#agognato sorriso
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un uomo ed il mare
C'era una volta un uomo di mezza età, provato nel fisico e nell'anima che non vedeva più nulla al di là della propria sofferenza...piangeva spesso e trascorreva le notti insonni. Un giorno decise di reagire, di uscire dall'uscio della propria casa e di incamminarsi verso il lungo mare, il suo cuore si rifocillava grazie allo stridore dei gabbiani che a lui sembrava un canto dolce e melodioso che gli scaldava il cuore, mentre il sole che stava sorgendo gli accarezzava le rughe dell'anima accarezzandogli il viso; le gambe e le braccia si alleggerivano sempre di più fino a trasformarsi in ali di farfalla....finalmente si sentiva meglio. Giunse ad una spiaggia la cui sabbia era diventata oro e ne provò una incontenibile attrazione e , quindi, si incamminò verso il bagnasciuga. Si spogliò completamente nudo ed espose ogni fibra del suo corpo avvizzito all'abbraccio splendente del sole. Entrò nell'acqua senza avvertire alcun brivido e si diresse con lo sguardo fisso al sole procedendo senza indugi e con serenità, piano piano le sue gambe avanzavano verso il largo e ben presto l'interezza del suo corpo venne sommersa dalle acque di un mare che mai nella sua esistenza gli era parso così accogliente e materno...già forse stava tornando nel liquido amniotico del grembo della sua mamma. Adesso anche il suo viso era immerso nel mare e lui continuava a guardare l'orizzonte illuminato dall'alba di un sole meraviglioso... e fu così che si ricongiunse finalmente con se stesso incontrando finalmente la pace, quella pace tanto agognata; la pace del Signore. Proprio mentre stava per abbandonarsi all'abbraccio del riposo eterno e tanto agognato, il suo corpo fu sollevato dala profondità delle acque e fu accarezzato cosi amorevolemente e dolcemente da delle mani forti, possenti ma delicate, fu preso fra le braccia di un Angelo che lo accompagnò verso la riva con un sorriso dolcissimo e, avvolgendolo nella Luce, gli disse: " Vivi su questa terra e sappi che nessun dolore, per quanto tu lo veda insormontabile, si scioglie come neve al sole dinanzi all'Amore di DIO. Affidati a Lui e segui la sua VOCE e vivi!
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Ti guardo, seguo le linee di dolce viso.
Vortico in sguardo ch'è si sensuale, ma lievemente velato di tristezza.
Labbra che vorrei toccar co dita, per certar la realtà.
Dolci e passionali appaion. Sembran fatte per baci teneri e nel contempo di fuoco.
Tra le mani vorrei tener quel volto.
Una carezza. Un rimirar diafana pelle.
Un guardar a fondo in anima inquieta, per chieder perché del tristo velo.
Un sorriso par fatto per dar luce a quel volto. Sorriso che non si legge. Sorriso ch'è agognato.
(Cornelius Nolitta)
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Più passa il tempo più mi sembra di assumere le sembianze di mio padre. Quando mi trovo in mezzo agli altri, seduta fuori un bar del cazzo, mentre qualcuno mi parla, io mi guardo dall’esterno e riesco a percepire il mio sguardo perso, il sorriso abbozzato. L’immagine che ho scalfita in testa che riguarda mio padre è quella di lui, seduto, mentre parla con mia madre - apparentemente normale, acuto, brillante, persino divertente e divertito - ma con lo sguardo altrove. Mio padre ha sempre avuto questo sguardo che cozzava col suo essere gioioso, spigliato, affascinante. Presente. Percepivi che mentre ti parlava o ascoltava le tue stronzate, mentre ti raccontava un fatto comico o ti prendeva in giro, lo facesse sempre con quel piglio ironico, distaccato, quello di chi si trova già altrove. Contemplativo, anche. Sornione, commosso. Sono tutte espressioni che associo a lui. Qualche anno dopo lessi la testimonianza di un amico di Luigi Tenco che lo vide il giorno prima del presunto suicidio. Disse “aveva gli occhi di chi si trova già in un altro mondo”. Mio padre ha sempre avuto gli stessi occhi. Finalmente ci si trova pure lui, in un altro mondo, adesso. Chissà quante volte deve averlo agognato, e da fuori non avresti detto mai. Non avrei mai pensato all’epilogo finale, ma sono certa di averlo sempre saputo. Quel tipo di sguardo lì devi capirlo, devi sentirlo visceralmente tuo, altrimenti persone così, con questi stessi occhi, ti sfuggiranno sempre.
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Sono stati scritti fiumi di inchiostro sul linguaggio egocentrico da due dei più illustri ricercatori in ambito dello sviluppo: Piaget e Vygotskj. Esso non è altro che il tipico linguaggio dei bambini in età prescolare che aiuta il bambino nella scoperta della funzione sociale dello stesso per Piaget, e nella sua interiorizzazione per Vygotskj. Ora non so cosa spinge certe persone che di anni ne hanno più di sei, soglia di età in cui tale modalità comunicativa dovrebbe scomparire, a proseguire sulla linea del linguaggio egocentrico. Sono le stesse persone che incontri nei momenti più sbagliati della tua giornata, che vorresti liquidare “maleducatamente” con un sono di fretta, ma che non fai chissà per quale resistenza. Comincia il supplizio di un ascolto forzato, in cui chi parla non ha ancora chiaro che il linguaggio serva per comunicare e non per una semplice gioia di deiezione orale di suoni concatenati, talvolta talmente tanto contorti e confusionari che il senso è chiaro solo a chi li pronuncia. Non so per quale errore di sistema non si abbia scelto di interiorizzarlo per poter vivere quelle transazioni sociali salvifiche sul tempo che si esauriscono in confortevoli silenzi. No. Nel linguaggio egocentrico il silenzio si aborre, non c’è alcuno spazio, per il malcapitato soggetto a tiro, di poter insinuare una considerazione, solo quello di annuire con un gesto del capo o con un sorriso che nasconde l’impazienza di liberarsi da quella morsa chiassosa. Neppure esiste il riconoscimento di un linguaggio del corpo che sarebbe chiaro a chiunque. L’autoregolazione non è portata all’altro ma solo a se stessi. La logorrea serve paradossalmente per non ascoltare ma anche per non ascoltarsi, una comunicazione, non comunicazione, che ha di paradossale che inchioda entrambi in una posizione di passività verso se stessi, il tempo a scorrere senza più limiti in una confusione di identità e di ere di crescita. Una volta usciti dalla morsa, si torna finalmente a respirare e c'è bisogno di una depurazione interiore fatta di silenzio e sul perché si sia deciso, di andare a fare colazione proprio in quel posto a quell'ora; a chiedersi quale peccato si debba espiare per meritarsi di aver sorseggiato un cappuccino, agognato dal giorno prima, framezzato di parole sino a farne indigestione. La prossima volta ci sarà da essere maleducati senza paura, perché nessuno affetto da linguaggio egocentrico si pone minimamente l'idea di essere lui stesso un maleducato, inchiodandoti alle otto di mattina su cose che non ti interessano ed un ladro di momenti preziosi quali la colazione della mattina.
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Racconto erotico
– Alessandra… –
E il mondo era sparito. Lo aveva detto con quella voce suadente, lenta, cupa e per me era diventato l’unico suono udibile fra tutto quello che c’era intorno a noi.
Non so spiegare quel calore: ad ogni lettera del mio nome che usciva dalle sue labbra lo sentivo salire quasi insopportabile fino allo stomaco e mi ritrovavo con i sensi totalmente impazziti, totalmente bagnata.
– Hai le guance rosse… Alessandra. –
“ho te dentro che mi stai scopando piano…” avrei voluto rispondergli, mi salvava la distanza, il fatto che fosse di fronte a me invece che accanto, in quella tavola, in mezzo agli altri.
– Fa caldo, non ti pare? – mi limitai a rispondere sfoderando un sorriso, quasi distratta.
Non ero una cacciatrice di uomini e non mi piaceva esserlo, preferivo essere sorpresa e presa, perché mi lasciavo prendere solo da chi avevo scelto io, senza sgomitare, senza attirare attenzione. L’idea di essere scelta io stessa, fra tante, mi lusingava. Non mi sarei mai dichiarata, a nessuno, in nessuna circostanza. Volere me, così riservata e in disparte, mi faceva sentire notata: anche anonima, spiccavo ugualmente. Non che fossi brutta, anzi. Tutti cercavano la mia compagnia, le mie risate, le mie battute senza mai tralasciare uno sguardo al fondoschiena e al seno, entrambi decisamente di proporzioni gradevoli e sempre messi in risalto, senza esagerare.
Uno sguardo al culo un uomo te lo concede sempre, vuoi o non vuoi, amico o conoscente…
E io, da buona giocatrice, mi tenevo sempre un passo indietro a tutti. Ma non oggi. Non con lui, così magnetico…
Come mi era difficile frenare gli istinti quando mi capitava un uomo così, quando sentivo il desiderio scalpitare dentro: tanto quanto era difficile trovare un uomo che mi facesse quell’effetto.
Un uomo e i suoi brividi. Per una come me era letale.
Tenere a bada i maschietti anonimi non era difficile, bastava far loro credere che ero frigida, totalmente disinteressata al loro sesso.
Spiegare cosa mi accendesse come un fuoco era difficile… era difficile spiegare che bastava una voce per arrivare all’orgasmo, spiegare che bastava il pensiero delle sue dita a farmi sciogliere come neve al sole.
Non era un pene, la sua durata o la sua velocità… era un dito. E quella voce… ossessivamente erotica.
– Ti accompagno io a casa stasera, Alessandra –
Sapevo già come sarebbe finita quella sera… mi aveva chiamato troppe volte, masticando lento il mio nome in bocca che se me lo fossi trovato addosso gli avrei fatto mangiare anche tutto il resto.
Man mano che tutti andavano via la constatazione di aver accettato un passaggio a casa da lui, mi rendeva sempre più nervosa.
Mi conoscevo troppo bene e sapevo che si sarebbe spinto oltre, lo avevo capito da come si comportava e da come mi guardava. Non solo, mi ero resa conto che aveva capito benissimo che quel suo modo di dire il mio nome era la mina delle mie emozioni.
Maledette guance, diventavano rosse.
Maledetti occhi, si dilatavano.
Quando mi porse il cappotto, mi venne quasi un infarto: la nostra distanza fino a quel momento gestibile, si sarebbe ridotta troppo e pericolosamente.
Ma il copione voleva che io facessi finta di niente, pure con le guance in fiamme e gli occhi dilatati.
Mi voltai e gli permisi di accompagnare il cappotto lungo le mie braccia.
Chinò la testa e mi sussurrò nelle orecchie “che buon profumo hai, Alessandra”
Non so come rimasi in piedi.
Come riuscii a mantenere le ginocchia tese, ma il respiro si spezzò e il cuore ebbe un sussulto.
Deglutii e cercando di evitare di respirare troppo forte, mi girai sfoderando ancora uno dei miei sorrisi più marcati aggiungendo un ‘grazie’.
Poi misi un piede avanti all’altro e cominciai a camminare verso l’uscita del ristorante.
Stavo per capitolare, ormai era palese, ormai ero sua.
Lo sentivo dietro di me, silenzioso.
Salutammo tutti nel parcheggio, tra risate e battute, rumori di portiere che si aprivano, bip di allarmi e motori accesi. Poi ci fu il silenzio.
Eravamo rimasti solo noi.
Lo vidi tirar fuori dalle tasche le chiavi della sua macchina “Vieni, ti accompagno a casa, Alessandra”
‘Oh ti prego non chiamarmi più!’ pensai, mentre lo seguivo come un automa.
Aprii lo sportello e salii, sistemando la borsa tra le gambe.
Fu in quel momento che sentii la sua mano sul ginocchio: si avvicinò velocemente e con l’altra mano raggiunse la borsa. Ora avevo il suo viso praticamente ad un soffio dal mio.
“Non stare scomoda, Alessandra… mettiamola nel sedile posteriore.”
Che avrei potuto rispondere? Niente… non potevo: avevo il cuore in gola e una voglia matta di baciarlo senza più fermarmi.
E lui, tranquillamente, mise la borsa sul sedile posteriore, mi sorrise e avviò il motore. L’autoradio si accese in automatico e le note di un pezzo soft jazz riempirono l’abitacolo.
Ero bagnata. Lo sentivo chiaramente, la sentivo pulsare, spasmodica.
Dovevo obbedire agli impulsi, mi soffocavano, ero single da troppo tempo, da troppo tempo in attesa di un Uomo che di maschi ne avevo abbastanza.
Con quei suoi riccioli brizzolati, i suoi occhi azzurri, il suo volto segnato dal tempo, era semplicemente quel lui, quel brivido che aspettavo.
“Vuoi venire a bere qualcosa su da me?”
“Perché no?” gli risposi lentamente guardandolo. Si voltò per un attimo, togliendo gli occhi dalla strada: sentii il suo sguardo percorrermi dolce. Le sue mani strinsero il volante e tornò a guidare. “Ne sono felice…” sussurrò La musica jazz continuava ad andare, dolce e sensuale, mi chiesi se l’avesse scelta apposta… dio, mi sentivo scoppiare. Imboccò una via e si parcheggiò. Mi prese la borsa e me la porse prima di scendere. “Vieni…” Attraversammo un vialetto, una piccola serie di scalini e un portone. “Abito a piano terra” mi disse mentre percorrevamo il corridoio “è un piccolo appartamento, ma è accogliente…” Aprì la porta e con un sorriso mi invitò ad entrare per prima. “E’ carino” dissi dando uno sguardo in giro Mi tolse il cappotto e lo mise sul divanetto del corridoio, insieme alla borsa. Lui annuì, ma stava guardando altro: stava guardando le mie curve morbide che il vestito aderente sottolineava. Lo avevo colto in flagrante e la cosa non faceva altro che farmi girare l’adrenalina più veloce… Non volevo bere… avevo fame.
La distanza tra me e la parete era di pochi passi, mi ci trovai spinta dolcemente contro, con il suo corpo addosso, mani sulle mani e le sue labbra dietro le orecchie.
La guancia e seno premuti sul muro e il suo respiro caldo mi travolse
“Odori di sesso… e di lavanda, Alessandra.”
O cristo, pensai, mentre la marea calda mi invadeva: le mani scesero lungo i fianchi, sulle cosce e lentamente risalirono portando con loro il vestito.
Non ero tipo da slip o da perizoma, ero tipo da autoreggenti a balza alta e niente intimo, ma un uomo lo scopriva solo togliendomi i vestiti.
Sentii le sue dita indugiare sulla balza delle calze per poi risalire dolci verso il mio sesso…
Trattenne il fiato per un secondo, come capitava a tutti, quando si rendevano conto che non c’era altro a coprire quel tanto agognato paradiso dei sensi.
