#a passeggio per la mia città
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octubre 2022
01
Mio marito morí a Roma nelle carceri di Regina Coeli, pochi mesi dopo che avevamo lasciato il paese. Davanti all’orrore della sua morte solitaria, davanti alle angosciose alternative che precedettero la sua morte, io mi chiedo se questo è accaduto a noi, a noi che compravamo gli aranci da Girò e andavamo a passeggio nella neve. Allora io avevo fede in un avvenire facile e lieto, ricco di desideri appagati, di esperienze e di comuni imprese. Ma era quello il tempo migliore della mia vita e solo adesso che m’è sfuggito per sempre, solo adesso lo so.
Natalia Ginzburg
02
La mia amica qualche volta dice che è stufa di lavorare, e vorrebbe buttar la vita ai cani. Vorrebbe chiudersi in una bettola a bere tutti i suoi risparmi, oppure mettersi a letto e non pensare piú a niente, e lasciare che vengano a levarle il gas e la luce, lasciare che tutto vada alla deriva pian piano. Dice che lo farà quando io sarò partita. Perché la nostra vita comune durerà poco, presto io partirò e tornerò da mia madre e dai miei figli, in una casa dove non mi sarà permesso di portare le scarpe rotte. Mia madre si prenderà cura di me, m’impedirà di usare degli spilli invece che dei bottoni, e di scrivere fino a notte alta. E io a mia volta mi prenderò cura dei miei figli, vincendo la tentazione di buttar la vita ai cani. Tornerò ad essere grave e materna, come sempre mi avviene quando sono con loro, una persona diversa da ora, una persona che la mia amica non conosce affatto.
Natalia Ginzburg
03
La natura essenziale della città è la malinconia: il fiume, perdendosi in lontananza, svapora in un orizzonte di nebbie violacee, che fanno pensare al tramonto anche se è mezzogiorno; e in qualunque punto si respira quello stesso odore cupo e laborioso di fuliggine e si sente un fischio di treni.
Natalia Ginzburg
04
Non c’era nessuno di noi. Scelse, per morire, un giorno qualunque di quel torrido agosto; e scelse la stanza d’un albergo nei pressi della stazione: volendo morire, nella città che gli apparteneva, come un forestiero.
Natalia Ginzburg
05
I suoi versi risuonano al nostro orecchio, quando ritorniamo alla città o quando ci pensiamo; e non sappiamo neppure piú se siano bei versi, tanto fanno parte di noi, tanto riflettono per noi l’immagine della nostra giovinezza, dei giorni ormai lontanissimi in cui li ascoltammo dalla viva voce del nostro amico per la prima volta: e scoprimmo, con profondo stupore, che anche della nostra grigia, pesante e impoetica città si poteva fare poesia.
Natalia Ginzburg
06
Non sarà necessario lasciare il letto. Solo l’alba entrerà nella stanza vuota. Basterà la finestra a vestire ogni cosa D’un chiarore tranquillo, quasi una luce. Poserà un’ombra scarna sul volto supino. I ricordi saranno dei grumi d’ombra Appiattati cosí come vecchia brace Nel camino. Il ricordo sarà la vampa Che ancor ieri mordeva negli occhi spenti.
Natalia Ginzburg
07
Ogni occhiata che torna, conserva un gusto Di erba e cose impregnate di sole a sera Sulla spiaggia. Conserva un fiato di mare. Come un mare notturno è quest’ombra vaga Di ansie e brividi antichi, che il cielo sfiora E ogni sera ritorna. Le voci morte Assomigliano al frangersi di quel mare.
Natalia Ginzburg
08
un occhio che ci dimentica subito, non appena lasciamo il brevissimo raggio della sua iride.
Natalia Ginzburg
09
Nel paese della malinconia, il pensiero è sempre rivolto alla morte. Non teme la morte, assomigliando l’ombra della morte alla vasta ombra degli alberi, al silenzio che è già presente nell’anima, perduta nel suo verde sonno.
Natalia Ginzburg
10
Nada es más misterioso, para el hombre, que el espesor de su propio cuerpo. Y cada sociedad se esforzó, en un estilo propio, por proporcionar una respuesta singular a este enigma primario en el que el hombre se arraiga. Parecería que el cuerpo no se cuestiona. Pero, a menudo, la evidencia es el camino más corto del misterio. El antropólogo sabe que «en el corazón de la evidencia —según la hermosa fórmula de Edmond Jabés— está el vacío», es decir, el crisol del sentido que cada sociedad forja a su manera, evidente sólo para la mirada familiar que ella misma provoca. Lo que es evidente en una sociedad asombra en otra, o bien no se lo comprende. Cada sociedad esboza, en el interior de su visión del mundo, un saber singular sobre el cuerpo: sus constituyentes, sus usos, sus correspondencias, etcétera. Le otorga sentido y valor. Las concepciones del cuerpo son tributarias de las concepciones de la persona. Así, muchas sociedades no distinguen entre el hombre y el cuerpo como lo hace el modo dualista al que está tan acostumbrada la sociedad occidental. En las sociedades tradicionales el cuerpo no se distingue de la persona. Las materias primas que componen el espesor del hombre son las mismas que le dan consistencia al cosmos, a la naturaleza. Entre el hombre, el mundo y los otros, se teje un mismo paño, con motivos y colores diferentes que no modifican en nada la trama común (capítulo 1).
David Le Breton
11
NIEBLA
La única niebla
endémica de mi ciudad
es la lluvia;
la llevo como un suéter gris
entre texturas de otra gente
y estampados.
Mi única niebla,
la de la espera bajo cualquier techo,
de coches ciegos, lentos
bajo el chubasco,
me siembra cataratas en el ojo,
esconde los contornos.
Es el punto inmóvil
al centro del trompo,
no me moja, me rodea,
esfera al vacío
yo adentro,
gris apenas, suéter grueso
con su olor a húmedo.
Es la gasa que impide
que mi propia sangre me hiera.
(Aurelia Cortés Peyrón)
12
EMPALAGARSE
es alargarse en algo
que anega
el paladar
como un relámpago
de azúcar
o de grasa
que lo surca
y lo rasga.
Es la flaca
paradoja
de saber
que saber
es un sabor
que no se aprende:
en cambio,
se desprende,
se desaprende
y muda
a su medida;
es pulga
peligrosa,
pura
pulpa
y papel
prensil
de las palabras
que purga
la atención,
la descalabra
y hurga.
No la rompe;
la sopla.
No la burla:
la labra
porque la abre
y la revuelve.
Empalagarse
es alojarse,
alegre,
entre el diente
y la lengua:
es cuchara
que escucha,
que pesa
porque espesa
y se clava
porque endulza.
