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#bucce delle mele
veggiechannel · 2 years
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Le mele sono uno dei frutti più consumati ed amati. Spesso, però, le consumiamo private della buccia. Perché ci risulta difficile da digerire, perché non ci piace, perché temiamo la presenza di pesticidi anche in quelle bio o del contadino di fiducia o semplicemente per abitudine. Le bucce delle mele sono invece una preziosa risorsa non solo per la nostra salute. Scopriamo oggi insieme come usare le bucce delle mele.
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lestreghedifenix · 1 year
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🍎🌿🍎La magia delle mele🍎🌿🍎
Da eseguire in luna crescente, in qualsiasi giorno a qualsiasi ora.
Le bucce di mela rossa posizionate nel sereno durante la luna crescente, diventano potenti conduttori della sessualità.
Semi di mela mischiati con un po' di miele e posizionati all'interno del tuo profumo preferito, diventano un potente filtro di seduzione.
Ungere alcune candele con succo di mela fresco per realizzare incantesimi d'amore ne aumenterà il potere.
Taglia una mela a metà e dai metà al tuo amore per garantire una relazione prospera.
Per usarla, devi essere innamorato e privo di sentimenti meschini, come rabbia, invidia e amarezza. Quindi, rifletti bene sul tuo stato di passione e pensaci prima di usarlo.
Quando mangi una mela, ricorda di conservare la buccia e il seme, perché saranno importanti in futuri incantesimi. Con la buccia puoi fare incenso e con il seme puoi creare incantesimi di protezione.
Cerca anche di dare a qualche amico, parente o coppia una mela caramellata con cannella. Migliora il rapporto.
#lestreghedifenixtarot #lestreghedifenixwitchtcraft
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thekitchentube · 5 years
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🥣 ᴘᴀsᴛᴀ ᴇ ғᴀɢɪᴏʟɪ ᴄᴏɴ ʟᴇ ᴍᴇʟᴇ ᴇ ʟᴀ ʀᴀᴅɪᴄᴇ ᴅɪ ᴘʀᴇᴢᴢᴇᴍᴏʟᴏ 🔹 Se c’è una pietanza che ha il potere di far balenare nella nostra mente immagini di cucina antica e casalinga, ecco, questa è la pasta con i Fagioli ! E’ certamente una delle ricette più antiche che si conoscano, ancora più antica della scoperta delle Americhe, perché se è vero che è da li che i Fagioli sono arrivati in Europa, assieme alle Patate ed ai Pomodori, tutti ingredienti prima assolutamente sconosciuti nel nostro continente, è anche vero che la varietà di Fagioli “con l’occhio” (quelli con il segno nero del punto di attacco del seme al baccello) erano conosciuti già da Greci e Romani e pietanza abituale nella cucina medioevale 🔹 Per Artusi i Fagioli sono “𝘭𝘢 𝘤𝘢𝘳𝘯𝘦 𝘥𝘦𝘭 𝘱𝘰𝘱𝘰𝘭𝘰” , che grazie a questa fonte di proteine ha potuto far fronte a tante situazioni di povertà e fame, perché un tempo neppur tanto lontano la carne la mangiavano solo i ricchi, anche se noi lo abbiamo dimenticato💰😉 🔹 Le ricette della Pasta con i Fagioli sono davvero tantissime, tutte egualmente gustose e nutrienti, però oggi vogliamo farvi provare questa nostra nuova diavoleria (sapete che ci piace scherzare col fuoco, no ?😈) che ha per protagonisti i Fagioli assieme alle Mele ed alla oramai abituale per chi ci segue Radice di Prezzemolo 🔹 Si cuociono i Fagioli Cannellini e poi se ne ripassa un terzo in padella con la Cipolla, la Carota viola, la Radice e le Mele, di cui abbiamo usato anche le bucce tagliate alla julienne. I due terzi rimanenti si schiacciano e si aggiungono in padella assieme a Brodo vegetale per risottare la Pasta, fino alla cottura e consistenza desiderata. Per ultimo si aggiusta il sale (mai cuocere i fagioli in acqua salata infatti😉) e si aggiunge Olio Extravergine di Oliva a crudo ed una energica macinata di Pepe Nero 🔹 Sarà una Pasta e Fagioli insolita, vi assicuro, ma a nostro avviso vale la pena di assaggiarla per il gusto delicato e leggermente agrodolce che sta favolosamente bene con i Fagioli😋😋😋. Un bicchiere di Pinot Nero e tutto diventa chiaro …🍷e abbiamo detto uno, altrimenti tutto diventerebbe abbagliante 😁 Buon appetito ! 🙋🏻‍♂️🙋🏼‍♀️🎄😘 🔹 (presso Merano, Trentino Alto Adige, Südtirol) https://www.instagram.com/p/B6NcVTEoqpG/?igshid=kio8db392npf
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miglioriprodotti · 5 years
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Top 10: I migliori accessori per la marmellata fatta in casa
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Fare marmellate a casa è molto semplice: hai bisogno solo di frutta, zucchero e di qualche accessorio da cucina. Nella nostra Top 10 dei migliori accessori per la marmellata fatta in casa non tutti i prodotti sono indispensabili, ma chiaramente ogni elemento contribuisce alla buona riuscita della marmellata sia dal punto di vista del gusto sia dal punto di vista estetico.
Qualche consiglio per la buona riuscita della marmellata fatta in casa
La pectina gioca un ruolo importante nella densità della marmellata. La pectina è contenuta in ogni frutto, ma non tutti i frutti hanno la stessa quantità di pectina: agrumi, mele cotogne e mele sono molto ricchi di pectina. Se il frutto è a basso contenuto di pectina, devi aggiungere la pectina al tuo processo di cottura o combinare un frutto a bassa pectina con un frutto ad alta pectina. Ecco delle indicazioni da tener a mente: Frutta con alta quantità di pectina: ad es. Mirtilli, ribes, scorze di agrumi e mele cotogne Frutta moderata quantità di pectina: es. Nettarine, prugne, lamponi, pere, pesche e albicocche Frutta a bassa quantità di pectina: ad es. ciliegie, fichi, uva, arance, mango, marmellata e rabarbaro
Passo dopo passo: marmellata fatta in casa
Passo 1: Lavare i frutti e sbarazzarsi di eventuali steli e sporcizia prima di tagliare a pezzettini, se necessario denocciolare la frutta, in caso di ciliegie puoi aiutarti con un denocciolatore. Se vuoi eliminare anche le bucce puoi utilizzare uno spremitore elettrico o un passa verdure. Passo 2: Mettere i frutti e lo zucchero in una pentola e portare ad ebollizione, girare per non far attaccare la marmellata; puoi aiutarti con un paiolo elettrico. Passo 3: Importantissimo è sterilizzare i barattoli, puoi utilizzare uno sterilizzatore con termometro che rende l'operazione sicura ed agevole. Passo 4: A cottura avventa puoi mettere la marmellata nei barattoli aiutandoti con un mestolo o un imbuto d'acciaio, per maneggiare i barattoli bollenti utilizza il sollevatore di barattoli. Passo 5: Quando i barattoli si sono raffreddati incolla le etichette e blocca il cerchio di stoffa al tappo con un laccetto. Ti potrebbe interessare anche: Top 10: zucchero a zero calorie Top 5: Piccoli elettrodomestici che migliorano la tua quotidianità in cucina Read the full article
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/05/10/gli-impieghi-della-ruta-tra-medicina-popolare-e-magia/
Gli impieghi della Ruta tra medicina popolare e magia
di Gianfranco Mele
  La Ruta è pianta tipica e originaria dell’ Europa meridionale, presente sulle rupi, sui muri, nelle garighe, nelle macchie.
Il botanico ottocentesco Martino Marinosci riporta, nella sua ricerca sulla flora salentina, la presenza di due specie di Ruta nel Salento, la bracteosa (sin.: chalepensis) e la graveolens. Le proprietà sono simili; la prima fiorisce in maggio, la seconda in giugno. Lo studioso salentino accenna nella sua opera alle proprietà emmenagoghe, antiisteriche, sudorifere, abortive, vermicide della pianta. Descrive poi gli impieghi dell’aceto di Ruta bracteosa e Canfora, come farmaco utile a contrastare i deliqui (perdita dei sensi), il tifo, i mal di denti; parla inoltre delle fumigazioni a base di Ruta, come rimedio alle malattie della vista.[1]
Era ritenuta, in Salento come altrove, pianta dalle molteplici virtù medicinali e magiche, e si impiegava per svariati scopi (“La ruta ogni male stuta”: la ruta ogni male spegne).[2] Una variante di questo detto, comunissimo in Puglia, è: “la ruta sette mali stuta”.