“Non avrei mai pensato di trovare tutto questo fuoco sotto il vestito…” mi sussurrò ancora con quella voce micidiale.
‘Oh c’è molto altro, pensai… c’è un mare che non sai…’ ma non riuscivo a dirlo, le sue dita stavano già entrando dentro i miei pensieri…
E gli istinti si sa, non possono essere controllati, soprattutto quando un uomo sa come fare…
Eccolo arrivare… piano… devastante quel calore che sommerge e che poi esplode!
A me bastava solo quello, era il mio piccolo segreto…
“oh…”
Quanto mi piaceva stupirli e squirtare tra le loro dita, mi faceva sentire così padrona, così unica e speciale!
Sentirli perdere il controllo e ansimarti addosso, stringerti i glutei o le cosce così avidamente, la loro eccitazione piantata sulla schiena… valeva la pena… valeva il rischio.
Presa, intrappolata, ma mai sedotta veramente…
Il vestito non serviva più e me lo sfilò quasi prepotente.
Con un sorriso languido gli presi la mano con cui mi aveva toccata e gli succhiai le due dita: sapevano di me, sapevano di sesso.
Era solo il preludio della mia bocca su di lui, delle mie fantasie e di tutto quello che avrei potuto fare.
Tolse le dita e mi baciò, esigente, premendomi ancora contro la parete. Lui era ancora vestito, io ormai avevo addosso solo calze, scarpe e reggiseno.
“Toglilo…” mormorò
Prima una spallina, poi l’altra… mi voltai di nuovo faccia al muro e armeggiai con i gancetti, liberandoli. Scivolò sul pavimento e io, perfida, con le mani al muro, mi piegai allargando le gambe.
Con la coda dell’occhio lo guardai: era il momento in cui un uomo si spoglia, di corsa di tutto quello che ha addosso. Era il momento in cui sapevo di avere il completo controllo su di lui, ero io a condurre quel benedetto piacevole gioco fatto di mute richieste e di reazioni…
Mi sfiorò i glutei e me li strinse “vestita sei bella… ma nuda… nuda sei stupenda”
Un brivido mi percorse la schiena, la sua lingua ora stava percorrendo dolcemente incavo delle natiche, avanti e indietro!
Di nuovo quelle dita dentro di me, piano, più veloci… stavolta non riuscii a stare zitta e quando la marea calda esplose ancora, sulle sue mani e sul pavimento, mi lasciai andare, gemendo forte.
So che non resistono mai la seconda volta… so che la voglia diventa cieca…
Sentii il suo pene strofinarsi e bagnarsi di me e subito dopo mi scivolò dentro, piano, in un singulto, fino in fondo.
Lo accolsi, inarcando la schiena, in punta di piedi.
“Sei bollente…” mormorò senza fiato iniziando a muoversi
Ma io non ero normale… ero speciale… se ne era accorto, ma non abbastanza.
Mi piaceva giocare con i muscoli… stringerli e poi lasciare… stringere poco per volta e poi via via sempre più forte: non mi importava se fosse venuto subito, come non mi importava di venire io: avevo bisogno di altro tempo per farmi scoprire. L’unica cosa che mi importava era essere “il suo piacere”, irresistibile, totale, puro orgasmo di mente e corpo. Era quello il mio godimento personale.
E vincevo sempre io.
[©Yelena b.]
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Regioni italiane week 2019
Giorno 4: Favourite AU
(Disclaimer: la versione un po' taroccata dell'audio è qualcosa di meh, specie nel finale, ma è l'unica che s'avvicina alla base che ho usato 😅🤣🤣🤣 per una probabile e non sicura miglior lettura, si consiglia l'uso delle cuffiette o, se siete soli in casa, di premere semplicemente il tasto play.)
La pioggia cadeva lenta e silenziosa, estinguendo i piccoli incendi che erano stati appiccati intorno e dentro al castello, durante quella folle battaglia iniziata per gelosia, ma a Rosa non interessava, non dopo quello a cui aveva assistito, tutto il suo mondo era concentrato su lui che giaceva disteso vicino a lei; respirava a fatica, stremato e con una brutta ferita all'addome, ma ebbe comunque la forza di aprire gli occhi, dedicandole uno sguardo colmo di serenità e rassegnazione allo stesso tempo.
"Ciao," le disse, sforzandosi a parlare, "hai mantenuto la promessa."
Le sfuggì un sorriso di scherno, nonostante la situazione poco comica, "Credevi che me ne fossi andata per sempre?"
Gabriele sorrise anche con le fitte di dolore che gli attraversavano il corpo; provò a mettere a fuoco davanti a lui, ma tutto ciò che vide del volto della sua amata Rosa era sfocato, e ciò gli creava un'enorme frustrazione: non avrebbe potuto vederla in tutta la sua naturale ed inebriante bellezza.
"Almeno ho avuto il piacere di ammirarti un'ultima volta," le disse nonostante tutto.
Il tono arrendevole e debole le fece sbarrare gli occhi dall'orrore, come se quello fosse un addio, "Non dirai sul serio vero?"
"Mi spiace deluderti, ma temo proprio di sì."
"Oh, no, no no no! Ti rimetterai, ri-ricordi quella volta coi lupi? Ti ho curato, sei guarito, e anche questa volta sarà così, te lo prometto!"
La zampa destra si posò sul suo volto, intrecciando le dita e gli artigli tra i suoi capelli, e asciugandole con il pollice quelle che non erano gocce di pioggia, bensì lacrime della ragazza. Rosa lo vide sorriderle, gli occhi nocciola erano diventati vacui, gli prese la zampa e la fece aderire meglio al suo viso, poggiando leggermente le labbra sul palmo, "Ti prego--"
La ragazza si dovette fermare a causa della forza venuta meno nel braccio di Lele, che si rese conto era lei a sorreggere ormai, mentre lui aveva chiuso gli occhi, inclinando la testa; Rosa si mise le mani davanti la bocca per trattenere un singhiozzo, volendo ignorare il braccio richiamato a terra senza porre resistenza, si buttò sul suo corpo senza vita, stringendo nelle sue piccole mani la camicia per strattonarla e farlo risvegliare, con le lacrime che continuavano a scendere copiosamente sulle sue guance.
"No! Ti prego, Lele, alzati, dai! Ti ha dato sempre fastidio questo nomignolo, Lele! Svegliati, dimmi di smetterla! Lele! Ti prego!," appoggiò il viso al muso animalesco del suo ex-padrone, con la speranza di sentire un rantolo, un segno di vita, qualcosa, aveva bisogno di lui, non poteva abbandonarla, non lui...
"Io ti amo," sussurrò in preda alle lacrime e ai singhiozzi che non volevano cessare.
E prima che l'ultimo petalo toccasse la superficie del tavolo, la mano di una donna apparsa dal nulla, coi capelli del grano e gli occhi dello stesso color del miele, colpita nel profondo da qualcosa che aveva sentito pronunciare, lo prese e lo sfiorò con le labbra, facendone scaturire un fascio di luce dorata, il quale si diresse verso colui che aveva trasformato anni prima in bestia. La luce invase l'intera ala ovest, donando calore e sciogliendo la neve accumulata, per poi concentrarsi sul padrone del castello; il corpo di quest'ultimo ebbe un sussulto, spaventando la fanciulla che giaceva sopra e, davanti ai suoi occhi stupiti e impauriti, venne avvolto dalla luce, guarendo immediatamente la ferita infertagli da Carlo, ma la cosa più sorprendente fu altro: la stazza da orso si ridusse per diventare più umana, le zampe e gli artigli da lince stavano lasciando il posto a mani e piedi, le corna e la coda si ridussero fino ad estinguersi, il bruno pelo era sparito per lasciar vedere la pelle sotto le vesti, e infine il muso da lupo ritornò ad essere il volto di un ragazzo, un uomo, dalle ciglia folte, il naso concavo e i bruni capelli lunghi da accarezzargli il mento, coperto da un pizzetto. Rosa cominciò a indietreggiare, con il cuore che batteva come impazzito, dovette coprirsi gli occhi quando la luce intorno a quel corpo umano s'intensificò fino a diventare accecante come il sole, per poi disperdersi come semplici granuli di polvere; la donna sorrise consapevolmente un'ultima volta a quella scena e scomparve senza lasciare traccia, adesso toccava a quel giovane uomo fare il miracolo.
Colui che aveva sostituito la bestia si mosse piano, aprì con calma gli occhi e lentamente si mise seduto, non riuscendo però a celare una nota di stupore sul suo viso quando si rese conto delle proprie forme. Sentendosi osservato, si voltò alla sua sinistra e vide Rosa, poco lontana da lui, con gli occhi arrossati dal pianto, incerta su come reagire di fronte a quello che considerava uno sconosciuto; a Gabriele venne da sorridere a quella tenera visione, si mise in piedi, trovando strano muoversi nuovamente in posizione eretta, e le andò vicino, porgendole una mano per alzarsi.
"Non mi riconosci?," le chiese, notando come anche la voce fosse meno grave e rauca, ma non gli dispiacque, affatto, era tornato umano e tutto grazie alla creatura davanti a lui.
Rosa guardò un secondo la mano, passando poi per il braccio, il viso di quel giovane e, infine, gli occhi: li aveva già visti, da qualche parte, tempo fa, su un quadro, un giovane con l'espressione accigliata, ma in quel momento le stavano rivolgendo uno sguardo dolce, riconoscente, come quello che le dedicava sempre lui, ogni volte che incrociava i suoi occhi.
"Lele," sussurrò con la voce che tremava per l'emozione, afferrandogli la mano senza neanche pensarci.
Gabriele annuì e allargò il sorriso, non trovando sgradevole quel nomignolo per una volta, mentre l'aiutava ad alzarsi, senza interrompere il contatto visivo; entrambi non riuscivano a smettere di ridacchiare, trepidanti dal dire o fare qualcosa, l'eccitazione era palpabile, il castano aprì la bocca per dire qualcosa, ma Rosa fu più veloce e gli buttò le braccia al collo, posando le labbra su quelle di lui, in un impeto di follia che sorprese anche lei. La gioia crebbe quando anche Gabriele la strinse forte a sé, approfondendo il bacio, trasmettendo tutti i sentimenti che provava in quel contatto agognato da mesi.
Per magia, la pioggia fece ritornare il castello e i giardini al loro antico splendore, dal terrazzo Gabriele e Rosa sentirono le urla di gioia della servitù che s'abbracciava, piangeva e chiamava i propri cari.
"Maria!," un bambino corse incontro ad una donna e s'abbracciarono.
"Sia lodato il Signore," disse la donna, commossa, "Nicandro! Il mio piccolo Nicandro!"
"Lucia!"
"Totò!"
I due innamorati intrecciarono le mani, avvicinando le proprie fronti fino a farle toccare.
"Mi sei mancata da morire."
"Anch'io ho sentito la tua mancanza."
Un ragazzo col monocolo si guardò attorno, alla ricerca di una figura, ma venne distratto da una pacca da parte d'Antonio.
"Sandro, vecchio mio! N'è passato di tempo!"
"Direi," convenne col compare, accennando un sorriso.
"Dovremmo dare una festa da ballo!"
"Non riesci a farne a meno?"
No, Antonio non ci riuscì: sette giorni più tardi, tutto il paese era a festeggiare nella spaziosa sala da ballo, a ridere, scherzare e danzare.
"Che ti dicevo io? Lo vedi che avevo ragione?," domandò Antonio, riferendosi alla buona riuscita del ballo, "Uomo di poca fede."
Al suo fianco, Alessandro alzò un sopracciglio dubbioso, "Infatti, dobbiamo ringraziare la tua straordinaria persona per aver finalmente confessato i tuoi sentimenti al padrone."
"We, adesso non esageriamo, eh! Voglio bene, sì, al Signorino, ma mai quanto la nostra piccola Rosa."
"Anche perché, altrimenti, la tua Lucia sarebbe gelosa e non poco."
"Giusta osservazione, amico mio, e ora che mi ci fai pensare, meglio che vada a cercarla, non voglio perdermi un solo bacio da parte sua."
Alessandro fece un elegante gesto con la mano per toglierselo dai piedi, "Va', non voglio certo perdermi uno spettacolo del genere."
E mentre Antonio andava a cercare la sua bella, Alessandro ne approfittò per analizzare meticoloso ogni angolo del castello alla ricerca di un'altra figura, trovandola a suonare l'organetto, strumento al quale quell'uomo dai capelli biondi, tenuti stretti in un codino, era legato; solitamente discutevano, Sandro godeva nel vederlo perdere le staffe, e quando il maestro suonava si sentiva in dovere di far tornare quella vena che pulsava sulla sua fronte.
"Non sarebbe il caso di far suonare un vero maestro, Marco?"
"Puoi anche allontanarti, se ciò ti aggrada, almeno non devo ascoltare la tua voce fastidiosa."
Ma Alessandro non si mosse, s'aggiustò il monocolo e continuò ad osservare la sala, con le varie coppie che danzavano intorno al padrone del castello e alla fanciulla che lo aveva salvato, aveva salvato la vita a tutti loro, e di questo ne erano profondamente grati.
Ed è con assoluta certezza che posso dirvi questo: fin quando il sole sorgerà ad est, di padre in figlio si tramanderanno una favola e una melodia, talmente antiche da perdere le radici nei meandri del tempo, entrambe narranti lo stesso avvenimento. La storia di come una bella si sia innamorata di una bestia.
"Lele?"
"Cosa c'è?"
"Non ti dà più fastidio questo soprannome?"
"Mi hai chiamato così tante volte in questo modo, che ormai mi sono abituato."
"Quindi posso osare di più!"
"... Oh no! Rosa no! I tuoi nomignoli non sono proprio... Adorabili."
"Peccato, e io che pensavo capretta fosse meraviglioso."
"..."
"Chi tace acconsente."
"No, chi tace non vuole discutere!"
"Ti stai scaldando, mia capretta bella?"
"D'accordo che siamo al buio, ma avrai notato che sono umano ormai."
"Però, credo che qualcosa sia andato storto, il petto villoso, questa barba da capretta... Sicuro che dovevo solo dire di essere innamorata di te?"
"Sono sicurissimo."
"Allora ci stava sicuramente altro che ti è passato di mente."
...
...
"Lele?"
"Mh."
"Ti amo."
"... Anch'io."
"Non osare, però, a farti togliere questa barba."
"E opporre resistenza non è contemplato, suppongo."
"Ottimo intuito Lele."
"Fanciulla impertinente."
"Capretta testarda."
