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“Sant’Andrea in Contesto”: Convegno Internazionale su Assistenza e Ospitalità nel Medioevo a Vercelli e Novara. Due giornate di studio e riflessione per celebrare gli 800 anni dell’Ospedale S. Andrea di Vercelli e approfondire il ruolo degli ospedali medievali
L'8 e il 9 novembre 2024, Vercelli e Novara ospiteranno il convegno internazionale “Sant’Andrea in Contesto. Assistenza, ospitalità e ospedali presso monasteri e canoniche regolari del medioevo europeo”, un evento organizzato dall’Università del Piemonte
L’8 e il 9 novembre 2024, Vercelli e Novara ospiteranno il convegno internazionale “Sant’Andrea in Contesto. Assistenza, ospitalità e ospedali presso monasteri e canoniche regolari del medioevo europeo”, un evento organizzato dall’Università del Piemonte Orientale (UPO) per celebrare l’ottocentesimo anniversario dell’Ospedale S. Andrea di Vercelli. Questo incontro, in collaborazione con il…
#&039;Università del Piemonte Orientale#accoglienza nel medioevo#Alessandria today#Alessandro Barbero#antichi ospedali#architettura monastica#assistenza ai viandanti#Campus Perrone#canoniche regolari#Commemorazione#conoscenza del medioevo#Convegno internazionale#convegno storico#Cripta di Sant’Andrea#cultura medievale#cultura religiosa#cura dei bisognosi#cura nel medioevo#dibattito storico#divulgazione culturale#Eleonora Destefanis#eventi Novara#eventi Vercelli#Fondazione Comunità Novarese#Google News#Incontro pubblico#italianewsmedia.com#medioevo europeo#Ministero della Cultura#monasteri medievali
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Un "viaggio" tra i misteri di Modena e della Ghirlandina
Un "viaggio" tra i misteri di Modena e della Ghirlandina Si intitola "L'ascesa della Torre. Percorso a tappe sui misteri di Modena" la visita guidata alla Ghirlandina in programma sabato 30 dicembre, alle ore 18. L'iniziativa, l'ultima dell'anno, è organizzata dal Comune di Modena, Servizio di Promozione della città e turismo con Ar/s Archeosistemi, ed è aperta a un gruppo di 25 persone, su prenotazione dal sito web oppure allo Iat, Ufficio informazione e accoglienza turistica in piazza Grande 14 (per informazioni: 059 203 2660). Il ritrovo dei partecipanti è alla biglietteria della Ghirlandina alle 17.45, la visita inizia un quarto d'ora più tardi e dura circa 45 minuti. La salita si articola in un percorso a tappe dentro la Torre in cui, gradino dopo gradino, vengono svelati i misteri della città medievale e che culmina nella Sala dei Torresani, con un ampio sguardo sul panorama. Da qui, dove un tempo abitavano i custodi e le guardie della Torre, si può ammirare il cuore storico di Modena con piazza Grande, attorno alla quale, già dal Medioevo, confluirono il potere religioso e quello civile. In particolare, vengono approfonditi la simbologia delle metope, figure enigmatiche scolpite sulla pietra che ornano gli esterni del Duomo, e il "ciclo arturiano" presente sulla Porta della Pescheria. Inoltre, altri focus riguardano le funzioni medievali della pietra Ringadora, che serviva ad arringare il popolo, ma anche conosciuta come "pietra del disonore" per punire i malfattori, e la Bonissima, statua enigmatica dalle molteplici interpretazioni. Infine, vengono svelati i segreti relativi al tribunale dell'Inquisizione, presente a Modena già dal Medioevo con sede nel convento di San Domenico, e dettagli curiosi relativi al Duomo come lo "sgabello del boia", la lapide della longobarda Gundeberga e l'osso di balena. Il biglietto d'ingresso in Ghirlandina costa 3 euro, ridotto 2 euro per bambini e studenti dai 6 ai 26 anni, over 65, gruppi di almeno 10 persone, ingresso gratuito per bambini fino a 5 anni, insegnanti che accompagnano classi, disabili con accompagnatori, giornalisti, guide turistiche.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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IL COMMENTO
Trattato come un delinquente. Prima del processo aveva subito un provvedimento di allontanamento da Riace. Non poteva rientrare nel suo paese nemmeno per fare visita al padre vecchio e malato. Considerato peggio di un mafioso. Si dà il caso, però, che Mimmo Lucano non sia un mafioso, ma un cittadino onesto, buono e generoso. Una testa dura, come tante in Calabria. Ci troviamo di fronte ad una contraddizione clamorosa tra legge e giustizia. Non sempre la legge va d’accordo con la giustizia. Spesso per fare o avere giustizia si deve cambiare una legge. È stato fatto tante volte. Ma è un processo lungo e laborioso. Richiede a volte battaglie, movimenti, petizioni popolari, referendum, prima che il parlamento si decida a cambiare una legge ingiusta o a promuovere dei diritti. È stato così per lo Statuto dei lavoratori. È così per lo ius soli. È stato così per il delitto d’onore, per l’aborto, per il divorzio, e tanti altri esempi si potrebbero fare. Il diritto, che sta alla base della legge, si evolve, segue la storia, si aggiorna in base ai mutamenti storici e politici. Al tempo dei greci e dei romani, la schiavitù non era illegale. Nel medioevo i privilegi feudali e la servitù della gleba erano legali. Il diritto non è neutro. Il più delle volte si limita a codificare norme, convenzioni, costumi, già in uso. Trasforma in legge lo status quo. In genere prende atto dei rapporti di potere. Con la rivoluzione francese la borghesia nascente rovescia il vecchio mondo feudale, plasmato a misura dell’aristocrazia, stretto da vincoli, privilegi e regole che impedivano l’accumulazione del capitale, il libero mercato e lo sviluppo industriale. Per andare a tempi più recenti, durante i governi a guida Berlusconi abbiamo visto anche leggi ad personam, reati declassati o spariti dal codice da un giorno all’altro. Il diritto, dunque, è stato sempre modellato sulla base degli interessi della/e classe/i al potere. È la storia. Fuori della storia e del buon senso sono i giudici di Locri. Per fare funzionare il modello Riace, un modello di accoglienza e di inclusione studiato in tutto il mondo, Mimmo Lucano ha dovuto infrangere leggi vecchie e inadeguate. Come quella, ad esempio, che non dà diritto ai bimbi che nascono e studiano in Italia di avere la cittadinanza. O come quella che nega la casa popolare, il diritto ad un alloggio agli immigrati regolari che sono residenti in Italia da meno di 10 anni. Mimmo Lucano si è inventato il lavoro, ha messo in movimento un’economia asfittica. E per fare questo ha dovuto inventarsi perfino una moneta alternativa. Un modo che permettesse ai nuovi arrivati di vestirsi e di mangiare, fino a quando il ministero dell’Interno, guidato allora da Marco Minniti ( e poi da Salvini), non si fosse degnato di trasferire un po’ di soldi per pagare i fornitori. A Riace case, botteghe artigiane, negozi, avevano riaperto i battenti. Il paese si era ripopolato, ritornando a nuova vita, al contrario di tanti paesi morti della Calabria. Ai coccodrilli che piangono per i borghi abbandonati, il sindaco di Riace aveva mostrato una via concreta per la rinascita. Un’alternativa allo spopolamento e all’abbandono dei villaggi. Dopo la rottura del latifondo e la riforma agraria, la Calabria è entrata nella modernità pagando un prezzo altissimo in termini di emigrazione. Ha fornito braccia a buon mercato allo sviluppo industriale del Nord e dell’Europa. Ha distrutto un artigianato fiorente che non ha retto l’urto del mercato dei prodotti industriali. Anche molti che avevano beneficiato della riforma agraria hanno abbandonato le campagne per lo scarso sostegno pubblico, indirizzato soprattutto ad agevolare l’attività edilizia e commerciale, oltre che posti di lavoro nella pubblica amministrazione. La Calabria diventa terra di consumo. Si sviluppa un’economia dipendente e funzionale alla crescita economica delle regioni centro-settentrionali. Con un ceto politico attento solo ad intercettare i flussi di spesa pubblica e a gestire affari e malaffari. In questo contesto non c’è posto per la Calabria dei villaggi, per le comunità rurali, collinari e montane. Mimmo Lucano ci ha fatto intravedere (in una piccola realtà) un’alternativa possibile, un modo innovativo e solidale per far rinascere i nostri borghi. Scontrandosi con l’ottusità della burocrazia e con politici attenti al loro tornaconto personale. Nel frattempo, Marco Minniti, dopo avere avuto tutto (e di più) dal suo partito, si è seduto sul comodo treno della Fondazione Leonardo. Mimmo, invece, se l’è dovuta vedere con magistrati che invece di perseguire l’illegalità mafiosa hanno acceso i riflettori sui suoi reati. Commessi con la convinzione di fare del bene. Era l’unico modo per salvare vite, per fare andare avanti una vera integrazione, per sbloccare situazioni impigliate nei meandri della burocrazia e o ritardate da leggi inadeguate. Mimmo Lucano è un «fuorilegge», ha agito in difformità di leggi ingiuste o sbagliate che non gli permettevano di agire a favore degli immigrati e degli abitanti di Riace. Non è certo un ladro o un criminale, come ce ne sono tanti anche in doppio petto. Questa condanna è una vergogna. Una grave ingiustizia. Chi non accetta le ingiustizie e si batte per il cambiamento non ha che schierarsi con lui, mostrando che non è solo e isolato, ma un punto di riferimento. Il voto del 3-4 ottobre è l’occasione. È il modo per esprimergli, non solo a parole, solidarietà. Gaetano Lamanna
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Ghironda, violino e la cornamusa. La musica de L'Orage, una super band folk valdostana. / Il Bullone - OrianaG, Eleonora Bianchi e Debora Zanni
Pubblicato su Il Bullone n° 35, maggio 2019.
Il nuovo album de L'Orage, band folk valdostana, "Medioevo digitale", è uscito ad aprile. Suoni tradizionali su testi che toccano l'attualità di cui anche Il Bullone si sta occupando da tempo: migranti, tecnologia, confronto generazionale...
Abbiamo ascoltato il CD in anteprima e intervistato Antonio Visconti, voce e chitarra della band.
«Il punto del disco è riprendere il filo di un discorso già iniziato, e molto elaborato, ma interrotto con l'attentato alle Torri Gemelle, che ha dato il via al nuovo terrorismo. Prima dell'11 settembre, al G8 di Genova a luglio, era fortemente presente, con quasi un milione di presenze, quel movimento globale apartitico, apolitico e pacifista che non era lontano dalla protesta di Greta oggi. Ecologia, accoglienza e parità di genere erano già temi portanti. L'infinita possibilità di informazione azzera la percezione della memoria, che costruisce ideali, pensiero critico. I millennials sembrano isolati dal processo di memoria. Il passato non è meglio, ma segna un tracciato. Non puoi capire Achille Lauro se non hai idea del lavoro di Vasco. Ascoltare i "vecchi" è un contatto tra generazioni importantissimo.»
Perché il nome L'Orage? «Dalla celebre canzone di Georges Brassens e non solo. È una parola che spesso appare nel mondo delle canzoni francofone e brilla in modo particolare, incuriosisce. In più dà la possibilità di creare moltissimi giochi di parole.»
Come mai vi siete assentati per 3 anni? «Nell’estate 2017 abbiamo deciso di prenderci un momento per noi anche per ciò che accadeva nel nostro privato. Io ho avuto un figlio, il chitarrista storico è andato via, e io, con più tempo a casa, ho ricominciato a studiare la chitarra elettrica. Ci siamo dati tempo anche per valutare i cambiamenti del mondo musicale, più attivo su web e social, che non è subito stato nelle nostre corde. Siamo molto legati al contatto diretto col pubblico, dal concerto come festa.»
Com'è il contesto musicale valdostano? «È una regione piccola e per ciò molto "contemplativa": il rapporto con la natura è diretto e forte, e questo determina una grande creatività. La scena musicale è molto varia. Sono frequenti le fiere, le sagre, dove anche i più giovani ancora cantano insieme e ballano in coppia, cosa che non si vede quasi più. Noi siamo partiti da lì, affacciandoci al panorama italiano con una fan base già molto solida, di gente che con noi si diverte, fa festa. Mantenere un contatto forte con la tradizione (i fratelli Boniface sono musicisti da 4 generazioni, suonano ghironda, violino, cornamusa...), mescolandola a rock, cantautorato, elettronica ha portato qualcosa di nuovo.»
Di chi sentite di più l'influenza? «Realtà molto diverse. Rock alternativo anni 90, grunge, canzone d'autore italiana e no. I fratelli Boniface hanno il mondo celtico e il metal più cattivo, il punk folk. Poi il punk nord europeo, la ritmica africana. Il repertorio di cover che portiamo live spesso spiazza.»