L’ infuso di foglie era utilizzato per ottenere azione antispasmodica, antiisterica, antinervosa: la ricetta utilizzata prevedeva l’impiego di “gr. 2 di foglie macerate per 1 ora in gr. 100 d’ acqua bollente” [3]
Si utilizzava per calmare i vermi intestinali, con cataplasmi posti sull’addome; inoltre si curava l’otite con un infuso mescolato nel latte.[4] Dalla macerazione delle foglie in olio di oliva si otteneva un unguento atto ad alleviare i dolori reumatici; con lo stesso unguento, e l’aggiunta di un pizzico di zolfo e bucce di limone, veniva curata la scabbia.[5]. Dalla pianta essiccata si otteneva una polvere utilizzata per disinfestare i giacigli degli animali. [6] Il decotto, assunto in piccole dosi era utilizzato per facilitare la digestione e il flusso mestruale; ad alte dosi era utilizzato a scopi abortivi (in quanto ha l’effetto di provocare contrazioni uterine) o anche veleniferi (infiammazione dell’apparato gastroenterico e genitale). [7]
Anche a causa della forma a croce del fiore aperto, si credeva che avesse la capacità di tenere lontani i demoni e il malocchio.[8] Questa credenza ha, in ogni caso, radici antichissime, difatti già Aristotele ne raccomanda l’uso contro gli spiriti e contro gli incantesimi. Nel Medioevo era pratica usuale depositare corone di ruta sulle tombe per allontanare gli spiriti maligni. Nel Rinascimento, questa pianta veniva chiamata Herba de fuga demonis.[9] Una usanza tipicamente abruzzese della ruta come erba “anti-streghe” era quella di cucire le foglie di ruta in un borsellino da portare nascosto nel seno: erano ritenute ancor più efficaci, le foglie su cui una farfalla avesse depositato le uova.[10]
Sempre in riferimento alla capacità della ruta di tenere lontani gli spiriti maligni, nell’ Iconologia del Ripa la Bontà è raffigurata come una
“donna vestita d’oro, con ghirlanda di ruta in capo, e con gli occhi rivolti al Cielo, in braccio tenga un Pelicano con li figliuolini, e a canto vi sia un verde Arboscello alla riva d’un fiume”.[11]
 Il Ripa spiega il significato della ruta in questa raffigurazione:
“stà con gl’occhi rivolti al Cielo per esser intenta alla contemplatione Divina, e per scacciare i pensieri cattivi, che di continuo fanno guerra. Per questo ancora si pone la ghirlanda di ruta, havendo detta herba proprietà di esser fuggita da gli spiriti maligni, e ne habbiamo autentici testimonij. Ha ancora proprietà di sminuir l’amor venereo, il che ci manifesta che la vera bontà lascia da banda tutti gli interessi e l’amor proprio il quale solo sconcerta e guasta tutta l’armonia di quest’organo che suona con l’armonia di tutte le virtù”.[12]
  In ambito magico-medicinale, era raccomandata contro l’epilessia e contro la vertigine: si usava appenderla al collo pronunciando una formula con la quale si rinunciava al diavolo e si invocava Gesù (secondo il Cattabiani questa usanza ha radici pagane e il rito qui descritto è un esempio di cristianizzazione del rituale più antico).[13]
La Ruta era utilizzata anche come deterrente per tener lontani i topi, in quanto si riteneva che non ne sopportassero l’odore.[14]
Era molto utilizzata come antidoto per il veleno dei serpenti e di altri animali. Anche questo tipo di impiego risale a tradizione molto antica, e Plinio la cita come rimedio sia al veleno dei serpenti che a punture di scorpione, di ragno, di ape, di calabrone e di vespa; inoltre, contro la cantaride e la salamandra, e contro il morso dei cani rabbiosi. A questo scopo, fornisce indicazioni di utilizzo del succo di ruta bevuto con vino “in dose di un acetabolo” (recipiente per l’aceto, e unità di misura pari a lt. 0,068); applicazioni di foglie tritate, oppure masticate, in impacco di miele e sale, oppure bollite con aceto e pepe. Plinio suggerisce l’impiego della ruta anche a livello preventivo rispetto alle aggressioni di animali velenosi:
“si dice che coloro che si siano cosparsi di succo e anche coloro che portano su di sé la ruta non vengano aggrediti da questi animali dannosi, e che i serpenti, se si brucia la ruta, ne fuggono le esalazioni”. [15]
  Pare in effetti, da osservazioni condotte anche recentemente, che le vipere fuggano davvero questa pianta, forse per l’odore a loro particolarmente sgradevole.[16]
Nel capitolo dedicato alla “Difesa contra nimici malefici et venefici”, Cesare Ripa, nella sua Iconologia, riporta la figura di una
“Donna che porti in testa un ornamento di pietre preziose […] in mano una pianta che abbia la cipolla bianca detta Scilla […] e al piede vi sia una donnola che tenga in bocca un ramo di ruta”.[17]
  Più avanti, nella descrizione della figura, il Ripa specifica, in riferimento alla donnola con ramoscello di ruta in bocca (in basso a destra nel disegno), che:
“della donnola che porta la ruta in bocca scrivono tutti li naturali, che se ne provvede per sua difesa contro il Basilisco, e ogni velenoso serpente”.[18]
  Si comprende anche da qui, l’impiego della ruta contro il malocchio: il Basilisco era considerato l’animale per eccellenza portatore di fascinazione con il suo sguardo.
Una raffigurazione della Ruta dai testi del Mattioli
  Forse proprio a causa di questa sua “capacità” di tener lontani gli animali considerati velenosi e di fungere da antidoto ai veleni, era utilizzata anche nei rituali del tarantismo. La Caggiano nel 1931 descrive un rituale nel tarantino, in cui è presente questa pianta:
tutte le comari offrono – in prestito s’intende – fazzoletti, scialli, sciarpe, sottane, tovaglie d’ogni colore, vasi di basilico, di cedrina, di menta, di ruta, specchi e gingilli ed infine un gran tino pieno d’acqua. L’ambiente viene così addobbato e quando tutto è pronto la morsicata, vestita di colori vistosi, sceglie a suo gusto nastri, fazzoletti, sciarpe, che le ricordano i colori della tarantola, e se ne adorna in attesa dei suonatori” [19]
  Teriaca e Mitridazio[20], antichi farmaci contenenti entrambi la Ruta, sono indicati dal Baglivi e dal Boccone come cure per il morso delle tarantole[21], e si ritrovano anche indicate in un manoscritto anonimo (risalente alla fine del XVII sec. O inizi XVIIII) che parla delle cure per i veleni di ragni e tarantole.[22]
Il Mattioli annovera la Ruta con l’ Aceto e la Ruta presa col vino tra i rimedi semplici indicati anche da Dioscoride per la cura dei morsi dei falangi in genere. Ruta Salvatica pesta, o bevuta nel vino, è indicata per i morsi delle scolopendre, degli scorpioni, delle vipere.[23]
La Ruta veniva utilizzata anche dagli esorcisti (decotta in acqua o tramite fumigazione) per liberare gli indemoniati; tuttavia, al pari di altre erbe magiche, risulta ambivalente negli impieghi, come vedremo nelle descrizioni a seguire.
Negli Atti del Tribunale del Santo Officio di Oria si legge di una unzione che causa la morte di una donna. In questa unzione sono presenti la Ruta ed altre erbe non specificate. Petronilla Carbone racconta agli inquisitori di una fattura di morte procurata dalla masciàra Antonella Teppi, di Torre S. Susanna, nei confronti di sua sorella Rosata Carbone (fattura confermata dall’ arciprete di Torre S. Susanna, il quale tenta invano di guarire la donna affatturata con la lettura degli Evangeli). La masciàra viene pregata di far guarire la Carbone da una fattura subita in precedenza (e forse operata, anche quella, dalla stessa Teppi), ma il risultato è un aggravamento della donna, sino alla morte:
“Un giorno io con mia sorella Rosata ce la chiamammo dicendoli per amor di Dio che   vedesse di farla guarire ed essa rispose che non poteva fare niente, e pregatala molte volte, disse che vedrà di aggiustarla, e così se ne andò, la sera notte poi verso hore due venne in casa mia e disse che io dovesse abbuscare un pignatino di oglio da nove persone, sotto pretesto che doveva allumare la lampa alla Madonna ed io per desiderio della salute della suddetta mia sorella buon anima, l’andai a trovare con patto che non dovesse parlare a niuno né all’altra mia sorella né anche a mia madre e buscato che ebbi l’oglio, essa Antonella se lo portò in sua casa e tenutolo ventiquattro hore me lo portò un terzo di quello che era con molte erbe, che vi aveva poste dentro, le quali non conosco altro che la Ruta e mi disse che ne ungesse detta mia sorella à tutte le giunture, e le spalle, e alli nudi delle mani e questo lo doveva fare per nove giorni, tre volte al giorno. […] Cominciò ad andar dal corpo quattro capelli biondi, e ristinco, e nell’altra unzione ne andò sei, à mezzogiorno poi andò un ciciro, e siccome io la ungeva così essa ancora faceva piaghe in quella parte dove toccava l’oglio”. [24]
  Dopo pochi giorni, Rosata muore in preda a dolori e piaghe procurate dall’unguento. Secondo alcune testimonianze siciliane, la Ruta era utilizzata anche per un unguento che permetteva di volare: la mistura era preparata utilizzando olio d’oliva, Ruta, e il sangue di un uomo. [25]
L’ambivalenza della Ruta è tipica di altre erbe utilizzate a scopi magici: al tempo stesso veleno e farmaco, erba funesta ed erba benefica, era inoltre considerata afrodisiaca per le donne e anafrodisiaca per gli uomini.
