#che rodono dentro
Explore tagged Tumblr posts
petalidiagapanto · 17 days ago
Text
«Le parole si riversano a migliaia
dai dizionari appena li apri
come formiche nere, rosse, bianche
quando calpesti un formicaio.
Come trovare, come scegliere
in quell’affollamento di parole
l’unica che serve,
come salvarsi dalla moltitudine
delle altre che ti si appiccicano addosso
cercando di sopravvivere.
Ma sotto la lingua le parole impronunciate,
le solitarie, che non escono dalla bocca,
quelle ti rodono dentro
lasciando carcasse rinsecchite
di uomini che tentarono di parlare
quand’era ormai troppo tardi.
Finché posso
combinare anche solo due parole
esisto» (Titos Patrikios)
Tumblr media
0 notes
Quote
Già da molto si racconta la favola orientale del viandante inseguito nella steppa da una belva inferocita. Per mettersi in salvo dalla belva il viandante balza dentro un pozzo senza acqua, ma sul fondo del pozzo vede un drago che spalanca le fauci per divorarlo. E l'infelice, non usando strisciar fuori per non essere sbranato dalla belva inferocita, non usando neppure saltare sul fondo del pozzo per non essere divorato dal drago, si afferra i rami di un cespuglio selvatico cresciuto nelle fenditure del pozzo e si regge a quello. Le sue mani allentano la presa e degli sente che presto dovrà arrendersi alla fine che lo attende da entrambe le parti, ma continua a reggersi e mentre sta aggrappato si guarda attorno e vede due topi, uno nero e l'altro bianco, che girando uno di qua e uno di là dal fusto del cespuglio a cui sta appresso, si sono messi a roderlo. Ed ecco che il cespuglio è lì lì per schiantarsi e precipitare ed egli cadrà nelle fauci del drago. Il viandante vede tutto ciò e sa che inevitabilmente perirà; ma mentre sta così appresso cerca intorno a sé e trova sulle foglie del cespuglio delle gocce di miele, le raggiunge con la lingua e le lecca. Così anch'io mi reggo ai rami della vita sapendo che il drago della morte, pronto a sbranarmi, mi aspetta inevitabilmente e non posso capire come mai sono sottoposto a questa tortura. E io provo a succhiare quel miele in cui prima trovavo consolazione; ma questo miele ormai non mi rallegra più e il topo bianco il topo nero - giorno e notte - rodono il ramo a cui mi reggo. Vedo chiaramente il drago, e il miele non è più dolce per me. Vedo una cosa sola: il drago inevitabile e i topi - e non posso distogliere lo sguardo da essi. E questa non è una favola ma la vera verità, indiscutibile e incomprensibile a tutti.
Confessioni - Lev Tolstoj
5 notes · View notes
prudenceevery-blog · 6 years ago
Text
Shadowhunters
Chi è amabile non ha necessariamente un bell'aspetto. Il mio ultimo padrone andava sempre a dare safari in Africa e in India, sparando tigri e compagnia bella. Mi ha detto che si può capire se un insetto o un serpente è velenoso dal suo aspetto. Più bello è l'aspetto esteriore, più micidiale è l'animale. Così è Will. La sua bella faccia è tutto il resto nascondono solo quanto sia contorto e marcio dentro. C'è qualcosa di oscuro in lui. Nasconde qualcosa di nero e oscuro. Deve avere un segreto, di quelli che ti rodono dentro.
1 note · View note
lunamarish · 3 years ago
Text
Di nuovo le parole
Le parole si riversano a migliaia dai dizionari appena li apri come formiche nere, rosse, bianche quando calpesti un formicaio. Come trovare, come scegliere in quell’affollamento di parole l’unica che serve, come salvarsi dalla moltitudine delle altre che ti si appiccicano addosso cercando di sopravvivere. Ma sotto la lingua le parole impronunciate, le solitarie, che non escono dalla bocca, quelle ti rodono dentro lasciando carcasse rinsecchite di uomini che tentarono di parlare quand’era ormai troppo tardi. Finché posso combinare anche solo due parole esisto.