Se ti diciamo Rivoluzione, Cicatrici e Viaggio... «Sono parole potenti. "La rivoluzione è nella testa", Lennon: quello che serve oggi, a partire dalle cose piccole come fare spesa con meno plastica. "Gli amanti cullano le cicatrici come segreti da svelare", Cohen: i ragazzini ne sono orgogliosi, è confortante averle da mostrare come segni di battaglia. Sono la memoria del nostro corpo, della paura affrontata. "Prego di trovare il grande viaggio tra le pareti di una scatola", Noir Desir. Viaggiare è bello, ma il vero viaggio è dentro.»
I B.livers hanno 3 parole: essere, credere e vivere. Le tue? «Inquietudine, intesa come valore; leggerezza, quella di Calvino che trova l'ironia anche nel dolore. E memoria, mezzo per prolungare la vita, espanderla e mantenerla attiva creando ricordi importanti.»
#intervista#l'orage#alberto visconti#valle d'aosta#musica#anteprima#il bullone#gullone#oriana gullone#orianag
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capitolo 3
IL VALZTER DELL’IGIENE
Il concetto di “abitabilità” espresso nel PSC del 2008 è andato dal 2005 a braccetto con il tema della sicurezza.
Il 15 novembre 2005, l’allora sindaco di Bologna Sergio Cofferati rende pubblico il documento “Legalità e solidarietà per lo sviluppo economico, la coesione e la giustizia sociale”.
Il documento si presenta come una ferma presa di posizione contro “l’illegalità” e, sebbene nel documento ve ne siano solo alcuni accenni, le pratiche a cui si riferisce il documento riguardano in particolare la regolamentazione della cultura del divertimento e la questione abitativa.
Tra le ordinanze emanate dal 2005 al 2007 vi sono: la proibizione alla vendita di alcool in bottiglie di vetro dopo le 21.00 nella zona universitaria ed in Via del Pratello, l’obbligo di chiusura degli alimentari alle 22.00, la regolamentazione dell’orario di chiusura all’1.00 per i locali pubblici, la cancellazione della street parade, il divieto di effettuare piercing ai genitali, ai capezzoli e alle palpebre, così come tatuaggi estesi a tutto il corpo, il piano comunale contro i graffiti, lo smantellamento di diversi campi nomadi nella periferia cittadina, lo sgombero di diversi edifici occupati, la regolamentazione dei dehors dei bar e locali cittadini.
Queste pratiche hanno come obiettivo la creazione di un’urbanità igienizzata, che si riappropria di porzioni del proprio territorio da poter successivamente affidare ad investimenti privati, ed un nuovo tipo di cultura del divertimento, accuratamente costruita attraverso pratiche urbane.
La Bologna contemporanea, bonificando la propria aria, le proprie strade, i propri muri, i corpi dei suoi cittadini, si è aperta all’arrivo di nuovi capitali allontanando parte della propria composizione sociale, reinventando contemporaneamente i propri cittadini.
A Bologna però, cibo, cultura del divertimento, questione abitativa, attivismo politico sono intrecciati. Per comprenderlo basta seguire le vicissitudini dell’area dove oggi si trova la Trilogia Navile.
Fino al 1936 l’area era destinata a terreno agricolo. Successivamente due delle invenzioni belliche della I guerra mondiale furono convertite in strumenti agricoli: il nitrogeno degli esplosivi permise di inventare i pesticidi ed il carrarmato fu trasformato in trattore. Per poter ammortizzare l’investimento in questi nuovi costosi strumenti, che permisero di triplicare la produzione agricola, furono necessari grandi appezzamenti di terreno. A Bologna, come in tutte le città industrializzate, i terreni da sottoporre a sfruttamento agricolo furono quindi gradualmente spostati dai perimetri urbani, grazie anche al minor costo dei mezzi di trasporto dotati di motore a scoppio. Questo processo permise quindi alle città di iniziare ad ingrandirsi occupando i terreni agricoli limitrofi ai propri confini.
Per questo motivo Bologna ebbe la necessità di dotarsi di un grande mercato agricolo. Nel 1936, grazie alla prossimità della ferrovia, venne inaugurato il Mercato Ortofrutticolo del Navile, un’invenzione necessaria a permettere lo scambio di un numero crescente di merci agricole per un numero crescente di popolazione urbana.
Un’esplosione è un evento travolgente. Un’esplosione di gioia ci rende nuovi. Dall’esplosione del big bang si dice che abbia avuto inizio l’intero universo. L’esplosione di una bomba distrugge vite e territori. Un’esplosione di rabbia può distruggere un rapporto. L’esplosione del motore a scoppio fa avanzare un veicolo. Dalle esplosioni passano la vita e la morte, vi si ritrovano uniti la luce più accecante e l’ombra più profonda. Un’esplosione cambia molte cose. Un’esplosione è la fine di qualcosa e l’inizio di qualcos’altro, ed è stato così anche per Bologna. L’onda d’urto della bomba esplosa il 2 Agosto 1980 alla Stazione Centrale ha segnato la morte di una Bologna e la nascita di un’altra. Il suo eco non è terminato pochi istanti dopo le 10.25, ma si riverbera ancora oggi, le sue implicazioni sono racchiuse ed incorporate nella stessa forma urbana.
Lo squarcio nell’anima della città provocato dall’attentato, così come l’affermazione del ruolo di Bologna come nodo di scambio nazionale, resero necessari nuovi lavori sulla stazione.
Sono passati meno di 50 anni dal 1936 e nel Piano regolatore del 1985-89 si decise di delocalizzare il mercato ortofrutticolo nell’attuale area CAAB in vista della riprogettazione della stazione ferroviaria. Nella metà degli anni ’90 il mercato venne quindi dislocato, sempre in prossimità di una linea ferroviaria. Il vuoto nel Navile non venne però colmato a causa di una congiuntura macroeconomica non favorevole alla realizzazione dei progetti in previsione. Fu in questo periodo che il vuoto lasciato dal mercato ortofrutticolo fu riempito da progetti culturali indipendenti legati all’arte, al cibo, al corpo e alla cultura del divertimento, il LINK e l’XM24.
Con la chiusura del LINK nel 2004 per far posto al Comune di Bologna, e lo sgombero del 15 Novembre 2019 dell’XM24 per la realizzazione di uno studentato, un’altra componente indesiderata al progetto urbano, dopo i terreni agricoli ed il mercato ortofrutticolo, viene allontanata dal quartiere. La città ha a mano a mano espulso da quest’area le componenti non più desiderate, trasformando contemporaneamente il territorio, i corpi, il cibo, il mercato agricolo e i sistemi produttivi.
Tra i progetti più imponenti degli ultimi 10 anni di politica urbana vi è FICO Eataly World. Quello che viene definito un parco tematico dedicato all’agroalimentare, la Disneyworld del cibo, non è altro che un’arena che ridefinisce, surrogandoli, tutti gli aspetti che la città ha, nel corso di 100 anni, una dopo l’altro, allontanato dall’area del Navile. Luogo di coltivazione ed allevamento, di smistamento e vendita di prodotti agroalimentari, di svago, e di didattica per tutti i livelli scolastici, Bologna ha trovato il modo di assemblare e di integrare tutti questi elementi in un unico dispositivo.
Questa trasformazione non è avvenuta tuttavia senza costi. Da FICO gli habitat di coltivazione ed allevamento sono accuratamente ricreati, il processo produttivo è esibito in modo edulcorato, i ristoranti sono matrioske dentro un centro commerciale, la biodiversità proclamata all’interno del parco è frutto di una selezione operata all’interno del mercato economico.
La vendita della cultura enogastronomica Made in Italy ed i marchi DOC, IGP, STG, DOCG, operano sull’intero processo di produzione e consumo del cibo le stesse alterazioni che le decisioni politiche attuano sulla città, per poterne permettere l’inserimento all’interno del mercato economico.
Il marketing del cibo, come il marketing urbano, utilizza i meccanismi di igienizzazione ed eliminazione delle componenti indesiderate.
Dopo la crisi del 2008 e la conseguente crisi del manifatturiero, Bologna decide di investire nel rapporto tra cibo e turismo, passando necessariamente per invenzioni urbane, ricostruendo paesaggi, quartieri, edifici ed interni.
Non è un caso che nel Marzo 2009 il comune di Bologna trovi un accordo con Ryanair, la principale compagnia aerea low cost europea, per l’apertura di una base operativa nell’aeroporto Guglielmo Marconi, spostando gradualmente la maggior parte dei voli dall’aeroporto di Forlì allo scalo bolognese, fino a raggiungere gli attuali collegamenti con 60 aeroporti in Europa.
Tra il 2013 e il 2018 i turisti nel capoluogo sono cresciuti del +46%, così come si è assistito ad un boom di ristoranti (+31.9%), minimercati (+48%), caffetterie (+233%) nel centro storico.
Parallelamente l’arrivo di piattaforme digitali come Airbnb ha modificato ulteriormente la composizione urbana. Il servizio ha visto crescere gli annunci pubblicati in Italia dagli 8.126 del 2011 ai 354mila del 2017. Oggi secondo il portale “Airbnb Inside” gli annunci su Airbnb a Bologna sono 3.542, di cui 2.333 sono annunci per interi appartamenti, con un prezzo medio per notte di 76€ ed una media di occupazione per ogni annuncio di 104 notti all’anno.
Uno di questi appartamenti si trova proprio all’ultimo piano di Via Tibaldi 17. Il gestore, Carlo, la cui famiglia ha costruito l’edificio negli anni ’70, è anche proprietario di altri alloggi nello stesso stabile. Descrivendoci i vari avvicendamenti negli appartamenti ci parla di una situazione attuale molto definita. Se nel corso degli anni al piano terra si è passati dalla sede del Quartiere Navile al Parrucchiere Cinese, nei piani superiori sono passate famiglie di immigrati, proveniente dall’India, dal Bangladesh, dalla Cina, studenti universitari, single, famiglie. A causa di una serie di problemi, tra cui sfratti per morosità, emissioni olfattive e sonore disturbanti, oggi non affitta più nessuno degli appartamenti ad immigrati e ad universitari col fine di tutelare il proprio patrimonio ed in favore di un modello di convivenza non conflittuale. Il target ideale è il single, lavoratore, una forma di istituzione che perlopiù non emette emissioni sonore ed olfattive sgradevoli e che garantisce la solidità finanziaria richiesta.
Anche qui, l’igienizzazione urbana e l’orientamento verso i capitali influenza i corpi e crea un’asimmetria nelle potenzialità di accesso al mercato abitativo.
Le proteste di fronte allo Student Hotel di Via Fioravanti del 1° Ottobre 2020 si inquadrano all’interno di questo contesto. Gli alloggi diminuiscono ma gli studenti fuorisede sono passati dai 36mila del 2015 ai 41mila del 2019 e la nuova città, igienizzata, sembra non fornire più loro un’adeguata accoglienza.
Il sentimento che ha mosso la manifestazione è frutto anche di un altro evento molto recente. Il 12 Settembre 2019 è stata formalizzata la candidatura dei portici di Bologna a patrimonio dell’umanità UNESCO. I portici sono un dispositivo architettonico “abusivo”, nato nel basso medioevo, per ospitare gli studenti universitari immigrati in città. La loro configurazione deriva dalla necessità di aumentare la cubatura abitativa, senza sottrarre spazio pubblico in una città chiusa dalle mura medievali, e quindi non in grado di ampliarsi facilmente. Se i portici diventassero patrimonio dell’UNESCO comporterebbero un aumento della pressione turistica ed un’ulteriore riduzione di spazi abitativi disponibili per gli studenti.
La nascita di nuove forme di disuguaglianza all’interno del Navile è quindi frutto di una gigantesca performance i cui attori sono ryanair, le emissioni sonore, l’attentato del 2 Agosto, la mortadella IGP, i dehor, i tatuaggi, lo student hotel, la deregolamentazione dell'industria aerea europea del 1997, i portici.
Valorizzazione del patrimonio storico, attrazione di nuovi capitali, aumento della produttività agricola e promozione della cultura gastronomica locale, nascono con buone intenzioni ma il transito di queste componenti attraverso diverse sezioni della realtà ne devia inevitabilmente i propositi, in modi molto spesso imprevedibili anche dalla politica stessa.