Negli atti del processo di una strega bresciana, Benvegnuda Pincinella, ricompare la Ruta utilizzata per una liturgia di guarigione, che si apre proprio con una invocazione a “Madonna Ruta” e con una serie di preghiere rivolte all’ erba.[26]
Nella sua opera “Ricettario delle streghe”, il tossicologo Enrico Malizia raccoglie una selezione di antiche ricette da formulari, manoscritti e testi che vanno dal 1400 agli inizi del 1800. In tale ricettario, essenza di ruta insieme a: cinnamomo, radice di eringio, radice di pastinaca agreste, mirra, essenza di prezzemolo, polvere di zafferano mescolati con sciroppo di artemisia, fanno parte di un elettuario per favorire le mestruazioni.[27] Una variante di questo elettuario comprende, oltre a essenza di ruta, cinnamomo e mirra: succo di eringio, seme di nigella, essenza di calendula, succo di salicornia, succo di puleggio, essenza di sabina.[28]
In un ricettario marchigiano del ‘500, di autore anonimo, sono descritte le varie virtù dell’ olio di ruta insieme alla sua preparazione: “recipe frondi di ruta e ponile in acqua in tamburlano, e duecento libre di frondi farà un’oncia d’olio”.[29] Successivamente sono indicati gli impieghi dell’olio così preparato: una goccia, è indicata per sanare infallibilmente “qualsivoglia puntura o morsicatura d’animali”. L’olio è poi indicato anche come rimedio contro la pleurite e contro dolori reumatici vari. “Una goccia” vale anche a sanare congiuntiviti e a tonificare la vista. Due gocce messe nell’orecchio, a sanare il ronzio e ridare vigore all’udito. Inoltre, l’olio di ruta è consigliato come rimedio alla cattiva circolazione del sangue. Ancora, nel suddetto ricettario, ritrovato dal Pezzella, l’olio di ruta va unto sul grembo della gestante per ridare al feto la giusta posizione nel grembo.[30]
Il succo ottenuto dalla spremitura di una libbra di ruta insieme a una libbra di scordio, una di capraria e una di cedro insieme a un’oncia di teriaca erano utilizzati, dopo distillazione, contro febbri, tifo e peste.[31]
L’ “erba ruta ben polverizzata” deve essere data da bere inoltre come rimedio “a chi perde l’intelletto”.[32]
Ungere i piedi “con l’ erba ruta intrisa d’olio” serve “a non stancarti camminando a piedi”.[33]
Ruta ben tritata con miele, serviva come applicazione su ginocchi infiammati.[34]
La ruta è impiegata anche in un procedimento “per conoscere se una persona è affatturata”: si dovevano impiegare aceto, salvia, ruta, savina perforata (valeriana rossa) e una palma benedetta: “falle friggere in olio comune e fallo benedire et onge il capo del patiente e vedrai l’effetto”.[35]
Contro le fatture, si riteneva che la ruta, insieme a succo d’assenzio, funzionasse anche a livello preventivo, difatti “per non essere stregato, farai benedire il sugo d’assenso e ruta e lo darai a bevere ad alcuno che non potrà mai essere ammaliato”.[36]
La Ruta è anche ingrediente dell’ Aceto dei quattro ladroni, ricetta contro-veleno della peste, che la tradizione vuole originaria della Francia (in un periodo tra il XIV e il XVIII secolo) e che si estese in tutta Europa. Era composta (in una delle sue numerose varianti) di aceto, menta, ruta, lavanda, aglio, rosmarino.[37]
Il medico e ricercatore ottocentesco Paolo Mantegazza descrive così la Ruta:
“Pianta del mezzodì dell’Europa coltivata negli orti, condimento ricercatissimo degli antichi, che le attribuivano infinite virtù e fra le altre quella di domare le passioni erotiche. Ora è piuttosto rimedio popolare contro i vermi, l’epilessia e le convulsioni che un vero alimento nervoso. Va però messo fra questi, perchè in Germania si mangia col pane come stomachico e fra noi serve ad aromatizzare l’acquavite”.[38]
  Nel medioevo, la scuola medica salernitana affermava che “Giova la ruta agli occhi, fa la vista assai acuta, e scaccia la caligine. Nell’uom Venere affredda, e nella Donna assai l’accende, e fa l’ingegno astuto. E affinchè non vi dian le pulci tedio, ella, o donne, è ottimo rimedio”.
Il Cattabiani riferisce di un antico detto “Ruta libidinem in viris extinguit, auget in foeminis” (la ruta estingue la libido negli uomini, e l’aumenta nelle donne).[39]
Nell’iconologia del Ripa la ruta è presente anche in riferimento alla castità matrimoniale:
“Una donna, vestita di bianco, in capo avrà una ghirlanda di Ruta, nella destra mano tenga un ramo di Alloro, e nella sinistra una Tortora. La ruta ha proprietà di raffrenare la libidine, per l’acutezza del suo odore, il quale essendo composto di parti sottili per la sua calidità risolve la ventosità, e spenge le fiamme di Venere, come dice il Mattiolo nel 3. lib. de’ suoi Commenti sopra Dioscoride.”[40]
  Nella antica Roma, i semi della Ruta erano impiegati per la preparazione di una bevanda soporifera a base di oppio.
La Ruta graveolens, secondo gli studiosi che si occupano di droghe, ha sospette proprietà psicoattive, allo stato della ricerca non compiutamente dimostrate.[41]
Nel mito, la Ruta è legata ad Afrodite e a Medea attraverso una storia singolare e dai risvolti cruenti: poiché le donne dell’ isola di Lemno avevano trascurato di omaggiare Afrodite, la Dea si vendicò condannandole ad emanare un odore ripugnante (simile a quello della Ruta): così, gli uomini dovettero abbandonare le loro spose, ma supplirono a tale mancanza procurandosi delle concubine straniere. Le donne tradite uccisero così tutti gli uomini. Un’altra versione del mito racconta della maga Medea protagonista del singolare incantesimo: navigando difatti al largo dell’ isola di Lemno insieme agli Argonauti, fu spinta da un desiderio di vendetta nei confronti di Issipile, una principessa di Lemno, che aveva amato il suo Giasone. Così, Medea inquinò le acque del mare di Lemno con la Ruta, che infestò di maleodore le donne che vi si bagnavano.
Secondo alcuni botanici la Ruta graveolens è la mitica erba moly descritta da Omero nell’ Odissea[42] (altri l’hanno identificata nella Mandragora, altri ancora nell’ Allium victorialis).