(Ezequiel Zaidenwerg)
13
THINGS EXPOSED TO THE AIR
Say sugar has a mouth. How would I taste
in it? Like sweat, like lake water, like dust
from a ceiling fan, like the lowest leaves
of the squash plant, like how soft and yellow
they are, like oil, like badly sharpened knives,
like hail just after it pelts the yard, snow
just before it melts? Thank god it doesn't.
Have a mouth, I mean. Though maybe my scent
still saturates it like a mood, covert
and everywhere. This is the mistake
of leaving things exposed to the air, I say
to my daughter. It's not fair. And it's why
I don't need to read the climate change report.
When I brush her hair, the world smells like smoke.
(Claire Wahmanholm)
14
El dualismo contemporáneo opone el hombre y el cuerpo. Las aventuras modernas del hombre y de su doble hicieron del cuerpo una especie de alter ego. Lugar privilegiado del bienestar (la forma), del buen parecer (las formas, body-building, cosméticos, productos dietéticos, etc), pasión por el esfuerzo (maratón, jogging, windsurf) o por el riesgo (andinismo, «la aventura» , etc). La preocupación moderna por el cuerpo, en nuestra «humanidad sentada», es un inductor incansable de imaginario y de practicas. «Factor de individualización», el cuerpo duplica los signos de la distinción, es un valor.
David Le Breton
15
È inutile credere che possiamo guarire di vent’anni come quelli che abbiamo passato. Chi di noi è stato un perseguitato non ritroverà mai piú la pace. Una scampanellata notturna non può significare altro per noi che la parola «questura». Ed è inutile dire e ripetere a noi stessi che dietro la parola «questura» ci sono adesso forse volti amici ai quali possiamo chiedere protezione e assistenza. In noi quella parola genera sempre diffidenza e spavento. Se guardo i miei bambini che dormono penso con sollievo che non dovrò svegliarli nella notte e scappare. Ma non è un sollievo pieno e profondo. Mi pare sempre che un giorno o l’altro dovremo di nuovo alzarci di notte e scappare, e lasciare tutto dietro a noi, stanze quiete e lettere e ricordi e indumenti.
Natalia Ginzburg
16
LA MATA (fragmento) Añade La Mata: Para quienes volvieron: un manojo de flores del totumo, piñuelas con sus pulpas jugosas, su tomento estrellado de blanco color. Estas flores de pétalos carnosos, vainillas, olorosas durante la noche, y también otras flores furiosas, expertas en la desobediencia: varias flores del pico de loro, las espinas que rasgan la piel escondidas. Una invasión de trinitarias, un desfile coronado por sépalos persistentes. Unas con cáliz, que acompaña al fruto, otras estériles; también racimos de flores amarillas del bombito, de la flor de la bajagua, de esa flor que se llama amor que zumba, racimos abundantes, retoñadas de sí.
(Eliana Hernández Pachón)
17
Il mio mestiere è quello di scrivere e io lo so bene e da molto tempo. Spero di non essere fraintesa: sul valore di quel che posso scrivere non so nulla. So che scrivere è il mio mestiere.
Natalia Ginzburg
18
Una volta sofferta, l’esperienza del male non si dimentica piú. Chi ha visto le case crollare sa troppo chiaramente che labili beni siano i vasetti di fiori, i quadri, le pareti bianche. Sa troppo bene di cosa è fatta una casa. Una casa è fatta di mattoni e di calce, e può crollare. Una casa non è molto solida. Può crollare da un momento all’altro. Dietro i sereni vasetti di fiori, dietro le teiere, i tappeti, i pavimenti lucidati a cera, c’è l’altro volto vero della casa, il volto atroce della casa crollata.
Natalia Ginzburg
19
Tenevo un taccuino dove scrivevo certi particolari che avevo scoperto o piccoli paragoni o episodi che mi ripromettevo di mettere nei racconti. Nel taccuino scrivevo per esempio cosí: «Egli usciva dal bagno trascinandosi dietro come una lunga coda il cordone dell’accappatoio». «Come puzza il cesso in questa casa, – gli disse la bambina. – Quando ci vado, io non respiro mai, – soggiunse tristemente». «I suoi riccioli come grappoli d’uva». «Coperte rosse e nere sul letto disfatto». «Faccia pallida come una patata sbucciata». Tuttavia ho scoperto che difficilmente queste frasi mi servivano quando scrivevo un racconto. Il taccuino diventava una specie di museo di frasi, tutte cristallizzate e imbalsamate, molto difficilmente utilizzabili. Ho cercato infinite volte di ficcare in qualche racconto le coperte rosse e nere o i riccioli come grappoli d’uva e non m’è mai riuscito. Il taccuino dunque non poteva servire. Ho capito allora che non esiste il risparmio in questo mestiere. Se uno pensa «questo particolare è bello e non voglio sciuparlo nel racconto che sto scrivendo ora, qui c’è già molta roba bella, lo tengo in serbo per un altro racconto che scriverò», allora quel particolare si cristallizza dentro di lui e non può piú servirsene.
Natalia Ginzburg
20
Ho scoperto allora che ci si stanca quando si scrive una cosa sul serio. È un cattivo segno se non ci si stanca. Uno non può sperare di scrivere qualcosa di serio cosí alla leggera, come con una mano sola, svolazzando via fresco fresco. Non si può cavarsela cosí con poco. Uno, quando scrive una cosa che sia seria, ci casca dentro, ci affoga dentro proprio fino agli occhi; e se ha dei sentimenti molto forti che lo inquietano in cuore, se è molto felice o molto infelice per una qualunque ragione diciamo terrestre, che non c’entra per niente con la cosa che sta scrivendo, allora, se quanto scrive è valido e degno di vita, ogni altro sentimento s’addormenta in lui. Lui non può sperare di serbarsi intatta e fresca la sua cara felicità, o la sua cara infelicità, tutto s’allontana e svanisce ed è solo con la sua pagina, nessuna felicità e nessuna infelicità può sussistere in lui che non sia strettamente legata a questa sua pagina, non possiede altro e non appartiene ad altri e se non gli succede cosí, allora è segno che la sua pagina non vale nulla.
Natalia Ginzburg
21
Quando uno scrive un racconto, deve buttarci dentro tutto il meglio che possiede e che ha visto, tutto il meglio che ha raccolto nella sua vita. E i particolari si consumano, si logorano a portarseli intorno senza servirsene per molto tempo. Non soltanto i particolari ma tutto, tutte le trovate e le idee.
Natalia Ginzburg
22
in quell’epoca ho visto una volta passare per strada un carretto con sopra uno specchio, un grande specchio dalla cornice dorata. Vi era riflesso il cielo verde della sera, e io mi son fermata a guardarlo mentre passava, con una grande felicità e il senso che avveniva qualcosa d’importante.