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31 MAR 2020 10:09
ITALIA-ALBANIA: PARDO APPARECCHIA IL DERBY DELL’AMICIZIA SU INSTAGRAM - IL PREMIER EDI RAMA SPIEGA A "TIKI CASA" LA DECISIONE DI INVIARE 'UN ESERCITO BIANCO' NEL NOSTRO PAESE E INVITA L’EUROPA A FARE COME "IL MILAN DI SACCHI" - GIULIANO SANGIORGI RICORDA GLI SBARCHI DEGLI ALBANESI IN PUGLIA. E RIVELA... - EX GIOCATORE DI BASKET, EDI RAMA PARLA DELLA NAZIONALE, DELLA JUVE, DI ZOFF E DI MOURINHO - IL TWEET DI LAPO - LA STORIA DELL'AMICIZIA CON IL "VATE" BIANCHINI - VIDEO
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Francesco Persili per Dagospia
"Siamo in una guerra mondiale contro il coronavirus. Non si può vincere solo giocando in difesa, con il catenaccio. Qui ci vuole un’Europa che faccia come il Milan di Sacchi. Gli Stati campioni si mettano a disposizione della squadra”. Il premier albanese Edi Rama interviene a “Tiki casa”, la versione social di “Tiki Taka”, e torna sulla decisione di inviare in Italia ‘l’esercito bianco’ di 30 medici e infermieri per l’emergenza coronavirus. “Non possiamo combattere divisi all’interno delle proprie frontiere, senza reagire insieme”.
“Non siamo privi di memoria e non abbandoniamo mai l’amico in difficoltà”, aveva detto il primo ministro di Tirana in un discorso che ha raccolto tantissimi consensi (non solo) sui social. Gratitudine e senso di una memoria comune. “Mi ricordo gli sbarchi in Puglia negli anni ’90”, rivela Giuliano Sangiorgi dei Negramaro. “Con mio padre andammo a fare la spesa e portammo generi alimentari al porto di Brindisi. Provai un dolore fortissimo. Credo che l’Albania ricordi la nostra accoglienza…”. Due popoli che si danno la mano e condividono la sofferenza di questo tempo.
“La conta dei morti ogni sera suscita una enorme tristezza – prosegue Edi Rama - Siamo in una guerra in cui l’onnipotente esercito americano e il modestissimo esercito albanese valgono lo stesso, cioè zero. Parliamo di intelligenza artificiale ma quando il nemico arriva nel nostro mondo non ci sono mascherine, non si trovano respiratori. L’Europa è la nostra casa comune. Se minaccia di bruciare non si può restare appartati e aspettare che il virus vada via. Spero che questa crisi si trasformi in opportunità per approfondire come vogliamo vivere e cosa vogliamo essere”.
Ex giocatore di basket, Edi Rama ha l’Italia nel cuore. Dall’altra parte dell’Adriatico, al tempo della dittatura, l’Italia era l’America. E si tifava per gli azzurri. “Eravamo chiusi in un bunker, la sola finestra erano le partite di calcio della Nazionale italiana”. Il “Vate” Valerio Bianchini lo ricorda studente d’arte nel 1988 al tempo di una trasferta della Scavolini Pesaro in Albania in cui il futuro premier albanese svolgeva il ruolo di interprete. Lapo Elkann si è esaltato davanti alle sue foto con le giacche della Juve: “Adesso mi è tutto più chiaro perché l’Albania è guidata da un grande Uomo”. L’ex sindaco di Tirana rivela a Pardo che le sue simpatie bianconere risalgono al tempo di Dino Zoff la cui foto campeggiava sopra il suo letto. “Prima di spegnere la luce lo guardavo”. “Ho avuto una debolezza solo quando è arrivato Mourinho all’Inter. Ho gioito per i suoi successi. Tutti hanno i loro peccati…”
EDI RAMA: UN GIOCATORE DI BASKET CHE HO CONOSCIUTO BENE E DI CUI VOGLIO RACCONTARVI L'AMICIZIA.
Dal profilo Facebook di Valerio Bianchini
Nel 1988, allenavo la Scavolini che, avendo vinto il campionato la stagione precedente , partecipava all'Eurolegue. Come già mi era successo con Cantù, le prime qualificazioni ci facevano incontrare il Partizan di Tirana, una competizione che non dava pensieri ma che anzi suscitava in noi grande curiosità per il piccolo Paese blindato da un tetro dittatore che seminava le campagne di fortificazioni militari a difesa della Nazione dall'invasione prossima degli italiani.
I ragazzi scherzavano con i nostri americani, Cook e Daye, ricordando loro che l'Albania era il paese più comunista che si potesse immaginare. Daye, che sospettava di essere preso in giro, venne da me per sapere la verità. Io non potei che confermare quanto aveva sentito dai compagni. L'Albania era effettivamente il paese più comunista conosciuto. Aggiunsi che non avevano rapporti né con la Russia di Breznev, né con la Cina di Mao, perchè entrambi i paesi erano considerati dagli albanesi troppo di destra.
Completai le informazioni dicendo che l'Albania intratteneva relazioni diplomatiche solo coi khmer rossi della Cambogia, che per gli americani erano nient'altro che i temutissimi sterminatori dei loro soldati nella guerra del Vietnam.
Partimmo da Falconara per un breve volo di mezzora al di là dell'Adriatico. Darren Daye si sedette accanto a me , un po' pallido in volto, nonostante la sua abbronzatura naturale. Mi chiese: “ Coach, quante ore di volo ci sono per Tirana?” “Mezz'ora “ risposi. “ Wow, esclamò Darren, L'Italia è così vicina alla Cambogia?” A ulteriore conferma della scarsa familiarità degli americani col mappamondo.
Arrivati a Tirana, ad accoglierci con i funzionari del governo c'era anche un ragazzo alto, distinto e gentile. “Sono un giocatore di basket e poiché parlo la vostra lingua, sarò il vostro interprete”.
La cosa m meravigliò non poco, perchè solitamente i nostri accompagnatori all'Est erano agenti dei servizi segreti con l'aspetto truce dei personaggi di Le Carré. Il ragazzo, oltre che appassionato di basket che sapeva tutto sul campionato italiano, era colto e la sua conversazione brillante. Passò molte ore con me e fu immediata amicizia. Era uno studente di arte e mi condusse a visitare il Museo di Scanderbeg, l'eroe albanese. Mi faceva mille domande e negli occhi aveva un gran desiderio di volare a di là dell'Adriatico, lontano dalla cupa dittatura di Henver Hoxha, che teneva l'Albania in una specie di medioevo comunista.
Venne il momento della nostra partenza e Edi Rama era all'imbarco con noi. Mi regalò un ritratto da lui dipinto di una giovane fanciulla in abiti del suo folclore. E aveva negli occhi una grande tristezza e un desiderio insopprimibile di venire con noi. Lo salutai con calore, convinto di rivederlo a Pesaro, quando il Partizan fosse arrivato per la partita di ritorno. Ma quando giunsero gli albanesi lui no era con loro. Era rimasto in Albania.
Una ventina d'anni dopo mi telefona Marzorati e mi dice che Edi Rama il sindaco di Tirana desidera contattarmi. Edi è famoso. Ha appena vinto il premio internazionale di “Sindaco dell'anno” davanti a Veltroni , sindaco di Roma. Edi aveva trasformato la grigia e degradata Tirana di Hoxha in una nuova imprevedibile città, ricca di giardini e con le vecchie case ridipinte in mille colori come un quadro dadaista. Era successo che pocodopo la nostra visita, Edi era riuscito a fuggire a Parigi per studiare arte. Da Parigi coordinava una specie di resistenza albanese con la pubblicazione di fanzine che facevano inviperire il regime.
Quando Hoxha crollò assieme al comunismo internazionale col muro di Berlino, in Albania si scatenò una sanguinosa guerra di fazioni politiche. Edi tornò per visitare i suoi e una notte gli tesero un'imboscata e lo massacrarono di percosse. Il medico disse che a salvarlo era stata la sua corporatura di giocatore di basket. Trovò ancora rifugio in Francia e intanto le cose in Albania andavano sistemandosi. Morì il padre ed Edi tornò per il funerale e il primo ministro gli offrì il ministero della Cultura. Cominciò così una carriera politica che oggi lo vede Primo Ministro.
Edi, da sindaco, si ricordò dell'allenatore con cui aveva stretto amicizia da ragazzo e mi invitò con mia moglie per un soggiorno nell'Albania che stava cambiando. Mi fece fare un viaggio lungo le coste incontaminate di quella meravigliosa sponda dell'Adriatico, fino al teatro romano di Butrinto, ai confini con la Grecia. Rinsaldai l'amicizia e capii dall'ampiezza della sua visione politica che Edi non si sarebbe limitato a fare il sindaco della capitale. Ieri il nostro Renzi per chiudere il semestre europeo a guida italiana ha scelto l'Albania recandosi a incontrare Edi Rama.
Una scelta dettata dall' esempio di un Paese uscito dalla dittatura verso la modernità sotto la guida geniale ed ispirata di un ragazzo che giocava a basket.
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L’incantevole borgo di Campli è un piccolo gioiello d’Abruzzo, situato in provincia di Teramo. È uno di quei luoghi dove le tradizioni secolari sono parte integrante della vita degli abitanti, poco più di 7000 anime, e nel quale il tempo sembra scorrere a ritmi piacevolmente rallentati. Uno scrigno di arte e storia, arroccato sulle colline Teramane a circa 30 chilometri dall’Adriatico. Le origini di questo insediamento si perdono in tempi antichi. Come testimoniano i reperti archeologici rinvenuti in quest’area, il territorio di Campli era abitato sin dal VIII secolo a.C.: gli scavi effettuati nella necropoli della vicina Campovalano hanno riportato infatti alla luce centinaia di tombe appartenenti ad un arco temporale che va dall’età del bronzo alla conquista romana. È solo nel Medioevo però che Campli acquisisce importanza e prestigio, fino a vivere il suo momento di massimo splendore, fermento artistico e vivacità politica tra il XVI ed il XVIII secolo quando a governare la città è la famiglia Farnese. Oggi Campli si offre ai suoi visitatori orgogliosa delle sue bellezze e consapevole del suo fascino. Fiera inoltre di essersi rialzata con incredibile forza dal devastante terremoto che nel 2009 ha colpito la regione Abruzzo. Cosa vedere a Campli Campli è facilmente raggiungibile in auto ed il modo migliore per godere delle sue atmosfere è quello di perdersi senza fretta tra le sue vie, passeggiando a piedi e scovando ogni scorcio del borgo abruzzese. È proprio camminando lungo Corso Umberto I, il lungo viale che taglia in due la città, che i più attenti e curiosi potranno scoprire un piccolo tesoro celato all’interno di un cortile. Si tratta della Casa del Medico e dello Speziale, un idilliaco palazzo che ha nei secoli cambiato più volte la sua funzione passando da essere un edificio religioso, adibito tra le altre cose a luogo di accoglienza e cura dei neonati non voluti dalle famiglie, a prestigiosa residenza nobiliare. Le ambientazioni dei suoi cortili e del suo loggiato sono decisamente da non perdere, per un bagno di quiete e relax. Proseguendo poi verso la piazza principale del paese, Piazza Vittorio Emanuele ci si ritrova circondati da due dei luoghi di interesse principali di Campi. Sulla destra si erge la Chiesa di Santa Maria in Platea, un sito carico di spiritualità e custode di importanti opere artistiche. La cattedrale prende il suo nome dalla statua in essa alloggiata, ritraente una Madonna col Bambino che rivolge lo sguardo alla piazza della città, ed ha saputo resistere alle scosse sismiche che l’hanno colpita anni fa. Sulla sinistra di Piazza Vittorio Emanuele svetta invece il Palazzo del Parlamento, chiamato anche Palazzo Farnese, uno dei palazzi civici più antichi di tutto l’Abruzzo, ed oggi sede del Municipio cittadino. Nella parte nord del paese sorgono uno accanto all’altro la Chiesa di San Francesco e l’importante Museo Archeologico di Campli. La Chiesa San Francesco è stata edificata nel 1227 ma ha purtroppo subito ingenti danni a seguito del terremoto, ed è rimasta per lungo tempo chiusa ed ammirabile solo dall’esterno. Il Museo Archeologico invece ha sede negli ambienti dell’antico convento di San Francesco e raccoglie i numerosissimi reperti archeologici rinvenuti nell’area di Campli e dintorni, molti dei quali provenienti da Campovalano. Campli tra spiritualità e usanze antiche Una delle particolarità di Campli è il suo forte legame con il mondo spirituale e proprio dietro Palazzo Farnese si nasconde un luogo legato a doppio filo con la sentita religiosità degli abitanti del borgo: la Scala Santa. Costruita XVIII secolo, la celebre Scala si trova a ridosso della Chiesa di San Paolo, ed è una scalinata di 28 gradini in legno di quercia intrisa di religiosità e misticismo. Secondo un’usanza in vigore fin dal 1772, i fedeli che la percorrono in ginocchio raccolti in silenziosa preghiera e passano attraverso i dipinti che ricoprono le pareti laterali della gradinata, rievocazioni della Passioni di Cristo, vedono perdonati tutti i loro peccati. Un’Indulgenza Plenaria insomma, di espiazione e rinascita, che precede la scalinata per la discesa, percorribile in piedi accompagnati invece da affreschi rappresentanti