  Note
[1]Martino Marinosci, Flora Salentina compilata dal Dott. Martino Marinosci da Martina, Lecce, Tipografia Editrice Salentina, Vol. 1, pag. 208
[2] Giuseppe Cassano, Ràdeche vecchie Proverbi moti frasi indovinelli dialettali credenze e giochi popolari tarantini, Stab. Tipografico Ruggieri, Taranto, 1935 , pag. 21
[3]Antonio Costantini, Marosa Marcucci , Le erbe le pietre gli animali nei rimedi popolari del Salento , Congedo Editore, pag. 117
[4]Domenico Nardone, Nunzia Maria Ditonno, Santina Lamusta, Fave e favelle, le piante della Puglia peninsulare nelle voci dialettali in uso e di tradizione, centro di Studi salentini, Lecce, 2012, pag. 400
[5]Ibidem
[6]Ibidem
[7]Ibidem
[8]Ibidem
[9]Alfredo Cattabiani, Florario. Miti, leggende e simboli di fiori e piante, Mondadori, 1996, ried. 2016, pag. 230
[10]Alfredo cattabiani pag. 230
[11]Cesare Ripa, Iconologia di Cesare Ripa Perugino, Libro Primo, Venezia, Tomasini, 1645, pag. 72
[12]Ibidem
[13]Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 232
[14]Domenico Nardone et al. op. cit., pag. 400
[15]Gaio Plinio Secondo, Naturalis Historia, XX, 132-133
[16]Alfredo Cattabiani, op. cit., pag. 231
[17]Cesare Ripa, op. cit., pag. 147
[18]Cesare Ripa op. cit., pag. 148
[19]Anna Caggiano, La danza dei tarantolati nei dintorni di Taranto, in Folklore italiano: archivio trimestrale per la raccolta e lo studio delle tradizioni popolari, VI, 1931, pag. 72
[20]Antico rimedio a base di 20 foglie di ruta, sale, 2 noci e 2 fichi
[21]Paolo Boccone, Intorno la Tarantola della Puglia, in: Museo di Fisica e di Esperienze variato, e decorato di Osservazioni Naturali, Note Medicinali e Ragionamenti secondo i Princìpi de’ Moderni, Venezia, 1697, pag. 105
[22]A.A.V.V., Sulle tracce della taranta, CRSEC – Regione Puglia, 2000, pag. 57
[23]Pietro Andrea Mattioli, Discorsi nei sei libri di Dioscoride Pedacio Anazarbeo Della materia medicinale, Venezia, Pezzana, 1744, pp. 833-837
[24]Atti Curia di Oria, Sortilegi e stregonerie ai tempi di Monsignor Labanchi, denuncia contro Antonella Teppi di Torre S. Susanna, in data 19 maggio 1723, accusata di essere masciàra, ff. 6-7
[25] Macrina Marilena Maffei, La danza delle streghe: cunti e credenze dell’arcipelago eoliano, Armando Editore, 2008, pag. 143
[26] Erika Maderna, La ruta, erba di maghe e streghe. Usi magici da Medea a Benvegnuda Pincinella, marzo 2018, Wall Street International, Website
[27]Enrico Malizia, Ricettario delle streghe, Edizioni Mediterranee, 2003, pag. 203
[28]Enrico Malizia, op. cit., pag. 204
[29] Il tamburlano è un arnese in metallo che serve alla distillazione; “duecento libre di fronde” sta per sette chili di ramoscelli di ruta; un’oncia sta per circa 30 grammi
[30] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1°, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989 , pp. 30-31
[31] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pag. 71
[32] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pag. 65
[33]Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 1 (cit.), pp. 90-91
[34] Salvatore Pezzella, Magia delle Erbe, vol. 1 (cit.), pag. 95
[35] Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 2°, Edizioni Mediterranee, Roma, 1989, pp. 62-63
[36]Salvatore Pezzella, Magia delle erbe, vol. 2 (cit.), pp. 66-67
[37]Enrico Malizia, op. cit., pag. 184
[38] Paolo Mantegazza, “Quadri della natura umana – Feste ed ebbrezze”, 1871, Milano, Bernardoni Edit. ,Vol. II, pag. 660
[39]Alfredo Cattabiani, op. cit, pp. 232-233
[40]Cesare Ripa, op. cit., , pag. 87
[41]Gianluca Toro, Flora psicoattiva italiana, Nautilus, 2010 pag. 117
[42]Alfredo Cattabiani, op. cit., pp. 228-229
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barbaraincucina · 8 years
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“L'amore è come la buona cucina, le cose speciali nascono sempre da ingredienti semplici, ma sono rese magiche dalla fantasia...”
Tre menù completi per una cena speciale. Per soddisfare ogni desiderio.
San Valentino vegetariano
Bavarese agli asparagi e vaniglia con salsa allo yogurt e lime
Scrigno croccante di pasta con carciofi e salsa ai funghi champignon
Polpette di spinaci con granella di nocciola e salsa al gorgonzola
Terrina di mele renette caramellate con gelato alla vaniglia
San Valentino a base di pesce
Gamberoni in crosta di pistacchio con insalata di carciofi
Carbonara di mare con capesante e uova di salmone
Filetto di orata steccato all’alloro con salsa agli agrumi, olive e broccoli
Semifreddo al limone e ananas
San Valentino a base di Carne
Millefoglie di carpaccio di manzo con robiola, carciofi e funghi chiodini
Riso rosso con speck e radicchio
Filetto di maiale alla birra e timo con nocciole e patate viola
Tortino caldo morbido di cioccolato
Ecco tutte le ricette:
Bavarese agli asparagi e vaniglia con salsa allo yogurt e lime
500 g di asparagi 500 ml di latte intero 3 tuorli 150 ml di panna fresca 15 g di colla di pesce
Fare ammorbidire i fogli di colla di pesce in acqua fredda. Pulire gli asparagi, pelarli e cuocerli a vapore per 8-10 minuti. Freddarli in acqua e ghiaccio. Tenere da parte 8 punte di asparagi e mettere i restanti in un mixer. Passare il composto ottenuto al passa verdure. In una ciotola lavorare i tuorli e unire a filo il latte caldo (fatto precedentemente bollire con la vaniglia in infusione) unendovi la colla di pesce sgocciolata e strizzata. Filtrare il tutto. Montare la panna fresca, incorporarla al composto di asparagi e versare il preparato in tanti stampi monoporzione. Lasciare in frigorifero per almeno 2 ore. Nel frattempo preparare la salsa di accompagnamento: in una ciotola sbattere con una frusta lo yogurt greco (bianco) con un filo di panna fresca, l’olio evo, sale, pepe e zeste di lime. Servire la bavarese ribaltandola sul piatto e decorando con la salsa e fiori eduli.
Scrigno croccante di pasta con carciofi e salsa ai funghi champignon
Impastare la farina con le uova (nella proporzione di un uovo ogni etto di farina) e lavorare fino ad ottenere un impasto liscio e omogeneo. Formare una palla, coprire con una ciotola e farla riposare. Stendere la sfoglia e ricavare 6 quadrati di circa 15 cm di lato e 12 dischi di 6 cm di diametro (regolarsi in base alla misura degli stampi o del coppapasta a disposizione). Mondare i carciofi eliminando le foglie più esterne e l’eventuale fieno interno, tagliarli a spicchi e conservarli in acqua e limone fino al momento dell’utilizzo. Versare un velo di olio evo in una padella, unire lo spicchio di aglio in camicia e farlo rosolare senza bruciarlo, eliminarlo e unire i carciofi ben scolati dall’acqua. Pulire i funghi champignon e tagliarli a pezzi non troppo piccoli, saltarli in padella con olio evo, sale e pepe e uno spicchio di aglio in camicia. Sciogliere il burro in una casseruola, unire la farina e fare tostare, unire il brodo vegetale (o acqua e latte) e portare a bollore mescolando, sistemare di sale e cuocere per una decina di minuti a fuoco dolcissimo, alla fine unire i funghi, il parmigiano grattugiato e amalgamare. Cuocere la pasta in acqua bollente salata, scolarla e asciugarla su un telo. Con i quadrati rivestire 6 stampi monoporzione imburrati o servirsi di anelli coppapasta grandi. Riempire alternando il ripieno con la salsa ai funghi e i dischi di pasta, chiudere a pacchetto, imburrare e passare in forno a 180° per 15 minuti circa gratinando gli ultimi minuti. Velare i piatti con la salsa rimasta e adagiare al centro uno scrigno accompagnando con i carciofi. Da una ricetta di G. Allari
Polpette di spinaci con granella di nocciola e salsa al gorgonzola 
Rosolare gli spinaci in una padella con poco olio evo e poco burro. Farli intiepidire quindi tritarli a mano e mischiarli in una ciotola con le patate lesse schiacciate. Aggiungere il tuorlo, il parmigiano e poi regolare di sale e pepe. Formare delle polpette con le mani e passarle nella granella di nocciola e disporle su una teglia foderata di carta forno. Infornare per circa 10 minuti a 180°. In un pentolino mettere il gorgonzola a tocchetti e farlo sciogliere in poca panna. Servire le polpette sulla crema di formaggio. Libera ispirazione da una ricetta di B. Barbieri
Terrina di mele renette caramellate con gelato alla vaniglia
Affettare una mela con la pelle per il largo, in fettine sottili (3 mm. circa) servendosi dell’affettatrice. Preparare una placca da forno con un foglio di carta da forno cosparso di zucchero a velo. Adagiarvi tutte le fettine di mela senza sovrapporle. Setacciare altro zucchero a velo sopra le fettine di mele (abbondante) e infornare a 100° finchè non saranno secche (due ore circa). Preparare un normale caramello con acqua e zucchero. Tagliare il pane da tramezzini a dischetti servendosi di un coppapasta e inzupparli nel caramello. Mettere un dischetto di pane sul fondo di ogni stampino di alluminio monoporzione. Pulire, pelare e tagliare sei mele a piccoli cubetti regolari e cuocerli in una casseruola con una noce di burro e una spruzzata di succo di limone, col coperchio, a fuoco basso e mescolando ogni tanto. Quando le mele saranno ben cotte passarle al setaccio o nel passaverdura. Unire quindi 100 gr di zucchero e 4 uova intere. Mescolare bene e versare il composto negli stampini monoporzione sopra la fetta di pane. Cuocere in forno a bagnomaria per 30 minuti a 180°. Sformare i tortini di mela, rovesciarli sul piatto e guarnire con le fette di mela disidratate e una pallina di gelato alla vaniglia.
Gamberoni in crosta di pistacchio con insalata di carciofi 
Pulire i carciofi eliminando le foglie più dure e l’eventuale fieno, poi tagliarli a lamelle, lasciarli in ammollo in acqua e limone, scolarli bene e condirli con olio evo, sale e pepe, zeste di limone e timo fresco sfogliato. Pulire le code dei gamberi eliminando la corazza e il budellino nero, lavarli e asciugarli tamponandoli con carta da cucina. Sbattere in una ciotola un uovo con la forchetta. Passare le code prima nella farina, poi nell’uovo e infine nella farina di piastacchio e nella granella di pistacchio mescolate assieme. Friggere le code di gambero in olio profondo (di arachidi) dopo averle infilzate con uno stecchino. Scolarle dall’olio e farle asciugare su carta da cucina, insaporirle con sale e pepe e servirle su di un letto di carciofi crudi. Da una ricetta di G. Allari
Carbonara di mare con capesante e uova di salmone 
Tagliare le capesante a cubetti e scottarle in padella col burro, salare e pepare. Stufare i porri in olio evo e versarvi sopra la panna fresca lasciandola ritirare all'incirca della metà dopodiché, fuori dal fuoco, inserire un paio di tuorli, mescolare bene, frullare e passare al setaccio. Lessare la pasta e condirla con la salsa, le capesante e le uova di salmone. Terminare con una macinata di pepe bianco. Da una ricetta di M. Zanardi dalla pagina Fb di Gusto Sapiens.