Titos Patrikios
1 note · View note
shadow-inside-of-me · 8 years ago
Quote
" C'è qualcosa di oscuro in lui. Nasconde qualcosa di nero e oscuro. Deve avere un segreto, di quelli che ti rodono dentro."
Cassandra Clare, Shadowhunters Le Origini, L'angelo (p.305)
3 notes · View notes
fratur · 8 years ago
Quote
contro-morte 25/29 settembre 1954 io che scavo sotto la mia pelle ogni giorno io non ho sete di verità né felicità né di nome ma della sorgente di questa sete io non porto in giro il mio piccolo demone ben educato ne ho diecimila che mi rodono e io sorrido loro non come una Gioconda non come un budda distante e soddisfatto non come uno yogi dall'anima allenata con cura ma come un uomo per cui nessuna strada è quella buona e man mano che lo scavo là sotto si ingrandisce strane macchine m'appaiono nel corpo e dapprima questo occhio che è spuntato alla base del naso e              che mi fa dubitare del valore dei miei occhi condensazione dello sguardo triangolo all'interno del mio cranio triangolo senza base come un imbuto dove precipitano le grida venute dal midollo spinale e dal ventre (dal ventre da cui emerge un enorme fascio di radici flessibili e dure come aghi d'acciaio) triangolo dove pareti incandescenti tracciano nel cervello una ustione che prosciuga una ustione che è la presenza stessa la presenza delle cose che entrano in me come una discarica una discarica che spezza le squame spezza la paglia e la trave spezza il filtro e i denti bisognerebbe dire come dire la visione chiara di quest'occhio che non ha tenerezza, compassione né cinismo ma che è vuoto e inesorabile come una nuvola di api sopra il baratro la presenza si avvicina zampe di miele tepida dolcezza e subito mille punture di freccia nessun’ altra uscita che il salto ma IL VUOTO SOSTIENE gli occhi guardano attraverso il solo occhio e nella densità di mezzodì le cose mi entrano nel corpo lo spazio si avvolge dentro è immenso allora tentazione di organizzare subito la conquista e di goderne sorge il sole sotto le spalle ho un'anima capisco e la coscienza si crede l'essere ecco il regno dello strumento allora la grazia caca nel cervello e la convessità del corpo tocca quella del cielo e io dormo come un dio tornato alla gola del padre bisogna dire no a no e no a no no bisogna riattraversare la pelle e vuotare fuori tutto questo dentro bisogna piantare gli occhi sul fianco rosso dello scorticato e leccare il collo delle sue vertebre e precipitare in questo buco e sguazzare nel suo ventre e cagliare il suo sperma bisogna forarsi gli occhi per bere lo sguardo degli antenati e la distanza tra la fine e il principio
Bernard Noël
6 notes · View notes
cialtronchic-blog · 8 years ago
Text
Una mia amica di fb ha scritto questo post.  A me è piaciuto tanto che me lo voglio portare anche qui, sulla mia navicella spaziale tumblr, appenderlo qui e tenerlo con me .  Seduta sui gradini di un palazzo leggo. E ciò che leggo mi fa piangere e ridere insieme. Allora piango e rido. E piango, rido e mi emoziono. E mi salta fuori da tutte le parti, un po' dagli occhi un po' dalla bocca...sarà che sono piccola e le emozioni grandi tutte dentro non ci stanno. La gente che passa mi guarda e mi fa sentire come se fossi un colpo di clacson durante una sinfonia. ... E allora mi chiedo in tutto questo mondo nel quale non ci si può permettere un raffreddore e bisogna imbottirsi di farmaci per non saltare la cena con gli amici,il tennis e la riunione... In questo mondo in cui non ci si prende un permesso e non se ne parla con nessuno anche se ci è mancato qualcuno di importante perché non si vuol entrare nel personale... In questo mondo di "...