simbolicamente la Resurrezione. Un rituale imperdibile, da mettere in atto in prima persona o semplicemente da osservare con rispetto. Eventi e sagre a Campli: buon cibo e genuinità La regione Abruzzo è sinonimo anche di buon cibo e tradizioni gastronomiche d’eccellenza. Il ricco palinsesto di sagre paesane di Campli è spesso legato alla sue migliori offerte culinarie, e tra le vie del paese genuinità e socialità si uniscono in un calendario di manifestazioni popolari dal fascino autentico. Imperdibile se si passa da Campli nel mese di agosto è la Sagra delle Porchetta Italica: un vero concorso tra i produttori di questo squisito prodotto di carne suina, durante il quale gli estimatori dei panini caldi farciti di succulenta carne alla brace vivono momenti paradisiaci per le papille gustative. Il tutto accompagnato da concerti, parate e intrattenimento di vario genere. L’estate di Campli è fatta anche di Festa della Pizza e di Sagra del Tartufo di Campovalano, altri due cavalli di battaglia del menù di ricette tradizionali: tra le bancarelle delle fiere paesane o comodamente seduti nei numerosi ristoranti della zona, non fatevi scappare nemmeno un assaggio delle altre specialità camplesi, come il timballo teramano, le acciughe sottolio cotte nell’aceto, i calcioni, la frittata di basilico o la pasta al sugo di lepre. E per deliziare anche l’udito, Campli è palcoscenico di interessanti momenti musicali come il Campli Music Festival o altri eventi dedicati ai più svariati generi e gusti, che colorano la bella stagione del borgo abruzzese. https://ift.tt/2O3cXZN Cosa a vedere nel bellissimo borgo di Campli L’incantevole borgo di Campli è un piccolo gioiello d’Abruzzo, situato in provincia di Teramo. È uno di quei luoghi dove le tradizioni secolari sono parte integrante della vita degli abitanti, poco più di 7000 anime, e nel quale il tempo sembra scorrere a ritmi piacevolmente rallentati. Uno scrigno di arte e storia, arroccato sulle colline Teramane a circa 30 chilometri dall’Adriatico. Le origini di questo insediamento si perdono in tempi antichi. Come testimoniano i reperti archeologici rinvenuti in quest’area, il territorio di Campli era abitato sin dal VIII secolo a.C.: gli scavi effettuati nella necropoli della vicina Campovalano hanno riportato infatti alla luce centinaia di tombe appartenenti ad un arco temporale che va dall’età del bronzo alla conquista romana. È solo nel Medioevo però che Campli acquisisce importanza e prestigio, fino a vivere il suo momento di massimo splendore, fermento artistico e vivacità politica tra il XVI ed il XVIII secolo quando a governare la città è la famiglia Farnese. Oggi Campli si offre ai suoi visitatori orgogliosa delle sue bellezze e consapevole del suo fascino. Fiera inoltre di essersi rialzata con incredibile forza dal devastante terremoto che nel 2009 ha colpito la regione Abruzzo. Cosa vedere a Campli Campli è facilmente raggiungibile in auto ed il modo migliore per godere delle sue atmosfere è quello di perdersi senza fretta tra le sue vie, passeggiando a piedi e scovando ogni scorcio del borgo abruzzese. È proprio camminando lungo Corso Umberto I, il lungo viale che taglia in due la città, che i più attenti e curiosi potranno scoprire un piccolo tesoro celato all’interno di un cortile. Si tratta della Casa del Medico e dello Speziale, un idilliaco palazzo che ha nei secoli cambiato più volte la sua funzione passando da essere un edificio religioso, adibito tra le altre cose a luogo di accoglienza e cura dei neonati non voluti dalle famiglie, a prestigiosa residenza nobiliare. Le ambientazioni dei suoi cortili e del suo loggiato sono decisamente da non perdere, per un bagno di quiete e relax. Proseguendo poi verso la piazza principale del paese, Piazza Vittorio Emanuele ci si ritrova circondati da due dei luoghi di interesse principali di Campi. Sulla destra si erge la Chiesa di Santa Maria in Platea, un sito carico di spiritualità e custode di importanti opere artistiche. La cattedrale prende il suo nome dalla statua in essa alloggiata, ritraente una Madonna col Bambino che rivolge lo sguardo alla piazza della città, ed ha saputo resistere alle scosse sismiche che l’hanno colpita anni fa. Sulla sinistra di Piazza Vittorio Emanuele svetta invece il Palazzo del Parlamento, chiamato anche Palazzo Farnese, uno dei palazzi civici più antichi di tutto l’Abruzzo, ed oggi sede del Municipio cittadino. Nella parte nord del paese sorgono uno accanto all’altro la Chiesa di San Francesco e l’importante Museo Archeologico di Campli. La Chiesa San Francesco è stata edificata nel 1227 ma ha purtroppo subito ingenti danni a seguito del terremoto, ed è rimasta per lungo tempo chiusa ed ammirabile solo dall’esterno. Il Museo Archeologico invece ha sede negli ambienti dell’antico convento di San Francesco e raccoglie i numerosissimi reperti archeologici rinvenuti nell’area di Campli e dintorni, molti dei quali provenienti da Campovalano. Campli tra spiritualità e usanze antiche Una delle particolarità di Campli è il suo forte legame con il mondo spirituale e proprio dietro Palazzo Farnese si nasconde un luogo legato a doppio filo con la sentita religiosità degli abitanti del borgo: la Scala Santa. Costruita XVIII secolo, la celebre Scala si trova a ridosso della Chiesa di San Paolo, ed è una scalinata di 28 gradini in legno di quercia intrisa di religiosità e misticismo. Secondo un’usanza in vigore fin dal 1772, i fedeli che la percorrono in ginocchio raccolti in silenziosa preghiera e passano attraverso i dipinti che ricoprono le pareti laterali della gradinata, rievocazioni della Passioni di Cristo, vedono perdonati tutti i loro peccati. Un’Indulgenza Plenaria insomma, di espiazione e rinascita, che precede la scalinata per la discesa, percorribile in piedi accompagnati invece da affreschi rappresentanti simbolicamente la Resurrezione. Un rituale imperdibile, da mettere in atto in prima persona o semplicemente da osservare con rispetto. Eventi e sagre a Campli: buon cibo e genuinità La regione Abruzzo è sinonimo anche di buon cibo e tradizioni gastronomiche d’eccellenza. Il ricco palinsesto di sagre paesane di Campli è spesso legato alla sue migliori offerte culinarie, e tra le vie del paese genuinità e socialità si uniscono in un calendario di manifestazioni popolari dal fascino autentico. Imperdibile se si passa da Campli nel mese di agosto è la Sagra delle Porchetta Italica: un vero concorso tra i produttori di questo squisito prodotto di carne suina, durante il quale gli estimatori dei panini caldi farciti di succulenta carne alla brace vivono momenti paradisiaci per le papille gustative. Il tutto accompagnato da concerti, parate e intrattenimento di vario genere. L’estate di Campli è fatta anche di Festa della Pizza e di Sagra del Tartufo di Campovalano, altri due cavalli di battaglia del menù di ricette tradizionali: tra le bancarelle delle fiere paesane o comodamente seduti nei numerosi ristoranti della zona, non fatevi scappare nemmeno un assaggio delle altre specialità camplesi, come il timballo teramano, le acciughe sottolio cotte nell’aceto, i calcioni, la frittata di basilico o la pasta al sugo di lepre. E per deliziare anche l’udito, Campli è palcoscenico di interessanti momenti musicali come il Campli Music Festival o altri eventi dedicati ai più svariati generi e gusti, che colorano la bella stagione del borgo abruzzese. Campli è un bellissimo borgo dell’Abruzzo che, nonostante il terremoto del 2009, conserva la sua bellezza nei palazzi d’epoca e nei monumenti.
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Questioni di stile
Del 7 aprile 2019
Di Lorenzo Firmani
Questa settimana in Italia c’è stato un episodio che mi ha particolarmente colpito.
A Roma, più precisamente a Torre Maura, un ragazzino di 15 anni, sfida un esponente di Casapound in una battaglia dialettica a cui risponde colpo su colpo.
Simone con modi cortesi e calmi riesce a far spiegare le sue ragioni e le sue idee, chiarendo che “Secondo me nessuno deve essere lasciato indietro. Né italiani,né rom, né africani,né qualsiasi tipo di persona…”
In questo quartiere di Roma negli ultimi giorni si è accesa una polemica contro un centro di accoglienza che in questi giorni sta ospitando 60 Rom.
Queste proteste sono state fatte dagli abitanti della zona sostenuti appunto da Casapound. Una potesta rabbiosa e violenta che ha impedito anche di portare il pane a questa gente.
La gente protesta e non vuole questa gente nei suoi quartieri ma è davvero giusto escludere queste persone?
Chi discrimina i Rom è poco informato su chi sono e sulla loro cultura. Associamo la parola Rom a parole come ladri, rapiscono i bambini, non lavorano queste sono le cose che si associano spesso a questo popolo. Sono parole che tendono ad una forte discriminazione verso questo popolo.
Noi diamo con molta facilità giudizi di pancia e più difficile invece creare una opinione e giudizio cercando di essere informate bene.
Miei lettori proprio perché vi voglio bene informati vi parlo un po' della storia dei Rom.
Partiamo dalla parola Rom, questa parola significa uomo libero.
I Rom sono un popolo di origine antica più precisamente ha origini asiatiche, in India, queste sono le origini dei 7 milioni di persone che si sono stabilite in Europa.
Sono stati sempre in viaggio attraversando diverse parti del mondo e hanno avuto sempre diverse persecuzioni violente e forzature da parte dei governi per integrarle senza però rispettare la loro cultura e tradizione.
La loro cultura si è sempre distinta tra l’abbigliamento pittoresco, la loro musica e la chiromanzia.
In molti paesi la cultura romanì è entrata a far parte del folklore locale: il flamenco in Spagna,
i violinisti ungheresi, i cymbalisti romeni, la canzone russa “Oci ciornie”.
La musica romanì ha
fortemente influenzato più di un compositore, ad esempio Brahms nelle sue “Danze ungheresi”,
Liszt, Bartŏk e Mussorgski. Alcuni generi musicali derivano dai rom, come la Czardas e il Verbunkos,
ma anche tanta musica balcanica oltre al jazz manouches, uno degli stili del jazz europeo il cui
precursore è stato il leggendario manouche Django Reinhardt.
In Italia invece non riusciamo ad accettare questo popolo. Non riusciamo nemmeno a integrare ne gli immigrati e ne tanto meno le persone che si sono perfettamente integrate nel nostro paese ma che non riusciamo nemmeno a dargli la cittadinanza. Tranne quando i politici sono talmente pressati dai Media che debbono concedere per un gesto eroico la cittadinanza. Perché una persona nata in Italia debba fare l’eroe per essere cittadino italiano?
Noi siamo un paese che sta ancora discutendo ancora su queste questioni.
Nel mondo invece i paesi si sono evoluti e sviluppati in modo maggiore rispetto a noi,uno di questi sono gli Stati Uniti.
E’ notizia proprio di pochi giorni fa, l’elezione del nuovo sindaco di Chicago, un sindaco che possiamo tranquillamente dire che fa la storia. perché? Perché è una donna, è afroamericana ed è gay.
Tre caratteristiche che forse in Italia sarebbe difficile da vedere a differenza dell’America che seppur con tante lotte e violenza nel passato sono riusciti a fare quell passo evolutivo che noi non abbiamoil coraggio di fare.
In America sono riusciti a capire cosa vuol dire evolversi a livello sociale anche se le discriminazione esistono ancora.
Chicago è una città che ha sempre vissuto tantissime disuguaglianze sociali e lotte tra polizia e minoranze per non dimenticare la violenza data dalle armi da fuoco.
Il neo sindaco, Lori Lightfoot ha fatto la propria campagna elettorale puntando proprio sulla riduzione delle disuguaglianze sociali e razziali.
La città dell'Illinois ha deciso di fare un passo avanti nel futuro per migliorare gli aspetti più negativi di cui ha bisogno.
La società americana sembra di vivere in un presente futuro che guarda sempre avanti cercando di svilupparsi al meglio mentre noi stiamo ancora cercando di un passato molto remoto e vecchio degno del Medioevo o addirittura della preistoria.
Se ci fossero più persone come Simone che riescono a mettersi in una posizione diversa da quella della politica dell’odio che ci viene alimentata dai partiti, sarebbe tutto diverso. Basta solo pensare che i Romani erano già più moderni di noi nel capire la società.
Per fortuna che il futuro è di ragazzi come Simone, Riccardo e Ramy, tre ragazzi che vedono un Italia diversa che guarda al futuro e che non fa distinzione di genere o di razza.
Il futuro è vostro e dovete cambiarlo.