#regioniitaliane2019#abruzzo#puglia#oc @blogitalianissimo#la bella e la bestia!au#fanfiction#(teoricamente doveva esserci anche la melodia in sottofondo...ma ad un certo punto la storia diventava troppo lunga e non andava a tempo 😭)#(chiedo venia per la grandezza di ale in quella sottospecie di mosaico😂per non farlo come l'originale m'è venuto sproporzionato al resto🤣)#lombardia#campania#emilia#molise#sicilia#veneto#(piccola apparizione della fata francesca)#(e pare che invece va a tempo! 🤩 ok... forse non proprio precisamente... però ce l'ho fatta!)#(però non so se ho fatto bene ad inserirla 🤔😶🤦🏻♀️🤦🏻♀️🤦🏻♀️🤦🏻♀️🤦🏻♀️)#(cioè sì ma... boh... è il finale dell'audio che lascia un po'... meh...)#(mi fate il favore che - se decidete di leggere con l'audio - non fate caso al coro finale? 🙏🏻🙏🏻🙏🏻)
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Ho bisogno di te.
Ti cerco ovunque, cerco costantemente i tuoi occhi verdi pieni di luce negli sguardi vuoti, spenti, marmorei delle persone che mi circondano.
Potresti essere ovunque fisicamente, da tutt'altra parte, ma in realtà, nella mia percezione, trascendi il mondo e ti manifesti in ogni luogo.
Non pensavo fosse possibile ma ho percepito un'espressione dell'infinito su questa terra, l'illimitato, l'assoluto.
Te.
Cerco quel sorriso distratto, imbarazzato, goliardico per cui avrei donato il mio prezioso ed agognato tempo.
Cerco il tuo cuore, candido, fragile, pieno di battiti, per quelle cose semplici ma profonde che pensavo fossi l'unico a curare.
Cerco l'armonia che il mondo aveva assunto, lo strano senso che "muoveva il sole e l'altre stelle".
Cerco un tuo abbraccio, di quelli che valgono mille parole.
Cerco quella imperfetta perfezione di cui eri avvolto.
Cerco quel sole, quel sole estivo che coronava il tuo volto e che da un po' ha smesso di splendere.
Era per me una promessa, la promessa di ogni amore, fare del tempo un frammento dell'eterno su questa terra.
Ho bisogno di te, lo sento ancora, forte, come se il tempo non passasse mai.
"Il giorno prima del giorno dell'inizio non ha mai avuto fine" direbbe Levante.
Ed è così.
Te ne sei andato con la stessa impetuosità e delicatezza con cui hai fatto ingresso nella mia anima.
"Ho corso a perdi fiato per vederti respirare
Per sperare mi sputassi in faccia il cuore"
Continuo invano a cercarti.
Ancora.
Ho bisogno di te.
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L'ATTESA Se c'è una cosa che non so fare quella è attendere perché sono una donna del fare. Progetto, sogno e costruisco ogni giorno la mia vita calcolando, minuziosamente, ogni particolare, perché vivo intensamente ogni giorno, ogni mio giorno. Non so attendere perché quei mille granelli di sabbia che scendono giù, lenti e inesorabili, dalla clessidra mi angosciano, mi torturano, mi fanno impazzire. Ecco perché preferisco fare, agire, costruire e sognare piuttosto che aspettare che le cose accadano. Eppure tu mi hai fatto aspettare, eppure tanto. Come tu ci sia riuscito me lo chiedo ogni giorno. In questo lungo lasso di tempo ho pensato e ripensato a come sarebbe stato il nostro incontro a cosa ci saremmo detti a cosa sarebbe accaduto. Ho progettato tutto l'abito, il profumo, la giacca, la sciarpa e il mio sorriso, che sarà la prima cosa che vedrai di me. Ora che si avvicina quel giorno tanto agognato tremo, ma il mio tremare non è paura ma adrenalina pura che mi scorre nelle vene è la vita che mi appartiene e che ha un richiamo irresistibile per me, da sempre. Oramai ci separano una manciata di ore e so e sai che, il nostro, sarà un incontro importante che non ci lascerà gli stessi ma ci cambierà dentro, dal profondo. La vita ci ha fatti incontrare e la vita deciderà cosa sarà di noi, noi possiamo solo accettare i nostri ruoli, possiamo provare ad accanirci o la lasciarci andare, ma niente rimarrà più la stessa, noi non saremo più gli stessi. Ci staccheremo dallo stormo o resteremo confusi a volteggiare inconsapevoli in picchiata o in salita disegnando traiettorie ardite che non sono le nostre ma del gruppo a cui apparteniamo? Chissà se io e te diventeremo quei due gabbiani che volano uno accanto all'altro, staccati dal gruppo, sfidando le correnti il freddo e la pioggia vicini, uno all'altro, nel sogno ardito di una vita insieme. Lo sapremo presto lo sapremo domani. Intanto conto i minuti i secondi, le ore non sto nella pelle e mi sento viva. di Giulia Madonna - 06/03/2022 - ore 18:29 - tutti i diritti riservati - Foto di Antonius Marcus
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THE NORTHERN LIGHTS
role extract, the christmas holidays.
La notte s'era calata come un manto sull'intero territorio che ospitava la Tana; il silenzio rotto solo dalle lontane eco di richiami di gufi e creature notturne, ma i sensi di Roxanne erano all'erta in modo da captare i suoni di esistenze ancora in veglia, affinché si accertasse che i suoi nonni, zii e cugini, fossero profondamente assopiti. L'argenteo bagliore della luna che filtrava dalle finestre le confermava l'orario notturno già inoltrato. « Muffliato. » sussurrò, e l'incanto pervase la stanza occupata da molteplici materassi e figure addormentate a malapena riconosciubili alla scarsa luce, dunque la sua attenzione si rivolse verso la distinta figura di Dominique che aveva persuaso per giacere al suo fianco, sotto le numerose coperte, in attesa di attuare la loro missione segreta. « Nique. » bisbigliò. « E' ora. » E per quanto sussurrata la di lei voce era intrisa di eccitazione.
Era super esaltata, Dominique, e far in modo di non esternare troppo la cosa così da farsi scoprire, era stato stranamente difficile; anche se non aveva un'indole particolarmente frizzante, come alcuni dei suoi cugini, forse era qualcosa che definiva anche il suo, di sangue. Si trovava nel letto, mentre fingeva di dormire, in attesa di potersi smaterializzare insieme a Roxanne e giungere in quel luogo nell'estremo nord, per assistere ad un panorama — a suo dire — a dir poco meraviglioso. Gli occhi chiusi, ma per finta, erano stati velocemente riaperti al risuonar della voce dell'altra, facendola alzare velocemente da quel giaciglio. ‹‹ Siamo pronte allora? ›› le labbra velocemente larghe in un sorriso, mentre sistemava il piumone, quasi mettendo in ordine. ‹‹ Sono così contenta! ›› e se fossero state altrove, la probabilità di trovarla intenta a saltellare era molto alta, ma non potevano farsi scoprire.
Il sorriso che incurvò le labbra di Roxanne la rese più simile a suo padre di quanto i tratti somatici avessero potuto fare, donandole quell'aria vispa di chi è intento a mettere in atto un piano ponderato da tempo. Tuttavia, quella reazione era invisibile al buio, quindi si limitò a replicare. « Pronta quando lo sei tu. » S'era sfilata dalle coperte sotto cui aveva giaciuto ancora completamente vestita, in attesa di quell'imminente partenza. Al di sotto del materasso, estrasse il mantello in cui si avvolse, preparandosi ad addentrarsi nel gelo della notte; cosicché attese che sua cugina fosse pronta a partire per quel viaggio tanto agognato e tese a Dominique la mano destra, confidando che il lieve chiarore della luna rendesse visibili i contorni. « Guidaci tu. » le confidò, affidando a lei la responsabilità di smaterializzare le loro figure e trasportarle nel luogo che avevano impresso bene nelle loro memorie. Roxanne strinse gli occhi, chiudendo fuori ogni residua visuale per concentrarsi su una chiara immagine di una città sconosciuta. Ed attese, le labbra schiuse in un sorriso impaziente ed ogni nervo teso.
Velocemente la giovane Dominique aveva recuperato le proprie cose, scelte appositamente per quell'esperienza, un caldo cappotto, un cappellino buffo con un gatto disegnato e dei guanti abbinati; non era importante quanti incantesimi potessero usare per scaldarsi, gli outfit erano belli da indossare, appositamente per quello. ‹‹ Io sono prontissima. ›› e lo era davvero, mentre le labbra rosee della giovane si allungava in un ampio sorriso, che non riusciva affatto a reprimere; si era studiata quanto più possibile, le immagini, vi era una città in Norvegia, dove poter assistere a quel panorama era possibile, rendendo tutto splendido. ‹‹ Dammi la mano. ›› mano tesa, polso rivolto verso l'alto, così da incentivare la mora a stringere la propria mano; gli occhi dell'anglo-francese erano ora chiusi, mentre nella mente cercava di mettere quanto più a fuoco possibile, il luogo scelto. Avrebbero raggiunto la Norvegia, avrebbero assistito all'aurora boreale, quant'era vero che si chiamava Dominique Weasley.
La mano di Roxanne vagò nel buio, in cerca di quella opposta di Dominique, e quando le di lei dita sfiorarono quelle dell'altra, avvertì la scarica elettrica percorrerle le falangi, riverberarle nel polso e spingerla ad avvinghiarsi a quella presa, far aderire i palmi ed avvertire il proprio quasi ardere, sollevato dal ricevere quel contatto che spesso cercava una scusa per ottenere. La di lei mente mise a fuoco quelle immagini con tutta la concentrazione di cui era capace, cercando di scacciare il pensiero della pelle di Dominique a contatto con la propria. « Al tre. » annunciò. « Uno, due, — » ed avvertì la sensazione di essere stata risucchiata in un vortice in grado di comprimerle ogni punto vitale fino al limite della sopportazione per poi svanire. Esitò al riaprire gli occhi, ma avvertì il vento gelido sferzarle le guance scoperte. « Nicky? » sussurrò, esitante, gli occhi ancora serrati.
Era come se la mano di Roxanne fosse per lei un punto sicuro, un qualcuno capace di colmare quelle differenze che vi erano tra le due, un qualcuno senza il quale, Dominique, non poteva più immaginare se stessa. Per quello con lei era pronta a fare qualsiasi esperienza, anche se si trattava di smaterializzarsi per raggiungere il Polo Artico senza avvisare nessuno. ‹‹ Tre! ›› l'immagine ben a fuoco nella mente, tutti quei piccoli dettagli che aveva studiato e cercato di rimembrare al meglio. Solo quando la sensazione tipica del corpo che toccava nuovamente terra dopo essersi smaterializzati, aveva pervaso la giovane fanciulla, e la voce di Roxanne rompere quel silenzio, le palpebre s'erano riaperte, osservando di fronte a sé. ‹‹ Rox è — è ... wow. ›› le immagini erano nulla, in confronto a ciò ch'era dinnanzi a lei, un panorama senza fiato.
Fu lo stupore di cui era carica la voce di Dominique a risvegliare la curiosità di Roxanne, che quasi sgranò gli occhi, tenuti chiusi tanto a lungo da necessitare di mettere a fuoco la visuale. Ancora aggrappata alla mano di Dominique, incapace di allentare quella presa, sperimentò il sollievo della riuscita di quel piano; l'emozione successiva fu quella di folgorante sorpresa dinanzi a quello spettacolo. « Woah. » sussurrò, approssimandosi alla figura di Dominique, parandosi spalla a spalla. La distrazione determinata da quei colorati bagliori di luce, annullò il pensiero del vento tagliente che la colpiva in pieno viso. Gli impellenti brividi risvegliarono l'istinto di avvolgere il proprio spesso mantello attorno alla propria figura, includendo quella di Dominique tra i lembi, ponendosi alle spalle di lei. Sospirò, nel poggiare il mento sulla spalla di sua cugina, proiettando su di lei lo sguardo e scorgere il profilo preciso di naso, labbra, mento, il profumo della sua pelle diretto alle di lei narici dalla violenza del vento. Persino da quella prospettiva, era in grado di scorgere le luci dell'Aurora riflesse nelle di lei iridi azzurre ma, nonostante quello spettacolo, Roxanne avrebbe giurato che la migliore visuale, era quella a lei già nota di sua cugina, dipinta di puro stupore.
Aveva sempre amato gli spettacoli del cielo, delle stelle, desiderando spesso di vedere l'universo stesso, un misto di colori, luci, qualcosa che solo vederlo poteva spiegare la sensazione provata. Aveva sempre amato l'aurora, solo vista nei libri, ma in quel momento? Tutto vinceva, e alla grande, sul resto. Non poteva che considerarsi più felice di così, in quel momento, soffermandosi sulle sfumature che quel paesaggio creava, come dei semplici colori, risultassero vividi, forti, belli, dinnanzi a lei. ‹‹ Grazie. ›› aveva sussurrato, Dominique, sentendo il calore dato tanto dal mantello quanto dalla figura di Roxanne alle proprie spalle. Era impossibile non lasciare che le proprie labbra continuassero a rimaner larghe in un sorriso, quel panorama era semplicemente sensazionale. ‹‹ Vorrei poter immortalare questo momento e portarlo sempre con me. ›› ma la realtà era che mai qualcosa avrebbe reso abbastanza, come il momento stesso, vissuto, e mai avrebbe potuto viverlo in egual modo, senza la presenza della cugina lì con lei.
La giovane Johnson-Weasley sorrise, in risposta alla gratitudine della cugina, prima di rendersi conto che l'altra non poteva vederla. « Non c'è di che. » verbalizzò, quindi, dicendosi grata a sua volta di poter assistere alla felicità di Dominique e dirsi, in qualche modo, in parte, responsabile di essa. E quello spettacolo era di gran lunga superiore a qualsiasi incantesimo ella avesse mai appreso, a qualsiasi magia a cui avesse mai assistito, ma il fatto di essere sola in compagnia di Dominique lo rendeva più speciale, donandole quella sensazione di libertà che poteva avvertire solamente lontana dalle radici della sua famiglia, casa, esistenza. Le parole della cugina, fecero sì che si maledicesse mentalmente per non poter soddisfare quel desiderio. « Non ho portato una macchina fotografica, ma posso farti una promessa: faremo in modo di tornarci. Parola mia. » ed avrebbe dato qualsiasi cosa per farlo avverare.
