Tumgik
#anche se tiene li sordi
der-papero · 17 days
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Non sono proprio giorni felici questi per me, ma oggi arrivo al lavoro e scopro che hanno cacciato a calci il CTO dell'azienda (cioè il mio boss) per "inappropriate behavior", ma proprio tipo "fai le valigie e domani vai fuori dai coglioni", roba che in 7 anni di azienda non l'ho mai vista, e allora ti viene da esclamare
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nosferatummarzia-v · 1 year
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GATTI: e il loro mondo Magico...
Se un gatto ti lecca le mani, il viso o i capelli, accettalo come un grande complimento: é come se fossi uno dei "suoi"...
Se un gatto si stende supino quando ti vede, significa che si fida di te, in quanto in questa posizione non può difendersi da un attacco...
Le persone che hanno i gatti hanno meno stress e meno infarti...
I gatti si considerano i proprietari della casa dove convivono con l'umano...
Quando un gatto si strofina contro di te è perché ti sta marcando come parte del suo territorio...
Un gatto non comunica quasi mai con un "miagolio" ad un altro gatto, usa questo suono per comunicare con gli umani...
👉Se un gatto alza la coda e la tiene completamente tesa, significa che sta salutando...
I gatti prestano più attenzione alle donne rispetto agli uomini, perché reagiscono meglio a un tono di voce più acuto...
Se il tuo gatto si ammala e smette di lavarsi, lavalo tu stesso, perché potrebbe perdere la voglia di vivere solo con l'aspetto sporco e smemorato...
I gatti tricolore o fino a quattro colori sono esclusivamente femmine. Con mantello a tre colori nero, rosso e crema (varietà tartaruga) e quattro colori quando c é anche il bianco.
La particolarità è data: i tricolori e i quattro colori sono solo femmine e, negli strani casi di alcuni maschi, sono sterili.
👉 Inoltre il gatto tricolore chiamato gatto calico è considerato il gatto della fortuna
I gatti non capiscono la punizione, ma capiscono le ricompense quando fanno qualcosa di giusto...
I gatti dormono dalle 16 alle 18 ore al giorno.. Ma pur dormendo, sono attenti a qualsiasi stimolo...
I gatti hanno un'ottima visione notturna...
👉un gatto se fissa il vuoto avverte un'entità
Dopo aver mangiato, i gatti si lavano subito...È un istinto di sopravvivenza che li porta ad agire in questo modo affinché i predatori non sentano l'odore del cibo e quindi potrebbero attaccarli...
Il gatto cammina e corre spostando le zampe anteriori e posteriori dallo stesso lato...Solo il cammello, la giraffa e il gatto hanno questa caratteristica...
I gatti odiano l'odore dell'arancia e del limone...
Le fusa dei gatti hanno la capacità di rassicurarli quando sono malati o spaventati...
Gli antichi egizi si rasavano le sopracciglia in lutto quando il loro gatto moriva...
Proprio come gli esseri umani hanno le impronte digitali e sono unici, il disegno del nasello del gatto è unico, non esistono due gatti con lo stesso disegno...
I gatti neri sono solitamente più calmi di quelli bianchi, che sono sempre molto nervosi...
La lingua dei gatti sono fatte di piccoli ganci, che li aiutano a separare il cibo. Pertanto, è sensibile al tatto con la pelle.
Il cioccolato è tossico per i gatti..
La maggior parte dei gatti bianchi con gli occhi azzurri sono sordi a meno che non abbiano un occhio di colore diverso dall'altro...
Questo è in parte vero, c'è una percentuale più alta di gatti sordi...Il gene della sordità, è un gene caratteristico dei gatti bianchi, si chiama W ( white per l'appunto ) ed è la causa del colore bianco e della sordità nei gatti...
Ma non tutti i gatti bianchi sono sordi.
Le orecchie dei gatti hanno gli ultrasuoni. Ciò significa che possono sentire frequenze che per te non sono udibili. Per eempio come i suoni che usano i roditori per comunicare.
C'è una pianta che affascina i gatti. Li eccita di momenti sublimi per pochi minuti.
È l'erba gatta, della famiglia del timo e della lavanda..
Il suo profumo innesca nell'animale un comportamento simile a quello di una femmina in calore...
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nuz1970 · 2 years
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GATTI: e il loro mondo Magico...
Se un gatto ti lecca le mani, il viso o i capelli, accettalo come un grande complimento: é come se fossi uno dei "suoi"...
Se un gatto si stende supino quando ti vede, significa che si fida di te, in quanto in questa posizione non può difendersi da un attacco...
Le persone che hanno i gatti hanno meno stress e meno infarti...
I gatti si considerano i proprietari della casa dove convivono con l'umano...
Quando un gatto si strofina contro di te è perché ti sta marcando come parte del suo territorio...
Un gatto non comunica quasi mai con un "miagolio" ad un altro gatto, usa questo suono per comunicare con gli umani...
👉Se un gatto alza la coda e la tiene completamente tesa, significa che sta salutando...
I gatti prestano più attenzione alle donne rispetto agli uomini, perché reagiscono meglio a un tono di voce più acuto...
Se il tuo gatto si ammala e smette di lavarsi, lavalo tu stesso, perché potrebbe perdere la voglia di vivere solo con l'aspetto sporco e smemorato...
I gatti tricolore o fino a quattro colori sono esclusivamente femmine. Con mantello a tre colori nero, rosso e crema (varietà tartaruga) e quattro colori quando c é anche il bianco.
La particolarità è data: i tricolori e i quattro colori sono solo femmine e, negli strani casi di alcuni maschi, sono sterili.
👉 Inoltre il gatto tricolore chiamato gatto calico è considerato il gatto della fortuna
I gatti non capiscono la punizione, ma capiscono le ricompense quando fanno qualcosa di giusto...
I gatti dormono dalle 16 alle 18 ore al giorno.. Ma pur dormendo, sono attenti a qualsiasi stimolo...
I gatti hanno un'ottima visione notturna...
👉un gatto se fissa il vuoto avverte un'entità
Dopo aver mangiato, i gatti si lavano subito...È un istinto di sopravvivenza che li porta ad agire in questo modo affinché i predatori non sentano l'odore del cibo e quindi potrebbero attaccarli...
Il gatto cammina e corre spostando le zampe anteriori e posteriori dallo stesso lato...Solo il cammello, la giraffa e il gatto hanno questa caratteristica...