Natalia Ginzburg
23
What is static if not the sound of the universe's grief? Anywhere static reigns.
(J. Estanislao Lopez)
24
EL PUESTO DEL GATO EN EL COSMOS
Uno siempre se equivoca cuando habla del gato.
Se le ocurre por ejemplo que junto a la ventana
el gato se ha planteado en el fondo de los ojos
un posible fracaso en la noche cercana.
Pero el gato no tiene un porvenir que lo limite.
A uno se le ocurre que medita, espera o mira algo
y el gato ni siquiera siente al gato que hay en él.
¿Cómo admitir detrás del movimiento de la cola
una motivación, un juicio o un conocimiento?
El gato es un acto gratuito del gato.
El que aventure una definición debería
proponer sucesivas negaciones al engaño del gato.
Porque el gato, por lo menos el gato de la casa,
particular, privado e individuo hasta las uñas,
comprometido como está
al vicio de nuestro pensamiento
ni siquiera es un gato, estrictamente hablando.
(Joaquín Giannuzzi)
25
En el fondo del mar, realmente al fondo, los humanos vemos en blanco y negro, como algunas aves.
[...]
Orden. Desapareció tu especie. Pero cuando nadie las ve, las islas toman la forma de tu nombre.
(Isabel Zapata)
26
SOMETHING
Something went wrong.
That’s what the machine
says when I call to say
my paper didn’t arrive.
Machines are trained
by people, so they’re
smart, they know a thing
or fifty trillion. Did you miss
your Sunday delivery?
it asks. I did, I say. I
miss everything, I say,
because it’s a machine and
it has to listen, or at least
it has to not hang up
without trying to understand
why I called, which means
trying to correct what
went wrong. Let me
see if I got this right,
the voice says, you
missed your Sunday paper?
Yes, I say, but also I
miss my childhood and fairy
tales, like Eden. I miss sweet
Rob Roys with strangers.
I’m sorry, the machine says.
I’m having trouble understanding.
Did you miss today’s paper?
Yes, I say, but that’s not
the half of it. Sometimes
I just feel like half
of me, and even that
feels like too much. I’m
having trouble understanding,
the machine repeats, its
syllables halted, as if
trying to mimic an empath.
I’m having trouble understanding
too, I say. I used to understand
so much: photosynthesis, the
human heart, I’d even
memorized the Krebs cycle,
but now all I remember
is lifting the golden coil
of the kitchen phone to maneuver
under my mother’s conversations.
It was like lifting
the horizon. There’s
a silence, and the machine
asks: Are you still there? In
a few words, please describe
your issue. Where do I begin
being a minimalist? Time,
I say, I’ve got a problem
with that. Also, loss, and
attachment. That’s pretty
much it, and the news in its sky-
blue sleeve is meant to be
a distraction, isn’t it? I ask.
More silence, and then:
You miss your mother?
a voice asks. It’s
a human voice.
Me too, she says.
(Andrea Cohen)
27
(Otro mito habitual sobre la inmigración: que no tenía vuelta atrás. Y, en realidad, eran muchos los que no encontraban en sus nuevos lugares lo que buscaban y se volvían, derrotados o aliviados, a sus viejos.)
Caparrós
28
Si Ñamérica es el territorio de las mezclas, la mezcla de aquella zona es peculiar: allí las distintas culturas europeas se mezclaron como nunca habrían podido mezclarse en sus lugares de origen y dieron origen a una cultura nueva: Borges, Boca Juniors, el rubio pobre, la milanesa a la napolitana y el franfruter y las once, la chantada.
(Yo, con perdón, soy eso: hijo de un español que llegó, jovencito, tras la Guerra Civil porque sus padres debieron exiliarse derrotados, y una argentina cuyos padres eran un judío polaco y la hija de un judío ruso recién llegados a esas playas. Ser argentino, está claro, es una forma de la mezcla más imprevisible. Durante décadas nos creímos, por venir de esos cruces, menos ñamericanos; no entendíamos que éramos justamente lo contrario: que éramos ñamericanos por mezclados, porque la mezcla es la marca decisiva de Ñamérica.)
Caparrós
29
La frontera es el lugar donde un estado empieza: donde te dice de aquí p’allá estoy yo, donde te dice no te creas; donde te dice mando. La frontera es la primera línea de defensa y ataque de un estado. La frontera es un modelo de estos tiempos: una de esas creaciones arbitrarias, fruto de los poderes, que se empeñan en vendernos como algo natural, eterno. Otro efecto de la publicidad: de este lado estamos nosotros y allí, a unos metros, están ellos —y ellos son otros, radicalmente otros porque están unos metros más allá. Es sorprendente que la patraña de las patrias —la patriaña— sea tan poderosa como para convencernos de esa farsa.
Caparrós
30
(Hay algo irreal, casi hilarante, en ver cien metros de agua y saber que esa tierra que hay del otro lado es otro mundo, que usan otra moneda, siguen a otros jefes, gritan otros goles, y que tantos que quieren, de este lado, no consiguen entrar: tan allí mismo, tan lejano.)
Caparrós
31
finora mi è successo sempre di scrivere in fretta e delle cose piuttosto brevi: e a un certo punto m’è sembrato anche di capire perché. Perché ho dei fratelli molto maggiori di me e quando ero piccola, se parlavo a tavola mi dicevano sempre di tacere. Cosí mi ero abituata a dir sempre le cose in fretta in fretta, a precipizio e col minor numero possibile di parole, sempre con la paura che gli altri riprendessero a parlare tra loro e smettessero di darmi ascolto. Può darsi che sembri una spiegazione
Natalia Ginzburg
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mi sono persa. le navi da crociera sono grandi come 10 palazzi, si sdraiano sulle città mentre i fiori continuano a sbocciare. le piccole imprese della vita mi piegano in due a suon di pugni nella pancia, mi fanno sudare, oscillare, il marciapiede vorrebbe limonarmi ma io mi reggo in piedi reggendomi all'emicrania, lasciandomi portare lontano dal dolore. faccio il mio dovere e lascio che i miei successi scorrano via lungo i torrenti mentre io mi perdo ancora. ho costruito un'altra dimensione nella mia testa, ci ho messo 30 anni, ho costruito la mia casa dagli occhi vitrei ma ora quando ci vado ho paura di non tornare. passeggio e mi chiedo come ci sono finita qua, non riesco a svegliarmi del tutto, rimango stordita sotto le case di amici e nemici domandandomi se mi vedono dalle finestre e cosa pensano di me, della distanza. sono sempre stata un disastro, la belva travestita da cucciolo indifeso, ad un certo punto cerco di sbranare tutti, credo casini emotivi enormi, troppo grandi perché una persona possa contenerli. tutto quello che mi abita dentro è troppo grande e le mie ossa sembrano sul punto di cedere, la mia pelle brucia e io dovrei essere una fortezza, dovrei toccare il cielo per essere verosimile. molte cose sono solo quello che noi crediamo che siano. ti scrivo un messaggio e sparisco, tutto si ripete ed è noioso come cadere nel vuoto 300 volte al giorno, non so mai cosa voglio ma so che è più di questo. non voglio che il male si ripeta identico a se stesso ancora e ancora, questo è un giochetto per una ragazzina che non mangia, indossa vestitini azzurri e vuole farsi portare via dal buio. ora ho una ruga sull'occhio e capelli d'argento che sfidano la tinta e brillano attorno al mio viso e voglio di più.