Le parole non erano abbastanza, non sapeva come altro esprimersi in quel momento, tant'era contenta, tant'era felice. Se non fosse stata una strega, avrebbe giurato che per rendere un luogo così bello, suggestivo, semplicemente splendido, il merito era da attribuirsi proprio alla magia. Il viso di Dominique s'era voltato verso quello della cugina, alle proprie spalle, mentre quel sorriso ancora non accennava ad abbandonare le di lei soffici labbra. ‹‹ Mi piacciono queste promesse. ›› sapere di poter tornare lì, sicuramente non poteva far altro che scaldarle il cuore, renderla più felice di quanto non fosse già. ‹‹ Ma ce lo ricorderemo noi due, questo momento. Per sempre. ›› come avrebbe potuto mai dimenticare quegli istanti? Se Roxanne non fosse sempre stata pronta a seguirla, probabilmente nulla sarebbe avvenuto, ma invece erano lì, e l'anglo-francese era felice, molto. ‹‹ Sono così belle queste luci, non è vero? ››
L'istinto primario fu quello di imitare sua cugina e rivolgere il viso in direzione del suo, solo per rendersi conto che la distanza che impediva alle punte dei loro nasi di sfiorarsi sarebbe stata annullata con troppa facilità; quel pensiero fece sì che Roxanne avvertisse la presenza del cuore all'altezza della gola, pulsante e vivo. « In tal caso farò di tutto per mantenerla. » sussurrò, a mezza voce, forzandosi a mantenere lo sguardo nelle iridi cilestrine di Dominique ed impedir loro di lasciarle vagare sui tratti precisi del di lei volto. Si limitò ad annuire, un lieve sorriso a schiudere le labbra. « Per sempre. » Affermò, realizzando di aver trattenuto il respiro. Il mondo al di là della figura di sua cugina avrebbe, a quel punto, potuto esplodere ed ella non ci avrebbe badato, così come quello spettacolo imperversava al loro intorno e Roxanne riusciva a dedicare ogni briciolo della sua concentrazione a quei tratti sì noti che avrebbe potuto tracciarli a matita su uno sfondo bianco. « Mozzafiato. » Replicò.
Non avrebbe mai potuto, immaginare se stessa senza Roxanne, senza quelle piccole cose che condividevano, momenti che le portavano a smaterializzarsi da casa, fino a raggiungere il Polo Nord. Sapere di avere qualcuno s cui fare affidamento, non era da tutti, ma lei? Lei si sentiva fortunata, ad avere una persona come la cugina al proprio fianco. ‹‹ Grazie, Roxy. ›› aveva sussurrato, come se quel silenzio, tuttavia splendido, che stavano avendo attorno a loro, potesse venir rotto in altre maniere, e che proprio non voleva rovinare. Posando il capo contro la spalla dell'altra, le labbra della giovane Delacour-Weasley erano larghe in un sorriso, quel momento era perfetto, come poterlo non tener stretto a sé? Era felice, era tutto semplicemente perfetto. ‹‹ Non pensavo ci sarebbe mai potuto essere qualcosa di così magico ed al tempo stesso normale, capace di togliere il fiato. Ti è mai successo? ›› aveva poi aggiunto, la bionda, sempre con quel tono di voce basso, anche se sapeva che l'altra l'avrebbe potuta udire senza problemi.
Avrebbe voluto congelare quel momento, far sì che perdurasse in eterno e godere quel senso di beatitudine senza il timore che potesse finire da un momento all'altro. La libertà che le pulsava nelle vene non aveva eguali, neanche quando si trovava su una scopa a giocare a Quidditch, o quando scorrazzava tra i prati della Tana coi cugini, né quando si ritrovava da sola ad immergersi in quelle fantasie di cui nessuno era a conoscenza. No, quello era un tipo di libertà nuova, in cui era lontana da casa, nessuno oltre Dominique conosceva il suo nome e, per qualche minuto, nulla appariva sbagliato e contorto. In risposta alla gratitudine di sua cugina, strinse il mantello attorno alle loro figure, mentre posava la tempia contro quella di sua cugina e poteva avvertire quel punto esatto ribollire al contatto. Si costrinse a distogliere lo sguardo dal di lei preciso profilo, per puntarlo sullo spettacolo della natura che erano le luci del nord, quando la voce di lei infranse il silenzio della notte. Ponderò quella domanda, avvertendo gli organi all'altezza dello stomaco contorcersi in un groviglio, perché avvertiva quella sensazione ogni volta che il suo sguardo incrociava le iridi cilestrine di Dominique Weasley e ponderava che umanità e magia non avrebbero potuto fondersi in un modo migliore. « Sì, mi è successo. » Confessò, constatando che se avesse mentito a riguardo, sarebbe esplosa. Ringraziò il cielo che Dominique non potesse, da quella posizione, puntare lo sguardo nel suo.
A volte Dominique sentiva quel bisogno di esprimere quel che pensava a parole, anche se solitamente preferiva i gesti. Forse perché non tutti potevano vederla come lei, il che era del tutto normale, dopotutto. Sentiva il bisogno di sapere, che anche Roxanne, avesse vissuto la stessa cosa che lei stava vedendo e vivendo in quel momento, in modo da comprendersi, andando a complementare, come sempre accadeva, tutto quanto quel che vivevano. ‹‹ Dev'essere stato davvero bello, vero? ›› s'era quindi ritrovata a chiedere, stretta in quel mantello e percependo il calore dell'altra vicino al proprio. I libri potevano tener racchiuse parole e storie indimenticabili, le fotografie potevano fare lo stesso con i momenti, specialmente considerato come queste si muovessero (la fortuna del mondo magico!) ma nulla, sarebbe mai stato paragonabile, al tener stretto quel qualcosa di speciale, dentro di sé. ‹‹ Sono davvero felice. ››
Avrebbe giurato che Dominique risplendesse di luce propria, come una stella nel cielo pronta a farsi osservare dall'occhio umano. Ed era quell'energia che irradiava che avrebbe convinto Roxanne ad osservarla senza sosta, senza mai stancarsene. Annuì, in risposta. « Lo è. » confermò lasciando intendere che quella meraviglia si riscuotesse nel presente, e l'avrebbe fatto, finché il suo sguardo avesse messo a fuoco la figura di Dominique. E l'altra probabilmente non sarebbe mai venuta a conoscenza della profondità di quell'ammirazione e avrebbe continuato a vivere con la consapevolezza che essa esistesse attraverso lo stretto legame che le univa, ma fintantoché Roxanne poteva vantare la di lei presenza nella sua vita. E sperava che ciò fosse per sempre, perché non immaginava la propria esistenza senza sua cugina, al punto da spaventarla il pensiero di perderla. E sapeva che, spesso, pensava a Dominique nella maniera sbagliata, eppure non comprendeva come quell'ammirazione potesse apparire sbagliata. « E io sono felice che tu sia felice. Possiamo andare via solo e quando ne avrai avuto abbastanza. » E sorrise appena.
Sarebbe stata capace di rimanere lì per un tempo indefinito, come se non avesse bisogno di nient'altro, se non quello. Cosa le mancava, perché avrebbe dovuto andar via? La risposta era semplice, non vi era in lei desiderio di farlo. Certo, che poi si sarebbero dovute smaterializzare di nuovo e ritornare nel quel della stanza di casa degli zii, era un obbligo, dovevano farlo, e andava bene così. ‹‹ Possiamo rimanere ancora un po'. ›› aveva replicato, le labbra nuovamente larghe in un ampio sorriso. Stava bene in quel momento, e anche se un po' con dispiacere, si era allontanata dalla presa, solo per mettersi a saltellare, come fosse una bambina, come quando si faceva rincorrere da sua sorella e suo fratello, sulla spiaggia di Villa Conchiglia, o nel giardino alla Tana. Era così felice, Dominique, che esternarlo anche in quel modo, era doveroso. ‹‹ Vieni anche tu! ›› e non erano importanti i gradi sotto zero, il freddo, voleva sentirsi libera.
Il solo pensiero di far ritorno la rendeva riluttante. E sapeva che avrebbero dovuto farlo presto o tardi, ma la consapevolezza di notte dinanzi a loro, era una ribellione segreta, silenziosa e proibita che scatenava l'adrenalina nelle fattezze di Roxanne, animandola a versare se stessa in ciò. E poi il desiderio di Dominique era di restare. Avvertì il senso di gelido vuoto a percepire la figura di lei allontanarsi dalla propria, lasciandola inizialmente disorientata. Mise a fuoco la sagoma di Dominique che catturava le luci del nord e rifulgeva a sua volta; non aveva notato quanto apparisse adorabile nel suo cappottino e cappellino a motivo di gattini, elegante persino per una fuga notturna, mentre Roxanne aveva avvolto la figura allampanata classica dei Weasley in un lungo mantello, classico da strega, di un tono scuro di bordeaux. Puntò lo sguardo su Dominique che aveva preso a saltellare ed un sorriso ampio le si schiuse sulle labbra, di quelli rari ed inusuali da scorgerle in volto. Solo in quel momento si rendeva conto dell'ambiente a lei circostante: neve e ghiaccio ricoprivano parte della visuale, dando l'impressione di covare, sotto quella superficie, quel che era stata vegetazione viva fatta di prati e laghi, ma che ora era congelata nel tempo. Roxanne si abbandonò a un urlo liberatorio, di quelli dati in preda all'adrenalina, nella speranza di infastidire chi avrebbe potuto udirli o proprio perché nella coscienza che nessuno fosse presente entro quel raggio. Dunque esplose in una risata, mentre intraprendeva una corsa verso la figura di Dominique, come se intendesse inseguirla.
Felice, si sentiva in quel modo come non mai, come se in lei vi fosse un'energia pronta a scoppiare, come quella dei bambini durante la notte di Natale, o quando riuscivano ad avere finalmente la prima scopa con cui svolazzare. Aveva sempre amato le stelle, Dominique, la possibilità di osservarle dalla finestra della sala comune dei Corvonero, il modo in cui il cielo risultava sempre limpido dinnanzi al panorama di Villa Conchiglia, persino dalla parte più alta della Tana, quando andava dai nonni. Lo spettacolo che si era presentato davanti a loro, il modo in cui la notte risultava piena di luci, come mai dormiente, rendeva la giovane fanciulla semplicemente desiderosa di vivere quel momento come non mai. Per quello rideva, saltellava, correva, perché era felice, felice di trovarsi lì, felice di vivere quei momenti. Quando Roxanne finalmente s'era unita a lei, una serie di gridolini misti a risate, erano fuoriuscite dalle labbra della bionda, continuando a correre, lasciando falcate su quella neve a terra. ‹‹ Non mi prenderai! ›› s'era voltata per un solo attimo, fingendo poi di correre via, dalla figura della cugina.
A tenerla ancorata alla realtà era la violenza del gelido vento che le sferzava il volto, oltre alla figura di Dominique intenta a danzare al ritmo di quelle luci baluginanti, come se esse cantassero su una melodia che solo la giovane riuscisse a sentire. Roxanne non si sarebbe stupita se solo quelle poche creature eteree come sua cugina avessero potuto udirla. Eppure nonostante il gelo della notte, avrebbe giurato che il sangue le ribolliva in corpo, misto ad adrenalina pura. La voce di Dominique espresse una sfida che fece scattare un di lei sopracciglio in alto, prima di dipingerle in viso un sorriso ribelle, di quelli che sua madre temeva di scorgere, perché avrebbe predetto solo guai. Quelle parole le fecero rivivere le estati passate a Villa Conchiglia a rincorrersi sulla spiaggia; come allora, Roxanne le garantì un vantaggio. O almeno lo avrebbe fatto, se non stesse già odiando tutta quella distanza a separarle, quindi con uno slancio, riuscì ad afferrare un lembo del di lei cappotto, ma quel ghigno non ebbe mai modo di sorgere, arrestato dall'irruento timore che sperimentò nel momento in cui si accorse di star scivolando sul ghiaccio, l'equilibrio a repentaglio. Nella caduta, attirò Dominique a sé, ringraziando il cielo per l'atterraggio nella soffice neve.
Rideva, era felice, correva con una libertà dentro il petto, che solo coloro che erano ancora fanciulli potevano vivere a pieno; non che la vita di Dominique fosse dettata da una serie di sofferenze, fortunatamente, anche se negli occhi degli adulti della famiglia poteva sempre scorgere quel bagliore di nostalgia. Lei era felice e così correva, anche se sapeva dentro di sé, che quella corsa si sarebbe conclusa presto; la presa di Roxanne difatti non era tardata a raggiungerla, le labbra dell'anglo-francese lunghe in un ampio sorriso, prima di ritrovarsi sulla figura della cugina e sul manto di neve ad attutire quella caduta. ‹‹ Non vale! Tu sei più veloce di me! ›› aveva detto poi, la bionda, storcendo appena le labbra in un finto broncio, durato però proprio poco, prima di lasciar di nuovo spazio al sorriso che le era tipico.
La risata di Dominique riverberava ancora nella notte, come la dolce eco di un ricordo che non si decideva a svanire, rendendo gli zigomi di Roxanne dolorosi allo sperimentare un prolungato sorriso dipinto in volto. Roxanne non era mai stata il tipo da troppi sorrisi, ne riservava di radi e rari, che spesso rassomigliavano più a dei ghigni sarcastici che ricordavano George, suo padre. Eppure quando si trattava di Dominique, non esisteva una circostanza in cui la cugina non riuscisse a strapparle dei sorrisi genuini. E non che avesse ragioni per trattenere sorrisi: Roxanne aveva sempre ricevuto tutto l'amore e l'attenzione che meritava, ma la di lei personalità l'aveva sempre differenziata dai cugini e non solo nell'aspetto fisico. Incurante della sensazione della gelida neve alle sue spalle, aveva concentrato l'attenzione sulla figura di Dominique, che si stagliava contro l'aurora come se il cielo le facesse da sfondo e fosse lei la vera meraviglia da ammirare. Si ricordò di respirare, mentre concentrava la sua attenzione sulle parole di sua cugina e non sul fatto che la distanza tra le due fosse praticamente nulla. « Vale eccome, a te la bellezza di una dea greca, a me le gambe lunghe per acchiappare chi mi scappa. » E le dita raggelate dal freddo della notte racimolarono quella poca sensibilità per correre ai fianchi di Dominique, tentare di insinuarsi sotto il cappotto per il colo scopo di solleticarla.
Non che dubitasse di come la neve, fin troppo soffice in quel luogo, non fosse abbastanza morbida da poter risultare una sorta di cuscino o materasso su cui ci si lanciava sopra, ma senz'altro la figura di Roxanne sempre pronta a tenerla stretta, donava alla fanciulla una sensazione di casa, sicurezza e — al tempo stesso — felicità, che senz'altro erano diverse. ‹‹ Guarda che la bellezza ce l'hai anche tu! ›› Permettere che l'altra sminuisse se stessa in un qualsiasi modo non era, da parte di Dominique, qualcosa che poteva accettare, anche solo lontanamente, e seppur grata della definizione attribuitale dalla cugina in quel frangente, la bionda non trovava ragione alcuna per non far la stessa cosa, senza neppur menzionare il fatto stesso che la bellezza, andava ben oltre solo l'aspetto fisico, e Roxanne aveva tutte le caratteristiche necessarie, per rappresentarla a pieno. Neppure il tempo di replicare abbastanza, che una fragorosa risata aveva abbandonato le labbra dell'anglo-francese, mentre l'altra le faceva il solletico; i fianchi erano un punto dolente, per Dominique, seppur non desdignasse il contatto fisico, le provocava sempre ilarità. ‹‹ Rox — non vale! ›› ma non si sarebbe certo lasciata abbattere, la giovane, replicando nel medesimo modo.