Nota bene
Visto che i Blogger sono discriminati perché si eice che non sanno ricercare le fonti sappiate che le mie fonti per scrivere questo cappuccino sono Amnesty e il sito Open di Enrico Mentana penso che entrambe siano fonti più che affidabili. ❤
#Roma #periferie #contestazioni #Rom #Casapound #giovani
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I will write this message both in Italian and in English so that you can understand me. Scriverò questo messaggio sia in italiano sia in Inglese, cosicché tutti possiate capirmi.
English:
My name is Aril and I'm 19 years old. I live in southern Italy, and I’ve grown up with the values of acceptance, respect, life and personality. I have my whole life, with its huge misfortunes and small joys, but it’s my life. During my life, it has often happened to hear extremely strong news that has questioned the society and the values it has. By 2015, however, these questions have become extremely common and dominate the minds of each of us. "Why does evil exist?" "Why are innocent people killed for something they don’t know if it exist or not?", "Why do people want to terrorize us for a religion?" The more questions we create, the fewer answers we have and the man is weak: if he doesn’t have certainties, he invents them. So, they start the phenomena of racism and they start looking for a scapegoat to unload all the blame that maybe there are in society. Speaking of all the attacks that have been in these years, we are brought to terror, someone reminds us that "You are all human, you all have to die and we are to determine when." Every time there is an attack there is reflection, panic, fear... Then you find the culprit and his accomplices and life returns as before. Then there is another attack and again... it repeats the same story. The common point of these attacks is the belief in a religion, the mode of attack and the will to terrorize. The problem of these attacks is not only security, but it’s also another: first of all, the relationship with who is Muslim. Immediately, he is designated as one of the terrorists and everyone will say "All your fault and the immigrants."
But I tell you, it is not a religion to define a terrorist. The terrorist uses religion as an excuse for his actions. They use the saying "The end justifies the means." For them, "religion" justifies their work. The problem is what they (terrorists) profess is not religion. It’s not faith.
No religion speaks of killing children. No religion professes mass murder to gain some power. No religion says, "More kids and teenagers are killed, the bigger the prize you will have." In history, it has happened several times that religion was used as an excuse for action: even for us Catholics happened in the Middle Ages. Another consequence is indifference: personally, after years of terrorist attacks, I became indifferent. As if it was a daily thing. And this must not happen, it cannot happen! We must not become accustomed, we must not be indifferent, we must not give up. And we have to react. Reacting together, not surrendering. Not falling in indifference, in prejudices. But together, we young people can change the world. Or rather, this is the only hope that remains to me: to be able to change the world. Not pray. But closeness to the victims. Shares. For all those who suffer. Not only in England. Not just in the Philippines. But all over the world. Italiano:
Il mio nome è Aril e ho 19 anni. Vivo nel Sud Italia, e sono stata cresciuta con i valori dell'accoglienza, del rispetto, della vita e della personalità.
Vivo una vita tutta mia, con le sue enorme disgrazie e le sue piccole gioie, ma è la mia vita. Durante la mia vita, è spesso capitato di sentire delle notizie estremamente forti che hanno messo in discussione la società e i valori che quest'ultima ha. Dal 2015, però, queste domande sono diventate estremamente più frequenti e dominano la mente di ognuno di noi.
"Perché esiste il male?",
"Perché delle persone innocenti vengono uccise per qualcosa che non si sa se esiste o meno?"
"Perché delle persone vogliono terrorizzarci per una religione?".
Più domande ci creiamo, meno risposte abbiamo e l'uomo è debole: se non ha certezze, se le inventa.
Quindi, iniziano i fenomeni di razzismo e si parte alla ricerca di un capro espiatorio, per scaricare tutte quelle colpe che, magari sono della società.
Parlando di tutti gli attentati che ci sono stati in questi anni, noi veniamo riportati al terrore, qualcuno ci ricorda che "Siete tutti umani, tutti dovete morire e siamo noi a stabilire quando.". Ogni volta che c'è un attentato vi è la riflessione, il panico, la paura... Poi si trova il colpevole e i suoi complici e la vita torna come prima. Poi accade un altro attentato e di nuovo... si ripete la stessa storia.
Il punto in comune di questi attentati sono la credenza ad una religione, la modalità di attacco e la volontà di terrorizzare.
Il problema di questi attentati non è solo la sicurezza, ma è anche altro: innanzitutto, il rapporto con chi è musulmano. Immediatamente, viene designato come uno dei terroristi e tutti diranno "Tutta colpa vostra e degli immigrati."
Ma vi dico: non è una religione a definire un terrorista. Il terrorista usa la religione come scusa per le sue azioni. Loro usano il detto "Il fine giustifica i mezzi.": per loro, la "religione" giustifica il loro operato. Il problema è quella che loro (I terroristi) professano non è religione. Non è fede.
Nessuna religione parla di uccidere bambini. Nessuna religione professa l'omicidio di massa per istaurare un qualche potere. Nessuna religione dice "Più bambini e ragazzi ammazzate, più grande sarà il premio che avrete.".
Nella storia, è capitato più volte che la religione venisse usata come scusa per le azioni: anche per noi Cattolici è successo nel Medioevo.
Un'altra conseguenza è l'indifferenza: personalmente io, dopo anni di attacchi terroristici, sono diventata indifferente. Come se ormai fosse una cosa quotidiana. E ciò non deve accadere, non può accadere! Non dobbiamo abituarci, non dobbiamo essere indifferenti, non dobbiamo arrenderci.
E dobbiamo reagire. Reagire insieme, non arrendendoci. Non cadendo nell'indifferenza, nei pregiudizi. Ma insieme, noi giovani possiamo cambiare il mondo.
O meglio, questa è l'unica speranza che mi rimane: quella di poter cambiare il mondo.
Non preghiere. Ma vicinanza alle vittime. Azioni. Per tutti coloro che soffrono. Non solo in Inghilterra. Non solo nelle Filippine. Ma in tutto il mondo.
#manchester#marawi#terroristattack#attacco terroristico#religion#religione#no more violence#no more blood#world#pray for the world
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“Viaggio nel Medioevo”: spettacolo e visita gratuita al Castello di Montalbano Elicona
“Viaggio nel Medioevo”: spettacolo e visita gratuita al Castello di Montalbano Elicona
Sabato 1 e domenica 2 giugno si replica a distanza di un mese, con la stessa formula ma con tante nuove sorprese in termini di animazione ed accoglienza, “Viaggio dal Medioevo”, lo spettacolo della compagnia Batarnù, la visita guidata al Castello svevo aragonese ed al centro Medioexpò di Montalbano Elicona (Messina).
I Batarnù sono una compagnia di teatranti, giullari e fuochisti, indirizzata…
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© Elena Percivaldi – Perceval Archeostoria. All rights reserved. Nessuna parte di questo blog può essere copiata, riprodotta o rielaborata senza citare la fonte. Foto ©RavennAntica e ©Perceval Archeostoria. Video ©Perceval Archeostoria
RAVENNA, 3 dicembre 2018 – [di Elena Percivaldi] Bagno di folla (si parla di quasi 4mila persone) a Ravenna per l’inaugurazione, che si è tenuta sabato primo dicembre mattina, di “Classis Ravenna”, il nuovo Museo della Città e del Territorio sorto nell’ex Zuccherificio di Classe: 2.600 metri quadrati complessivi per un percorso che, attraverso oltre 600 reperti, ripercorre la lunga e gloriosa storia di Ravenna dalla preistoria all’antichità romana, dalle fasi gota e bizantina all’Alto Medioevo (ne avevamo annunciato l’apertura qua).
Un momento della conferenza stampa di venerdì 30 novembre (Foto Perceval Archeostoria)
Noi di Perceval Archeostoria abbiamo avuto l’opportunità di visitare il Museo il giorno precedente l’opening ufficiale al pubblico insieme a un ristretto gruppo di giornalisti e altri addetti ai lavori.
L’atmosfera che si respirava era di grande attesa e ansia, visto che i locali nel pomeriggio erano ancora di fatto un cantiere aperto in cui lavoravano febbrilmente operai e tecnici, compromettendo purtroppo la visione d’insieme dell’allestimento e la possibilità di coglierne i dettagli. Alla “mancanza” ha comunque sopperito il responsabile scientifico del Museo, il prof. Andrea Augenti, il quale prima in conferenza stampa e poi accompagnandoci alla visita ha illustrato con grande passione un progetto che ha l’ambizione non solo di presentare una serie di reperti pregevoli (e ve ne sono: uno su tutti, lo spettacolare mosaico proveniente dal cosiddetto “Palazzo di Teodorico”, che campeggia su una delle pareti), ma anche di mettere a disposizione di docenti e studenti dell’Università un luogo dove seguire i loro percorsi formativi e di ricerca.
Mosaico pavimentale proveniente dal cosiddetto “Palazzo di Teoderico”, marmo bianco d’Istria, nero d’Italia, cotto, palombino, rosa di Verona. Inizio del VI secolo
I “numeri” del Museo, lo avevamo già sottolineato presentando l’evento, sono imponenti: l’investimento che il Comune di Ravenna, con il Mibact, la Regione Emilia-Romagna e l’Unione Europea hanno messo in campo, con l’apporto determinante della Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, supera i 22 milioni di Euro. La progettazione del nuovo “Classis Ravenna”, realizzato e gestito dalla Fondazione RavennaAntica così come l’Antico Porto, la Basilica di Sant’Apollinare e, nel cuore di Ravenna, la Domus dei Tappeti di Pietra, il Museo TAMO e la Cripta Rasponi, è stata affidata all’architetto Andrea Mandara che ha operato al servizio di un comitato scientifico di assoluto prestigio. Tutto intorno, sta sorgendo inoltre un’oasi verde di 15.0000 mq e collegamenti da e per i principali monumenti della città.
E vediamo quindi il percorso. Al Museo si entra salendo una doppia rampa di ingresso aperta su un grande a prato (al momento ancora brullo, ma in primavera sarà sicuramente suggestivo). A dividere le due rampe un grande “nastro” interamente rivestito a mosaico di tessere di varie tonalità di blu, che riproduce l’idea del mare su cui Ravenna nasce e da cui ha tratto linfa vitale, ricchezza e commercio nel corso dei secoli.
Ingresso del Museo poco prima dell’anteprima stampa di venerdì 30 novembre (Foto Perceval Archeostoria)
Varcata la porta, si è accolti da una bellissima installazione composta da un grande telo-vela che riproduce le navi stilizzate della flotta di Classis così come sono rappresentate nel celebre mosaico di Sant’Apollinare Nuovo (sotto). Nella zona accoglienza è presente la biglietteria, un punto informazioni e un bookshop ben fornito (anche se manca un vero e proprio catalogo del Museo, sono a disposizione depliant gratuiti).
Il grande pannello con le vele della flotta di Classis all’ingresso (Foto Perceval Archeostoria)
Una volta entrati nelle sale del Museo, ecco iniziare il “racconto” vero e proprio della storia cittadina, concepito come in continuo dialogo con l’architettura recuperata del vecchio Zuccherificio, che rimane sempre visibile. A condurre il visitatore per mano attraverso i tanti secoli di vita della città è una “linea del tempo” rossa, come un fil rouge appunto, che segnala le date principali e una serie di banner con le gigantografie dei personaggi (Teodorico, ma non solo….) che hanno scritto la storia di Ravenna (sotto).
I reperti archeologici sono inseriti in appositi espositori disposti cronologicamente – dall’età preromana al basso Medioevo con la fine di Classe – lungo le gallerie del percorso, intervallati da vetrate e altri apparati grafici, visivi e sonori. Difficile, non essendo terminato l’allestimento, giudicarne appieno l’efficacia, ma di certo la proposta pare vivace e interessante: sicuramente in grado di “arrivare” al pubblico, e probabilmente anche di coinvolgerlo emotivamente.
Una delle vetrine dedicate ai commerci (Foto Perceval Archeostoria)
Kylix attica a figure nere, ceramica, epoca preromana
Stele funeraria di un classiario, marmo, prima metà del I – III secolo d.C.
Sarcofago romano
Fibule ad Arco, argento, con tracce di doratura, prima metà del V secolo
Tesoro di Classe, argento, con tracce di doratura, Inizio del VII secolo d.C.
Spazi particolarmente ampi sono dedicati, come un focus, a temi ritenuti cruciali come ad esempio la navigazione e i commerci, e affrontati in una sezione dedicata al loro approfondimento. Completano l’allestimento numerosi plastici ricostruttivi, a volte collegati a proiezioni di immagini, e pannelli che ricostruiscono anche l’aspetto delle genti che, via via, hanno partecipato a comporre l’identità cittadina: etruschi, romani, goti, longobardi, bizantini.