I gatti odiano l'odore dell'arancia e del limone...
Le fusa dei gatti hanno la capacità di rassicurarli quando sono malati o spaventati...
Gli antichi egizi si rasavano le sopracciglia in lutto quando il loro gatto moriva...
Proprio come gli esseri umani hanno le impronte digitali e sono unici, il disegno del nasello del gatto è unico, non esistono due gatti con lo stesso disegno...
I gatti neri sono solitamente più calmi di quelli bianchi, che sono sempre molto nervosi...
La lingua dei gatti sono fatte di piccoli ganci, che li aiutano a separare il cibo. Pertanto, è sensibile al tatto con la pelle.
Il cioccolato è tossico per i gatti..
La maggior parte dei gatti bianchi con gli occhi azzurri sono sordi a meno che non abbiano un occhio di colore diverso dall'altro...
Questo è in parte vero, c'è una percentuale più alta di gatti sordi...Il gene della sordità, è un gene caratteristico dei gatti bianchi, si chiama W ( white per l'appunto ) ed è la causa del colore bianco e della sordità nei gatti...
Ma non tutti i gatti bianchi sono sordi.
Le orecchie dei gatti hanno gli ultrasuoni. Ciò significa che possono sentire frequenze che per te non sono udibili. Per eempio come i suoni che usano i roditori per comunicare.
C'è una pianta che affascina i gatti. Li eccita di momenti sublimi per pochi minuti.
È l'erba gatta, della famiglia del timo e della lavanda..
Il suo profumo innesca nell'animale un comportamento simile a quello di una femmina in calore...
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giancarlonicoli · 4 years
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18 gen 2021 11:10
"L'ARTISTA HA L'OBBLIGO DI ESSERE SCOMODO. NON PUO' FARE LE COSE CHE VUOLE IL MERCATO" - IL FONDATORE DEI "GIANCATTIVI", ALESSANDRO BENVENUTI: "SE PENSO AL CAZZOTTO CHE ATHINA CENCI DÀ AL NEONATO DENTRO ALLA CARROZZINA IN "AD OVEST DI PAPERINO", IN UN PAESE DI MAMME COME L'ITALIA...FRANCESCO NUTI NON È MAI STATO UN UOMO MOLTO FELICE, NONOSTANTE ABBIA AVUTO DELLE GRANDI FORTUNE. AVEVA UN GRANDE TALENTO MA POCO METODO. I SUOI FILM NON È CHE MI ABBIANO FATTO MAI IMPAZZIRE. CI HO SEMPRE VISTO IL DISAGIO CHE COVAVA DENTRO" - VIDEO
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Luca Pallanch per "la Verità"
Dopo le zone rossa, arancione e gialla, ora è la volta della zona bianca. Corsi e ricorsi storici. Nel 1977, mentre l'Italia viveva l'emergenza terrorismo, un gruppo di giovani comici, I Giancattivi, mise a soqquadro la Toscana con uno scherzo memorabile sulla Radio 3 regionale. Alessandro Benvenuti, oggi protagonista su Sky della serie I delitti del BarLume, rivendica con orgoglio il copyright della zona bianca.
I Giancattivi emisero un falso bollettino definendo la Lucchesia zona bianca...«Zona batteriologicamente bianca!».
Come vi era venuto in mente?
«Perché era l'unica provincia democristiana in una regione rossa. Fu uno scherzo che riuscì molto bene: i centralini dei Vigili del Fuoco e della Prefettura furono invasi da telefonate e ci fu un fuggi fuggi verso le province amiche di Livorno, Massa Carrara e Pistoia, che erano tutte province rosse.
Questo scherzo ci ha dato grande notorietà: la notizia fu ripresa anche nella stampa nazionale. Erano tempi in cui la satira era per pochi eletti, tanto è vero che quando fondammo il primo teatro, che oggi è il Teatro di Rifredi, lo chiamammo Humor side».
Qual era la formazione de I Giancattivi all'epoca?
«Athina Cenci, Alessandro Benvenuti e Franco Di Francescantonio».
È vero che il nome Giancattivi deriva dal terzo componente della formazione iniziale, Paolo Nativi?
«La leggenda narra che nel Settecento una colonia di ex schiavi romani liberatisi si erano trasferiti a Roccastrada, formando una colonia di mugnai, e lì cambiarono il cognome da Giancattivi in Nativi. L'etimologia è latina: iam captivus. Per noi scegliere di fare questa strada era una sorta di liberazione da quella che era stata la nostra vita passata, era la realizzazione dei nostri sogni. Aveva un significato molto profondo per noi il nome Giancattivi».
Come siete arrivati a Non stop, la trasmissione televisiva che vi ha lanciato nel 1979?
«Perché eravamo parecchio bravi! Enzo Trapani e Alberto Testa, i due autori del programma, ci videro al Teatro Verdi a Milano. Ci pedinarono per un mese intero prima di convincerci... ».
Perché?
«Non ce ne importava nulla di andare in televisione: eravamo molto puri, tutti presi dal nostro tipo di teatro sperimentale: non erano solo sketch con le barzellette, ma ci ispiravamo ai movimenti dadaisti, surrealisti e futuristi.
Poi, siccome in quella trasmissione c'era anche Massimo De Rossi che aveva portato in scena una magnifica pièce di Roberto Lerici, Bagno finale, ed era stato ospite nostro a teatro, ci siamo detto: «Se c'è De Rossi, ci si può andare anche noi!». Senti quanto eravamo scemi».
A Non Stop c'era anche Francesco Nuti.
«Nuti entrò perché il terzo de I Giancattivi di quell'epoca, Tonino Catalano del Mago Povero di Asti, che era con noi da sei mesi, non volle fare televisione, per cui eravamo rimasti Athina Cenci e io, finché un funzionario dell'Arci toscano ci dette la dritta: "Ma perché non andate a vedere questo giovane comico talentuoso che ha iniziato da poco a fare cabaret?". Andammo a vederlo e Francesco entrò nel gruppo. La prima cosa che fece con noi fu Non Stop, un bel colpo».
Giocavate alla scuola, con la maestra e i due alunni...
«Quello nella seconda trasmissione che abbiamo fatto in televisione, La sberla, per la regia di Giancarlo Nicotra. A Non stop presentammo una serie di sketch, tra i quali c'era anche quello dei due alunni e la maestra».
L'avevate già fatto a teatro?