Le iridi color nocciola s'erano rivolte verso l'alto a donarle un'ironica espressione carica di esasperazione, in replica al commento della cugina, che congedò con un sarcastico annuire decorato da un ghigno incredulo. No, non era d'accordo con la replica di Dominique, e mettendosi a confronto con lei, non lo sarebbe mai stata, perché nessuno sano di mente avrebbe prediletto l'estetica di Roxanne, di fronte all'eterea leggiadria di Dominique. La realtà era che amava quel broncio offeso che faceva capolino sui tratti della cugina quando si sminuiva e la consapevolezza che l'altra avrebbe risaltato i suoi pregi la riscaldava dall'interno. Il riso di Dominique aveva squarciato il silenzio, facendo avvertire a Roxanne la sensazione che qualcosa all'interno del petto si fosse sciolto per sempre; quel suono da solo era in grado di schiuderle in volto un sorriso sincero e di riportare a galla quella sé recondita che celava agli occhi del mondo. « E chi l'ha deciso? » Esclamava, mentre impiegava le sue forze per ribaltare la situazione e calcare nella neve la sagoma di sua cugina, sovrastandola, ma avrebbe dovuto valutare quella scelta; posta al di sopra della sua figura, ogni distanza era annullata completamente e dovette concentrarsi sulle dita che ancora cercavano di solleticarle i fianchi, per distrarsi dal pensiero di quella vicinanza.
Non riusciva, Dominique, a mettere a freno la propria risata, e se già prima in vari momenti si era lasciata andare, preda della felicità di quell'attimo, ma anche le risate di quel momento, preda del solletico da parte della mora, provocava in lei una risata genuina, spontanea, un lasciarsi andare in maniera del tutto naturale. Una sensazione di libertà che amava percepire sulla propria pelle, anche se non erano molti i momenti in cui ciò avveniva, e se in quel momento si fosse soffermata più di un attimo a pensarci, probabilmente avrebbe ricordato tutte quelle occasioni, con la cugina sempre presente. La mancata capacità, per così dire, della bionda per quanto riguardava l'attività fisica, s'era facilmente palesata, considerando come i loro ruoli si erano ribaltati; lo sguardo della fanciulla non riusciva a rimaner fermo sul viso dell'altro, perché nel ridere e contorcersi per il divertimento, rimanere fermi era impossibile. ‹‹ Dai — Roxy ›› ma per quanto Dominique ci provasse a far lo stesso, non aveva la stessa forza dell'altra. ‹‹ Hai — vinto! Tregua? ››
Non sarebbe stata in grado di ammettere a voce alta che quella sensazione le piaceva più del dovuto: quella di sentirsi in controllo della situazione, di avere potere sulle fattezze di Dominique e saperla a contorcersi in preda alle risate causate dalle di lei dolci torture. Fu quella preghiera velata, a renderla misericordiosa al punto da frenare quegli attacchi giocosi, prima che si pentisse della situazione e riscoprisse quella vicinanza al punto che i loro nasi quasi si sfiorassero. Lasciò un dolce bacio sulla punta del naso di sua cugina, avvertendo la pelle fredda sotto le proprie labbra. « Tregua. » Promise con un sorriso quasi addolcito. Emise un sospiro, le mani che si posavano ai lati della figura di Dominique per sostenere il proprio peso. Emise un sospiro. « Non trovi allettante che qualsiasi cosa accada qui rimarrà solo tra me e te? Come un segreto che nessuno potrà mai scoprire, né immaginare. » Esordì, la voce ridotta quasi ad un sussurro come se, nonostante si trovassero nel mezzo del nulla, temesse di essere udita. « Se potessi compiere una pazzia che poi custodiresti con te, per sempre, ora, quale sarebbe? » indagò.
Era libertà quella che provava, era felicità nel vivere momenti come quelli, momenti da ricordare, risate che abbandonavano spontanee le di lei labbra. Aveva storto divertita, la punta del naso al dolce bacio che l'altra le aveva lasciato, sicuramente rendendo la pelle della giovane bionda più calda, rispetto al freddo gelido che rendeva tipico il Polo dove si stavano trovando in quel momento. ‹‹ Grazie, grazie. ›› una leggera risata, a seguire, mentre gli occhi chiari come il cielo limpido, osservavano i lineamenti del viso dell'altra. Non poteva che darle ragione, quel che stava accadendo là, l'avrebbero tenuto nascosto, segreto, ricordandolo solo tra loro due, nessun altro ne sarebbe venuto a conoscenza. ‹‹ Un segreto, solo tra me e te. ›› Un momento di silenzio, poi, da parte di Dominique, assimilando quelle parole e cercando di trovare una risposta giusta, adatta, per replicare. ‹‹ Se ti dicessi che non lo so? ›› perché per lei, quel momento era perfetto, non poteva desiderare di trovarsi con nessuno di diverso. ‹‹ E tu, invece? Cosa faresti, sapendo che mai nessuno lo saprà? ›› perché se si trattava di tener nascosto qualcosa che faceva con Roxanne, Dominique sarebbe stata capace di amputarsi un braccio, piuttosto che confessare un segreto.
Al di là dei solo sommessi bisbigli, la notte era intrisa del più naturale silenzio, come se persino l'aria si fosse fermata, in attesa di qualcosa, all'erta. A Roxanne, ciò permetteva di udire ancora più vivo e sonoro il frenetico battere del di lei cuore, come se avesse appena arrestato una corsa, o come se qualcosa l'avesse appena spaventata, invece il movente di ciò non era che la vicinanza di Dominique e lo strano effetto che sua cugina aveva sempre esercitato su di lei, come un'attrazione magnetica che non avrebbe saputo spiegare. « C'è qualcosa — » aveva confessato, prima che potesse decretare che forse avrebbe semplicemente potuto evitarlo, perché all'ammetterlo le aveva quasi spezzato il respiro. « Ma non è niente, meglio di no... » aggiunse a mezza voce, come se sperasse che neanche Dominique potesse udirla e quelle parole morissero nella notte al loro intorno.
Gli occhi chiari, limpidi come il mare, osservavano il viso e l'espressione dell'altra, cercando di capire cosa ci fosse di nascosto. Erano un po' come due pezzi di un puzzle, legate dal sangue sì, ma da un legame più forte, e come facesse Dominique a non aver notato nulla del genere? Non aveva prestato attenzione? Se c'era qualcosa che rendeva la cugina felice, avrebbe fatto di tutto, per aiutarla a raggiungerla. ‹‹ Come non è niente! ›› la giovane aveva poco dopo, cercato di spostarsi per mettersi seduta, andando a ricercare poi la mano dell'altra, stringendola tra le proprie. ‹‹ Ogni cosa che si desidera ardentemente, fare una pazzia che però dentro di te, è come un fuocherello, dovresti sempre farla, Roxy. Non c'è nulla in questo mondo, che non si possa raggiungere, specialmente in questo luogo. ›› e ad accompagnare quelle parole, un sorriso solare, ben in contrapposizione con il buio della notte, aveva dipinto le labbra della bionda.
Aveva necessitato di una manciata di concentrazione e forza di volontà per ritrarsi dalla posizione precedente e, semplicemente, levarsi fino a sostare a cavalcioni sulla figura di Dominique, senza gravare col proprio peso sulla minuta figura dell'altra; quella lontananza le aveva permesso di inalare ossigeno e raffreddare la mente. Se solo Dominique avesse compreso quanto sbagliati fossero i di lei istinti, non l'avrebbe supportata a quel modo. E se Roxanne avesse potuto scrutarsi in volto, avrebbe letto nelle sue stesse iridi color nocciola l'impazzare di una lotta con se stessa, i cui contendenti alla vincita era i suoi istinti contro la sua coscienza. Ma Dominique era riuscita a divincolarsi abbastanza da levarsi a sedere, accorciare nuovamente quella distanza che si era concessa, accorciando il respiro della maggiore ancora una volta. Avrebbe dovuto perseguire quell'ardente desiderio, come diceva Dominique? No, ma in quel momento l'istinto primario di Roxanne era quello di dimostrare a sua cugina quanto avesse, per una volta, torto. Sorrise a sua volta, un sorriso placido come il sole che precede una tempesta, mentre una mano correva al volto di Dominique, cercando le linee della mascella, del collo, si insinuava tra le seriche ciocche dorate; la prossima sensazione fu quella delle labbra fredde di Dominique a sostituire il freddo della notte contro proprie, ma riardere in un bacio proibito ed a lungo desiderato, come il più bel paradosso di sempre.
Aveva sempre e solo voluto la felicità delle persone che le erano attorno, e se i propri genitori, sua sorella e suo fratello erano in cima rispetto a tutti, Roxanne seguiva subito dopo; a volte, pensandoci bene, era come se il legame con lei fosse ben più forte di quello che aveva con la sua stessa sorella, ed era grata di averla con sé. Per quello, Dominique credeva fermamente nelle parole pronunciate, per quello voleva solo il bene dell'altra, in modo tale che seguisse quel che tanto desiderava, senza paure. Di certo non si immaginava che fosse proprio quella la cosa che avrebbe seguito le parole fino a poco prima pronunciate. Il contatto della mano dell'altra sul proprio viso era stato dolce, un contatto che la faceva sempre stare bene, ed era abituata alla sua vicinanza, ma non in quel modo; poco era passato prima di sentire le labbra altrui sulle proprie, ed infiniti erano stati i pensieri che le erano passati nella mente. Non è possibile si diceva, è sbagliato ribadiva a se stessa, eppure quel contatto così caldo, l'opposto rispetto a quel gelo polare, era bello. Così, le labbra ancora premute contro quelle dell'altra, non s'erano subito allontanate, lisce e calde al tatto, qualcosa che avrebbe assaporato. Non puoi, Nicky l'idea sola di distruggere tutto ciò che vi era di bello e che la univa a Roxanne, la logorava. Solo dopo istanti che parevano infiniti, s'era allontanata, incapace di incrociare lo sguardo con quello della giovane. ‹‹ Forse è il caso di rientrare. ›› e se avesse rovinato tutto? Eppure, quella continuava a rimanere la serata più bella della sua vita, e una strana sensazione, continuava a pervaderla nel pieno petto.
Un tumulto di emozioni rimbombava nella testa di Roxanne, riverberava con violenta all'altezza del suo petto, laddove il cuore pareva aver intrapreso un ritmo frenetico e pareva voler esplodere: timore, sollievo, un tipo diverso di dolore che le rimembrava che aveva commesso il più grosso errore della sua vita, eppure esso aveva il sapore delle labbra di Dominique ed era dolce come l'aveva sempre immaginato. Ma Dominique non la respinse come aveva pensato — o forse l'aveva sperato, sperato che sua cugina fosse quella ad assumere un pizzico di coscienza e spingerla via, costringerla a vedere quanto tutto ciò fosse sbagliato. Eppure al tempo stesso aveva temuto che lo facesse e quando non era accaduto aveva avvertito confusione, sollievo, speranza. Dominique si ritrasse da lei, e trovò impossibile incrociare quelle iridi azzurrine. Le parole di sua cugina erano fredde come la landa desolata al loro intorno, infliggendo alla maggiore il dolore di uno schiaffo in pieno viso. Era stata colpa sua, se l'era cercato ed aveva rovinato tutto. Aveva rovinato la bellezza del rapporto che le univa e l'aveva frainteso, contorto. Se non fosse stata per la confusione e la fretta intrisa dalle parole di Dominique, avrebbe pianto di rabbia. « Andiamo. » Aveva esalato, eludendo il groppo in gola.
Non riusciva, a incrociare lo sguardo con quello dell'altra, come se la consapevolezza di soffermarsi sugli occhi di Roxanne, fosse una sorta di colpo nel pieno della schiena, dato alle spalle. Erano molte, troppe, le cose che stavano passando nella sua mente, ma non aveva idea di cosa dire, cosa fare, neppure cosa pensare. Le mani della giovane bionda s'erano dapprima nascoste all'interno delle tasche del cappotto che aveva indosso, rendendosi però conto dopo che, per smaterializzarsi al meglio, ed insieme, era il caso di tenersi la mano. In silenzio e senza proferir parola, la giovane aveva allungato la propria mano, lasciando il palmo rivolto verso il cielo scuro della notte, in direzione di Roxanne; non riusciva a guardarla, quello sì, ma non avrebbe affatto permesso che una delle due, non trovasse la giusta direzione per tornare a casa, tra quelle mura familiari che ormai, la stanza della casa dei nonni, era per entrambe.
Nell'arco di pochi secondi, la mente di Roxanne aveva viaggiato alla velocità della luce, fornendo lei soluzioni impensabili ma valide, per evadere a quella sensazione di inadeguatezza che pareva bloccarla. Una di queste, consisteva nel restare lì, per un tempo indefinito, lasciare che sua cugina facesse ritorno a casa; eppure non avrebbe potuto permettere che Dominique si smaterializzasse da sola: non sarebbe accaduto nulla, ma non sapere se fosse stato effettivamente così l'avrebbe logorata dall'interno. Il pensiero di separarsi da lei, inoltre, era deleterio, lo era sempre stato, ma si era addensato, causandole un dolore quasi fisico. Lo sguardo color nocciola puntava alla neve come se in quel candore imperfetto potesse trovare le risposte che cercava, potesse scorgere la coscienza che le permettesse di comprendere perché quell'errore commesso le pareva più giusto che sbagliato. La sua mano afferrò quella di Dominique come se fosse magneticamente attratta da essa, e la strinse, stavolta con più timore di perderla di quanto avesse mai fatto. Si preparò, quindi, a smaterializzarsi, l'immagine familiare della Tana chiara nella di lei mente.