è morta la sua persona cara, ma mai che lo abbia fatto pesare...sempre il sorriso." e "Uh, ha una grave malattia, ma non si lamenta mai, sembra che non abbia nulla"... Gli altri a far "sì" con la testa con moderata approvazione al fatto che ogni energia la si sia usata per conformarsi al grigio dello sfondo, ci si sia al più permessi una leggera distonia per un secondo o poco più. ... E se noi invece ci sentissimo liberi di urlare così forte da spaccare i vetri delle case e dei palazzi per il nostro dolore, per la nostra disperazione... Di piangere e di maledire il cielo e la terra per i nostri lutti, per quei mostri che ci rodono e ci roderanno l'anima finché camperemo e ci spaccano in mille pezzi ad ogni respiro... E se ogni tanto invece, stesse agli altri, a tutti gli altri accettare quelle onde umane e dirompenti. Stesse a tutti gli altri venirci vicini ed abbracciarci forte. Stesse a tutti gli altri commuoversi con noi, testa contro testa, accettando di sentirsi impotenti e piccoli e non facendo sentire impotenti e piccoli noi per quello che proviamo. Stesse a tutti gli altri stare seduti vicini a noi in silenzio, perché tanto lo si sa che certe cose bisogna risolverle da soli e nessuno può togliere e buttare tutto quello che ci schianta. Se solo ci lasciassimo la libertà di vivere quello che viviamo senza chiuderlo a urlare in un barattolo che vibra qui, alla bocca dello stomaco e più a sinistra verso il cuore... Se solo per essere accettati non dovessimo sempre sorridere per permettere più serenamente alla gente di allontanarsi, mentre di spalle per un secondo o due dedica una sincera gratitudine per la nostra forza d'animo che gli garantisce che gli staremo fuori dai coglioni. Se solo la sofferenza e la fragilità non venissero chiamati con dispregio "debolezza". E se capissimo che il provare dolore non lo scegliamo ed è quindi un dovere. E se è un dovere, ce ne prendessimo almeno anche un po' il diritto....
1 note · View note
pangeanews · 5 years ago
Text
“Cercava quello, il cristallo che è in ogni uomo. Tutti avevano segretamente paura di lui”. Il romanzo del giovane Gengis Khan
Sotto la pioggia, le yurte sembravano lanterne, in un vuoto che precede il creato, enormi meduse che, ondeggiando, impongono alla Terra una nuova preistoria. Il cavallo, Serpente, era morto dopo la gara cerimoniale – si sposava la cugina diretta di Höelün-üǰin – e il re, Yesügai-Bagatur, era inginocchiato presso l’occhio del cavallo, parlandogli, implorandogli una pur parziale estasi di pietà. Sarebbe stato seppellito con troppi onori, Serpente, avvolto nel telo dove è cucita la storia del clan, come uno dei figli del re, perché dal rumore degli zoccoli del cavallo è nata la Terra, dalle narici le stelle e i mondi, dallo schiocco della coda e della criniera le moltitudini e dal suo desiderio di comandare e di obbedire l’uomo, è detto. L’occhio del cavallo si dilatava, nella morte, occupando tutto il muso, e Yesügai-Bagatur avrebbe voluto entrare lì dentro, sparire, lasciando decidere al destino di sé, e non più a una erronea, errante, ereditaria idea di impero, di grandezza. Ma fu il figlio a scostare il padre – un figlio che agli occhi del clan ha la forza patrizia di sollevare il dolore di un padre – e dire l’ultimo grazie alla bestia. Il bambino si accovacciò sul petto del cavallo, come se volesse assaggiare il suo latte – e fu ancora la pioggia a dare un ritmo verbale a tutte le cose, rinvigorendo, anche, la nostalgia che agita i mondi al di là, quelli che ci determinano – e vide la nuova vita del cavallo, e come lo avrebbero chiamato i morti, e la lista delle sue attese. Toccò l’erba che cresce nel regno dei morti, Temüǰin, figlio di Yesügai-Bagatur, e fu tentato di divenirne il sovrano, il bambino che sconvolge l’asse della vita, come aveva previsto l’uomo magico che gli aveva dato il nome. Quando si svegliò, prese il volto del padre con entrambe le mani – i ricordi rodono la nostra vita come sabbia – gli disse l’attimo e il dicastero del cavallo, e dove abitava, ora, e Yesügai-Bagatur si sentì nuovo, innaturale, il figlio di suo figlio. Della pioggia va detto che mette ordine alle cose, disciplina l’ambizione in rinuncia e fa del fiume un cielo, una legge.