Filetto di orata steccato all’alloro con salsa agli agrumi, olive e broccoli
Sfilettare le orate e parare i filetti, ovvero dargli una forma gradevole. Incidere trasversalmente il filetto dalla parte della pelle in due punti tenendolo con il pollice e l’indice creando una “cunetta”. Infilare il coltello appena sotto la pelle e passare da un’incisione all’altra così da creare un manicotto in cui infilare la foglia di alloro. Salare e pepare i filetti sul tagliere. Lessare e freddare in acqua e ghiaccio le cime di broccolo. Pelare a vivo l’arancio e ricavarne delle fettine perfette senza la pellicina e spremere altre due arance. Scaldare una padella, unire olio evo, scalogno tritato e vino bianco. Quando soffrigge unire il succo degli agrumi. Far bollire per ridurre e quindi filtrare. Unire un filo d’olio crudo alla fine e montare con un frustino. Spadellare a fuoco vivace i filetti in padella con olio evo e aglio in camicia, iniziando a cuocere dalla parte della pelle e girare una sola volta. Servire i filetti di orata ricoperti di salsa di agrumi e le fettine di agrumi, le cimette di broccolo e olive nere taggiasche tagliate al coltello.
Semifreddo al limone e ananas
150 gr albumi 225 gr zucchero 90 ml acqua 400 ml panna
Preparare la meringa italiana sciogliendo sul fuoco lo zucchero con l'acqua a 121°. Nel frattempo montare gli albumi a neve e quando cominciano a montare rallentare la velocità e unire a filo lo sciroppo, aumentando la velocità via via, finché si raffredda. Montare la panna ben fredda. Incorporare i due elementi in parti uguali con una spatola, dal basso verso l'alto (base del semifreddo).
Pelare i limoni col pelapatate e tagliare le bucce a julienne e spremere il frutto. Sbollentare 3 volte le bucce per togliere l’amaro (tuffare un minuto le bucce nell’acqua, scolarle e freddarle sotto l’acqua fredda del rubinetto e ripetere). Mettere lo zucchero in un pentolino sul fuoco insieme ad un po’ d’acqua (coprirlo appena per farlo sciogliere, come per fare un caramello, non bisogna mescolare). Fare bollire e quando comincia ad essere sciropposo  tuffarvi le scorze e abbassare il fuoco. Dopo un paio di minuti unire il succo. Cuocere ancora un po’ per farlo addensare (considerare che raffreddando si addenserà ancora).
Pulire e tagliare l’ananas a piccoli cubetti. Spadellarlo in una padella antiaderente con dello zucchero semolato (non deve caramellare, solo cuocere un po’ ma soprattutto buttare fuori l’acqua).
Aggiungere alla base l’ananas spadellato, scolato e raffreddato, parte della salsa di limone raffreddata. A questo punto il semifreddo è pronto per essere messo in freezer a riposare per almeno un paio d’ore. Al momento di servire accompagnare con una parte di salsa al limone e con una macedonia di agrumi freschi pelati a vivo.
Millefoglie di carpaccio di manzo con robiola, carciofi e funghi chiodini 
Pulire i funghi chiodini dalla parte terrosa, tagliare i più grossi in due, poi saltarli in padella con olio evo, uno spicchio di aglio in camicia, sale e pepe; al termine profumarli con il timo sfogliato. Pulire i carciofi e tagliarli a fettine sottili e conservarli in acqua e limone. Insaporire un filo di olio evo con uno spicchio di aglio in camicia, eliminarlo e unire i carciofi ben scolati dall’acqua, portare a cottura unendo un poco di brodo se tendono ad asciugarsi, al termine insaporire con sale e pepe. Con un coppa pasta largo 8/10 cm ritagliare dal pane in cassetta 4 dischi. Disporre sul fondo del coppapasta la fettina di pane, poi unire un poco di funghi, una fettina di carpaccio di manzo condita con sale e pepe, coprire con i carciofi, continuare alternando gli ingredienti e pressando bene ad ogni strato e terminando con le verdure. Passare le millefoglie in forno a 200° per 8/10 minuti a seconda del grado di cottura desiderato, negli ultimi minuti aggiungere la robiola. Sfornare le millefoglie e sfilare i coppapasta delicatamente. Da una ricetta di G. Allari
Riso rosso con speck e radicchio
Lessare il riso rosso (riz rouge) in abbondante acqua e salata per 40 minuti circa. Pulire il radicchio e tagliarlo a julienne. In una padella versare un filo di olio evo e scalogno tritato e farlo rosolare a fiamma dolce, unire il radicchio e cuocere a fiamma vivace mescolando, al termine insaporire con sale e pepe. A parte rosolare lo speck tagliato a julienne in una padella senza condimento fino a quando risulta croccante. Scolare il riso unirlo nella padella insieme al radicchio, una manciata di parmigiano e un trito di erbe aromatiche fresche e amalgamare il tutto.
Filetto di maiale alla birra e timo con nocciole e patate viola 
Marinare il filetto di maiale intero per un’ora con birra e timo. Toglierlo dalla marinatura e sgocciolarlo bene. Rosolarlo con un po’ di olio evo e burro, con aglio in camicia e un mazzetto di erbe aromatiche fresche; sfumare con la birra rimanente e portare a cottura. Lessare le patate viola in acqua, pelarle e schiacciarle con una forchetta. Condirle con olio, timo e sale. Disporre le patate al centro del piatto, affettare il filetto e disporlo sulle patate ed ultimare con il fondo di cottura filtrato e le nocciole tritate grossolanamente. Da una ricetta di A. Incerti Vezzani dalla pagina Fb di Gusto Sapiens.
Tortino caldo morbido di cioccolato
180 cioccolato amaro al 50% 100 burro 75 zucchero 30 cacao 15 farina 5 uova
Sciogliere a bagnomaria o nel microonde il cioccolato a pezzi con il burro. In una planetaria montare le 5 uova con lo zucchero finchè diventano spumose. Unire il composto spumoso al cioccolato fuso, delicatamente e con una spatola, quindi unire anche la farina ed il cacao (setacciati insieme), lavorando sempre con una spatola. Versare in cocottine (da portare in tavola o in alluminio da ribaltare sul piatto) riempite per 3/4 e cuocere in forno (all’ultimo minuto) a 180° per 10 o 12 minuti. Servire caldi (ma non bollenti) facendo scivolare sopra una quenelle di gelato alla vaniglia. N.B. Si possono anche surgelare e cuocere da semi surgelati, così il cuore rimarrà 'molto' morbido, ma la cottura sarà più lunga. Ricetta di M. Santin
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marikabi · 4 years
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È sempre il Giorno della Memoria
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In questi nostri attuali tempi di hate speech (discorso d’odio), di rancore diffuso, di spasmodico bisogno di un nemico, si riconferma fondamentale ricordare il pericolo ferale della banalità del male.
L’Olocausto è il peccato più grave che la Storia ricordi, proprio per la normalizzazione continentale dell’orrore.
Della Shoah deve parlarsi continuamente perché è sempre il Giorno della Memoria, non solo il 27 gennaio. Lasciati andare, gli uomini, senza il sostegno della Cultura, diventano rapidamente preda di istinti violenti e l’abitudine al dileggio prima e alla violenza poi s’instaura come normalità.
Non è e non deve essere normale che nel Terzo Millennio s’inneggi alla Kristallnacht (l’ultimo episodio a Mondovi’, cui si riferisce la foto di copertina), si ghettizzi l’umanità per il colore della pelle, o la si discrimini per genere.
Si deve ricordare, si deve raccontare ciò che è stato, affinché possa non succedere più. Bisogna scendere nell’orrore, per non sbagliare più. Personalmente, vorrei che tutti potessero visitare un campo di sterminio ed in silenzio - col freddo della Morale nelle ossa - camminare sulla terra impastata  con le ceneri di uomini e donne, rinchiusi senza colpa, ammazzati per l’esaltazione ed il parossismo di un odio propagandato come normale, legittimo, addirittura patriottico.
Numerose sono state le manifestazioni in provincia per onorare il Giorno della Memoria.
Sabato mattina ho partecipato (quale spettatrice) all’incontro tra la classe V della sezione B del liceo Scientifico “P.S. Mancini” ed il figlio di un internato militare italiano, un IMI, eroi dimenticati, così a lungo bistrattati dallo Stato, solo da pochi anni onorati con il conferimento delle Medaglie al Merito.