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64. (Biscotti)
Dopo aver preparato dei biscotti, sono uscito per strada. I biscotti li ho bruciati, ma non lo dirò a nessuno. Li preparerò di nuovo, maledetti. È che al mondo non c’è la ricetta perfetta, non c’è. Prima c’erano le nonne, poi il progresso ha portato i libri, poi la tecnologia ha portato la tv computer internet. Ma le ricette non hanno mai portato e mai porteranno ad un risultato perfetto, nei secoli dei secoli amen, e io lo so il perché, perché sono io che le preparo. E per me non c’è neanche la ricetta.
L’odore di bruciato ce l’ho ancora nelle narici. Prima di entrare nel traffico la cui merda mi disinfetterà l’olfatto, passo nel parco, magari il verde, chissà. Il verde oggi è esploso, dopo tutta quella pioggia e dopo questo sole così caldo ed amichevole ogni stelo sembra non volere fare altro che spogliarsi e mostrarsi splendente, come fosse una statua greca in un campo di felici nudisti. I biscotti sono morti, ma l’erba no, o perlomeno non ancora. Poi interverrà il comune a tranciare il tutto, a fare di ogni giardino pubblico un prato equanime ed uniforme come un campo di calcio. La diversità da fastidio, certo, come il bruciato dei biscotti. Cazzo. Vuoi vedere che sono come il comune? Che orrore.
Le macchine si affiancano, si sorpassano, si incazzano. Si vede, si vede che le macchine hanno uno scopo, devono andare da qualche parte, specialmente con fretta, sono fatte per questo. Ad esempio, non sono trasparenti, sono fatte per vedere con agevolezza il traffico, ma non il cielo. Tranne qualcuna, ma non sono nate per quello. Perché nessuno ci pensa? Perché nessuno le vuole? Forse costerebbero troppo, dobbiamo essere pratici, pratici come se fossimo morti, come se le cose più belle a una certa debbano farsi da parte e lasciar passare le cose più importanti. Per la bellezza c’è tempo, ma se rimane tempo. Non saremmo qui, se gli uomini primitivi avessero pensato alla bellezza. Invece siamo qui perché hanno pensato a far cadere un mammut nella buca, a fracassarlo con le pietre e finalmente a mangiarlo e a sfamare la stirpe. Boh, chissà, a me la storia dei libri mi ha sempre fatto pensare ad un romanzo, ma in fondo chi se ne frega. Sono arrivato davanti alla libreria che mi piace.
Entro in libreria, non devo comprare nulla. Ma passeggio come se fossi al supermercato. Invece dei pelati i libri di fotografia, invece del bagnoschiuma romanzi rosa. Qualcuno li avrà scritti, forse li avrà letti e li avrà trovati come dei biscotti bruciati, ma c’era la possibilità di venderli e allora. Basta. Ho il disgusto. Ieri il prete che dice che ha avuto una intuizione dallo Spirito Santo. In dieci minuti di omelia ha detto più cazzate di quante ne avrei potute immaginare io. E quello che dovrebbe essere mio amico mi ha detto con una certa convinzione che da quando ha avuto la prima erezione è sempre stato in compagnia di una donna. Credo che siano bruciati dentro, non si spiega, o sono io bruciato e dovrei buttarmi nella spazzatura così eliminiamo il problema di questi miei pomeriggi in giro per la città.
Torno a casa, va. Nella pattumiera non ci sto, forse domani l’umore sarà più alto, forse ci sarà il sole anche qui dentro, nella testa. Il rientro a casa. A volte sembra di ritornare in una tomba, a volte in un tiepido rifugio in inverno, mentre fuori la tempesta batte e sconquassa.
Casa. Cucina. Toh. Un biscotto è scampato alla mia furia, si è nascosto dietro la friggitrice, è bruciato a metà, l’altra metà è marrone scuro, cioè quel colore e quel grado di cottura che mi fa cagare. Ma sì, non ti butto. Ma sì. Anzi, sai che faccio? Sai quanto sono stronzo? Io ti mangerò, non mi piaci e mai mi piacerai, ma ti terrò in bocca come una medicina, sentirò l’amaro, ti impasterò bene con la saliva, ti butterò giù un decigrammo alla volta, e non lascerò che mi sfugga neanche una briciola. E così non lo so che farò, che cosa avrò concluso, non lo so, attualmente io so solo che faccio fatica a reggere. Ma reggerò e vaffanculo.
Non c'è la ricetta per me.