*
Ardita e beata agli spiriti, Höelün-üǰin curava amorevolmente i figli, prendeva con sé un cestino di scorza, cercava radici di sudan nella steppa e li nutriva. Presso la madre Höelün-üǰin i figli nutriti di cipolla e ciliegie selvatiche crebbero nella dignità di khan
La yurta ha la forma della volta celeste, nella yurta il tempo è immutabile perché le storie che si tramandano sono sempre le stesse e di quelle gli uomini sono un paragrafo, i bambini un verbo. Eppure, di notte, le stelle sono così tante che sembrano una pioggia di frecce, il morso del dio persiano dai diecimila denti. Temüǰin, di notte, tocca le stelle con un dito, sembra giocare a dadi, e le riesce a scostare come se il cosmo fosse un lago. Quando gli uomini sono alla razzia, Höelün-üǰin dorme con il figlio – i fratelli sono invidiosi ma nessuno sfida gli occhi di Temüǰin, tanto profondi che disorientano – Temüǰin è un bambino temuto, è un bambino che non parla, è un bambino solo. Höelün-üǰin canta al figlio il canto con cui fu creato il cielo e la terra, e gli alberi e la pianura, e il clan e la tigre, un canto che precede gli dèi, che ricorda di Dio la parziale sovranità, e degli uomini dice l’arcaica innocenza, l’arcano del candore. Quel canto, arrivato dal mistero, continua a condurre le cavalcate, a impegnare alla ferocia, a elevare a re il desiderio – quando si fermerà, gli alberi, eredi del tempo, cammineranno. Temüǰin aspetta che la madre dorma, le tocca gli occhi e nel sonno la fa parlare con i morti, con il padre, ucciso dai Tatari, e con la sorella, morta a causa di un fulmine. “Amare il punto di cristallo che c’è in ogni uomo, l’ago inalterabile, che non riguarda il carattere, che non si fraziona nei sentimenti, che non è inquinato dall’emozione”, avrebbe scritto, Temüǰin, molti anni dopo, dopo aver cambiato molti nomi e assunto molti onori, orientato dalle raffinatezze della corte cinese, a una principessa di Bucara. Diceva di ricercare “il candore” e che ogni suo atto era “scandito dall’estrema pulizia”: sembra strano che parole come candore e pulizia siano associate all’eccidio, allo sterminio sistematico, e che possa esserci una perla nell’assoggettare. Più di ogni cosa, cercava quello, il cristallo che giace negli uomini – ancora passeggiava nei regni dei morti, per trovare conforto – come ultima strategia di seduzione disse che gli occhi della principessa era come quelli della tigre bianca, “che ringrazia chi uccide e chi la uccide”. La seduzione era inutile – ma Temüǰin, che nessuno chiamava più così, ormai, si illudeva che qualcosa gli sfuggisse, che qualcuno potesse rifiutarlo, fosse finalmente più grande di lui.
Quando dormiva, la madre spesso si agitava e si chiudeva: il figlio, Temüǰin, che stava sveglio a lungo, la custodiva e la cullava, come se fosse il suo uomo. Tutti sapevano che Temüǰin aveva il nome segreto, quello che permette l’accesso nel luogo dei morti, e ne avevano segretamente timore. A volte i falchi, dopo aver ucciso una bestia, la portavano, sviscerata, dove era Temüǰin – il bambino chiamava la madre – il rapace scappava, e il suo becco, conficcato nel cielo, sembrava l’amuleto che si regala a una sposa per prevenire il tradimento.
Davide Brullo
*In copertina: una fotografia di Ken Hermann e Gem Fletcher sull’arte mongola della lotta
L'articolo “Cercava quello, il cristallo che è in ogni uomo. Tutti avevano segretamente paura di lui”. Il romanzo del giovane Gengis Khan proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2Za046D
0 notes
amianto-sui-tetti · 8 years ago
Quote
Poi ci sono queste giornate che ti rodono l'anima. Capitano. La pioggia. Il cielo grigio. Come i miei pensieri. Ecco, è in questi momenti che vorresti qualcuno. Qualcuno accanto che ti aiuti a far ritornare il sole. Quantomeno dentro di te.
Jaco
0 notes