Per l’organizzazione del dr Carmine Clericuzio e della Prof. Margherita Faia, la libreria L’Angolo delle Storie (un fiero presidio di resistenza culturale) ha ospitato Antonio Di Stasio, figlio di Luigi, internato nella Prussia orientale all’indomani dell’Otto settembre 1943.
Come ci ha ricordato il figlio di Luigi Di Stasio, un eroe non è solo quello che compie atti memorabili, ma anche - o forse soprattutto - l’uomo comune alle prese con la sofferenza continua e spesso inspiegabile, ovvero quando l’offesa alla propria fondamentale dignità di essere umano diventa una sopportazione non più comprimibile.
Come tanti sopravvissuti ai campi, non da ultima Liliana Segre, anche Luigi decise di parlare tardi della sua esperienza, aprendosi ai nipoti. C’è un comune denominatore che lega tutti i reduci: il lungo silenzio prima di svelare il proprio dolore al mondo.
Si può testimoniare ancora, a distanza di anni, o forse di secoli, perchè il Dolore - come l’Arte - può essere un oraziano monumento aere perennius.
Anche Luigi Di Stasio ha sofferto la vergogna e la colpa di essere sopravvissuto.
Attraverso il racconto del figlio, abbiamo saputo che la bucce di patate in prigionia erano il più buono dei dolci. Abbiamo appreso che la pietà delle donne polacche faceva loro lanciare cipolle o mele al di là della recinzione. Abbiamo capito che c’è un limite anche alla vendetta, quando Luigi rifiutò le armi - offerte dopo la liberazione - per sparare ai nazisti quale sfogo per le torture subite.
Luigi divenne un eroe involontario e quando tornò (sei mesi dopo la liberazione dal campo) al paesello, funse da figlio surrogato per tutti i genitori che avevano perso in guerra i loro.
La guerra gioca brutti scherzi alla prospettiva morale delle popolazioni, tanto che in tempi di genocidi e vittime, ci fu anche qualche zelante tutore dell’ordine che si permise di denunciare il padre di Luigi - affranto per aver perso più di un figlio in battaglia - con l’accusa di bestemmia. 
La retorica non serve. Parole roboanti e promesse non sono più utili del semplice racconto dei fatti- da Primo Levi a Liliana Segre, da Shlomo Venezia ad Anna Frank - per annullare il potere dell’indifferenza, del ‘cosa vuoi che sia’, delle spallucce che la recente storia politica sta offrendo al ricordo dell’immane tragedia.
L’incontro di sabato mattina si è arricchito di contributi: dalla lettura delle pagine sull’esclusione di Liliana Segre dalla scuola, ad otto anni, alle storie di eroi e vittime, Ginettaccio Bartali, Alfred Nakache (il nuotatore di Auschwitz), Victor Perez, Vittorio Staccione (il mediano di Mathausen).
Due studenti hanno recitato toccanti brani di Alberto Segre e Joyce Lussu.
Consiglia Aquino ha letto un testo consolatorio sulla Morte, per riconciliarci, sì, col Dolore della Storia, tuttavia senza mai dimenticare che la Memoria è sorella della Giustizia. Senza ricordo siamo condannati alla barbarie.
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taccuindivino · 6 years
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Baccanale 2016, Il vino e le rose SAS, 14,5 gradi.
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La Terra Trema è una manifestazione novembrina che ho nel cuore: la fondò l'anziano Veronelli  in uno stato di ultima tensione morale, e tanto basti. Il livello dei vini che si trovano in assaggio al milanese Centro Sociale Leoncavallo in queste occasioni non è omogeneo, ma il clima è assai festoso ed i vini sono davvero artigianali senza compromessi. Insomma: il conservatore anarchico che è in me ne viene ampiamente solleticato.
Lo scorso novembre assaggiai per la prima volta i vini della Società Agricola Semplice “Il vino e le rose” e rimasi conquistato sia dal genuino ed un po’ ingenuo entusiasmo di chi stava dall'altra parte del banchetto, sia dall'allegra veracità dei vini proposti. Lo stile di vita in azienda, che capisco trovarsi a Momperone, in provincia di Alessandra, nella zona dei Colli Tortonesi, presso l'oasi di Mastarone a Momperone, mi pare piuttosto originale, perché sembra -sbaglierò- quello di una comune.  La palma dell'originalità va a questo Baccanale, Un Nebbiolo vinificato sulle bucce fresche della barbera, secondo una vecchia tradizione piemontese, che mira ad ottenere un vino col corpo e la freschezza acida e fruttata del Barbera, con il profumo e il gusto del Nebbiolo.  Come  gli altri vini della firma, non contiene solfiti aggiunti, non si usano lieviti autoctoni e, mi spingerei a dire, nessuna pratica enologica che preveda additivi o coadiuvanti chimici.
Ed ora eccolo qui nel mio calice, durante un solitario pranzo in una calda giornata di giugno, 7 mesi dopo l'assaggio in fiera, che avranno sicuramente aiutato il suo assestamento.
Il Baccanale 2016 è rubino di media trasparenza, tuttavia profondo per la complessità dei riflessi, che vanno dal granato al  purpureo. Lascia lacrime di lentezza irregolare e fitte, un po’ evanescenti. Profumo di intensità superiore alla media, complesso, fragola e ciliegia e prugna maturissima nel cuore  che si ammantano di note più solari e campestri ad un estremo e  più scure e gravi, all'altro: la paglia al sole, la ginestra, la camomilla, il timo e la polpa di mele rosse croccanti; poi uva appassita, note segaligne, di asbesto ( intendendo con questo termine un insieme di odori specifici di metallo e di carbone),affumicate, empireumatiche. Qualche sbuffo di aldeide e in ultimo un tocco lievissimo di cipria, come di giovane contadina d'antan allo specchio - il catino a lato -  per farsi bella, nella penombra della casa. Al palato è ben secco,  di medio corpo, polposissimo, scorrevole, ampio,  naturale, con quel certo asprigno dell'uva appena spremuta; difatti, è teso da un'acidità netta e felice e da una salinità marcata e sfavillante. Il tannino è poco più che accennato, ma gioiosamente rustico e irregolare,  per nella sua grana sottile. È molto saporito ed il suo sale contribuisce ad esaltarne la percezione, ravvivando i contrasti. Ha un finale di buona lunghezza e di discreta, intensità, con una nota amarognola che a me piace, stuzzica intriga. Grandissima bevibilità : anche caldo - ma te lo consiglio tra i 16 e i 20 gradi, amica o amico che mi leggi, secondo tuo gusto e abbinamento -  se ne finirebbe una bottiglia; almeno, io la finirei. Molto bello e pulito, il suo bouquet,  anche a calice vuoto: dove emergono nitidi il profumo di melograno e qualche spezia, come curcuma e cumino,  che erano rimasti sottotraccia. Sulla tavola si esalta, con una flessibilità di abbinamenti a tutta prova: mi ha tenuto compagnia, ottimamente, su lenticchie delle Crete Senesi condite con olio d'oliva di Seggiano (un taglio di olivastra seggianese, leccano e moraiolo), sale , pepe, zafferano, pecorino romano; e con fette di pane ed patè di olive taggiasche. Tuttavia, non esiterei a misurarlo a tutto tondo, persino sulle zuppe di pesce o, per esempio, sul tonno, sullo spada, su certo pesce azzurro ( i missolittini del Lago di Como, ad esempio).
È un vino indubbiamente ruspante e con una spiccata individualità, ma possiede un suo  equilibrio instabile ed un'autenticità vernacola trasparente: ha in pieno forza di carattere.
Viene, bevendolo - perché un vino così non si sorseggia, eh- da sollevare un tema, che mi ronza alla mente dopo parecchie prove e controprove: certi vini - chiamiamoli artigiani, naturali, sempliciotti, rustici, contadini, come ci pare - che non hanno quell'equilibrio perfetto ricercato dagli appassionati, me compreso, a tavola si sposano meglio col cibo; come se le loro fallanze gustative e gli squilibri, sovrapposti a quelli che la maggior parte dei cibi possiede, trovassero miglior matrimonio rispetto ad una ipotetica perfetta proporzione. Allora, delle due l'una: per uno sposalizio d'amore, o si accettano mancanze e disarmonie oppure la perfetta proporzione  assurge assurge a livelli di intensità tali da risultare inattaccabile: la flessibilità come traguardo ultimo di un'estrema forza interiore.