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Quote
Preso alla lettera Ti scrivo per consegnarti le parole che la sera al telefono non è semplice gestire, in bilico sul sapore che resta della trattoria e lo spazio di queste stanzette, che annullano qualsiasi istinto territoriale e ti fanno eterno straniero. Ti scrivo in punta di polpastrello, sperando che lo schermo sia più veloce del sangue che carica le mie solite stilografiche. Ti scrivo dopo aver salutato l'alba senza vederla, affogato nel buio necessario regalato dalla tapparella per risparmiare a questo pulsare di vita del cortiletto, l'ombra del mio corpo pesante e nudo che muove il suo passo coattivo da qui a lì e da lì a qui, come la fiera del circo stipata nel gabbione tra un numero e l'altro. Ti scrivo per dirti di questa città che attraverso cercando e scoprendo ma restando in bilico come non m'era mai capitato. Fuggo la disposizione nevrite al nulla che scambiano per il tutto lasciandomi stupito, che è la cifra del mio presente, quello con cui sono arrivato a misurarmi ora. Ma ne ho viste di cose io, mi ripeto mentre il sonno mi saluta e mi lascia nel letto a ascoltare nelle cuffie questo sassofono napoletano e amico che mi recupera al respiro. Ti scrivo da una stanza che mi hai prenotato da lontano, scegliendo a caso che quella è la regola dell'ennesimo gioco che ci siamo inventati e mi accorgo che se mangiare a un tavolo da solo la sera mi piace, non si può dire lo stesso per il letto. Non mi piace dormire solo in un letto. In spiaggia, nel bosco, in treno, su un lembo di prato a bordo strada, in macchina ho dormito milioni di volte e da solo ma nel letto mi manca quella sensazione di un corpo altro, di un respiro altro. Ti scrivo come a salutarti con la prudenza delle parole, come accostassi a un molo senza abitudine. Scrivo e conto i passi che mi dividono dal bar del mattino che deve bastare. A pranzo passeggio per strade sempre diverse, non lo crederesti ma il tempo del pranzo lo passo da solo a camminare e a fermarmi sui ponti per guardare quel garbuglio di storie che fa intuire la forza dell'acqua che trascina. La mia prodigiosa memoria a pranzo mi lascia al presente e basta. Ancora non lo crederesti. Così passo davanti alla chiesa di Sant'Andrea Apostolo, che quel santo porta il nome di mio fratello e già per questo mi piace. Ogni giorno c'è questa coppia di barboni e lei è anziana e ha piedi gonfi e la faccia pure, segnata dall'abitudine al merdosissimo vino nei cartoni e con la pelle conciata dal caldo e dal freddo, dal freddo e dal caldo. Lui è più giovane, alto e vestito sempre con un tocco folle. Cuffie rosa e gialle di lana e un mantello scuro e scarpe fuori tempo e misura. Tengono mille masserizie ordinate in un cubo monolitico di coperte e stracci. Lui legge giornali, lei guarda la gente che sfila. Parlano fitto tra loro e si bastano. Ieri sono passato nel tardo pomeriggio e lei cingeva il ragazzo in un abbraccio che accoglieva un abbandono disperato e vinto. La marea mugghiante dei turisti passava diretta all'arte raccontata dalle guide e nessuno s'avvedeva di quella formidabile Pietà. Ti scriverò ancora da questi letti dormiti a caso. Sembra un buon trucco per dar tregua al calore bianco di questo amare che mi brucia da una vita.
la ballata dei passi e della passione: preso alla lettera
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La mia Pescara.
#a passeggio per la mia città#qui passavano i treni una volta#scorci della mia città#mattine in giro
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Ogni anno il pomeriggio della vigilia vado a farmi un giro nella mia libreria preferita. Passeggio da solo per la città e coltivo sempre un po' la mia malinconia
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Segnalazione letteraria
Voi ormai lo sapete. Ogni tanto l'agenzia di stampa Diffondi libro mi segnala un libro. E io a mia volta lo segnalo a voi. Si tratta di Siamo stati anche felici, di Viviana Guarini, psicologa, copywriter e formatrice.
Questo è il terzo libro che l'autrice pubblica con Les Flâneurs Edizioni, che nasce nel 2015. Come si può leggere sul sito, il termine francese flâneur fa riferimento a una figura prettamente primonovecentesca d’intellettuale che, armato di bombetta e bastone da passeggio, vaga senza meta per le vie della sua città discutendo di letteratura e filosofia. Oggi come allora, la casa editrice si pone come obiettivo la diffusione della cultura letteraria in ogni sua forma, dalla narrativa alla poesia fino alla saggistica, con indipendenza di pensiero e occhio attento alla qualità. Quanto al volume in questione, si potrebbe quasi definirlo un dialogo. Ma per saperne di più dovete fare una cosa sola. Leggerlo.
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passeggio lungo questa città gelida,il freddo entra sotto la gonna e nelle maniche della mia felpa lasciandomi un brivido di freddo tremante. Mi guardo attorno e vedo una ragazza ridere affianco al suo amato, mentre percorrono la piazza attorno ai pali della luce natalizi. Bambine e bambini giocano rincorrendosi mentre i genitori li sgridano di far attenzione che si scivola lungo il marmo ghiacciato. D'un tratto il cielo si tinge di piccoli fiocchi bianchi, che scendono limpidi e leggeri sui volti sorridenti di quei bambini spensierati e allegri. Li osservo e fra me e me sorrido, ricordando la mia breve infanzia da bambina spensierata; mi accendo una sigaretta per potermi riscaldare, o almeno per riscaldare il mio cuore, ghiacciato non solo in quel momento ma ormai da sempre. Ma nessuna sigaretta può scaldarti, può al massimo ammazzarti i polmoni, ma alla fine rimane pur sempre un buon pretesto per fumare. A riscaldare il mio cuore sono gli abbracci, gli abbracci dei ricordi che compaiono in testa; percorrono la via del cuore, cercando di scaldarlo dal suo ghiaccio creato come scudo. E il cuore si trattiene dalle lacrime, ansima, trema, ma non cede, non si fa lasciare andare, anzi non si è mai fatto lasciare andare, da quando se ne è andato via, per sempre, senza motivo. Da quel momento decise che nessuno avrebbe potuto scioglierlo , nessuno ci sarebbe riuscito; ma proprio quella sera, qualcosa cambiò: quella sera ritornò e il cuore per la prima volta, si fece stringere dall'amore per la prima volta dopo tanto.
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[3] - I Cattivi Selvaggi
Bisogna ora iniziare la discesa. Il Barrio un cui ho vissuto per un anno e in cui sono poi ritornato diverse volte dal 2009 al 2014 ha bisogno di una sua storia specifica. Mi sarebbe piaciuto rimanere fedele il più possibile alle parole che furono dette quando quella storia mi veniva raccontata. Passammo molte ore e molti giorni camminando per le sue strade e ricordando cosa c’era e come stava cambiando, chi furono i primi “coloni” e chi arrivò dopo in cerca di fortuna o di un rifugio. Purtroppo molte di quelle chiacchierate sono oggi andate perdute nel senso che le registrazioni ed i video non sono più disponibili a causa di un malfunzionamento tecnologico e per mia superficialità. Rimangono però i ricordi e molti appunti sparpagliati. Le parole non sono quelle che potevano e forse dovevano essere, ma spero che la sostanza del discorso sia la stessa. Non c’è nulla da inventare. Si tratta solo di essere sicuri di poter mettere le cose al posto giusto.