«Erano tutti sketch provatissimi, fatti in teatro centinaia di volte. La vera novità di Non stop era dovuta al fatto che i gruppi o i singoli comici presentavano degli sketch che erano già testati con il pubblico, che quindi avrebbero funzionato di sicuro. Questa fu una grande intuizione di Enzo Trapani».
La notorietà fu immediata?
«Io so' rimasto chiuso in casa per due settimane! Andavamo in onda in prima serata, il giovedì sera, sulla Rete 1, con due soli canali, ci vedevano decine di milioni di persone: il giorno dopo eri santo, ti mancavano solo le stigmate! La prima volta che uscii ebbi la malaugurata idea di prendere un treno dal mio paese, Pontassieve, fino a Firenze. Non ti dico cosa è successo su quel treno! Sono stato preso d'assalto da due vagoni di gente: firmai autografi dalla partenza all'arrivo».
In famiglia cosa dissero?
«Erano molto soddisfatti perché guadagnavo! Erano talmente disperati del mio fallimento come studente che furono molto contenti di vedermi sbocciare come attore».
Dopo il successo televisivo, fioccarono subito le proposte cinematografiche?
«Il cinema si fiondò su di noi: ci fecero un sacco di proposte, ma erano tutte persone che ci piacevano poco, per cui inventavamo film che costavano così tanto che alla fine non ce li facevano fare.
Invece poi, quando scoprimmo i produttori giusti, Franco Cristaldi, Gianfranco Piccioli e Mauro Berardi, scrissi Ad ovest di Paperino. Con noi, I Gatti di Vicolo Miracoli, La Smorfia, Carlo Verdone, che provenivano tutti da Non Stop, si portò nel cinema italiano una ventata di novità, allontanandoci dai padri sacri, i Gassman, i Tognazzi, i Manfredi, i Sordi».
Poi Nuti andò via...
«Ad ovest di Paperino fu un film complicato perché il gruppo si sciolse dopo tre settimane di lavorazione. Arrivare in fondo fu veramente faticoso. Francesco aveva un grande talento, ma poco metodo, per cui subiva un po' la nostra personalità. Questo è stato uno dei motivi per cui ha voluto fare la sua strada, scelta più che legittima.
Gli abbiamo insegnato molto io e Athina, però Francesco è stato importantissimo per noi per avere il successo che abbiamo avuto perché dei tre era il più determinato a conseguirlo. Noi eravamo un po' più snob, ce ne fregava fino a un certo punto».
Voi due invece avete proseguito...
«Per altri due anni, molto belli, con Daniele Trambusti. Portammo in teatro un bellissimo spettacolo, Corto Maltese, facemmo un secondo film, Era una notte buia e tempestosa..., e un programma televisivo, Lady Magic, poi ci sciogliemmo».
Per quale motivo?
«Perché si muore da soli anche nella malaugurata idea che si partecipi a un suicidio collettivo!».
Dei film che ha fatto Nuti da solo quale ha apprezzato?
«I film che ha fatto Francesco, se devo essere sincero, non è che mi hanno fatto mai impazzire. Quello che mi è piaciuto di più è Tutta colpa del Paradiso, escluso il primo quarto d'ora che è tremendo. La cosa da sottolineare di Francesco è che non è mai stato un uomo molto felice, nonostante abbia avuto delle grandi fortune. Questo mal di vivere lo ha espresso in tutti i suoi film.
Siccome io ho voluto molto bene a Francesco e lo conosco molto bene intimamente, nei suoi film ho sempre visto il disagio che covava dentro. Tutta colpa del Paradiso è l'unico che mi ha veramente fatto ridere con gioia perché ho visto un Francesco solare, radioso, ho avuto il sollievo di vederlo in un momento di grazia».
Fu coniato il termine «malincomici» per definire i comici della vostra generazione...
«Siamo stati dei comici più coscienti di quelli della generazione che ci ha preceduto. Loro si sono dovuti adattare al mercato, noi abbiamo inventato un nuovo mercato. Abbiamo cercato di ricostruire la comicità attraverso l'umanità, il sociale, la vita. I Giancattivi raccontavano il surrealismo di un mondo, che stava andando verso un tipo di follia. Basta vedere quello che succede oggi sui social... ».
Poi ha avuto anche modo di lavorare con Verdone in Compagni di scuola, dove organizza un altro scherzo terribile alle spalle dei suoi compagni di liceo, spacciandosi per un disabile, un ruolo politicamente scorretto.
«Se penso al cazzotto che Athina Cenci dà al neonato dentro alla carrozzina in Ad ovest di Paperino, in un paese di mamme come l'Italia... io sono abituate a fare 'ste cose: l'artista ha l'obbligo di essere scomodo, di rompere gli schemi, non può fare le cose che vuole il mercato».
Il teatro è la linea che dà continuità alla sua carriera?
«Sono nato a teatro. Sono tuttora direttore artistico dei teatri di Siena e del teatro di Tor Bella Monaca. Non smetterò mai di fare teatro, è la mia vita, infatti ora soffro molto».
Come vive la chiusura dei teatri?
«Non ho tanto voglia di parlarne. Ogni tanto sento uno pseudo-giornalista che dice delle cose terribili, come se noi fossimo una categoria della quale si può tranquillamente fare a meno, come se il teatro fosse un lusso...
È che la gente non sa qual è il nostro lavoro, anche per colpa del mondo del teatro che si è sempre chiuso in sé stesso, anziché dire: "Venite a vedere quando si fanno le prove quanta fatica si fa!".
Venite a vedere cosa vuol dire far uscire la gente di casa per andare in un luogo dove può ascoltare delle storie e discuterne dopo: è un segno di umanità e di vitalità. È la civiltà che va avanti, non la solitudine davanti allo schermo. Il futuro non è davanti a un computer: se è così, vuol dire che ci dobbiamo preparare a diventare automi. È questo che mi fa paura: non si tiene conto delle ferite che la pandemia porterà dentro di noi, questa aberrazione di chiudersi in casa a lavorare nello stesso posto dove mangi, leggi un libro, dormi, campi, come si dice in toscano».
Ha fatto il Covid e durante il lockdown ha tenuto un diario. A settembre ha avuto la possibilità di tornare sul palcoscenico
«Ho fatto uno spettacolo meraviglioso, Panico ma rosa, tre volte e poi basta, ci hanno rinchiuso un'altra volta!».
Ha interpretato anche film drammatici, come Soldati 365 giorni all'alba di Marco Risi. Erano tentativi di uscire dai panni del comico...