(Foto Perceval Archeostoria)
La prima impressione che abbiamo avuto del Museo è, nel complesso, abbastanza positiva (anche se abbiamo qualche perplessità su alcuni dei disegni ricostruttivi, ma ci riserviamo di ragionarci con calma). Speriamo a ogni modo di poter riassaporare il percorso definitivo e allestito in modo completo, magari quando sarà in piena attività. Una cosa comunque è certa: per Ravenna l’apertura di “Classis Ravenna” è un traguardo importante. E le premesse per dare un contributo “pesante” alla rilettura della storia cittadina, e soprattutto alla sua divulgazione al pubblico non specialista, sembrano esserci tutte.
Vi lasciamo con i nostri video girati durante l’anteprima stampa.
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© Elena Percivaldi – Perceval Archeostoria. All rights reserved. Nessuna parte di questo blog può essere copiata, riprodotta o rielaborata senza citare la fonte. Foto ©RavennAntica e ©Perceval Archeostoria. Video ©Perceval Archeostoria
#REPORTAGE / A #Ravenna apre “#Classis”, mille anni di #storia a disposizione di tutti [#FOTO, #VIDEO]. Abbiamo visitato il Museo durante l'anteprima riservata alla stampa: ecco le nostre impressioni. © Elena Percivaldi – Perceval Archeostoria. All rights reserved. Nessuna parte di questo blog può essere copiata, riprodotta o rielaborata senza citare la fonte.
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Modena, al via la campagna di promozione turistica “Modena a un tratto”
Modena, al via la campagna di promozione turistica “Modena a un tratto”. Una coppia di illustratori che, equipaggiati di taccuini e acquerelli, esplorano Modena e il territorio modenese per scoprirne i luoghi più suggestivi e identitari da riprodurre nei loro disegni. È questo lo spunto narrativo da cui nascono gli otto video di “Modena a un tratto”, la nuova campagna di promozione turistica della città e dei dintorni, già online sul portale Visitmodena.it, un percorso ricco di emozioni dedicato a chi lavora nel settore turistico locale, a tour operator e agenzie di viaggio e a chiunque voglia scoprire le offerte turistiche di Modena. Una seconda serie di video, intitolata “Una finestra su Modena”, composta da sei episodi di circa due minuti l’uno, racconta in modo emozionale ai viaggiatori i principali cluster di prodotto del territorio modenese ed è finalizzata a un utilizzo in uffici turistici, eventi, fiere di settore, agenzie, tour operator e strutture ricettive. La serie è già stata utilizzata quest’anno in fiere internazionali del settore turistico in collaborazione con Modenatur. Per la prima volta, inoltre, la promozione si arricchisce anche di un progetto di merchandising che propone magliette, shopper in tela e in carta, cancelleria e cartoline decorate, appunto, con i disegni ad acquerello degli illustratori Dario Grillotti e Sara Menetti, che ritraggono i luoghi più belli di Modena e che saranno in vendita all’Ufficio informazione e accoglienza turistica di piazza Grande. La nuova campagna, la tappa più recente del percorso iniziato a giugno 2021 con “È tempo di Modena” e proseguito con “Ti tocca venire” e “Lost in Modena”, è stata presentata questa mattina, mercoledì 28 dicembre, nel corso di una conferenza stampa in Municipio alla quale hanno partecipato: Ludovica Carla Ferrari, assessora a Turismo e promozione della città del Comune di Modena; Francesca Soffici di Modenatur, partner del progetto; Stefano Ascari di Intersezione, l’agenzia che ha realizzato i nuovi video; Giovanni Bertugli, dirigente del Servizio Promozione della città e turismo del Comune di Modena. “Questa nuova campagna – commenta l’assessora Ferrari – è un ulteriore tassello del progetto per la crescita turistica modenese che abbiamo ideato in piena pandemia e avviato non appena ci è stato possibile. E per la prima volta, insieme ai racconti, alle emozioni e alle esperienze, proponiamo anche, in via sperimentale, un gruppo di prodotti di merchandising pronti per la stagione turistica 2023 e per i prossimi eventi”. “Modena a un tratto” propone otto percorsi tematici per approfondire la conoscenza delle diverse anime del territorio, raccontati in altrettanti video: “Alla scoperta della città”, “Medioevo fantastico”, “Sulle tracce degli Estensi”, “Borghi e castelli”, “Una terra di motori”, “Musica ed emozioni”, “Luoghi del gusto”, “Natura e paesaggi”. I video sono caratterizzati da un approccio più didascalico rispetto a quelli delle campagne precedenti, in modo da essere utilizzati anche come strumento di formazione sull’offerta turistica sia da chi lavora a contatto con i turisti a livello locale sia dagli intermediari dell’offerta turistica, come tour operator e agenzie di viaggio. I 16 disegni realizzati da Dario e Sara che offrono lo spunto di partenza ai video sono anche i protagonisti della linea di prodotti per la promozione della città: una collezione di 16 cartoline, quaderni e taccuini, shopper in tela e in carta (queste ultime con il logo di VisitModena), tatuaggi e matite colorate per i bambini, una matita ecologica che una volta utilizzata potrà essere piantata per far crescere una piantina di girasole, t-shirt in cotone bio con i simboli utilizzati nella campagna “È tempo di Modena”. ... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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"Noi non siamo come loro". Ma vogliamo diventarlo. I leghisti: "I musulmani sono diversi da noi! Noi siamo occidentali, i nostri valori sono superiori ai loro! Quelli stanno ancora al Medioevo! I loro leader politici usano ancora la religione, il loro libro sacro e gli altri simboli religiosi per fare politica e fare presa sul proprio popolo!". Sempre i leghisti: "L'Italia è solo cristiana! Io voto Salvini perché durante i comizi si rivolge al nostro Dio, al nostro Messia, alla Madonna e a tutti i Santi! Viva Salvini che durante i comizi bacia il rosario e brandisce il Vangelo!" I leghisti: “I musulmani sono fanatici, estremisti e intolleranti, riempiono gli edifici dello Stato di simboli religiosi, perfino nelle scuole e guai a chi li tocca! Nei loro Paesi non accettano alcuna cultura o religione diversa dalla loro! Provateci e vedete cosa succede!” Sempre i leghisti: “Guai a chi tocca il crocifisso nelle nostre aule! Basta con questi musulmani che si inginocchiano e pregano! Guai se aprite un luogo di culto diverso dal nostro nella mia città! Provateci e vedrete cosa succede!” I leghisti: “I musulmani nei loro Paesi impongono perfino quale carne gli altri debbano mangiare e quale no!” Sempre i leghisti: "Gli immigrati devono mangiare i tortellini con il ripieno che decidiamo noi! Devono mangiarli con il maiale e non con il pollo! Maledetti infedeli! I leghisti: “I musulmani non credono nella scienza e perseguitano gli uomini di cultura!” Sempre i leghisti: “Basta con questa storia del riscaldamento globale che dicono gli scienziati! Basta con questi professoroni!” I leghisti: “I musulmani impongono alle donne cosa indossare e cosa no! Insultano le donne! Non le rispettano! Non tollerano la libertà! Non tollerano gli stranieri nella loro terra! Li trattano male! Non sono accoglienti e col cazzo che ti danno un lavoro se sei straniero!". Sempre i leghisti: “Boldrini sei una cagna! Michela Murgia sei una scrofa! Le donne non devono indossare il velo! Decidiamo noi cosa devono indossare! Possibilmente poco! Basta stranieri nel nostro Paese! Via! Dateli in pasto ai pesci che hanno fame! Basta accoglienza! Basta lavoro agli stranieri!". "Perché noi siamo diversi da loro. Loro stanno ancora al Medievo. Mica come noi". Emilio Mola
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Modena tra Guelfi e Ghibellini
Nel 1152, l’elezione di Federico I di Hohenstaufen, detto Barbarossa, a imperatore portò al potere un sovrano energico e deciso a far rispettare la sua legittima autorità sui comuni italiani (richiese, ad esempio, di essere lui a nominare i consoli). Nel corso delle sue spedizioni in Italia distrusse Asti (1154), Crema (1160) e, infine, Milano (1162), la più potente delle città avverse all’imperatore. Sottomise anche Roma, ma fu costretto a battere in ritirata per via di un’epidemia che decimò l’esercito imperiale. Con l’imperatore in Germania, i comuni si riorganizzarono nella Lega Lombarda (dicembre 1167) e lo sconfissero nella celebre battaglia di Legnano (29 maggio 1176). Si arrivò, così, alla tregua siglata con la Pace di Venezia (1177) e alla Pace di Costanza, dove si riconobbe la libera elezione dei consoli e l’autonomia comunale. Privi di un comune nemico, le città italiane ritornarono alle loro lotte tra fazioni, fino all’arrivo di un altro imperatore, Federico II, nipote del Barbarossa e Re del Regno di Sicilia. Incoronato nel 1215, ottenne l’appoggio di città come Pavia e Cremona e di signori feudali come Ezzelino da Romano, minacciando nuovamente i comuni, che di conseguenza riesumarono la Lega Lombarda (1226). Si arrivò alla guerra e Federico II riuscì ad avere la meglio a Cortenuova (1237), ma il valore delle sue vittorie fu minato dalle ribellioni in Germania, che lo costrinsero a distogliere l’attenzione dall’Itali, e dal Papa Innocenzo IV, che sosteneva i comuni nella loro lotta antimperiale, arrivando persino a scomunicare Federico II. Fu in questi anni che comparvero, nel contesto fiorentino, i termini “guelfo” e “ghibellino”, rispettivamente nel 1239 e nel 1242 negli anonimi Annales. Se ne ebbe, poi, notizia in una lettera dei Capitani fiorentini della “… pars guelforum …” (1248); nella cronaca fiorentina del 1248, compresa nel Chronicon de mundi aetatibus del notaio piacentino Giovanni Codagnello (Johannes Caputagni); in una lettera di Federico II (1248), in un registro di delibere di S. Gimignano (1248) ed in due lettere papali (1248 e 1250).
Le origini dei nomi risalgono alla lotta per la corona imperiale dopo la morte dell’imperatore Enrico V (1125) tra le casate bavaresi e sassoni dei Welfen (pronuncia “velfen”, da cui la parola guelfo) con quella sveva degli Hohenstaufen, signori del castello di Waiblingen (anticamente Wibeling, da cui la parola ghibellino). Successivamente, dato che la casata sveva acquistò la corona imperiale e, con Federico I Hohenstaufen, cercò di consolidare il proprio potere nel Regno d’Italia, in questo ambito politico la lotta passò a designare chi appoggiava l’impero (Ghibellini) e chi lo contrastava in appoggio al papato (Guelfi).
Tra la fine del XII secolo e la metà del XIII, in quasi tutti i Comuni di formarono due partiti che, pur recependo le originarie contese dinastiche germaniche, le modellarono sulla realtà italiana e municipale. Ora in Italia, poiché il Papa parteggiava per le casate guelfe, questa parte divenne il partito del Papa; del pari i ghibellini, persa la contraria coloritura dinastica, divennero il partito imperiale. Né tanto bastò, perché la complessa articolazione delle fazioni interne ai Comuni finì per generare in ciascuna città formazioni politiche i sottordine, spesso legate a consorterie plurifamiliari e clientelari.
“Si pensi alle acerbe contese tra fazioni nominalmente guelfe (le prime) e ghibelline (le seconde): a Firenze (1216) tra Fifanti e Uberti e tra Buomdelmonti ed Amidei; a Pisa fra Pergolini e Raspanti; a Genova (1241) fra Raspini e Mascherati; a Modena tra Anginoni e Fregnanesi detti Gualandelli (1188) e, poi, fra Aigoni (o Aginoni) e Grasolfi; a Bologna fra Geremei e Lambertazzi e tra Scacchesci e Maltraversi; ad Arezzo fra Parte Verde e Secchi; a Verona tra Capuleti e Montecchi.”[1]
S’instaurarono situazioni complicate, dove le nominali appartenenze guelfe e ghibelline non riescono da sole a spiegare lotte che hanno nelle faide familiari la loro matrice preponderante; il tutto aggravato dalle catene clientelari che accompagnavano ogni famiglia notabile, in cui le famiglie erano divise tra obbedienze ad una parte rispetto all’altra. Infine, nello stesso partito vi erano interminabili faide e repentini cambi di schieramento, seguiti da lunghi esili e bande di fuoriusciti (uno per tutti Dante Alighieri).
“Questi, poi, scacciati dalle loro città, cercavano in altre accoglienza e supporto per vendicarsi in armi della parte avversa. Si noti che la pluralità di gruppi e di interessi fu una costante dell’inurbamento, anche fuori d’Italia. Ora, però, mentre nelle città estere la tendenza prevalente fu la collaborazione fra i vari gruppi, nei comuni italiani lo scenario dominante fu una generalizzata conflittualità"[2]
La guerra proseguì sanguinosa fino alla sconfitta degli imperiali a Fossalta, vicino Modena, dove il figlio di Federico II, Enzo, fu preso prigioniero dai bolognesi (1249). La sua prigionia a vita diede il nome ad uno dei più famosi edifici cittadini, il Palazzo Re Enzo. La morte l’anno successivo di Federico II e la sconfitta dei suoi eredi nelle battaglie di Benevento (1266) e Tagliacozzo (1268) causò la perdita della corona imperiale e la dissoluzione successiva del partito ghibellino.