La storia del Barrio iniziò all’inizio degli anni sessanta, da un’impresa pubblica colombiana che si occupava del taglio di alberi e del loro processamento per produrre carta, “Cartòn Colombia”. Cinque dei suoi lavoratori venivano da Lopez de Micai, sulla costa pacifica sud nel vicino distretto del Cauca. Di giorno tagliavano alberi e di notte rimanevano a dormire nell’accampamento predisposto dall’impresa. Quando rimasero solo pochi alberi, i cinque si chiesero cosa fare. In quell’epoca Buenaventura era ancora lontana ma la terra era vicina all’unica strada che la collegava all’entroterra. In meno di due ore di cammino si arrivava al Puerto. In canoa, dal vicino fiume Dagua i tempi si riducevano di poco. C’era acqua, c’era terra, c’erano ancora alcuni alberi e c’era una strada ad una giusta distanza dall’insediamento. I loro capi li lasciarono con qualche attrezzo e così mentre due di loro rientrarono sul Micai per chiamare le famiglie, gli altri iniziarono a costruire le loro case. Da madereros si trasformarono in coloni e poi in contadini e anche in minatori. La terra era uno dei tanti “territorios baldios” della Colombia: una terra di nessuno che era stata data in concessione ad un’impresa che poi si spostò da qualche altra parte e alcuni suoi lavoratori pensarono di occuparla invece di continuare a spostarsi (1). Nessuno di loro si immaginava in quei giorni che la città, quattro decadi più tardi, si sarebbe avvicinata minacciosa intorno a loro.
Quando arrivai a Buenaventura il Barrio era diviso in tre settori. C’era il Barrio Viejo dove vivevano i primi coloni. C’era il settore dei Refugiados che arrivavano da diversi villaggi del distretto del Cauca scacciati dalle loro terre dal Bloque Calima. E c’erano le Invasiones, che era una zona di espansione urbana a ridosso del colle del Barrio Viejo dove arrivavano famiglie e gruppi di persone montando case di fortuna con la speranza poi di stabilirsi. Il Barrio rappresentava ancora una frontiera tra Buenaventura e le foreste tropicali del Pacifico ma ormai la strada distava solo 20 minuti di cammino, il Puerto era a 45 minuti di colectivo e le case di molti altri quartieri della città dominavano la vista dal colle dove sorgeva il Barrio Viejo.
Durante il lavoro di campo centrai la mia attenzione soprattutto sul Barrio Viejo di cui feci un censo, casa per casa, per definirne condizioni economiche, numero di persone e per avere l’occasione di scambiare qualche parola su aspettative di vita, sogni o delusioni. Vi vivevano poco più di 800 persone, alcune in condizioni di indigenza estrema, soprattutto quelle che non appartenevano alle tre famiglie allargate principali che discendevano dai coloni orginari. I loro discendenti occupavano approssimativamente ancora le zone del barrio intorno alle terre allocate inizialmente, poi suddivise tra i diversi eriditieri. Negli anni ‘80 vi fu una seconda ondata migratoria di famiglie provenienti per la maggiorparte dal Chocò, quindi dal Pacifico nord, dovuta a trasferimenti “a catena” che seguirono i vincoli matrimoniali di membri di alcuni villaggi con i discendenti dei coloni originari. Questo generò diversi casi di parcellizzazione delle terre per la loro rivendita su cui si delinearono alcune gerarchie socio-economiche più durature che permisero certe specifiche forme di leadership locale. Tuttavia più che espandersi, il Barrio Viejo venne progressivamente urbanizzato trovandosi percorso dai processi migratori che riguardarono Buenaventura.
Tra questi il principale fu senza dubbio l’arrivo di rifugiati caucani all’inizio del nuovo millennio. La relazione che mantenni con il loro settore dipese da una serie di progetti di sviluppo che impegnavano la maggior parte delle giornate. Si trattava di tre unità produttive, due delle quali erano state realizzate nella “Riserva” mentre una sorgeva nel settore dei Refugiados. Avevano diversi obiettivi. Il principale era il raggiungimento negli insediamenti della cosiddetta “sovranità alimentare”, cioè di una quasi completa autosufficienza nell’approvigionamento di cibo. Speravano poi di generare una transizione produttiva dalle miniere d’oro che all’epoca impiegavano la maggiorparte dei maschi in età lavorativa del Barrio Viejo. Avevo infatti verificato che almeno una persona per famiglia si dedicava, anche in maniera saltuaria, alla “mineria”. Nel corso di tutti gli anni 00 fu attiva una grande miniera d’oro, quella di Zaragoza, sul fiume Dagua, che distava solo 50 minuti di colectivo. La maggiorparte dell’urbanizzazione più recente delle zone intorno al Barrio erano proprio di minatori che decidevano di spostarsi in maniera permanente a Buenaventura dopo aver lavorato lì. L’orientamento “organico” delle coltivazioni non seguiva quindi mode “globali” ma nasceva per spiegare l’importanza di una corretta alimentazione in zone ad alta contaminazione mineraria. L’impatto ecologico della miniera sull’ecosistema locale fu infatti vasto. Dopo anni di sfruttamento il corso dello stesso fiume Dagua era cambiato e le sue acque e molte delle falde acquifere che aprovigionavano il Barrio stesso erano state inquinate con mercurio ed altre sostanze tossiche che poi rientravano nella catena alimentare attraverso i pesci e le alghe che gli abitanti continuavano ad estrarre da lì. Quindi oltre a svariati ortaggi e frutte tipici della costa Pacifica vi erano anche allevamenti di galline, maiali e tilapie, un pesce di origini africane che aveva trovato nel Pacifico colombiano un habitat quasi perfetto per la sua riproduzione. Le unità lavorative erano gestite da cooperative che, soprattutto nelle fasi iniziali, quando si ricevevano sussidi ma non c’erano entrate monetarie, si reggevano sullo schema “cibo per lavoro” dei soci. Questo fattore costituì, purtroppo, la debolezza strutturale del progetto poichè fece desistere molte persone nelle fasi iniziali contraddistinte da molto lavoro e quasi nessun guadagno rendendo poi molto difficoltoso il loro reinserimento nelle fasi successive segnate, invece, da maggiori entrate monetarie e da minor desiderio di condivisione dei proventi. La collaborazione con i rifugiati caucani e con il loro leader, Don Agapito, fu comunque essenziale per generare percorsi formativi che riguardavano famiglie di “ex pescatori” o di “minatori” con minore dimestichezza nei lavori dei campi e nella gestione delle coltivazioni organiche. Servì anche per alleviare invidie e costruire ponti tra due mondi molto vicini ma "tagliati” dalla guerra per il Puerto, tra chi con estrema difficoltà aveva tirato su una casa e una famiglia e chi dopo aver perso tutto, riceveva sussidi per ricostruirsi una vita.