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junkolorelai-blog · 7 years
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Oggi 3 #ricette da utilizzare con il nostro #iusviagreen #vegan #sportivi #intolleranza #allergia 1. #tisana / #infuso alla #mela e #cannella Sbucciare 3 mele e mettere le bucce in 1 litro di acqua Far bollire , spegnere il fuoco e lasciare intiepidire aggiungendo 1 cucchiaino di cannella Da bere durante la giornata aiuterà a : - sentirsi sazi - bruciare i grassi - placare la fame - ridurre la ritenzione 2. Acqua #detox Ingredienti : - 1/4 di mela - 750ml di acqua - un pizzico di cannella - zenzero Lasciare riposare almeno 10 minuti 3.Per ottenere una #colazione #tonificante Mettere nel mixer/frullatore -1 banana - 1 misurino di #iusviagreen ed aggiungere una delle due acque ricette sopra indicate :) Per info clicca sul link http://www.esteticaelavoro.it/iusvia-green?tracking=587a93b5de22c
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italian-wine-lover · 8 years
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C'è Prosecco e Prosecco e... Prosecco! Az. Agr. Matiazzo Leo - Una piccola Cantina per tre denominazioni
Oggi si torna a parlare di Prosecco, ormai croce e delizia dei winelovers, con gli “enofighetti” a denigrarlo e quelli di più ampie vedute ad esserne continuamente incuriositi, sia per il suo boom degli ultimi anni che per gli spunti di approfondimento che questo vino può donare.
Panorama Valdobbiadene
Iniziando proprio dal fatto che “c'è Prosecco e Prosecco e Prosecco...” potrei andare avanti all'infinito o almeno fino ad averne uno (tipo) per denominazione e per tipologia. Se poi ci mettiamo l'interpretazione del singolo terroir e, addirittura, di alcuni veri e propri cru, è palese che cercare a tutti i costi di sminuire un vino solo perché stia, effettivamente, facendo numeri da capogiro e per la sua innata capacità di essere apprezzato in maniera così trasversale e democratica, sia quanto meno eccessivo.
Sia chiaro, di errori ne sono stati fatti e se ne stanno facendo ancora e, probabilmente, data la noncuranza e la negligenza di alcuni, se ne faranno, ma esistono cantine e vignaioli che vanno tutelati. Per lo più “piccole” realtà a conduzione familiare che si fanno il mazzo e che credono nelle potenzialità del territorio e nel poter dar vita a vini che non siano solo “facili”, bensì apprezzabili anche dai palati più esigenti, con un approccio low profile e con una grande voglia di far emergere peculiarità e diversità di cui l'area produttiva del Prosecco può contare. Uno dei vantaggi di disporre di un'areale effettivamente “troppo” allargato.
L'azienda di cui vorrei parlarvi oggi è quella capitanata da Jessica Mattiazzo, che con la sua famiglia conduce i vigneti dell’Azienda Agricola Mattiazzo Leo.
Una realtà che ha base nella zona di Valdobbiadene chiamata “Il Settolo”, fra le colline e il fiume Piave. Si tratta di una cantina familiare, di quelle ricavate in un piccolo rustico, che ha visto ospitare generazioni e generazioni della stessa famiglia per più di 100 anni.
Il Prosecco Leo Vanin è ottenuto esclusivamente dalle uve raccolte nei circa sei ettari di terreno che che la famiglia Mattiazzo segue a 360°.
La cosa che mi ha incuriosito di più di questa cantina è stata la possibilità di poter ricondurre i vari assaggi a tre delle principali denominazioni del Prosecco spumante, che l'azienda più produrre grazie alle diverse giaciture degli appezzamenti: Valdobbiadene Superiore DOCG, Asolo Superiore DOCG, Treviso DOC.
A conferma della tesi di potenziali diversità e di territori diversamente vocati ed interpretabili per la produzione di Prosecco, ho chiesto a chi, di certo, ha più di me il polso della situazione, quali siano le peculiarità di ciascuna zona a livello pedoclimatico prima ed organolettico poi:
Valdobbiadene DOCG: per questo spumante utilizziamo le uve di due vigneti situati nel comune di Valdobbiadene. Una parcella è proprio in paese mentre l'altra è situata nella vicina frazione di Santo Stefano. Per entrambe, vista anche la vicinanza, il suolo risulta abbastanza magro con una composizione varia di sedimenti morenici, calcare, arenaria e una piccola parte di argilla. Grazie al terreno abbastanza permeabile ed asciutto non si riscontrano problemi di ristagno o di umidità di risalita. Il vino che ne deriva è speculare, molto magro, raffinato ed elegante. La componente calcarea inoltre accentua i sottili sentori floreali e fruttati tipici del vitigno prevalente. 
Sia per questa tipologia che per il Doc Treviso, beneficiamo della protezione del monte Cesen che si trova proprio a ridosso della cittadina di Valdobbiadene. Esso garantisce una buona protezione dalle gelate primaverili e in periodo estivo assicura lievi brezze da inversione termica. 
Treviso Doc: vengono raccolte uve nei vigneti attigui alla cantina, sempre nel territorio di Valdobbiadene, ma al di fuori del territorio designato per la DOCG, la zona nota con il nome di Settolo, sede di un'importante parco naturalistico. 
A 200 mt in linea d'aria scorre il fiume Piave, qui il suolo è ben suddiviso fra ciotolo, argilla (nella zona più alta) e sabbia. Questa varietà fa nascere delle uve molto interessanti dal punto di vista organolettico, la componente magra enfatizza e spinge su profumi molto fruttati, la parte grassa (argillosa) fornisce invece una certa "spalla" che normalmente manca al vitigno prevalente. I venti che seguono il greto del fiume in direzione Nord-Sud e che trovano nel Settolo il primo "sfogo" dopo aver percorso il canale feltrino permettono alle viti di non andare in sofferenza nei mesi caldi e anzi aiutano a sviluppare dei valori di acidità molto buoni per la produzione di basi spumanti. 
Un territorio che da buonissimi risultati anche per lo Chardonnay ed il Pinot Nero, coltivati dall'azienda.
Asolo DOCG: in questa denominazione l'azienda possiede un'unica particella situata nel comune di Cornuda. Il sottosuolo è prevalentemente argilloso con una parte minima di morena. Data la natura del terreno i vini risultano generalmente più grassi e meno raffinati rispetto alla zona di Valdobbiadene. Per questo motivo si è scelto di spumantizzare nella versione Brut, attualmente siamo a 9 gr./l ma si stanno testando delle microspumantizzazioni a 7 e a 5 gr.. Per contro la maggiore "spalla" permette un'evoluzione nel tempo più costante e preserva lo spumante dall'invecchiamento "standard" dei 12 mesi, in annate generalmente buone e con cantine ben mantenute si possono raggiungere tranquillamente i 24 mesi senza rinunciare alla piacevolezza caratteristica.
Per esperienza personale, più di assaggio che enologica, in quanto conosco onestamente poco tutta l'areale di produzione del Prosecco, già solo assaggiando, ad esempio l'Asolo DOCG di questa azienda e comparandolo con quello di altre, ribadisco quanto detto sopra, riguardo le innumerevoli differenze di fondo che, tradotte a volte in sottili sfumature, in dinamiche d'equilibrio o altre in più marcate caratteristiche organolettiche, sono percepibili e stimolano la curiosità nei confronti di quello che oltre ad essere un fenomeno è un vino, specie quando lo si fa come Bacco comanda!
Altro errore che spesso si compie è quello di pensare che l'unica uva utilizzata per produrre prosecco sia il vitigno Glera, in quanto nelle principali docg sono ammesse fino ad un 15% uve storiche del territorio come Verdiso, Perera e Bianchetta e Glera lunga. Mentre nella doc sono possibili anche vitigni internazioli Chardonnay, Pinot bianco, Pinot grigio e Pinot nero vinificato, ovviamente, in bianco.
La raccolta è completamente svolta a mano ed in cassetta per evitare rotture delle bucce e conseguenti degenerazioni dei frutti. Tutte le fasi di vinificazione e fermentazione vengono svolte all’interno della nostra cantina. Tutti gli appezzamenti vengono raccolti e lavorati separatamente per preservare le tipicità e le caratteristiche di ogni diverso terreno.
Tornando all'azienda della famiglia Mattiazzo, la conduzione dei vigneti è in regime sostenibile sia per quanto riguarda i trattamenti, sia per quanto riguarda la gestione del sottofila, la vendemmia viene effettuata a mano, in cassette e tutte le fasi di vinificazione vengono svolte direttamente nella cantina di proprietà. Cose che potrebbero sembrare la mera normalità altrove, ma che per il Prosecco, a mio parere, rappresentano un grande plus.
Passiamo, ora,  al vino che mi ha colpito di più dell'Az. Agr. Mattiazzo Leo:
Prosecco Valdobbiadene Docg Superiore Extra Dry 2015 Leo Vanin: il naso è quello dei cesti di frutta fresca che mia nonna amava tenere colmi di mele e pere ogni giorno (ero fortunato... faceva la “fruttarola”!). Poi arriva la primavera, quella delle corse nei prati di margherite, che solo quando cadi a terra, magari giocando a pallone (ricordate quando si usavano le magliette per segnare i pali delle porte?!), ti porta al naso il fresco odore dell'erba. Bello, dritto, a suo modo fine e per nulla noioso. Uno di quei Prosecco che dimostra quanto sia riduttivo segregare questi vini all'aperitivo, in quanto (con un po' di pazienza e di senno) si possano incontrare bottiglie degne della convivialità della tavola.