La stessa parte guelfa subì una profonda spaccatura. I guelfi si divisero in Neri, filo-papali, e Bianchi, moderati filo-imperiali. Storica in Firenze la lotta infinita e crudelissima che oppose le famiglie dei Donati, guelfi neri, e dei Cerchi, guelfi bianchi. Per il vero, tale sviluppo partitico non aveva quasi più legame con le iniziali fazioni dinastiche: i comuni erano in una guerra civile perenne, totalmente slegata dallo scontro Papato-Impero che aveva caratterizzato il Medioevo fino ad allora, mostrando la loro perdita di prestigio e di potere e la loro fine quali potenze sovra-nazionali.
Ciò non impedì agli Italiani di darsi battaglia sotto tali insegne per molto tempo.
È questo il caso di Modena e Bologna, con i primi da sempre ghibellini e i secondi filopapali. In un contesto di scontri per il possesso di alcuni castelli fortificati lungo il confine (Bazzano, Savigno, Monteveglio e Zappolino), i Bolognesi, guidati da Malatestino Malatesta, si spinsero nei territori di Passerino Bonacolsi, signore di Modena e Mantova, saccheggiandoli e scatenando la reazione dei modenesi, che conquistarono il castello di Monteveglio. Nella località nota come Ziribega, il 15 novembre 1325 si affrontarono il più numeroso esercito bolognese (35 mila/25 mila fanti e circa 2500 cavalieri) e il meglio addestrato esercito modenese, che poteva, però, contare su meno di 10 mila soldati di cui meno di 3 mila cavalieri. In aggiunta, Malatestino era giovane e inesperto e il capitano del popolo di Bologna, Fulcieri da Calboli, era accusato di essere un codardo, mentre l’esercito modenese era comandato da Rinaldo d’Este, comandante in capo dell’esercito ferrarese e dell’armata ghibellina, dal succitato Bonaccolsi, comandante esperto e spietato, da Azzone Visconti, figlio di Galeazzo Visconti, signore di Milano, a capo della cavalleria, coadiuvato dai ghibellini bolognesi Ettore da Panico e Muzzarello da Cuzzano, sanguinario signore dell’alta valle del Samoggia. Quest’ultimo conosceva perfettamente i luoghi dello scontro e questo fu decisivo per le sorti della battaglia.
Dopo alcune scaramucce la battaglia fu aperta solo nel pomeriggio dalla carica di Azzone Visconti, che colpì il centro dello schieramento bolognese presso i Prati di Saletto, il quale si ritrovò presto intralciato dal suo stesso numero in un terreno così difficoltoso. Nelle sue file di diffuse il panico e, approfittando del buio, i bolognesi si diedero alla fuga, lasciando sul campo circa 3000 morti. I vincitori li incalzarono fin sotto le mura di Bologna, schernendo i difensori con palii e giostre, ma ben sapendo di non avere le forze per assediarla. Si accontentarono di distruggere i castelli lungo la strada per Bologna e di “rapire” una secchia di legno, ancora oggi custodita nella Torre Ghirlandina e resa famosa dal poema eroicomico di Alessandro Tassoni, pubblicato nel 1624. Senza di esso la vicenda sarebbe stata probabilmente dimenticata, poiché la battaglia non portò a nessun cambiamento di fondo negli equilibri politici della regione.
Vittorio Trenti
Questo articolo è stato pubblicato sul Cimone, il notiziario del CAI di Modena. Per scaricarlo Cliccate Qui
Bibliografia V. Lenzi, La battaglia di Zappolino e la secchia rapita, Il Fiorino 2001 F. Menant, L’Italia dei comuni, Viella 2011 A. S. Scaramella, Le Guerre tra Guelfi e Ghibellini, Chillemi 2015 [1] e [2] http://zweilawyer.com/2017/10/16/guelfi-e-ghibellini/
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Caro Luglio,
mi trovo a scriverti di nuovo. Ho sperato per un anno intero di potermi rivolgere a te con parole dolci e leggere come petali, ma le spine di questa mia vita hanno il sopravvento su di me pure oggi. Non smetti di stupirmi con la tua capacità di disattendere ogni mia più sperata aspettativa. Sì, sono nato nei tuoi giorni, ma perché la tua non è un’accoglienza materna, familiare? Perché mi trovo sempre in un angolo buio a chiederti le ragioni della tua ingiustizia?
Sei un mese caldo, ma neanche troppo rispetto ad Agosto, e tra le tue folate di calore sono iniziate le tue prime ore. Come una lancetta incessantemente in movimento mi hai ricordato dell’incedere delle settimane, così io ho iniziato a scarcerare le ansie dei miei doveri, scolastici in particolar modo. E che lo dico a fare che nemmeno uno di questi è stato adempiuto? Tra le tue braccia ritrovo sempre una certa incapacità nel soddisfare ciò che è da soddisfare, in primis me stesso, gravato delle mie aspettative e delle mie speranze. Insomma, sulla carta tutto mi ricollega a te, ma nelle gallerie del mio sangue non riesco a estrarre neanche un quarzo grezzo della tua familiarità, della tua accoglienza, di un tuo abbraccio, di casa.
Se devo pensare a una metafora che ti battezzi quest’anno, mi viene in mente un orizzonte che traccia il sottile confine tra i due firmamenti terresti, quello marino e quello celeste. Il primo intorpidito nelle viscere dei propri flutti, grigi come la roccia e freddi come il ghiaccio, il secondo smunto e patinato da un triste filtro polveroso. Delle nuvole si muovono in una lenta marcia a passo funebre sull’invisibile pavimento d’aria, abbandonando a un mare di sale timide e deboli gocce; sembrano stanche pure di sollevarsi di quel piccolo peso; ma non sono restie dal tempestare, diluviare o grandinare per paura di dissolversi una volta scaricatesi, piuttosto sono stanche di essere sempre le solite vittime di quel ciclo idrico perpetuo e ingiusto. Nuvole stanche su un mare piatto, pianto e investito da piccoli cerchi tracciati su un cielo riflesso. Triste come immagine? Be’, non potrebbe essere altrimenti. Caro Luglio, quello triste sei tu, ora, oggi, per me.
Il 12 Luglio è stato un illusorio raggio di sole. Apprezzare il volto di una stella spesso lontana in quel giorno mi ha rinvigorito il battito cardiaco. A seguito mi sono direzionato da due cari alberi macchiati da rughe di vita, che, in una dolce e tranquilla conversazione mi hanno ripotato a una condizione bambinesca, ma gioiosa. E la sera, coronato da un binomio confidenziale, mi sono addormentato convinto che quello sarebbe stato solo l’inizio. Ma, ora, oggi, per me, quello era solo la fine. Fine di una piccola parentesi di sorrisi vissuti.
Non sto a ritracciare con il pensiero le profonde e infette ferite incisemi nel tempo dal Mar Ligure. Resta di fatto che, evaporate una serie infinita di scontentezze e rancori, sono rimasto carico più che mai di tuoni e fulmini inesprimibili. E questa inespressività ha dettato, come una legge celeste, decisa da uno Zeus fastidioso e a me ostile, che io non potessi scaricarmi in folgore e in sfogo, ma che dovessi fagocitarmi e, in uno stato di forte dolore, metabolizzare tutta quella carica di rabbia e tristezza. Armato di parole e proposizioni, con le quali ti sto scrivendo, sono ancora una nube nera e ottenebrante, oltre che ottenebrata. Il minimo sfiorarsi di nembi crea in me un’irritante folgore che spesso è attirata dalle pelli dei poveri innocenti che mi sono a tiro. Ma che mese è mai questo? Caldo in quali termini? Io non riesco che a vederti e vedermi burrascoso, sempre in cerca di una maledetta procella da infierirmi.
Ad essere sincero quel giorno (5 Agosto), alla fine, le parole mi sono mancate. Sai, a non parlare che con sé stessi per manciate di settimane si iniziano a risentire delle profonde deficienze sul fronte comunicativo. Già non posso considerarmi un baluardo dell’espressività in questo mio piccolo medioevo, ma se pure le sillabe mi rifuggono… sono stato molti giorni a riflettere sul fatto che sostanzialmente il problema si sta rivelando essere l’estate di per sé. A ripensare alla sua gemella dell’anno passato, non riesco a non notare e patire certe congruenze. Certo che non c’è paragone fra queste due esperienze temporalmente lontane, ma infierire alle mie papille un sapore già saputo e sperimentato amarissimo non mi pare certo una grande rivoluzione. Come quando, ancora cullati dall’innocenza fanciullesca, i piccoli bambini decidono di valutare l’effetto rovente del fuoco con il quale si sono già scottati. Una tentazione che non riesce ad astenersi dal riammaliarmi e sedurmi con quelle sue danze concupiscenti e conosciute sbagliate. Eppure sembra che un sentimento intimo e magnetico non faccia che portarmi a una crasi dolorosissima, ogni volta, con questa ballerina dal ventre così sterile. È la Tristezza che balla? O forse la Noia? Se fosse invece la Solitudine? Sarà mai possibile incantarsi alle flessioni sensuali di una ballerina senza nemmeno riuscirne e codificarne i tratti somatici?
Caro Luglio, mi verrebbe ora da denominarti mese funesto, col tuo funesto vento e le tue funeste notti passate a cullarsi nel nulla, mi riduci ogni sera a soffrire del mio operato incompiuto, non perfettamente azzeccato. In molti credono in me e in quel giardino potenzialmente fiorito di fiordalisi spensierati e gioiosi. Quel potenziale, quel maledetto potenziale! Rimane sempre nella sua concezione astrale ma non formata; che potesse cadere tutta quella concezione di stelle e realizzarsi in me, così da realizzarmi! Rimango sempre come un gran scultore che vede in una grezza roccia marmorea le turgidità umane e millimetricamente azzeccate, in realismo ed emozione provocata, di un eroe proveniente dai più lontani anfratti mitologici, vestito con la sua perfetta nudità e le sue gesta eroiche, ma che in fin dei conti si stanca di reggere il peso che si accumula nello scalpello e lo getta via. Quante statue avrebbero potuto decorarti, Luglio! Quanti movimenti eroici si sarebbero potuti incanalare nella galleria dei tuoi trentun giorni! Eppure…
Percepisco sempre più pesantemente la mia mutevolezza. Inaspettata e, più di tutto, sempre lenta nell’accordarsi con la mia consapevolezza. Starò forse sprecando ore della mia vita irrisolta e irrisoluta nello scriverti questa lettera; starei potendo fare qualcosa: una scossa tellurica a questa landa piatta di noia e sterrata di spleen. Però le parole sono davvero gli unici fiori che sembrano disseminabili in questo mio tragitto estivo; gli unici fiumi che riescono a sgorgare dalla mia sagoma. Quello che mi chiedo, però, è perché tu, detto e considerato il mese ornato dall’aura luminosa della LUNA, non abbia in qualche modo cercando anche solo di sollevare una marea impertinente e rinvigorente che potesse smuovermi e smussare quegli angoli che non stanno poi solo scomodi a chi ci si taglia; un mulinello che mi trascinasse vorticosamente nelle viscere di questo marasma e che, facendomi capire la bellezza del respiro solo in quella situazione in cui proprio respirare è impossibile, provocandomi crampi e contorsioni ai muscoli, mi caricasse di una forte e impellente necessità di capire, capirli (gli altri) e capirmi. Perché, caro Luglio, non mi hai travolto e mi hai, invece, lasciato stagnante in quella situazione da amareggiato naufrago insolato?
Caro Luglio, non smetterai mai di essermi padre e madre e, anche se so che non sarà questa mia supplica e estorcerti un’accoglienza e un vigore nuovi e finalmente sazianti, non ripresentarti armato di una verga di tristezza e una frusta di noia, coprendomi con una volta celeste di solitudine; presentati con il tuo manto stellare, sì, capitanato dalla tua sovrana, monarca delle notti, e stupiscimi, però, con la tua bellezza, con la tua ricchezza, con la tua rigogliosità, con la tua essenza. Con la tua e quindi mia felicità.
Caro Luglio, t’amo e ti lascio al tempo. Ritorna forestiero di occasioni e persuadimi, come sai tu, a divenire pellegrino di vita degnamente vissuta.