Dalle Invasiones, invece, arrivavano continuamente sorprese che avevano le sembianze di persone improbabili che a giorni alterni si facevano una camminata per salutare Josè e scambiare due chiacchiere con chi incontravano. C’erano personaggi di ogni tipo: da vecchi camionisti disoccupati a raspachines che avevano abbandonato il lavoro con la coca per poter diventare minatori, fino a venditori ambulanti di pesce, stregoni che vendevano pozioni magiche ed amuleti e ballerini e ballerine dei club di “salsa brava” (salsa cattiva) come chiamavano, da quelle parti, le balere che rimanevano aperte 24 ore su 24, 7 giorni su 7. Grazie alle Invasiones dalla via del Barrio Viejo ogni giorno vedevamo scorrere un vasto campionario di persone in cerca di fortuna arrivate da tutti gli angoli del Pacifico colombiano. Vista l’origine rurale del Barrio l’incontro con queste alterità aveva una certa importanza nel riportare le atmosfere del Barrio Viejo dentro i mondi urbani di Buenaventura. Forse anche per questo dopo le 5 del pomeriggio, più o meno, tutti ben vestiti e con i capelli in ordine iniziavano quello che nel sud Italia si chiama “lo struscio”, cioè il passeggio continuato di due o tre vie per vedere e farsi vedere, fare due chiacchiere e quattro risate fino alla cena, quando si rientrava nelle case e le strade si facevano buie a causa della quasi inesistente illuminazione pubblica. Le musiche erano offerte da chi aveva gli altoparlanti e mantenevano la salsa come rigoroso sottofondo. Chi poteva si beveva una birretta comodamente seduto su una sedia posizionata davanti alla porta di casa da cui godeva della brezza del tramonto e della bellezza locale. Le migliori serate erano quelle che seguivano a una pioggia rinfrescante quando era più piacevole sfoggiare nuovi monili oltre che indumenti e scarpe acquistati da poco in qualche negozio del Puerto.
Per tentare una descrizione sintesi, il Barrio sembrava un luogo di racconti ancestrali che non terminavano mai. Vista la sua posizione esterna ma dentro la città, si viveva dentro un’atmosfera sospesa che forniva una naturale inclinazione a non cercare troppi dettagli e troppe spiegazioni. Chi arrivava in visita a volte diceva di sentirsi nella Buenaventura di molti anni prima quando ci si poteva ubriacare di notte e finire a dormire su di una panchina del molo turistico certi che non sarebbe accaduto nulla o dove le case delle persone non avevano le sbarre e porte e finestre rimanevano aperte. Chi si spingeva fino a questo limite estremo della città, superate le paure iniziali, alla fine provava uno strano senso di tranquillità. Sapeva che non gli sarebbe accaduto nulla. Era questa un’impressione ricorrente che molti imputavano alla vicinanza della foresta, all’assenza dei rumori costanti della città e in generale a una vita che ancora aveva poco di urbano scandita da persone che richiamavano alla memoria i villaggi lungo i fiumi da cui un pò tutti erano arrivati o in cui avevano famiglia e parentele. A spaventare semmai erano alcuni luoghi specifici che ne avevano segnato la storia recente e dove era meglio non andare, specialmente se non accompagnati, per non “fare arrabbiare gli spiriti”, come diceva Vilma.
Il principale era un campo di calcio che si trovava a metà del cammino che collegava il Barrio Viejo con quello dei Refugiados ed era non lontano dalla cosidetta “casa dei Paisas” (la casa dei bianchi e\o la casa dei narcos) che ho descritto brevemente nel post 2.2. Molti abitanti raccontavano che in quella zona i gruppi armati eseguivano le esecuzioni dei loro condannati a morte. Di solito capitava di notte quando si ascoltavano i rumori di vetture, normalmente dei taxi, accompagnati da moto cui poi seguivano quelli degli spari. Durante la mia permanenza la pratica era cessata, ma riguardava un passato molto recente del Barrio, pochi anni prima. Le autorità ufficiali consideravano tutta quella zona, insieme ad altre nella comuna 12, un “cimitero informale” della città che era un modo politicamente corretto per segnalare la probabile esistenza di fosse comuni per cui mancavano la volontà politica o la forza necessarie per scoperchiarle. Anche per questo esisteva una regola non scritta che consigliava a tutti un coprifuoco notturno più o meno dopo le 10 di sera. Chi voleva uscire doveva farlo preferibilmente prima e rientrare la mattina successiva. La ragione di questa prassi non stava in un divieto imposto da qualcuno. Era semmai un’usanza di chi voleva evitare di vedere e farsi vedere da una di quelle carovane della morte.
Scandagliando tra i racconti del Barrio la casa dei Paisas era certo il luogo maggiormente collegato alle storie presentate nei post precedenti. Era usata per le fughe che spesso si tramutavano in memorabili feste dei fedeli di Don Diego prima e di Varela poi, gli ex soci dei Rodriguez-Orejuela. Quando arrivavano i loro scagnozzi, alcuni raccontavano che di solito distribuivano mance e che era meglio camminare seguendo altre vie. Per quasi tutti diventava impossibile mantenere dei contatti con il settore dei Refugiados. La casa dei Paisas rappresentava quindi a tutti gli effetti una frontiera urbana che si chiudeva ogni volta che un Capo si dava alla latitanza. Di solito nessuno sapeva nulla sul nuovo arrivato ma era probabilmente un “paisa” (bianco) sul quale in poco tempo inziavano ad ascoltarsi voci che raccontavano ogni nefandezza di cui era capace. Spesso si mettevano in movimento dei pick-up pieni di gente armata che facevano continuamente la spola tra la casa e la strada principale a valle dando l’idea di voler marcare un territorio che era tornato invalicabilie per quelli di afuera. Questo, di solito, serviva anche per zittire un certo vociare e metteva tutti in guardia circa un rischio più concreto di scontri armati e di tiroteos (sparatorie). In quei frangenti, il Barrio si trovava in ostaggio di personaggi che non conosceva e che appartenevano, in un modo o nell’altro, a quelle storie di cui ho scritto in precedenza.
Esistevano analoghi ricordi che raccontavano di almeno altre due ondate di militarizzazione questa volta però da parte dell’esercito regolare, subite negli anni del Bloque Calima e a causa degli sviluppi della guerra a Buenaventura. In un caso in particolare, i militari che non erano interessati a pattugliare i quartieri dove stavano avvenendo le stragi dei “para”, si posizionarono lungo i bordi esterni della città da cui pare la difendessero dall’ingresso di gruppi irregolari provenienti da zone al di fuori dell’area urbana. Ufficialmente controllavano ogni ingresso di persone, evitando l’approvvigionamento di armi o di sostanze illegali. Per via della sua posizione il Barrio sorgeva, infatti, in un punto di snodo logistico strategico della guerra di guerriglia. Per questo i soldati, quelli regolari, si stabilirono in due dei suoi punti di accesso: a sud, sul versante della “foresta”, e ad est in direzione della casa dei Paisas ma ad una buona distanza. Da lì coprivano eventuali ingressi dal vicino fiume Dagua e da alcune verede non molto lontane che si diceva stessero con le FARC. In quelle settimane alloggiarono dentro due costruzioni che venivano altrimenti utilizzate per le assemblee del Consiglio Comunitario (il cui riconoscimento ufficiale in base alla Ley 70 avvenne nel 2013) e per diverse attività con le ONG locali. Nei racconti degli abitanti le regole sul coprifuoco e le atmosfere non cambiavano. Molti di loro ricordavano di aver provato sensazioni analoghe, di sentirsi in ostaggio oltre che strumento delle guerre di altri. Inoltre i ragazzi del quartiere invece di ricevere mance, di solito venivano perquisiti mani al muro e con modi non proprio amichevoli.