Era con una stranezza mai provata, che stringeva la mano dell'altra, e se non si stava facendo prendere da pensieri ed immagini, intente a passarle nella mente, sicuramente era da darsi al di lei animo, così da riuscire a soffermarsi solo sull'immagine della Tana, e non altro. Il tipico scombussolio all'altezza dello stomaco, dopo che ci si smaterializzava, era spuntato, appena i piedi della giovane avevano toccato terra, o per meglio dire, il pavimento della stanza in cui ore prima, avevano finto di dormire. Un paio di istanti per assicurarsi che fossero tutte intere, anche se non era la prima volta che si muovevano lungo lo spazio ed il tempo, abbandonando solo dopo la mano della giovane; ancora, non riusciva a guardare il di lei viso, o per meglio dire, ad incrociare lo sguardo dell'altra. ‹‹ Dovremmo dormire, buonanotte, Roxy. ›› e liberatasi del giubbotto e del cappellino, abbandonati sul letto, era uscita dalla stanza per andare in bagno, perché l'idea di scoppiare come uno dei giochini che zio George produceva, non poteva lasciarla divenir realtà.
Era stato repentino il modo in cui il calore familiare della Tana s'era sostituito al gelo nordico della landa che avevano abbandonato con un soffice pop, ma nonostante ciò, il freddo devastante che regnava al centro del petto di Roxanne riusciva a spezzarle il respiro. La presa della mano di Dominique nella propria pareva ardere in maniera insopportabile, come mai prima d'allora, ma quando si dissolse, le parve di aver perduto una parte vitale di sé. Le parve d'esser tornata a sentirsi fuori posto, con la differenza che stavolta Dominique sapeva di esserne parte della ragione e, per ciò, non provasse ad integrarla in quella realtà. Si disfece del mantello lentamente, cercando una scusa per tenere basso lo sguardo, per non dover assistere alla figura di Dominique che abbandonava quel perimetro. Annuì, ma quando si accorse che probabilmente non l'avrebbe vista, mormorò « 'Notte, Nicky. » Ed aveva guardato il letto che avevano condiviso con riluttanza, mentre decideva di spiegare una delle molteplici coperte e rannicchiarsi sul pavimento.
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🥀📸 — 𝐍𝐄𝐖 𝐑𝐎𝐋𝐄 𝐥𝐚𝐮𝐫𝐞𝐥 𝐭𝐞𝐦𝐩𝐞𝐬𝐭 & 𝐝𝐲𝐥𝐚𝐧 𝐦𝐚𝐫𝐜𝐮𝐬 ❪ ↷↷ mini role ❫ p i z z e r i a 06.07.2020 — #ravenfirerpg
Quanti pensieri aveva la giovane di casa Seered quando giunse in quel luogo che considerava la sua personale pace dei sensi. Il profumo di legna, infatti, e di pizza si sentiva in ogni dove provocando quel senso di fame che difficilmente avrebbe tenuto sotto controllo ancora a lungo. Tante erano le passioni di Laurel, dal disegno allo shopping, ma mai avrebbe rinunciato alla pizza o a un hamburger, e il fratello sapeva meglio di chiunque altro. Prese posto su uno dei tavolini fuori prima di continuare il disegno che aveva iniziato poco prima di uscire. Si trattava di una sponda del lago, dove le fronde degli alberi sembravano accarezzare lo specchio d'acqua e creare quelle piccole minuscole onde irresistibili da disegnare. Faceva scivolare la matita con una concentrazione tale per cui non sentì nemmeno il giovane arrivare e solo quando vide una mano agitarsi davanti al suo campo visivo, Laurel riuscì a staccarsi e guardare Dylan con un leggero guizzo alle labbra.
« Scusami, dovevo assolutamente finirlo... »
Dylan Marcus L. Seered
S'agitava ancora la tempesta nell'animo di Dylan, una tempesta che aveva travolto ogni cosa sino ad allora ben ordinata dalla fredda logica di cui dal primo vagito era seguace, con violenza, lasciando nulla di più che polvere, cenere e macerie. Erano stati mesi difficilissimi quelli per il giovane veggente dalla fulva chioma, la sua famiglia aveva subito uno scossone non indifferente e le cose s'erano fatte ancor più complesse di quanto già non fossero, costringendo anche lui a scoprire carte che per dieci anni erano state ben celate, destinate ad essere giocate al momento opportuno. Ed era giunto quest'ultimo, era giunto nel momento in cui il colpo di stato era stato organizzato ed egli s'era ovviamente schierato apertamente al fianco di sua sorella Ashley, da sempre ritenuta da lui la più adatta a ricoprire il ruolo di rappresentante dei veggenti, dimostrando al loro padre quanto in realtà non gli fosse mai stato fedele, ma lo avesse assecondato unicamente per tenerlo buono mentre tramava alle sue spalle. Non s'era assolutamente pentito di tal mossa, ma era innegabile che il costo che aveva dovuto pagare era stato altissimo e le conseguenze d'esso le stava vivendo ora, sulla sua pelle, senza tuttavia parlarne a nessuno: tutti avevano già i loro problemi, i suoi doveva gestirli da solo. S'era infatti enormemente indurito il muscolo cardiaco che in petto gli dimorava, impregnato ora di un profondo desiderio di vendetta nei confronti di chi, per ventiquattro anni, aveva fatto di lui e delle sue sorelle burattini ai suoi ordini, spezzando speranze, sogni, gioie, tutto: Edward avrebbe pagato sino all'ultimo dei suoi peccati. Ed era per questa ragione che aveva intensificato gli allenamenti, non poteva proteggere nessuno né affrontare nessuno se non diveniva più potente, era solo un quarto livello e no, non andava bene. Certo, lui dei poteri non s'era mai interessato troppo, in realtà gli erano sempre stati sgraditi, ma ora non poteva più esimersi, doveva divenire un Seered a tutti gli effetti, proprio come l'adorato paparino per anni aveva agognato. Tuttavia, aveva giurato a se stesso di non divenir mai un essere ignobile come il genitore, di conseguenza stava facendo di tutto affinché il rapporto con le sue sorelle non risentisse, quel giorno sarebbe toccato alla più piccola, Laurel. Da lei si stava recando, sapeva che fosse ghiotta di pizza, dunque le aveva dato appuntamento dove essa veniva prodotta, così da poter trascorrere insieme il tempo, in tranquillità. « Laurel, Laurel! Da quando non presti più la dovuta attenzione al tuo fratello preferito? Mi ritengo offeso. » Affermò, fingendo un disappunto che in realtà non provava affatto. Non poteva, però, dirsi contento per lo stato d'animo della giovane, gli pareva fosse divenuta più taciturna, introversa, non voleva si sentisse sola o abbandonata. « Sei brava, sai? Potresti diventare una grande artista. Dimmi, va tutto bene? » Anche se probabilmente Edward avrebbe impedito anche a lei di realizzare i suoi sogni, come aveva già fatto con lui e con Valerie. Stavolta però, Dylan era pronto a contrastarlo, le cose erano molto cambiate ormai.
Laurel Tempest A. Seered
La preoccupazione negli occhi del fratello era ben visibile quando quest'ultimo si palesò nel suo campo visivo. Preoccupazione che era infondata agli occhi della veggente ma che comprendeva perfettamente: in fondo anche Laurel era preoccupata per le sue sorelle, e quel sentimento che intercorreva tra di loro era impossibile da spezzare. Posò con cura la matita che fino a poco prima reggeva nella mano destra e ridacchiò non un leggero movimento del capo a quella battuta. Erano settimane che non incontrava Dylan, per un motivo o per l'altro, eppure in cuor suo sapeva di dover ammettere che la colpa era anche sua: s'era isolata. La situazione con la sua famiglia e il golpe avvenuto qualche mese prima avevano incrinato non poco quella apparente spensieratezza tra fratelli. Ognuno di loro aveva i propri problemi da affrontare, eppure vi era un'unica cosa che li accomunava, nessuno di loro trascorreva troppo tempo tra quelle quattro mura che un tempo consideravano casa, Laurel in primis. « Oh andiamo... Tu devi scegliere tra ben tre sorelle, dovrei essere io a sentirmi offesa. » Disse la veggente prima di riporre anche il blocco nella sua tracolla che aveva momentaneamente poggiato al lato della sedia. Era incredibile come riuscisse a trovare sempre un luogo dove disegnare, dove prendersi quella spensieratezza che ormai era stata strappata via tempo prima. Nonostante, infatti, non avesse ancora deciso cosa fare del suo futuro, la Seered sapeva che il disegno avrebbe fatto parte di lei per sempre, ed era l'unica certezza a cui sentiva di affidarsi in quel momento. « Va tutto bene, Dylan... Non dovresti agitarti, sai? E poi anche se sono la piccola di casa, non sono più una bambina, dico davvero. E ti ringrazio, ma lo sai meglio di me, ancora non ho deciso... Diamine non sono nemmeno convinta di aver scelto arte contemporanea al college! E tu, piuttosto? Sono settimane che non ci incrociamo nemmeno per sbaglio... »
Dylan Marcus L. Seered
Non passava giorno, da quando il caos s'era abbattuto sulla città e sulla sua famiglia in particolare, che Dylan non pensasse d'esser stato un pessimo fratello, non solo per la giovane che aveva ora dinanzi alle iridi scure e ch'era la più piccola di casa, ma anche per le restanti due sorelle, Ashley e Valerie. Era ben conscio che tutta la distanza che sentiva bene essersi instaurata tra tutti loro fosse unicamente colpa di un padre tiranno ed insensibile che altro non aveva fatto che aizzarli gli uni contro gli altri come fossero stati bestie feroci ed affamate, tuttavia non riusciva a togliersi dalla testa, l'unico maschio di Edward Seered, che in parte fosse responsabile anche lui, considerando il mutamento caratteriale che stava subendo e che inevitabilmente lo aveva costretto a chiudersi sempre più in sé ed ad indurirsi. Stava cercando di porre rimedio, in ogni caso, non voleva fare ancora il gioco del genitore e divenire una sua copia proprio ora che il suo dominio era venuto meno, doveva accorciare i metaforici chilometri che lo separavano dalle sorelle, da Laurel soprattutto. « Difatti ho così tanta difficoltà a scegliere tra voi tre che ho deciso di dare un pezzo del mio cuore a tutte! Così non dovrete litigarvi il vostro amato fratellino. » Rispose, con evidente ironia, certo che anche la minore scherzasse. Non avrebbe mai potuto, infatti, privilegiare una di loro, erano tutte importanti allo stesso modo per lui, avrebbe sacrificato la sua stessa vita pur di tenerle al sicuro da tutto e tutti, aveva addirittura ripreso ad allenarsi con intensità con il chiaro scopo di fare capire ad Edward che non era più un bimbetto incapace e che non gli avrebbe mai più reso la vita semplice. « Non ti considero una bambina, piuttosto una giovane e meravigliosa donna che sta iniziando a camminare da sola, ma di cui comunque non intendo perdermi un attimo. Non ti opprimerò mai, ma puoi contare su di me per tutto. E visto che mi fido ciecamente di te e so che non mi tradiresti mai, ho qualcosa di cui parlarti. » Laurel non era mai stata coinvolta troppo negli affari di casa, tutti tendevano sistematicamente ad ignorarla, ma lui no, lui voleva coinvolgerla nella sua vita attivamente e farla sentire parte di essa: era dunque il momento di svelarle il suo più grande segreto.
Laurel Tempest A. Seered
L'indecisione che aleggiava nella mente della veggente era ormai risaputa ai componenti della famiglia Seered, che più di una volta aveva tartassato con dubbi e domande senza fine. Non era infatti convinta della sua scelta, eppure sapeva che le piaceva disegnare, almeno fino a quel momento. Ciò che ne sarebbe stato del suo futuro, non poteva dirlo con esattezza, tante strade erano pronte ad aprirsi davanti a lei ma quale fosse quella giusta era ancora un mistero. Lo sapeva bene il giovane che ora le stava di fronte, l'unica persona di genere maschile che fosse realmente per le un punto di riferimento e che ora più che mai stava dimostrando davvero a tutta la famiglia. Il sorriso più sincero comparve sulle di lei labbra prima di ridacchiare con quella spensieratezza che ormai sembrava un ricordo lontano. Le mancava molto il fratello maggiore, sapeva anche qualcosa bolliva in pentola, ma mai una volta avrebbe ficcanasato nelle sue cose, avrebbe parlato lui nei modi e nei tempi che meglio avrebbe creduto. « Un amato fratellino estremamente sfuggente! » Commentò la veggente prima di diventare a poco a poco più seria mentre le parole del fratello cominciarono quasi a spaventarla. Laurel non era mai stata coinvolta negli affari di famiglia, e in qualche modo le era sempre andata bene così eppure lo sguardo di Dylan tradiva una scintilla che dimostrava che quel discorso sarebbe stato importante, molto importante. « Mi stai spaventando, fratello... Che succede? »
Dylan Marcus L. Seered
Lo aveva sempre detestato Dylan, aveva sempre odiato che la più piccola delle sue sorelle non venisse né considerata né tantomeno coinvolta negli affari di famiglia, scartata a priori come fosse uno scarpone vecchio ed inutile solo perché di livello basso. Era ancora molto giovane, Laurel, avrebbe avuto modo e tempo per migliorare, ma come poteva farlo se nessuno le dimostrava che anche lei era importante alla pari di tutti? Era chiaro che molto spesso si fosse sentita abbandonata, ed aveva ragione, Edward le aveva distrutto la vita nel medesimo modo in cui aveva fatto con i restanti di loro, aizzandoli gli uni contro gli altri, togliendogli la speranza, i sogni, tutto: era stato un pessimo genitore. Tuttavia, benché forse poco apprezzato per ciò, Dylan stava facendo di tutto pur di rimediare ai danni che quell'uomo aveva fatto, fortificando i rapporti con le sue sorelle sono ad allora trascurati, aveva iniziato con Valerie, ora toccava alla piccola di casa. « Lo so, sono stato più assente del solito, scusami. Non è stato per disinteresse nei tuoi confronti, anzi, sai bene che sono qui, anche se non tendo a farti interrogatori asfissianti perché non voglio farti sentire sotto esame perenne. Ho le mie ragioni che sto per spiegarti. » Era vero, lui era radicalmente opposto ad Edward, non stava con il fiato sul collo della minore, le permetteva di vivere, di camminare da sola, di errare anche, cosicché potesse crescere adeguatamente forte. Poi fece calare per un attimo il silenzio, prese un lungo respiro e sollevò le iridi nelle sue, pronto a dirle tutto. « A novembre dello scorso anno ho conosciuto un ragazzo, tra noi è scattato immediatamente qualcosa ed è stato inevitabile finire insieme. Il problema sta nella sua natura, è un dooddrear, capirai dunque bene che niente deve arrivare alle orecchie di nostro padre. Tu, Ashley e pochi altri siete gli unici a sapere. » Confessò con tono basso, certo che Laurel non si sarebbe scandalizzata nel sapere che suo fratello aveva un ragazzo e non una ragazza, era sempre stata conscia che fosse pansessuale e di conseguenza non badasse ad un organo genitale. Probabilmente era altro che l'avrebbe preoccupata, era pronto ad ascoltarla.