5 e 10 Agosto 2018
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Afrin”. Dov’è? Cos’è? Ancora un nome che sorge, sconosciuto, dalle cronache del mondo, dalle macerie fumanti della guerra civile siriana. Un tempo era stata Deraa, in altre fasi di questa storia, e in parte in una storia diversa; poi Kobane, nei mesi dell’avanzata dell’Isis che sembrava inarrestabile; quindi Aleppo, Raqqa. Questa storia è lunga, ampia. Riconduce a Tunisi e al Cairo, fino allo Yemen e al Bahrain, fino a Teheran. Siria: perché è fondamentale sostenere Afrin? La resistenza che Afrin, in queste ore, conduce contro il secondo esercito della Nato, sola come Davide contro Golia, tra i cadaveri dei bambini che restano sotto le macerie dei bombardamenti di un esercito che vanta tecnologia israeliana, elicotteri italiani e carri armati tedeschi, non è che l’esito di sette anni di rimescolamenti e caos seguiti al sommovimento popolare delle primavere arabe. Non è possibile comprendere il senso degli avvenimenti di Afrin se non si tiene fermo questo sguardo lungo, che poi ci impone di risalire soltanto fino all’altro ieri. Cosa ne è stato delle “primavere”, quali processi hanno messo in atto? Dove le insurrezioni, le elezioni, i colpi di stato, le guerre civili hanno condotto le popolazioni del Nordafrica e del Medio oriente? La Siria settentrionale divenne presto epicentro ambiguo della rivoluzione siriana, con tutte le sue oscurità e contraddizioni. Nel luglio 2012, mentre bande di islamisti delle campagne attorno a Manbij e Jarablus attaccavano Aleppo, Afrin, cittadina dell’estremo nord-ovest, cacciava le forze governative e dichiarava la propria comune, in coordinamento con Kobane. L’analogo organo di autogoverno dichiarato a Shech Maxsud, quartiere curdo di Aleppo, sarebbe stato evacuato con migliaia di profughi proprio ad Afrin, mentre l’antica città siriana veniva travolta dagli scontri tra regime, islamisti e Ypg. Ancora oggi la comune di Aleppo si riunisce ad Afrin, uno dei luoghi più belli della Siria, difeso, con efficacia, dalle Ypg, sebbene circondato da anni dall’ostile Turchia a nord e a ovest e dalle forze islamiste ad essa alleate a sud e a est. Tuttora il cantone di Afrin, confederato con Manbij, Kobane, Qamishlo e Hasakah fino a Raqqa, è luogo di accoglienza permanente per migliaia di profughi provenienti da Aleppo, Idlib ed altri territori. Proprio una famiglia intera di profughi arabi è tra le prime vittime dei bombardamenti a tappeto dell’aviazione turca in queste ore. Dicevamo: Afrin, Aleppo, Kobane, Raqqa. Siamo abituati a considerarle storie separate, ma è un fazzoletto di terra, e le loro storie politiche, anche durante la guerra, sono più legate di quanto si pensi. Quando guidavo in quelle zone, nel 2016, era straniante dirigersi verso l’Eufrate da Tel Abyad e veder scritto: “Aleppo: 30 Km” o “Raqqa: 50 Km”; “Confine Turchia: 5 Km”. Tutto era vicinissimo, eppure distante. La rivoluzione confederale, il regime, lo Stato islamico. Eravamo tutti lì, tra strade lunghe come le statali tra Napoli e Salerno, o Milano e Cremona; eppure si sapeva che sarebbero stati necessari anni, e migliaia di morti, per aprirle, ed ancora molte di esse, in quell’area, sono chiuse a causa dell’invasione turca di quell’estate, che ha indebitamente sottratto alla popolazione siriana le città di Jarablus, Al-Rai e Al-Bab, consegnandole a milizie di tagliagole islamisti legati al braccio siriano di Al-Qaeda, che gli ineffabili giornalisti italiani chiamano “moderati” e che ora, sotto il vessilo “usa e getta” di quello che una stampa patetica chiama ancora “Free Syrian Army”, vorrebbero portare ad Afrin, città che sperimenta da sei anni l’autogoverno e la rivoluzione delle donne, il medioevo oscurantista del presidente turco – o qualcosa di peggio. Oggi Afrin resiste quale esito di un lungo processo, che affonda le sue radici certo nella storia della guerra civile siriana e della lotta per la più ampia liberazione del Kurdistan, ma anche nella vicenda complessa di primavere inizialmente arabe, poi curde, ed oggi anche persiane. Fu difficile, non lo si ricorderà mai abbastanza, comprendere che cosa fossero quelle “primavere”. In molti, ricordiamolo ancora, diedero per scontato che si trattava semplicemente del desiderio di “libertà” tra i giovani: meno burocrazia, meno polizia, magari meno tradizione. Appena tre anni dopo, nel 2014, quando in Egitto una dittatura feroce, in parte benedetta dalle sinistre, reprimeva un’ondata islamista impressionante, e parte della Siria e dell’Iraq erano in mano a un autoproclamato e agghiacciante Stato islamico, tutti erano pronti a giurare che nella pancia dei territori musulmani, soprattutto quando è vuota e quando protesta, c’è sempre e soltanto l’islam, e che a una primavera “democratica” in qualche modo “fasulla” e agita internamente da logiche reazionarie, era seguito un inverno salafita. Non si comprende l’attuale sfida tra le colline di Afrin se non si cerca di sciogliere e comprendere quel nodo, ancora irrisolto: liberazione o sharia? Cosa vogliono quelle società? Cosa vuole la Siria, la Turchia? Le società di oggi sono non solo socialmente stratificate, ma socialmente spaccate, e non secondo direttrici che seguono pedissequamente i confini di classe. Ayman al-Zawahiri, leader globale di Al-Qaeda, fu prudente nel 2011. Le modalità e i contenuti delle manifestazioni mal si conciliavano con il futuro per quei popoli che Al-Qaeda ha in mente. Quelle manifestazioni sembravano, anzi, un pericolo per l’egemonia sociale islamista tanto quanto per le istituzioni al potere; non nel senso che fossero anti-religiose, ma perché qualsiasi iniziativa “autonoma” di parti consistenti della popolazione costituisce per i movimenti salafiti l’inizio della via della dannazione. Gli islamisti, benché si siano talvolta ispirati dal punto di vista organizzativo ai movimenti marxisti degli anni Sessanta (si pensi all’egiziano Sayyed al-Qutb, importante proprio per Zawahiri) sono per definizione qualcosa di diverso da un’avanguardia, poiché il diritto che intendono restaurare non può essere prodotto, neanche in via mediata o indiretta, di una “volontà” o “interesse” popolare. La diffidenza di Al-Qaeda per le primavere fu condivisa, soprattutto in Egitto, dagli stessi Fratelli musulmani, che pure ammettono la partecipazione politica alle istituzioni secolari al fine di restaurare uno stato islamico: i loro dirigenti rimasero a guardare le manifestazioni di gennaio e febbraio. Tanto loro quanto i salafiti furono però abili ad attendere e a far subentrare la loro agenda quando la repressione produsse prevedibili precipitazioni violente della situazione, in diversi contesti. Questa politica di attesa e di intervento violento, da parte delle organizzazioni islamiste, fu possibile soprattutto perché ceti politici e affaristici ideologicamente analoghi ad essi sono al potere in Qatar, nei paesi del Golfo, in Turchia. Erdogan, in particolare, ebbe l’abilità di presentarsi come una sorta di rappresentante morale del presunto nocciolo identitario, e perciò surrettiziamente assunto come “islamico” delle primavere dei paesi arabi, ipotecando un profitto politico dovuto al consenso di masse che non avevano necessariamente aderito alle manifestazioni, e tanto meno alle assemblee, ma si sarebbero recate ovunque alle urne nel contesto stravolto dai nuovi scenari. Là dove le urne non sono mai state aperte, come in Siria, ha invece agito con spregiudicatezza, armando migliaia di miliziani interessati a costituire, sotto diverse sigle e bandiere, uno stato islamico. Questa combinazione di appoggi a partiti elettorali o a milizie, ha costituito, in tandem con l’analoga azione di Arabia e Qatar, la trasformazione dell’apertura storica del 2011 in una mera collezione di “opposizioni” islamizzate e statalizzate. E allora? Non è forse normale che gli stati propongano i propri cambiamenti, i propri contenitori culturali e politici, i propri progetti di recupero e di dominio? Senz’altro. Quello che ci dovrebbe interessare e perché non esista una politica alternativa da parte di forze rivoluzionarie altrettanto abili e organizzate. In nessun luogo, se non nelle regioni curde, chi voleva un cambiamento reale ha avuto l’opportunità di poter contare su un’organizzazione politic che sostenesse, interpretasse e difendesse la popolazione e le sue aspirazioni. Le sinistre arabe hanno mostrato una volta in più qual è lo stato in cui versano, finendo per appoggiare i regimi, esprimere posizioni frazionistiche e inconcludenti o riconciliarsi con le istituzioni esistenti. In questo, hanno mostrato quali e quanti siano le affinità, oggi, tra sinistre arabe ed europee. È stato il vuoto pneumatico di una prospettiva organizzata di liberazione – che non può venire dal nulla, ma deve originarsi da percorsi sedimentati e capaci di parlare alle, ed essere parlati dalle, popolazioni – che ha lasciato le masse egiziane, tunisine, yemenite e di gran parte della Siria nelle mani della propaganda di stato o degli stati avversari del proprio stato, di cui le organizzazioni islamiste sono state i lacchè. L’esperienza decennale e la forza politica e militare del Pkk in Turchia in Iraq, del Pyd in Siria, e dell’analogo partito Pjak, attivo in queste settimane in Iran, ha permesso e permette un’alternativa concreta e differente. Un’alternativa che benché inizialmente circoscritta alla regione curda, è stata in grado – lo si è visto in Siria, ma anche in Turchia e in Iran – di uscire ampiamente dal Kurdistan in termini ancor più politici che militari, e collaborare con realtà non curde operando, cosa ancor più importante, nell’orizzonte della produzione di nuove soggettività politiche arabe, femminili e maschili, in Siria. Per questo se la resistenza di Afrin contro il presidente Erdogan non può essere in questo momento che militare, il suo significato è politico. A trent’anni dal crollo del Muro di Berlino e a un secolo dalla Rivoluzione d’Ottobre la volontà di agire nella consapevolezza che senza un’organizzazione rivoluzionaria si finisce ostaggio del capitale e dello stato anche quando li si vuole rovesciare, la possiamo trovare sulle colline di Afrin, non altrove. Forse per questo i pochi carri armati e i pochi blindati delle Ypg possono apparire ad alcuni l’ultima sedimentazione, l’ultimo grido di guerra di un anelito storicamente finito – con i suoi richiami libertari, la sua propaganda inflessibile, le sue vertigini maoiste; eppure, se è vero che non esiste considerazione neutra della storia, e che nostro compito è vedere le tendenze che si danno materialmente per poterle rafforzare, Afrin è per noi oggi l’inizio. La percezione di questo genere di pericolosità politica di chi ricarica i Kalashnikov e le Dushka tra i suoi villaggi e sulle sue colline si alza in queste ore o decresce, non a caso, con l’aumentare delle distanze. Il governo turco sente quella prossimità come minaccia palpabile non perché le Ypg abbiano intenzione di attaccare la Turchia – idea ridicola – ma perché il contagio, in Turchia, è in atto da diversi anni, in una lotta durissima che, nell’indifferenza quasi totale del resto del mondo, sta sconvolgendo completamente quella società. Per la Russia, l’Europa e gli Stati Uniti, invece, che giustamente non prendono in considerazione tale contagio, consapevoli della caratura degli oppositori in casa propria, i partigiani di Afrin non sono che pedine utili all’occorrenza, da usare e sacrificare secondo le contingenze. Per Asad, infine, sono “traditori”, ossia così arroganti da pensare di poter evitare di sottomettersi al do ut des degli intrighi mediorientali non divenendo opposizione statalizzata a loro volta. A sette anni dall’inizio delle rivoluzioni e della guerra questo rifiuto dimostra però che uno sbocco luminoso ai rivolgimenti sociali è possibile. Dimostra che l’inverno salafita o, in Europa, quello veteronazionalista e fascista, sono certo una realtà, ma non una necessità. Le donne e gli uomini di Afrin lo hanno detto chiaro: piuttosto che cedere le armi al regime o agli islamisti, resisteranno soli, con spirito di sacrificio; e preferendo questa strada per il sogno di una rivoluzione che si rifiutano di concepire altrimenti che come mondiale, cadono nel paradosso di dimostrare che qualcosa del genere c’è, semplicemente con la propria resistenza. Ci sveglieranno dal sonno torbido che ci aveva convinti, talora, che le vittorie derivino da un fato più o meno materialistico, e non dal credere in esse e nel riporvi la dedizione necessaria? Al momento, della possibilità per noi di interrompere questo sonno, non ci sono altre prove se non lei, Afrin. Non dobbiamo sostenerla perché sennò “cade”. Un’esperienza come questa non può cadere. Afrin vince anche se i compagni muoiono tutti, per una strana verità che dovrebbe esserci familiare. Siamo noi che, se non lo comprendiamo, siamo condannati ad ammettere che stiamo sopravvivendo in ginocchio. Davide Grasso
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