«Ma io non so' comico! Se uno vuole vedere un grande attore drammatico, deve vedere un attore comico. Chi fa il drammatico e basta molto spesso diventa un trombone. Tutti i comici, quando si sono cimentati in parti drammatiche, sono sempre risultati clamorosamente bravi. Io le poche volte che ho fatto delle cose non comiche mi sono piaciuto molto di più di quando faccio il comico, ti devo dire la verità. Ho questa nomea d'orso per cui non mi capita molto spesso di avere delle proposte di fare altro rispetto a quello che faccio, ma va bene così perché mi piace stare a casa mia».
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Avrei fatto prima ad ascoltare Lana Del Rey
“La vita scorre inesorabile”
È questo il pensiero che mi sfiora quando mi rendo conto che ogni cosa nel mio raggio visivo ha un’esistenza più intensa della mia. Quando avevo 14-15 anni era questo il pensiero che mi terrorizzava, rendermi conto di non andare avanti, di restare fermo a guardare il tempo che si muove nelle cose più insignificanti o almeno insignificanti dal mio punto di vista. Come gli insetti con una vita breve quanto quella della sigaretta che ho appena girato e subito fumato. Come la coccinella che gioca sul cornicione a rincorrere i miei piedi. Considerarsi ad un livello superiore è un grave errore. Una vita è una vita. Una coccinella è una coccinella. E il mio tempo sta scadendo.
Non avere idea di quando si morirà può essere una cosa angosciante è vero ma la gente non ci pensa sempre, è naturale. Se fosse così saremmo alla stregua di animali il cui unico senso nella vita è mandare avanti i propri geni.
Avete mai letto riguardo l’orso bruno americano? Forse non tutti sanno che è quello che rappresenta al meglio l’idea di esistenza in quanto testimonianza dell’essere stato. Quando la specie dell’orso bruno entra nella stagione degli amori parte la gara dei maschi ad accaparrarsi l’esemplare femminile migliore in circolazione. Ora mi direte che questo avviene in tutte le specie, ma l’orso bruno americano ha una caratteristica particolare. Quando incontra una femmina della sua specie e questa ha già dato alla luce la sua piccola prole, che è al suo seguito, il maschio adulto uccide i suoi piccoli per poterla inseminare ed avere una sua propria prole. Ciò avviene perché la femmina non possiede ovuli pronti per essere fecondati nel momento in cui è già madre. E’ tutta una questione ormonale che il maschio percepisce ed agisce di conseguenza. Ovviamente la madre cerca di scappare coi propri cuccioli ma non sempre ci riesce.
È il cerchio della vita che si conclude ed inizia.
L’orso bruno americano è l’arrivista per eccellenza. Rappresenta la persona che più disprezziamo quando siamo noi i cuccioli che muoiono, anzi, quando siamo le loro madri.
Noi saremmo disposti a tutto pur di lasciare una nostra impronta in questo mondo quando ci rendiamo conto di essere arrivati alla fine della nostra esistenza. È la nostra natura.
Per questo è così importante il tempo che scorre. Per questo consideriamo infima una coccinella. Non vogliamo ammettere la nostra sconfitta in quanto specie che ha perso il suo obiettivo ed il suo tempo.
Tutte queste sono le riflessioni che mi pervadono un sabato pomeriggio, dopo aver passato la mattinata su Youtube ed essermi reso conto che perfino la sigaretta che ho spento minuti fa ha avuto uno scopo ed una vita più chiara della mia.
Siamo sordi che ammirano la vita dal buco della serratura. Vediamo il rumore del tempo ma ne abbiamo timore. La porta è chiusa ma abbiamo la chiave. Persa insieme a noi stessi. Proviamo ad accendere la luce. Sbattiamo contro un mobile. Ci siamo fatti male ma fa niente, andiamo avanti. Tocchiamo il muro. Freddo. Ci spostiamo verso sinistra. Troviamo l’interruttore. Pensiamo “Finalmente”. Schiacciamo e la luce si accende. Riusciamo a scorgere la forma della stanza. “Sembrava più grande”. Nessuna finestra. Vediamo uno specchio e decidiamo di guardarci. “Mi ricordavo più bello”. Lo eravamo, ma il buio e la costrizione ci hanno resi quello che siamo adesso. Apriamo ogni cassetto di ogni mobile. Decidiamo di svuotarli tutti ma non troviamo la chiave. Cerchiamo nelle tasche e percepiamo la sua forma. Ci sentiamo realizzati dopo tanto tempo. La mettiamo nella serratura. Giriamo.
La porta si apre.
Il vento ci travolge.
Il sole ci abbaglia.
Torniamo a sentire la vita.
Ma la vita va, noi siamo qua e la coccinella nel frattempo è volata, in cerca di un altro posto spensierato come quello in cui eravamo. Perché alla fine si stava anche bene in quella specie di bozzolo dove eravamo stati fino a quando non ce ne siamo resi conto. Un involucro fatto di cose futili e piacevoli che ci faceva stare bene.
Si può trovare rifugio in tutte le cose a seconda della propria inclinazione. Cose che appaiono stupide ad un occhio esterno possono essere il nostro unico modo di andare avanti, che sia l’amore di una ragazza, la lettura di un racconto o un bel dipinto.
Non si può vivere se si pensa di morire ma si può dare un senso alla vita prima di morire. Come fanno i soli che diventano 10-15 volte la loro grandezza prima di esplodere ed abbagliare l’universo con tutta la loro maestosità. Quello che resta dopo è un buco nero, un grande vuoto lasciato da una grande esistenza, pronto per essere riempito da tutte le cose vicine.
E così quando una cosa finisce ne inizia un’altra, come quando metti in play tutti brani salvati su Spotify e dopo un paio d’ore ascolti gli Skiantos anche se sei partito da Duke Ellington. Quindi se una mattina ti svegli di buon umore la domenica mattina, con una ragazza diciamo decente accanto a te, non stupirti se poi ti macchi i pantaloni del pigiama col caffè, perché era così che doveva andare. Non è rassegnazione, ma semplice realismo.