Ciò che mi ha spinto a scrivere di questa cantina è la volontà, evidente, di valorizzare il Prosecco non solo come fenomeno di massa, ma anche come vino di pregio enfatizzando la presenza di cru e sottozone come in altre denominazioni più blasonate. Tanto da aver aspettato 7 anni, tra prove, ricerche, studi sui vari terroir e sulle diverse varietà, per arrivare a produrre anche un Prosecco Frizzante, da riferimentazione in bottiglia, Questo vino rappresenta, per la famiglia Matiazzo, la vera stroria dell’Alta Trevigiana e punta a diventare un mezzo di comunicazione per educare il consumatore alla storia del Prosecco, che non è di certo nato 30 anni fa.
F.S.R.
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taccuindivino · 7 years
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Ageno 2007 Emilia IGT, La Stoppa, 13,5 gradi.
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Se nominassi i Colli Piacentini ad uno straniero, o anche ad un italiano che vive fuori zona, diciamo al sud, credo che evocherei ben poco. Non che la zona brilli per visibilità, né dal punto di vista enologico, né da quello strettamente paesaggistico o artistico, ed è un peccato, perché in realtà si tratta di una gemma a pochi chilometri da Milano: un polmone verde che è rimasto per tanti versi autentico e incontaminato, a dispetto dell'industrializzazione che si spande disordinata dai lati dell'autostrada A1. Per me, i Colli Piacentini erano quelli delle gite domenicali con la mia famiglia: mio padre li privilegiava perché erano ad un'oretta d'auto, non si trovava mai traffico e con poco si mangiava bene. Mi ricordo tante volte in autunno, in inverno, si usciva dall'autostrada a Piacenza e in pochi minuti si era tra i campi dalle zolle brune che esalavano nebbia verso un cielo uniformemente grigio, verso il quale filari di alberi levavano i rami spogli come un monito nero, ed i corvi pigri a terra punteggiavano il paesaggio dell'unica apparenza di vita; eppure l'insieme era di una dolcezza nuda, desolata e struggente, quasi segreta nei ruderi di chiese e ville barocche, e abbazie, e fattorie e castelli che si intuivano in lontananza; profondamente triste e consolatoria come l'Andante con moto quasi Allegretto, che del terzo dei Quartetti Razumowski di Beethoven è il secondo tempo. Poi, si saliva verso le colline, così morbidamente da non avvertire alcuna soluzione di continuità. Allineate lungo i fiumi, che le solcano da sud ovest a nord est, si traversavano la Val Tidone, la Val di Nure, la Valchero, la Val Luretta, la Val Trebbia, scabre l'inverno e talvolta imbiancate, su su fino a Bettola o a Bobbio, dove si pranzava e ci si scaldava col locale Gutturnio, che se anche a volte era un po’ rustico, a noi piaceva, così pieno e corposo. La primavera, invece, che era un tripudio di verde virgineo, uno scorrere d'acque, un luccicare di sabbie gialle, dinargille azzurre, di candidi calcari , di arenarie grigie  (le matrici sono marine e spesso affiorano fossili), di fiori e di api, era anche il tempo dell'Ortrugo: bianco, fresco, vivace e sottile; allora, anch'esso un po’ rustico, o comunque senza troppe pretese. Se li nominavi fuori zona, Ortrugo e Gutturnio, ben pochi ne avevano sentito parlare. Eppure la tradizione vinicola dei Colli Piacentini è antica e la vocazione riconosciuta, quantomeno  da alcuni pionieri: pare infatti plausibile che il celebre Louis Oudart, che a metà ‘800 per primo vinificò il Nebbiolo secco a Neive (e perciò lo si ritiene il “papà” dei moderni Barbaresco e Barolo), si rifornisse già nel 1833 di uve dalle parti di Bobbio, le vinificasse alla maniera dello Champagne e come Champagne le vendesse: non c'erano le DOC e AOC allora. Tra i pionieri, probabilmente, andrebbe nominato l'avvocato Giancarlo Ageno, che fondò La Stoppa ai primi del '900, impiantando vitigni francesi per saggiare il territorio.  
Io pure, pur amando profondamente quelle colline, non mi ero reso conto del potenziale dei vini del  piacentino, finché, qualche anno addietro, non assaggiai vini de La Stoppa a una manifestazione chiamata Sorgente del Vino, che si teneva la allora appunto su quei colli, nel suggestivo castello di Agazzano; e rimasi letteralmente a bocca aperta.
La Stoppa appartiene dal 1973 alla famiglia Pantaleoni, che a Rivergaro, su quei terreni di terre rosse antiche, ricchi di ossidi minerali, poco lontano dal fiume Trebbia,  ha deciso di ripiantare in buona parte uve autoctone, di coltivare e vinificare secondo principi biodinamici, con interventi in cantina minimi. Tutta la produzione è buonissima, territoriale, personale. Già in quegli assaggi, però, un posto speciale me lo conquistò nel cuore proprio il vino dedicato all'antico fondatore, un bianco da  malvasia di Candia aromatica, ortrugo e trebbiano, vinificato secco e fermo, con la tecnica della macerazione sulle bucce (30 giorni) e affinato a lungo in legno e acciaio: tre anni. E che sorpresa fu trovarlo in offerta su un sito internet  inglese ! Perché questo non è un vino standardizzato e per tutti , mainstream, come dicono lassù, ma una cosa viva, parlante, mutevole, inevitabilmente dialettica. Ti racconto - amica, amico che mi leggi- il mio assaggio domestico, che risale a 7 giugno del 2016. 
Il suo colore…come definirlo? Ambra luminosissimo e trasparente? Ricorda più un vinsanto, o un Madeira, o un whisky scozzese, che un vino da pasto, sia pure anche superiore, come si diceva una volta. Disabituati noi, forse, a certe tinte affascinanti e antiche. Lascia sul calice gocciole estremamente lente, variabili nella velocità e che dunque formano cime frastagliate, ma regolari nella successione. Molte bolle finissime di anidride carbonica lì intrappolata si palesano nel bicchiere, ma subito svaniscono alla vista lasciando il vino limpido e fermo, però rimangono al palato sotto traccia,  stuzzicandolo. L'Ageno esprime un aroma intensissimo e estremamente complesso, continuamente cangiante, notevolissimo per la personalità del suo profilo: acetaldeidi in misura che può che anche disturbare chi è di naso sensibile,  e tanta frutta matura, maturissima, ma tutt'altro che cotta: arance, limoni ( persino canditi), tanto mandarino, susine bianche, pesche ,albicocche, corbezzoli; persino tocchi tropicali. Fiori ed erbe: ginestre, origano , rosmarino, salvia, prezzemolo, timo. Poi sentori di lieviti: biscotti, crosta di brioche; uniti a burro (che in genere stucca e qui invece mi delizia) e funghi, neanche fosse un grandissimo Champagne maturo. Quindi, attendendo ancora, un'altra arcobaleno di sovrappone senza sostituirsi, spiazzante: ora è minerale iodato, sa di sabbia sulla spiaggia; sa di vaniglia e di cocco; di mele, al plurale: cotogne, renette, golden; di nocciole; di pere; di muschio e legna umida; di sandalo; di zafferano. Se lo bevi,  noterai lo stuzzicare dell'anidride carbonica residua sulle prime; sentirai che c'è anche un po’ di tannino, inevitabile, ma maturo e di grana molto fine. Noterai poi il sapore molto concentrato, con tocchi addirittura di frutta rossa ed ancora di burro; ed il corpo che è pieno e glicerico e che si snoda deciso sul palato; ma soprattuto che il vino è lieve, vivido, danzante, e con un'acidità ancora altissima e ben distribuita, fusa con una estrema salinità, viaggia verso una chiusura lunghissima, perfettamente equilibrata e rotonda  al gusto; forse appena un po’ alcolica, ma non è che un'inezia: spicca di più la sua tessitura carezzevolissima, con un tocco ruvido che la rende vibrante. L'ho provato sui cibi più svariati e si è dimostrato a suo modo garbato nell’ accompagnare ( sta su tutto) e insieme estremamente selettivo (difficile trovargli l'abbinamento eccellente). Allora, se pure è stato bene su bucatini a cacio e pepe, credo che il suo meglio l'avrebbe dato con abbinamenti più marcatamente territoriali: sarà la biodinamica che rafforza il legame con la terra d'origine, ma avessi avuto con me certi soavi e sapidi salumi piacentini,  certe paste ripiene locali così opulente e di sapori e condimento, certi arrosti scioglievoli! Magari non è per tutti questo bianco assaggiato a 9 anni dalla vendemmia, con quella quantità di aldeidi, con quell'equilibrio funambolico tra freschezza- che c'è, eccome- ed ossidazione: chi cerca solo la prima, ne sarà spiazzato. Per me, però, è semplicemente un gran vino, che migliora a distanza di giorni dall'apertura , diventando più delicato e floreale; così grande che invoglia non solo a berne e riberne, ma anche  a conoscere meglio tutti i prodotti di quel territorio: ti par poco, amica o amico che mi leggi?
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