuno è preda del male, perché lo ritiene una chiara testimonianza divina, e chiama i cani Keter, Chokhmah, Binah, come le Sephiroth, gli attributi di Dio – mi ha riportato a Tabriz, in questa prigione di veli e di cure, incastrato al regno onirico. Non so dirti se esista la luna, qui, o se i cani del rabbino l’abbiano spaventata, ad accucciarsi tra Israele e il Mediterraneo e la sua invidia.
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Tabriz, 22 giugno 1950
Della violenza degli Sciti racconta Erodoto – e della valenza dei loro orafi. Come se il sangue fosse equivalente all’oro, come se il massacro assuma lucentezza, come se il raro sia possibile solo tra i sopravvissuti. Viaggiai fino a Buenos Aires – trovando virtù per vite che sono di molto superiori a tre o a quattro – per acquistare una mappa del cielo degli Sciti. Era, appunto, una piccola placca d’oro, intagliata con finezza: negli occhi di un giaguaro che salta – granitico nel desiderio –, sono disposti, da un lato, il nostro pianeta, dall’altro la Luna – sulla lingua è deposto il Sole e sul corpo della bestia si aprono costellazioni di forme sconosciute. Ciò che vale per le parole, vale per le stelle nel cosmo: a seconda di come le interpreti, qualcosa orienta, qualcuno ama, distribuisce o disturba. Ho rivenduto quella placca – per anni ho voluto essere il salto nell’oro di quel giaguaro stellato – a un banchiere di Firenze, dieci anni fa – coltivava serpenti in una vasca, frusciavano con suono di bicchieri e di gambe, intonati al disinvolto cinismo del loro padrone. Capelli laccati, vestiti ordinari come il codice penale, l’impeccabile pinguedine di chi somministra la ferocia come un farmaco. A volte, immergeva un uccello nella vasca, vivo, un passero, una gazza, chiudeva il coperchio, l’uccello urlava in gergo umano, affondava nello scintillante sibilo delle serpi – insieme si muovono con l’acuta prescienza di un fiume – come si getta una pietra in un lago, che smuove il sentimento dell’acqua, poi è nulla. Di ogni luogo, ho bisogno di vedere il potente – chi è efficace alla Storia e ne è l’anatomico esecutore – hanno visi simili a un proiettile – perché agire se l’unico scopo è sparire? Eppure, è più facile vedere un dio che razzola tra gli impuri piuttosto che mentre brandisce una spada, invitando alla costruzione di minareti e alla distruzione di tutto il resto.
Più tardi
Ho parlato di te al rabbino, lasciandogli assaggiare alcune frasi delle tue lettere – le odora e i denti sono decine di ventri e di polmoni, pulsano, si muovono – a Budapest ho sentito odore di arancio nella nebbia e ho pensato che basti un crocevia di luminosità, un luogo dove maceri per anni lo stesso giorno, a stimolare un’etica anomala. Poi, più tardi, mi prende le mani, come se fossero le tue lettere, e dice “lei non può che essere amata perché è la morte” – il viso del rabbino è carta, puoi strapparlo, e sotto ce n’è un altro, poi un altro, infine il muso di un cane, quello di un lupo, un falco: il rabbino sa che ogni cosa è un’altra, che nell’albero c’è la natura di un acquazzone, che la pietra ha in serbo il ragno, ed è per questo che prega, fino a escludersi, per stabilizzare il creato. “La magrezza estenuata, la quiete arcuata con cui ti attende, di chi non vuole e non ha, introdotta alla privazione, il campo che le ha disseccato il corpo e scorporato lo spirito – lei è una risorta, una ricomposta”. Cita testi che non conosco – di cui sono esecutori i celesti – dice “per vivere devi morire in lei” – e la sua indagine è più alta dei vaniloqui della fattucchiera – poi mi chiede chi vorrei essere, e sa che realizzare qualcosa è uccidere.
Più tardi, ancora
Forse scrivere è il mattatoio – ambire a queste lettere che hanno muggiti, e cavalcano, e una mortalità più ambigua della nostra. Per anni ho fatto ingresso nella vita delle donne che ho finto di amare – che ho amato con la sincerità incresciosa della finzione. In dedizione alla loro vita come al corpo – mi sono fatto presentare ai familiari – sono entrato in confidenza con fratelli, cugine, genitori. Mi adatto a ogni parentela, con un garbo riconosciuto. Poi, colto dall’ineludibile desiderio di deludere, mi sono dileguato – consegnando il morbo del sospetto e il demonio del rammarico – restando, in effetti, indimenticabile – è ciò che avrebbe potuto essere che ci compiace, non ciò che è, una estatica dell’ovvio. Per questo ho istituito una fratellanza con te, Vera, disintegrando ogni altro legame – non sai quante vite ho dissipato, e forse è a questo che alludeva l’indovina. Necessità di individuare la zona cruda della vita ed esaudirla, per prepararmi a te.
Ora il virus mi impone l’orizzonte di un uomo che muore, che giace nel male – a Tabriz non esiste notte ma una nicchia dove gli dèi inferiori, quelli dalla faccia di sciacallo, si radunano – l’alba è l’alcova del Dio unico, l’isolato – da qui ti chiamo Definitiva, e me ne copro il cranio.
Nathan
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