Se poi, più comunemente, invece della domenica è lunedì, ti svegli da solo e anche in ritardo per andare a lavoro e i pantaloni del pigiama te li macchi lo stesso, il discorso non cambia. La tua vita è quella. La vita che porti avanti con noia ed insoddisfazione e quel caffè che sa di monotonia, sono i tuoi e di nessun altro. È questo il concetto fondamentale che non si riesce ad accettare. La routine ci rassicura e ci stanca allo stesso tempo, ma ci rende anche contraddistinguibili agli occhi degli altri ed ai nostri. Il modo come si affronta il dilemma dell’esistenza delinea il carattere e non il contrario. Sta a noi decidere se andarcene o restare, agire o rimanere indifferenti, respirare o morire soffocati. E la vita si aggroviglia su se stessa.
Che poi sarebbe davvero più facile lasciarsi vivere. Fare solo una cosa ma farla bene e ponderare attentamente le proprie scelte ogni giorno per tutti i giorni. Sembra monotono ma come ho detto la monotonia è rassicurante. Ci tiene lontani dall’imprudenza, dai cattivi personaggi dei sobborghi di periferia e dalle siringhe dei cassonetti. Essere come ci voleva mamma, santa donna tra l’altro, a cui vogliamo tanto bene.
Però non saremo mai come voleva nostra madre, almeno non completamente. Le scelte giuste o sbagliate che siano ci portano lontani dagli ideali che avevamo per andare su lidi sconosciuti in cui non ci saremmo mai aspettati di arrivare o magari semplicemente non ci speravamo più di tanto, verso la realizzazione di noi stessi. Un passo avanti verso il futuro che ci attende. Un passo che consiste in una sbronza finita vomitando funghi in un bagno che non è il tuo o in un paio di pantaloni del pigiama nuovi.
Per questo scrivo. Per darmi delle arie inalate solo da me e dalla mia ristretta cerchia. Per cercare me stesso ed espletare i miei geni egoisti. Perché io non so fare altro che scrivere smuovendo gli animi e gli orsi bruni americani non sanno fare altro che ingravidare le madri altrui.
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pangeanews · 4 years
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“Io sono come un cane, una di quelle bestie nere che dormono intorno ai capannoni industriali”: piccolo discorso sulla poesia di Umberto Fiori
Nel 2014 Mondadori ha raccolto tutta la produzione, fino ad allora esistente, di Umberto Fiori in un volume ormai introvabile. Poesie 1986-2014 è il titolo e in copertina un’opera di Marco Petrus, Sequenze N. 53: su uno sfondo blu compatto, si staglia un palazzone di quelli come se ne vedono tanti in contesti urbani a noi famigliari, fatto di uffici forse, o di appartamenti. È facile immaginarsi persone lì dentro, intente al loro quotidiano vivere; persone che, nella maggior parte dei casi, rimarranno sconosciute, al pari di presenze senza identità. Non hanno nome, tutt’al più una professione o un compito momentaneo, non sappiamo da dove vengono né che vita conducano, così come non ne conosciamo i sentimenti: vivono, e quello che fanno può essere, in fin dei conti, solo osservato, rappresentato. Sono loro, è vero, ma potrebbero essere anche altri. E questo è l’essenziale. L’elemento più riconoscibile della poesia di Fiori risiede proprio nella capacità di adottare un protocollo di tipizzazione, e cioè di mettere in atto un processo che tende a standardizzare i soggetti rappresentati nello svolgimento di azioni o nella creazione di pensieri non specifici, che potrebbero tranquillamente appartenere a un qualcun altro. Nessuno è e tutti potrebbero essere: «Sull’altro lato del viale,/ al semaforo, in mezzo ai camion/ e alle macchine in coda, ci sono due/ che si prendono a schiaffi» (Lite, in Esempi).
*
Anche le coordinate storico-geografiche sono assenti o generiche. E la combinazione di questi elementi fa sì che le scene descritte si trasformino in exempla; ogni abitudine, per quanto ripetitiva, può essere allora interrotta e sconvolta da un fatto che svela, all’occhio in grado di percepirlo, un senso altro delle cose. La poesia di Fiori si snoda proprio tra l’evento comune, banale, quasi scontato, estrapolato dall’ipotetica vita di ognuno di noi, e l’evento improvviso, straniante, casuale, che sovverte l’ordine e conduce a un modo straordinario di osservare l’ordinario, saldamente ancorato al suo continuo ripetersi rassicurante, finanche noioso, ma vitale. Perché il momento della rivelazione è l’esito collaterale di qualcosa di normale però andato storto, di qualcosa che, per qualche ragione, non si incastra con il prestabilito procedere cadenzato delle cose, così come ce lo si aspetterebbe per abitudine. È un incidente, una discussione, un pensiero che può potenzialmente capitare a tutti, in cui ognuno di noi potrebbe ritrovarsi. C’è un presente, un contesto cittadino o metropolitano oppure la contemplazione di un locus amoenus dai tratti espressamente realistici: «Bella vista,/ vista allegra e severa,/ oscura e serena,/ il premio che tu eri/ non c’è bravura/ che possa meritarlo» (XII, in La bella vista); ci sono tutte le possibilità schierate in fila e c’è, insieme, la stagnazione della quotidianità: ma proprio l’assenza di particolari e la costruzione di situazioni sempre riferite a personaggi-quidam consente, a chiunque si accinga alla lettura, di insinuarsi al loro interno, di riconoscersi e di poterne essere il protagonista: «Come quando/ con i parenti intorno/ nella stanza, il bambino appena nato/ se ne sta lì sdraiato; sotto il velo,/ in mezzo ai discorsi, in un angolo,/ c’è poco, c’è quasi niente:/ il naso di sua madre, gli occhi del nonno» (Una stretta, in Chiarimenti).
*
In altre parole, in questa poesia l’ordinario rende possibile lo straordinario, così come lo straordinario rivela l’ordinario; la generalizzazione consente l’unicità e l’unicità vale se esiste il suo contrario; il lessico comune svela un pensiero complesso e la complessità del pensiero filtra tramite la semplicità del linguaggio; l’io coincide con gli altri e gli altri sono sempre il deposito dell’io. C’è un continuo dualismo nella poetica di Fiori, dove il ricongiungimento degli opposti è spesso affidato al ponte incisivo delle similitudini, sempre riuscitissime, alle volte ironiche, a tratti sbalorditive, per lo più usate come chiuse fulminanti. Come ha scritto Alessandro Quattrone in una puntuale recensione a Poesie 1986-2014 «Tutti abbiamo visto, sentito e fatto le stesse cose di Fiori, ma lui ha saputo trarne osservazioni e analogie di valore universale. E ha saputo trarne conclusioni. Conclusioni che, appunto nel finale di ogni poesia, sono in grado prima di sorprenderci e poi di lasciarci compiaciuti».