Laurel Tempest A. Seered
La veggente sentiva quella sensazione alla base della schiena dove le si annidavano le emozioni, dalla rabbia alla paura, ed in quel momento in qualche modo era preoccupata da ciò che avrebbe potuto dire il fratello maggiore. Un piccolo cipiglio s'era creato sulla fronte nel mezzo delle sopracciglia rendendo la Seered ancor più preoccupata. Era pronta ad ascoltare ogni cosa, ad accettare qualunque cosa Dylan fosse pronto a confessare ma l'argomento era più che sconosciuto. Prese un sorso d'acqua prima di allungare una mano e posarla sul braccio del fratello. Sapeva quanto tenesse alla famiglia, quanto volesse aggiustare gli errori del padre, e di certo non gli faceva una colpa della sua assenza. « Non devi scusarti né tanto meno giustificarti con me Dylan... Non devi correre da me ogni volta, so che non ho avuto lo stesso trattamento di Valerie, o anche solamente il tuo... Ma non per questo non devi cercare di riparare agli errori di nostro padre. » Credeva seriamente nelle proprie parole, e sapeva che l'assenza del fratello maggiore non derivava affatto dal suo menefreghismo. Tutti avevano una vita, tutti avevano impegni più o meno assidui, ma non poteva non ammettere che le avessero fatto piacere quelle semplici affermazioni. Solo quando lo vide pronto a proseguire, Laurel lasciò andare la presa sul di lui braccio ed attese con trepidazione. Non attese più di qualche istante prima che ogni cosa diventasse più chiara nella di lei mente, prima di rendersi conto che il suo amato fratello sembrava aver trovato la sua anima gemella. Non era scioccata dal fatto che fosse un ragazzo, sapeva benissimo che Dylan era pansessuale, e mai una volta l'avrebbe giudicato, non era nemmeno il tipo, eppure ciò che realmente preoccupava la rossa era la razza. « Oh Dylan... Non dovevi tenerlo nascosto così tanto a lungo. Non dovevi aver paura della nostra reazione, perché sai che per ogni tua decisione sia io che Ashley ti sosterremo! Ma... un dooddrear? E' proprio di famiglia, eh? » Inspirò a lungo prima di portare nuovamente la mano sul braccio del fratello e dargli così tutto il suo sostegno. Sapeva che la situazione non era facile e poteva solamente immaginare quanto dovesse arduo dover affrontare l'ignoranza dei più, ma non voleva che questo potesse essere motivo di frattura tra loro.
Dylan Marcus L. Seered
« Beh, in realtà sono piuttosto felice che tu non abbia subito il mio trattamento, non vorrei mai che tu vedessi il tuo sogno ridotto in polvere dinanzi ai tuoi occhi perché " strimpellare due note non è all'altezza di un Seered". » Non v'era ovviamente invidia in tali parole, — che invidia poteva esserci per una ragazzina cresciuta ignorata da chiunque? Nessuna — anzi, sollievo traspariva da esse, poiché no, neppure al suo peggior nemico augurava di vedersi depredato dei suoi sogni, delle sue speranze, di ciò che lo faceva sentire vivo unicamente a causa di un dannato cognome che altro non era che un agglomerato di lettere come molti per lui, non certamente qualcosa di cui fare sfoggio. Aveva vissuto una vita da incubo, il rosso, una vita costretto a fare cose che non desiderava, a partire dall'imposizione di studiare pediatria, passando per feroci allenamenti per potenziare i doni derivanti dalla veggenza, finendo con il divieto assoluto di suonare anche una sola nota in casa o fuori: splendido il trattamento che aveva ricevuto, non c'era dubbio. Ecco perché, nonostante la disperazione iniziale, aveva alla fine preso in mano la sua vita, facendo sì ciò che il genitore voleva, ma non scordando i suoi desideri: suonava ancora in gran segreto, al lago, lontano da lui e postava tutto sotto falso nome su YouTube. Poi il discorso si spostò sulla sua situazione sentimentale, la reazione di Laurel fu esattamente ciò che si aspettava, dolce, di supporto, degna del sostantivo sorella e del legame che li univa. Addirittura gli strappò un sorriso, a quanto pareva sì, era di famiglia amare dooddrear. « Spero che tu ci smentisca. Grazie piccola, ora mangiamo questa pizza, so che sei qui per questo! » Concluse, con l'animo decisamente più sereno e leggero. Era felice di essersi aperto con Laurel, estremamente felice.
❪ 𝑭𝒊𝒏𝒆 𝑹𝒐𝒍𝒆. ❫
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Al mio supereroe.
Non credevo che il mio cuore potesse ancora battere così, ma quando mi guardi negli occhi e mi sorridi, ogni mia barriera cade. Non avrei mai pensato che la vita, avrebbe deciso di farmi un regalo così grande, che dopo tanto tempo, dopo tanto amore, lacrime e temporali, potesse tornare il sereno. E se potessi esprimere ciò che sto provando, attraverso un'immagine, rappresenterei un qualsiasi paesaggio del Giappone, durante la fioritura: immensamente meraviglioso ed estremamente delicato. Come il tuo amore. Ogni volta che mi fai un complimento, mi fai sentire viva; il cuore inizia a battermi forte e non riesco a trattenere il sorriso, perché adoro la tua spontaneità e il fatto che tu dica sempre tutto quello che ti passa per la testa, senza preoccuparti della forma o del contenuto. E la naturalezza con cui dici le cose più belle, è una delle parti migliori di te.. «Non potrò mai trovare nessuna che sia meglio di te, hai sciolto tutti i miei nodi, mi hai reso migliore.. Sei l'unica persona che conosco, che ci mette sempre il cuore, tutto quello che ha..» Ma non ti rendi conto, che sei stato tu a rendermi tale, a farmi trovare la voglia di abbattere tutte le paure che avevo e che ogni giorno, mi sveglio pensando di aver finalmente trovato la parte migliore di me. Che finalmente al mattino, ho di nuovo una ragione per alzarmi, che sia darti il buongiorno, piuttosto che aspettare un tuo messaggio. Che finalmente ricordo cosa significhi amare con tutta me stessa. Grazie davvero, perché mi hai salvata da un mondo, dove sembrava non sorgesse più il sole e dove sembrava non fiorissero più i ciliegi, quelli che spero vedremo insieme nel nostro tanto agognato viaggio in Giappone..
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Io sono un uomo. - Andrea Perticaroli
Io sono un uomo. Quando son nato, mio nonno s'è congratulato con mio padre per aver avuto un figlio maschio: manco dovessimo continuare la dinastia dei Tudor; ed anche con mia madre, per essere stata capace di aver saputo dare al suo uomo, un maschio. Ho giocato coi Lego, con gli Action Men, coi Beyblade perché i bimbi devono giocare con quello, vestiti di blu perché è maschio per antonomasia. Mi son fatto piacere il calcio perché tutti lo facevano, tutti i maschietti giocano a calcio: altro non è contemplabile, è malsano, sarebbe poco normale. Alle elementari, alle femminucce alzavano le gonnelline rosa da comunione sotto al grembiule ma comunque "I maschietti son fatti così, cosa ci possiamo fare?": magari due schiaffi tra capo e collo, sia mai. Un pomeriggio d'estate, stavo giocando alla "famigliola felice" coi miei cugini, l'aria calda del crepuscolo che muoveva le tende della sala. Facevo il papà, mia cugina la mamma e l'altra la figlia ma ci serviva un bimbo maschio per essere la perfetta copia della pubblicità della Mulino Bianco e per questo ci siamo affidati ad un bambolotto sgualcito, con le dita mangiucchiate. L'ho preso in braccio giusto per spostarlo un attimo da dove non doveva essere e subito mio padre: "Metti giù quel coso, è roba da femmine." E, per appunto, i maschi giocano coi maschi, le femmine con le femmine. Non ci sono mezzi termini né possibilità di scambio: è così da sempre. Ricordo che ad un Natale, a quella stessa cugina, regalarono un ferro da stiro ed un kit per lavare il pavimento: la classica accozzaglia di plastica scadente, scadente tanto quanto il cliché della femminuccia interessata, sin da piccola, all'arte della massaia. Perché la mamma pulisce, lo deve fare lei, sì, proprio lei in quanto donna e necessariamente dovrai farlo anche tu, quindi meglio partire in quarta ed insegnarti il dovere del focolare. Forse avevo diciassette anni quando mio papà mi prese i primi preservativi. Mai nessuno ha ben pensato di frenarmi dall'uscire con diverse persone a distanza ridotta, quasi come se il maschio alpha debba riconoscersi proporzionalmente alle volte in cui copula. Nessuno mi ha mai giudicato come "poco di buono" dopo essermi passato persone come se fossero mera merce d'acquisto; tanto meno "sfigato" quando ho preso da primo l'iniziativa per un bacio, per una stretta di mano. Nessuno demonizza il mio piacere sessuale, nessuno stigmatizza le mie scelte sentimentali. Nessuno mi controlla i vestiti né la maniera con cui mi porgo al mondo: il palco è già mio per partito preso, per definizione, per diritto soggettivo. Mai, mai mi hanno ripetuto che dovessi "valorizzarmi" o "farmi portare rispetto": i maschi lo hanno già di per sé il valore di esserlo. Soprattutto, quando sono per strada e vivo naturalmente e giustamente la mia vita come cazzo mi pare, non mi vengono suonati clacson, né son soggetto a fischi di compiacimento se andassi in giro con le gambe scoperte, né vengo braccato per strada per non aver saputo avere lo sguardo giusto, la camminata giusta, un sorriso non ricambiato. Anche perché, chi cazzo vi conosce e chi vuole farlo? Mai e poi mai ho dovuto cambiare marciapiede, allungare la strada, fermarmi addirittura per schivare o tentare di allontanare qualcuno di molesto per l'infima paura di poter essere disprezzato, agognato, soggetto ad una vergogna che non dovrei avere. Mai sentito qualcuno etichettarmi come "coraggioso attivista" se girassi col petto nudo né qualcuno, a lavoro, si è mai permesso di regolamentare la maniera con cui mi presento: certo, ho abbastanza buon senso da non presentarmi in gonna di paglia ed infradito in ufficio così come una donna potrebbe permettersi di mostrare un pezzo del suo ginocchio; innanzitutto perché, se vi attirassero le ginocchia, avete problemi di psicosi ma secondo e soprattutto, mettessimo anche il caso che delle ginocchia fossero delle armi di seduzione, rimangono ben amatissimi cazzi vostri dovervi reprimere. E non lei in quanto donna con la gonna ma quanto voi, coi pantaloni e lo scroto al posto del cervello. Non sono mai stato seguito di notte da delle auto che si fanno sempre più vicine, né avuto mai la paura di prendere dei mezzi pubblici ed il pensiero di dover sopportare strusciate, mani che cadono casualmente, mani che vi metterei in faccia con allegate sei sedie di ghisa. Se, in caso, dovessi mai essere io la vittima di una violenza, sicuramente nessuno penserebbe al modo in cui ero vestito, al modo in cui ho guardato, ho scrutato, ho battuto le ciglia, ho sistemato i capelli, di che lunghezza fossero le maniche della felpa o, meglio ancora, a nessuno verrebbe mai in mente di dirmi che me la sono cercata. Non sarei mai l'inadeguato, lo sbagliato, la vittima che meritava il proprio carnefice. Se tra vent'anni ricevessi una promozione a lavoro, i miei amici non si sognerebbero mai di dirmi che l'ho avuta grazie alla serie di pompini sottobanco: crederebbero nelle mie capacità, nel mio valere in quanto persona. Non mi hanno mai detto niente sulla lunghezza dei miei capelli né me lo direbbero se non mi depilassi, non pulissi la cucina dopo aver cucinato perché i maschi son grezzi, i maschi son pezzi di culo espiantati da un rutto di Dio senza cultura ed educazione, i maschi non piangono, i maschi sì e le femmine no, i maschi. Ma soprattutto, le persone del mio sesso non vengono abusate con una media di una su tre in Italia. O, addirittura, le persone del mio sesso non vengono stuprate ogni 12 secondi come in Brasile. Non svalorizzate il dolore che non conoscete.
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Del vento ho agognato la carezza, solo perché alla mente mi riportava la tua.
Tra le nubi ho cercato il tuo sorriso. Quando l'ho trovato con la mente sulle tue labbra un bacio ho poggiato.
Buongiorno...
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Quella scogliera, le foto dove mi costringi un sorriso che non riesce ad uscire dalla mia faccia, le foto dove ci baciamo, quel trucco più marcato del solito,quella giornata infinita, il giorno in cui probabilmente si è sancito il totale passaggio di proprietà della mia anima al diavolo,il giorno da cui non si poteva andare indietro. Così ho pensato per un po’, il giorno preciso non sapevo quale fosse ma ormai è parso chiaro, però è anche uscito che forse una scappatoia da quel contratto c’è e che a tirar la corda troppo prima o poi si spezza davvero. Quel giorno penso iniziò il cambiamento, quel trucco un pochino più marcato doveva essere un chiaro segno, ad oggi forse si è completato questo tanto agognato cambiamento, doveva succedere, per statistica doveva accadere, si cresce si matura. Quelle due dita rimangono intorno alla mia bocca a cercare di invertire la parentesi, ma non posso fare miracoli.
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Joker: confermata la presenza di Bruce Wayne!
Nuovo post su italianaradio http://www.italianaradio.it/index.php/joker-confermata-la-presenza-di-bruce-wayne/
Joker: confermata la presenza di Bruce Wayne!
Joker: confermata la presenza di Bruce Wayne!
Joker: confermata la presenza di Bruce Wayne!
Dopo le prime congetture, è IMDb a confermare ufficialmente la presenza di Bruce Wayne in Joker, il film con Joaquin Phoenix in cui l’attore interpreta il Clown Principe del Crimine.
La pagina ufficiale del famoso database on line che in giovane Dante Pereira-Olson interpreta effettivamente il giovane Bruce, che nella scena del trailer diffuso ieri, vediamo dietro a delle sbarre di quello che potrebbe essere il cancello della Wayne Manor. Nella scena, Arthur gli disegna un sorriso sul viso, in un modo che rievoca in maniera inquietante il sorriso del Joker, così come lo conosciamo dalla sua iconografia più famosa.
La faccenda in sé non sorprende troppo, visto che il film è ambientato a Gotham ed è normale che possano esserci altri personaggi dei fumetti legati al Joker e alla sua origine, quello che però sembra interessare di più sono le eventuali implicazioni che il film potrebbe avere nell’ottica di un agognato universo condiviso realizzato con maggiore cura per il personaggi della DC Comics.