*
Una cosa che invece non è stata detta e che occorre sottolineare è la portata anticipatrice dei componimenti di Fiori in relazione al concetto di virtualità; una virtualità che non coincide con la non-realtà, bensì con una realtà non attualizzata, che permane nel suo perenne stato di potenza, di possibilità che potrebbe concretizzarsi. Fiori, in questo senso, è un poeta generoso: generalizzando l’elemento lirico-autobiografico, fa sì che la sua visione del mondo non escluda nessuno, ristabilendo gli equilibri tra la natura degli eventi e l’esperienza della lettura a partire da uno sguardo condiviso sulle cose; e questo avviene perché i fatti non si riducono soltanto a ciò che sono stati ma a quello che potrebbero nuovamente essere, ripresentandosi ogni volta in una forma diversa ma sempre riconoscibile: «Giù, giù, sul fondo/ si va, dove le cose/ – tutte – sarebbe uguale/ se non ci fossero mai state./ È lì che ti vengono incontro/ le belle giornate» (Le belle giornate, in Chiarimenti).
Per questo è fondamentale l’uso che Fiori fa delle parole e come le dispone nella frase al fine di ottenere l’effetto voluto: la sua è una scelta sempre consapevole di lessico semplicissimo, «La gente che va in giro/ tra i suoi pensieri, fermo, c’è un pensiero./ Tra le pieghe dei panni/ ripassa il ferro da stiro» (Fissazioni, in Case), messo all’interno di strutture sintattiche mai involute, ma tendenti alla paratassi; proprio in questa forma ricercatamente definita a ottenere l’immediatezza del linguaggio, Fiori diventa, come è stato più volte sottolineato dalla critica, «riconoscibile». È così che il lettore arriva a comprendere che le parole e le cose coincidono con la loro funzione semantica e non metaforica e sono quello che leggiamo e pensiamo immediatamente.
*
Poesia dello sguardo la si potrebbe ben dire e anche poesia sempre capace di sorprendere e che, sospendendo la scena un attimo prima che la lama affondi, lascia memori ma incolumi dell’evento: «Tu non sai che cos’è, stare di guardia,/ in ogni odore/ sentire una minaccia/ a quei tre metri di terreno,/ urlare in faccia al mondo intero/ fino a perdere il fiato, e non sapere/ cosa c’è da salvare, a che cosa/ veramente si tiene» (Di guardia, in Chiarimenti); come se tutto, davvero, fosse ancora possibile, ogni cosa potesse ancora accadere, anche solo a ripensarla o a rileggerla lì, dentro i suoi versi.
Alessandra Corbetta
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DIETRO
A furia sempre di chiedere e spiegare, e rispondere, a furia di scavare per vedere oltre le cose, a furia di sfondare e capire, ecco il retro del mondo.
Queste vetrate specchiano la scena che sta alle spalle di chi le guarda.
Il muro cieco, in mezzo, è una bellissima schiena.
(da Esempi)
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DI GUARDIA
Mi conoscono bene, hanno ragione: io sono come un cane, una di quelle bestie nere che dormono intorno ai capannoni industriali e se passi, si avventano di colpo sulla rete metallica e più gli dici “Buono!”, più si sgolano.
Adesso, chi li consola? Finché non hai girato l’angolo gli bolle il sangue. Tirano tutti sordi. Scoprono i denti, mordono anche il filo spinato; ma sono gli occhi che fanno più paura: sereni e puri come quelli di un neonato o di una statua.
Hanno imparato il compito: questo recinto tenerlo sgombro. Sia senso del dovere o invece solo istinto, non ti commuove almeno per un attimo la scena che – loro – sempre, tutta la vita, li fa smaniare, li esalta e li avvelena?
Io, per me, lo capisco meglio di tutti gli altri che ho mai sentito, questo discorso. La riconosco bene la voce fanatica, che sbraita per difendere – così, alla cieca, per pura gelosia – l’angolo dove l’hanno incatenata.
Tu non sai che cos’è, stare di guardia, in ogni odore sentire una minaccia a quei tre metri di terreno, urlare in faccia al mondo intero fino a perdere il fiato, e non sapere cosa c’è da salvare, a che cosa veramente si tiene.
(da Chiarimenti)
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VOLO
Certe sere d’estate, quando la tavola è apparecchiata di fuori e appena buio l’aria diventa elettrica, sa di terra e di temporale, capita di sentire sui capelli e sulle orecchie due, tre carezze leggere. La tovaglia è già nera di formiconi con le ali. Stringe lo stomaco vederli – ancora presi dalla smania del loro volo – nuotare in un bicchiere, spasimare sull’uva.
Così cadevo io verso i trent’anni dalle nuvole in mezzo alla gente vera.
(da Tutti)
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A CASA
Frase per frase, da un argomento all’altro, mi hanno rimesso in mezzo, mi hanno bloccato.
Eccolo qui di fronte il vicolo cieco dove sto sempre. Eccomi a casa.
Ecco il mio sogno: il sogno del mio errore, della mia pena e del mio pentimento. Sì, sono pronto.
“Ma abbandonati un po’. Prova a lasciarti andare”, mi dicono.
Occhi bassi, bicchiere In mano, zaino in spalla, rimango i piedi.
Abbandonarsi. Va bene. Lasciarsi andare, sì. Ma dove?
Guardo le due poltrone, loro che parlano, il tavolino, il portacenere pieno.
Se anche un giorno riuscissi a lasciarmi cadere arriverei mai lì?
(da La bella vista)
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Chi potrà controbattere, chiamare Egoismo la vostra volontà?
Voi non avete ambizioni, fame, sete, superbia. Senza peccato siete, senza dolore.
Potessi io essere il prato non il tremore di questo filo d’erba.
(da Voi)
Umberto Fiori
L'articolo “Io sono come un cane, una di quelle bestie nere che dormono intorno ai capannoni industriali”: piccolo discorso sulla poesia di Umberto Fiori proviene da Pangea.
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tmnotizie · 5 years
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SAN BENEDETTO – “Cosa sta avvenendo dei nostri ragazzi?“, questo il titolo della riflessione di mons. Carlo Bresciani, Vescovo della Diocesi di San Benedetto del Tronto-Ripatransone e Montalto, inviata agli organi di informazione che riportiamo integralmente.