I dettagli del trailer di Joker che vi sono sfuggiti
Vi ricordiamo che Joker vede nel cast anche Zazie Beetz, Frances Conroy, Brett Cullen, Dante Pereira-Olson, Douglas Hodge e Josh Pais e che arriverà nelle sale il 4 ottobre 2019, come ufficializzato nelle ultime settimane dalla Warner Bros.
Contrariamente alle altre apparizioni del personaggio nei Batman di Tim Burton, nella trilogia del Cavaliero Oscuro di Christopher Nolan e in Suicide Squad, Joker sarà ambientato nel 1980 e racconterà l’evoluzione di un uomo ordinario e la sua trasformazione nel criminale che tutti conosciamo.
Di seguito la prima sinossi ufficiale:
Joker ruota attorno all’iconico arcinemico di Batman ed è una storia originale e autonoma mai vista sul grande schermo. L’esplorazione di Arthur Fleck (Joaquin Phoenix), un uomo trascurato dalla società, non sarà solo lo studio di un personaggio grintoso, ma anche il racconto di un tema molto più ampio.
Cinefilos.it – Da chi il cinema lo ama.
Joker: confermata la presenza di Bruce Wayne!
Dopo le prime congetture, è IMDb a confermare ufficialmente la presenza di Bruce Wayne in Joker, il film con Joaquin Phoenix in cui l’attore interpreta il Clown Principe del Crimine. La pagina ufficiale del famoso database on line che in giovane Dante Pereira-Olson interpreta effettivamente il giovane Bruce, che nella scena del trailer diffuso ieri, vediamo […]
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Chiara Guida
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“Un invito a non chiudere il cuore, questa radice stellata”: dialogo con Riccardo Corsi intorno al genio poetico di Thierry Metz
Più che un libro, fu un crocevia di fiamme. Era il 2001, il piccolo, grande editore di Pistoia, Via del Vento, pubblica L’uomo che pende, il diario lirico di Thierry Metz. L’autore è sconosciuto, il testo memorabile. “Assottigliarsi./ Emaciare il testo il più possibile./ Ogni parola adesso designa la casa e l’abitante, l’incontro e la riparazione”; “Stanchezza. Abbattimento./ Ma quello che devo scrivere è più forte di me./ Nel reale la visita non è mai finita”. Il regesto di una esistenza in clinica, dove Metz, già sollevatore di pesi, manovale, va a curare l’abuso di alcol, l’eccesso d’inquietudine dopo la morte del figlio piccolo, ucciso da un’automobile. Il libro ha la meraviglia dell’autentico, di chi travasa le stelle in chiodi, secondo una tradizione di ‘letteratura come vita’ – cioè, come interrogativo, tortura, palafitta d’ossa – che è di Pascal, di Rimbaud, di René Char, di Edmond Jabès, se dobbiamo perimetrare una geografia lirica. Thierry Metz, autore di libri di anomalo candore, arriva anche a Gallimard, con Le Journal d’un manœuvre (1990) e Lettres à la Bien Aimée (1995), prima di essere sopraffatto dal dolore, che lo porta al suicidio, nel 1997. Metz, però, poeta che t’incontra per strada, ti abbraccia, lettura come passeggiare nei prati nell’odore di una novità, è per piccoli stampatori, per lettori dedicati: il primo libro, Sur la table inventée, è stampato dal mitico editore – boschivo, anticonformista – Jacques Brémond, e oggi trova riscontro e traduzione in Italia grazie a Riccardo Corsi, scrittore fuori canone (Draghi e Libro del vento), ideatore delle Edizioni degli animali, con il titolo Sulla tavola inventata. Il testo, d’inevitabile e salutare bellezza (“Guarda:/ l’uomo si è ritirato sotto a un albero/ per danzare intorno a una foglia/ per dire il più semplice/ a chi non verrà”), è introdotto da un pensiero di Brémond, inciso: “L’alcool e gli ospedali psichiatrici porteranno questo poeta meraviglioso, amante delle parole precise, giuste, grande lettore, infaticabile indagatore, mai sazio dell’umanità dell’uomo, a una continua sofferenza… Dietro il suo bel sorriso, gli occhi chiari, il fiore che spunta dalla camicia, le sue grandi mani di muratore sterratore, in un corpo massiccio e possente, si nascondeva un grande poeta, dall’opera folgorante. Una ricerca instancabile del Luogo dell’uomo in questo mondo, la sua capacità di lavorare, la presenza nell’ascolto dell’altro”. Quando scopriamo un poeta, si è grati a tutte le potenze, si è pronti alla speranza. (d.b.)
Come accade il tuo incontro con Thierry Metz? E poi, raccontami il tuo incontro con il suo editore, Brémond, “figura mitica dell’editoria d’oltralpe”, scrivi.
L’incontro con la poesia di Thierry Metz lo devo a dei poeti. Ad Andrea Ponso, e successivamente a Pasquale Di Palmo. È naturale che sia attraverso altri poeti che giunga una voce nuova, inaudita, nell’Italia di oggi. Mi sono messo a leggere diversi libri di Metz, e un giorno mi sono imbattuto (tra i libri arrivati per posta) in questo piccolo libro Sur la table inventée, edito da Jacques Brémond, editore francese che stampa ancora con i caratteri mobili da più di quarant’anni. Gli ho scritto dicendogli che volevo tradurre Thierry Metz, e in particolare il primo libro di Metz, Sur la table inventée, edito da Brémond. Spiegandogli che noi siamo una piccola casa editrice senza fini di lucro e che tutto quello che guadagniamo dai libri va per fare altri libri, in una specie di circolarità virtuosa, almeno idealmente. Jacques Brémond – ci scrivevamo via mail – ci ha generosamente donato i diritti del libro, e questo ci ha permesso di cominciare a lavorarci. Una volta uscito Sulla tavola inventata, di Thierry Metz, curato e tradotto da me, per le Edizioni degli animali, sono andato in Francia con mia moglie Teresa, artista e insegnante all’Accademia di Brera, per la seconda parte del nostro viaggio di nozze. A vedere i paesaggi del Petrarca, Valchiusa, di René Char, e di tanti artisti, che hanno eletto quei luoghi a loro dimora, Braque, e poco distante Leonora Carrington. Naturalmente meta del viaggio era Arles, dove in un paese lì vicino, a Monfrin, Jacques Brémond ha il suo Atelier. In un capannone, assieme ad un’impresa edile: è un luogo umile e magico insieme, con le macchine per stampare artigianalmente con i caratteri mobili. Un luogo stregato, pieno di libri, bellissimi. Fatti a mano, con carte pregiate, alcune realizzate in Francia, altre che arrivano addirittura dal Tibet. Un lavoro da certosino, compiuto con dedizione e pazienza, come in una preghiera. E Jacques Brémond, sembra a vederlo un folletto, dalla barba lunghissima, imbiancata, e dagli occhi miti come un animale che esca dal bosco e incroci per un attimo lo sguardo di un passante ignaro, per ritornare subito, spaventato, nel fitto degli alberi, lontano dagli umani.
Da dove proviene, poeticamente, Metz, su quali autori lucida e raffina il suo sguardo lirico? Che cosa porta alla poesia francese?
Thierry Metz è un poeta autodidatta. Nella sua vita giornaliera, lavorava come muratore sterratore, come operaio, o come bracciante agricolo. La sera scriveva. O nei periodi in cui era disoccupato tra un lavoro e un altro. Nell’ultima parte della sua vita, a un professore di letteratura che gli chiedeva quali fossero i suoi autori preferiti rispose citando, come libri de chevet: il Pessoa del Libro dell’inquietudine, il poeta Adonis, le Elegie duinesi e i Sonetti a Orfeo di Rilke, Marguerite Duras, Jean Grosjean, le Poesie verticali di Roberto Juarroz, assieme ad altri autori. Conosceva le principali traduzioni della Bibbia. Come ogni vero poeta Metz non era un letterato, egli nasce poeta. La sua lingua tende a una estrema semplicità. La sua parabola ricorda quella di Rimbaud, la prossimità del silenzio come radice oscura (luminosa) della lingua. In un periodo in cui i letterati sono perlopiù dei mestieranti, ossessionati da un narcisismo che nuoce gravemente alla loro opera (di esseri umani e di artisti), Thierry Metz ci insegna, che la poesia è una chiamata, un appello, un corrispondere ad una voce che parla dentro di noi. La poesia è vocazione, nella necessaria indistinzione di poesia e prosa – nella loro unità perduta. La poesia, l’arte, è un’esperienza mistica che nasce dal dolore e dalla gioia di esistere. In Thierry Metz, poi è stato purtroppo il dolore a prevalere, essendo egli stato testimone della morte del figlio, investito da una macchina davanti ai suoi occhi. Dolore inimmaginabile. Che nel tempo lo ha portato al suicidio. Ma dentro questo dolore, interrogandolo – senza infingimenti, senza orpelli – Metz ha cercato e mantenuto nella lingua un’apertura, un’assenza presente, una corrispondenza impossibile, con ogni creatura. In una poesia che è testimonianza della prossimità (dell’origine dimenticata e della loro indissolubile unità) della parola al silenzio. Fino a sfiorare – a raggiungere? – quel luogo agognato dove non servono più parole, dove le parole sono in più: fino a donare a noi lettori quella parola originaria che è silenzio differito.
L’editore di Thierry Metz: “Jacques Brémond, sembra a vederlo un folletto, dalla barba lunghissima, imbiancata, e dagli occhi miti come un animale che esca dal bosco e incroci per un attimo lo sguardo di un passante ignaro, per ritornare subito, spaventato, nel fitto degli alberi, lontano dagli umani”
Come si traduce un autore come Metz, di che natura è il suo linguaggio? Che strategie linguistiche hai adottato per farlo tuo?
Prima di essere un editore sono uno scrittore che scrive in prosa, sebbene in una prosa vicina al sentimento della poesia. Dunque come scrittore tradurre poesia è sempre un’esperienza estatica, del limite della lingua. Limite che la poesia – e in particolare quella di Metz – raggiunge spesso, oltrepassandolo, mentre la prosa resta dentro una vitalità più trattenuta. Insomma, semplificando: la poesia è verticalità della lingua, la prosa è orizzontalità. Traducendo poesia impariamo di nuovo, ci misuriamo – secondo i nostri limiti – con quell’essenzialità della parola che è tipica della poesia, ritroviamo il sentimento della verticalità. Thierry Metz è un grande poeta perché possiede il dono della semplicità e della semplificazione: cioè la capacità di ritrovare la semplicità quando questa ci sembra perduta. Ho cercato di tradurlo pensando a questa semplicità, questa prossimità silenziosa con le sorgenti della lingua. Naturalmente ogni traduzione è per definizione incompiuta, perché deve misurarsi con i limiti del traduttore, in questo caso i miei: con il suo sentimento della lingua materna, e la sua capacità di accogliere la lingua straniera, di ospitarla degnamente, abolendo infine la distinzione tra le due.
Un verso di Metz che ritagli e tatui in cielo, a memoria. E perché proprio quello.
“Dov’è il fratello alchemico/ uomo della prima/ dell’ultima cena” (Où est-il le frère alchimique/ homme du premier/ du dernier repas). Amo questi versi in particolare e tutta la poesia, perché sono un invito a mantenersi aperti, nei confronti di ogni creatura, persino di fronte all’alterità che ci abita. Un invito a non chiudere il cuore, questa radice stellata, dimora della lingua e del sentire, casa del sangue: del sangue che per i mistici è la casa dell’anima. Semplicità e comunione, di una fraternità alchemica: gioia della metamorfosi. L’arte è metamorfosi, la vera poesia è sempre psicagogica.
A un editore faccio una domanda editoriale: come si fa editoria oggi in Italia?
Sono stato per tanti anni un redattore e un collaboratore, assieme ad altri amici, della rivista “In forma di parole”, diretta da Gianni Scalia, maestro amatissimo e generoso nella condivisione del pensiero, e nel fare poetico: il lavoro redazionale, la capacità di accogliere progetti nuovi e inascoltati. E questo nell’assoluta gratuità. È questo sentimento della gratuità che animava “In forma di parole” che cerco, con i miei mezzi, con la forza che mi è stata data, di restituire. Così sono nate due case editrici: le Edizioni degli animali, assieme ad un amico congolese Albert, Ngosa Kalalwe, e i Portatori d’acqua, assieme a Simone Massa e ad un gruppo di amici che ruotano intorno a Pesaro e Bologna. Due esperienze che nascono come associazioni culturali senza fini di lucro, autofinanziate, in povertà. Ma nelle quali sentirsi liberi di corrispondere a quel sentimento della gratuità che oggi viene vilipeso, deriso, dimorando incompreso. È sempre la bellezza a guidarci (mai considerazioni di carattere economico, anche se ovviamente ci sono dei libri che vorremmo fare ma che non riusciamo a fare). Alla radice del mio lavoro di editore sta quello di scrittore. Il lavoro a cui tengo di più, da scrittore, uscito proprio con i Portatori d’acqua è un libro chiamato Libro del vento. Una specie di critica della modernità, attraverso una critica dell’immaginazione e della forma romanzo. Un libro che parla al sentire, all’emozione, all’immaginazione risvegliandola, e non alla ragione, che è oggi quasi sempre una ragione claudicante. Come mi è capitato di dire altre volte lavoro ai miei libri come se fossero libri di altri e a quelli degli altri come se fossero miei. Con le Edizioni degli animali stiamo cercando di approfondire il rapporto umano-natura: ragionando sul perché gli esseri umani si siano esclusi dalla natura, per depredarla. Ignorando così la loro animalità, degradandola. In fondo i poeti sono animali. Pasolini diceva bestia da stile. Stiamo lavorando ad altri libri di Thierry Metz. Oggi in Italia solo i piccoli editori sono liberi di fare i libri che vogliono, gli altri spesso sono preda di considerazioni di carattere meramente economico.
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Per gentile concessione pubblichiamo alcune poesie tratte da: Thierry Metz, “Sulla tavola inventata”, Edizioni degli animali, 2018
Mi hai nascosto nel tuo morso serpente nelle spire del tuo nome infante di un’infanzia a venire cresco con te avvolto attorno alla mia sete nel sonno interno nero della madre attorto nell’orecchio rosso immenso del dormiente
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Hai sfiorato la sorgente il grido dalle mani roche della guaritrice Oh manovale il tuo libro è nudo e tu non hai nome ma l’amata ha tracciato un cerchio intorno al tuo chiarore
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Scrivi non nella scrittura ma nell’intimità del pozzo dove il più chiaro si nasconde
Thierry Metz
L'articolo “Un invito a non chiudere il cuore, questa radice stellata”: dialogo con Riccardo Corsi intorno al genio poetico di Thierry Metz proviene da Pangea.
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