“Leggo i giornali. Li sfoglio con interesse, soprattutto il sabato e la domenica mattina. Voglio capire cosa capita nel mondo attorno a me, come vive la gente e cosa pensa. È sempre un momento che vivo con attenzione, si parla infatti di persone e di luoghi che mi interessano. Sempre più, però, mi trovo ad affrontare una domanda che mi sorge spontanea e imperiosa, soprattutto, dicevo il sabato e la domenica: che cosa sta avvenendo dei nostri ragazzi?
Che ragazzi e giovani cerchino momenti di divertimento, che cerchino luoghi dove potersi incontrare, non è una novità. Credo che sia così fin dall’inizio dei tempi. Lentamente la notte si è sostituita alla sera: anche questa non è una novità, anche se degli ultimi tempi. Che dove ragazzi e giovani si incontrano non sia proprio un luogo di religioso silenzio, solo i sordi hanno potuto crederlo. Ormai il silenzio non lo si tiene più nemmeno in chiesa. Tutto questo l’ho sempre saputo e non mi meraviglia troppo che anche oggi sia così.
Allora perché quella domanda: che cosa sta avvenendo dei nostri ragazzi? Perché leggo di giovanissimi che sono andati in coma etilico e a ore della notte (o, meglio, del mattino) in cui ragazzi di quella età dovrebbero essere a dormire da molto tempo o quanto meno a casa. Perché leggo di minorenni che hanno perso la vita in incidenti stradali alle quattro o alle cinque del mattino. Perché leggo di minorenni strafatti che vagabondano alle prime ore del mattino per le strade della città. Perché leggo di bande di minorenni che compiono reati gravi contro le persone.
Leggo cose di questo genere e non riesco a prendermela con i ragazzi, anzi sento una profonda tenerezza per loro. Sento di non condividere a pieno chi se la prende con loro: penso che sbaglino il bersaglio; penso che, tutto sommato, sparino sulle vittime che stanno già pagando un prezzo altissimo.
Penso, invece, che quello che sta avvenendo sia che questi ragazzi vengono sempre più abbandonati a se stessi e che, tutto sommato, faccia comodo che sia così. Fa comodo a chi li sfrutta commercialmente, in fondo certe movide rendono economicamente. Fa comodo alle famiglie che non devono affrontare le fatiche di dire dei no (e a volte so che è tutt’altro che facile). E fa comodo a molti altri che invece di lavoro, offrono loro solo l’illusione di un divertimento in cui affogare la coscienza di essere abbandonati e soli ad affrontare la vita.
Ma a pagarne il prezzo sono innanzitutto loro: i ragazzi. Lasciarli a se stessi non è un atto di amore: è rinunciare alla fatica di aiutarli a generare un adulto dalla loro esuberante giovinezza. E un essere umano è adulto quando è stato aiutato a porsi dei limiti e ha superato quella specie di delirio di onnipotenza che è proprio dell’adolescente.
Ecco penso che quello che è sotto i nostri occhi sia una società di adulti, sempre più centrati su se stessi e sui propri interessi e sempre meno capaci di farsi carico delle giovani generazioni. Adulti pronti a dare qualche soldo ai giovani (magari lamentandosene), ma non a guidarli nella vita. La libertà che è loro data sa più di abbandono, perché dare libertà, senza aiutare a gestirla saggiamente ponendo i dovuti limiti, significa abbandonarli in mare aperto e burrascoso (questo è il mondo, ci piaccia o no), senza offrire loro un salvagente e insegnare ad usarlo.
Mentre leggo i giornali, con il pensiero vado a questi ragazzi, non posso rimediare alla loro solitudine, ma mi viene una gran voglia di abbracciarli”.
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9itshardtobeme9 · 6 years
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La comparsa di Dorothy
Mattinata intensa, apro gli occhi e non vedo più niente, nessuna stanza nessuna pavimento, solo buio, fluido, e rumori di sottofondo. Rumori sordi. Mi trovano in un angolo per terra, nell’angolo dove mi trovano sempre, quando migro in un posto lontano senza più argini e confini. Chi mi trova rimane con me, per lo meno ci prova. Piano piano il pavimento ritorna, sono io, Valentina, sono tornata, sono in clinica, va tutto bene. I 20 cm di ustione sull’avambraccio si sono allargati, e parecchio. Mi sono bruciata di nuovo. Ogni volta è peggio. Ogni volta sono più estese. Avevo la fasciatura e non riesco a capire come sia possibile. Eppure è così. Vinco un bendaggio tutto braccio, per la gioia di chi tra di noi ha bisogno di vederle sempre le sue cicatrici, di averle sotto agli occhi. In qualche modo mi raccolgo da terra, bevo il mio the per colazione, e ho un rinoceronte che corre sul petto. Prende la rincorsa. Mi infila la zanna sottople e spinge. Sento che parte il giro medico. Mi spengo di nuovo. Vorrei scomparire. Il medico è un uomo, e io non lo voglio qui dentro. Voglio Mara. Ripenso che se ne è andata e non mi sento più al riparo. Mi viene da piangere. Immagino che sia lei ad entrare da quella porta ma no, lei non c’è. Quando lo psichiatra entra sono immobile e accenno un sorriso. Vattene da qui, per favore. Se ne va, non insiste. Cè una voragine nella mia pancia. Voglio M. La mia M.
Alle 10 e 15 ho appuntamento con la psicologa. Sono in modalità low, mi muovo piano, la gente mi parla mentre sto sui divani e io non sento. La dottoressa arriva un po’ in ritardo, andiamo nello studio che mi piace, quello lontano da tutto. È come un isola segreta, lì dentro posso parlare, affidarle pensieri. Mi rannicchio sulla sedia, non la guarderò negli occhi se non dopo più di un ora di colloquio, quando Vale sarà di nuovo raggiungibile, quando sarà rientrata da una delle sue sparizioni della mattina. Iniziò a parlare e non so chi sono, non so nemmeno che dire, se non che il fatto che Mara sia andata via mi ha dato una spinta gigante in mezzo al petto. “Sapevamo che sarebbe stato un colpo, ce lo aspettavamo.. non è colpa sua, chi funziona come lei ha bisogno di avere molta stabilità nei percorsi, purtroppo non c’era altro modo.. sa, per il periodo.. ma non si deve sentire in difetto o strana per questo.. io ci sarò fino in fondo Vale. Non ci saranno più cambiamenti così.” Poi qualcuno inizia a parlare. Non ho memoria di ciò che ha detto, non mi è rimasto attaccato da nessuna parte, solo a un tratto la dottoressa ha pronunciato il suo nome.. Dorothy.. “forse mi sbaglio, se credo di star parlando con Dorothy?” Ricordo il silenzio. E poi un click. Non lo so, dico. Può darsi. Ma non voglio che stia qui. Non voglio ascoltarla.
“Io credo che sia importante invece, sentire cosa ha da dirci.. proviamo a essere un po’ curiosi a riguardo? Insieme?”
Accenno un si col capo. Ma Dorothy non c’è più, e io ne sono certa. Si è nascosta di nuovo, forse ha raggiunto Nathalie. Luna l’ha di nuovo sedata, dico. Venerdì, quando la dottoressa è venuta a salutarci. Lo sa, avremmo voluto scappare. Valentina avrebbe voluto fuggire via, lasciare qua valigia e tutto quanto. Valentina è seduta su quella sedia e racconta del colloquio di giovedì pomeriggio con la psichiatra, e di come le abbia lasciato dei pezzi di storia, dei pezzi di Luna.. e di quanto Luna di sia arrabbiata poi, arrabbiata tanto da volerci fare male.
“Io non le chiedo i particolari della sua storia Vale, se ne è accorta? Vorrei fare un lavoro sulle parti, ma rispettandole tutte, senza iperattivare nessuno. Ci credo che Luna si sia arrabbiata a sentire Vale raccontare la sua vita.. in fondo, Luna è ancora lì dentro.. raccontare nei dettagli la sua storia è ritraumatizzante per lei.”
Annuisco, ma dico che Valentina ha bisogno di raccontarlo, a volte. E che Vale usa pezzi di storia per capire se chi ascolta sa restare, e come sa restare.
“È una specie di test, quindi.. di test per chi ascolta.”
“Lo sa ho letto molti testi anche della Fisher che parlano di tendere la mano alle proprie parti bambine, prenderle in braccio, rassicurarle.. e io non capisco, perché Luna non ha alcun bisogno di me, non mi vuole, ed è così.. potente.. ha più potere di tutte noi adulte.. decide ogni cosa, e nessuno si mette contro di lei, perché si si occupa di tutto. Poi la vedo così piccola, e non riesco a vederla indifesa, capisce? Quella bambina è una piccola bestia. Si occupa di così tante cose.. e non si lascia avvicinare da me, non così tanto da permettermi di toccarla. Non mi fa avvicinare a Luce, e un po’ lo capisco, ma non mi fa neanche avvicinare a Andrea.. non posso prenderla in braccio, non posso cullarla quando piange..”
“Andrea piange spesso, Vale? Chi la prende in braccio? È molto piccola..”
Solo M. può toccarla. Dopo molti anni Luna un giorno ha fatto entrare M. nel sotto pavimento. Ha passato mesi a buttarle in braccio I corpi delle bambine morte che si tiene la sotto. Ogni volta la stessa cosa. Fino a quando un giorno le ha messo in braccio Andrea. M. la tiene sulla pancia, e lei smette di piangere. Ma ogni volta che uscivamo dallo studio, e rientravamo dopo due settimane, Luna ricominciava da capo con i cadaveri. E allora M. e io abbiamo deciso di non far passare più di una settimana tra una seduta e l’altra.”
“E Cosa fa quando sente Andrea piangere Vale? Cosa può fare per lei?”
“Le racconto di M. Le dico che è tra le sue braccia e che le sta raccontando una storia di bimbi che vengono dal mare, sulle barche. Le dico che è dietro di lei, e che le sta passando una mano sulla testa, a scostare i pochi capelli biondi. Le metto a terra la sciarpa che M. mi ha lasciato. Così Luna ce la può poggiare sopra, e sentirà il suo profumo. L’angoscia non passa sempre, ma ci provo. Anche Luna ci prova.”
“A parte Luna, che non usa la voce, le altre parti parlano? Vi parlate?”
“Non tutte. La Bestia comunica solo con Luna, hanno la loro modalità che non mè mai stato possibile sapere. Laura parla, anche troppo. Così come la Psichiatra. Valentina anche, Dorothy pure, nonostante non la senta. Ma quella con cui c’è un dialogo più fitto è Dalia. Qui dentro, lei non cè. Spesso mi parla così tanto e a lungo da farmi dimenticare l’italiano, se mi parlano nella mia lingua non li capisco.”
“È così tanto estranea da comunicare in un’altra lingua.. da essere straniera..” la dottoressa cambia sguardo, in qualche modo gli occhi le i fanno più fitti.
“Lo sa, sono molto confusa riguardo chi usi l’accendino per mitilarmi il braccio.. mi sveglio e trovo ustioni nuove, ampie. Ma Valentina non ha questa modalità per farsi del male, Valentina si spegne le sigarette addosso, quello sì, e lo fa anche davanti alle altre persone, ma è una modalità diversa, più impulsiva. Mi sono domandata se sia Laura, ma poi mi domando.. perché dovrebbe farmi del male in una maniera così invalidante senza che sia utile a darmi una lezione o a insegnarmi qualcosa? Senza che abbia un senso? Forse è il suo lato sadico, che qui sta uscendo e perde il contatto con ciò che dovrebbe avere un senso? Forse vuole solo divertirsi. Ma non so, non lo capisco.”
Con la psicologa cerchiamo di chiamare le parti e chiedere a ognuna di loro se è lei che usa l’accendino la notte.
Ora sono la Psichiatra, questo genere di cose la attivano. Lei la psicologa la guarda negli occhi.
Vale in qualche modo è presente, non vuole che sua sorella renda tutto eccessivamente chirurgico.
“Potremmo convocarle tutte quante, ascoltare cosa hanno da dire. Una specie di gruppo. Crede di riuscire a chiamarle tutte qui? Magari per i prossimi incontri possiamo prepararci a fare una cosa del genere.. cosa ne dice?”
“Posso provarci”, dico. Racconto di ciò che scrivo, che tempo fa ero riuscita a fare una “Riunione di Condominio”, e che il tema era proprio se lasciare viva o uccidere Dorothy.
È passata un’ora e mezza e sono esausta. La psicologa è molto contenta di come sia andata, io anche. Sono un po’ più tranquilla. Un po’ meno confusa. Un po’ più Vale.
Sono fortunata, penso mentre esco. Con questa dottoressa posso fare un gran bel lavoro.
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