Durante la mia permanenza le modalità della presenza di gruppi armati “esterni” o de afuera, come ci si riferiva in generale a questo tipo di dinamiche, cambiò radicalmente rispetto a quei racconti. Non vi furono manifestazioni così nette di potenza. Al contrario si viveva una quotidianità scandita da apparizioni molecolari che generarono comunque trasformazioni anche radicali nei rapporti locali di potere, seppur su di un arco temporale più ampio. Erano in azione dispositivi disciplinari più sottili che avevano, forse, maggior presa sugli abitanti proprio per via di quei ricordi. Erano preferiti o erano più facilmente accettati perchè emotivamente meno dolorosi. La vita proseguiva senza essere messi di fronte forzatamente al “reale di Buenaventura”. Gli eventi culmine, a volte anche estremamente violenti, non erano certo terminati. Tuttavia sembrava che vi fosse una distribuzione immaginaria degli abitanti che permetteva di localizzare quegli eventi dentro precise storie di vita o di ricondurli a reti identificabili di persone. L’evento, più o meno violento, era per questo sempre analizzato in un quadro punitivo. In alcuni casi appariva quasi meritato, perchè non più casuale o generalizzato, ma indirizzato e chirurgico. Creava uno campo emotivo in cui oppressione e liberazione si fondevano dentro una rabbia personale in cui il singolo trovava un oggetto preciso contro cui sfogarsi; il colpevole di turno. Poco importava che, in alcuni casi, come verificai personalmente, si trattava di capri espiatori che poco avevano a che fare con i fatti per cui li si incriminava. Ciò che veramente risultava efficiente era la catarsi prodotta dallo spettacolo della punizione, perchè non riguardava più tutti. Invece di produrre “impotenza”, come durante le militarizzazioni, localizzando “il male del Puerto” tra quelli che avevano fatto delle “scelte sbagliate”, la punizione confermava la bontà delle azioni delle istituzioni intermedie che orbitavano intorno al Barrio. Per rendere tutto questo possibile, i dispositivi disciplinari seguivano una tattica di base: generare continui tagli nel corpo sociale del Barrio. Ciò avveniva in due modi principali: 1. usando momenti “decisivi” che obbligavano gli abitanti a scegliere un campo da cui osservare lo svolgersi degli eventi e 2. facendo circolare ex ante narrazioni che fornivano “teorie credibili del mondo” che preparavano l’interpretazione di quegli stessi eventi e degli assestamenti che ne sarebbero derivati.
Per tentare una migliore descrizione di tutto ciò, proverò a suddividere “tre epoche” stabilite seguendo le denominazioni ufficiali delle istituzioni intermedie che si diceva coordinassero i gruppi locali “di frontiera”, sia quelli che si erano professionalizzati dopo la paramilitarizzazione della città, sia quelli che ancora costituivano socialità giovanili spontanee. Seguirò inoltre le narrazioni dominanti che piegavano gli eventi di quegli anni nella Comuna 12 dentro “un conflitto armato” che riguardava solo “los malos” (i cattivi), come gli abitanti si riferivano in generale a coloro che si diceva integrassero quelle istituzioni intermedie. Come già scritto in precedenza, distinguerò però tra i muchachos o i combo, per riferirmi a formazioni che appartenevano al mondo di adentro (conosciuti o del Barrio) oppure a gang o pandillas per richiamare un gergo poliziesco, a volte usato per nominare formazioni e socialità di afuera (di un’altra zona o di un’altra rete). Su queste premesse, la prima epoca fu l’epoca dei “Rastrojos”, la seconda quella del “passaggio” e la terza quella degli “Urabeños”. Ognuna di queste epoche fu contraddistinta da cambiamenti di leadership locale, da diversi flussi di fondi pubblici e di Ong e da alcuni momenti “decisivi”.
Per non appesantire eccessivamente la lettura, le proporrò nel prossimo post.
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Roma
Girano queste riprese descritte di “una Roma fantasma”, ma che abbia di “fantasma” io non l’ho capito mica. Forse non mi fa apparire così in buona luce, ma passeggio spesso (non in questo periodo, chiaramente) da solo a notte fonda e fino all'alba per Roma, dopo aver salutato i miei amici, o quando di proposito prendo un treno prestissimo (o tardissimo) per ripartire. Le sue strade vuote, se non per qualche gabbiano che passeggia avanti il Vaticano, sentire solo lo scorrere dell'acqua delle sue fontane per le piazze, camminare tra i Fori che sembrano averne così tante da raccontare e puoi quasi ascoltarli anche se sei distratto, e se li fissi però si zittiscono, perché parlavano tra loro, e non è che se ogni tanto ti fai vedere puoi diventare intimo così, non li recuperi mai duemila anni di civiltà, di connessioni umane, di lacrime e sangue, di tutto. Però ti conoscono, ti vedono spesso che passi ossequioso senza salamelecchi e selfie e stronzate varie che tanto poi se le foto le guardi sminuiscono sempre tutto, no? Lo so che pensate ora della mia stabilità mentale, però è così. Lo sai già cinque minuti prima perché ne senti i passi, quando magari incroci qualcuno che se ne va in giro ad alleggerire un po’ i suoi pensieri, e mentre ti passa accanto ti fa, giustamente, "buonasera". A Roma. Di giorno ha un suo fascino, brulica di vita, magari anche troppa a volte come un po' tutte le grandi città. Ma questa qui invece, quella che c’è ora, è la Roma che conosco. È sempre stata lì.
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DIARIO DI UNA QUARANTENA
• GIORNO 4
Restiamo distanti oggi, per litigare meglio domani.
Con l’emergenza del coronavirus e la conseguente quarantena causa forza maggiore, che ci porta a una convivenza condominiale forzata, sono venute a scemare quasi tutte le diatribe o litigi in atto tra i vari condomini.
In alcuni casi, come per i single ad esempio, si cerca una complicità quasi da amici di vecchia data per sentirsi meno soli. Ecco che nella chat Condominio Bellavista di Via dei Ciechi di “Uozzap” ci si dà degli appuntamenti. Tipo “Ci troviamo al pianerottolo del quinto piano per un ape?”, “Si dai ci sto io porto le patatine”, “Fantastico ho una bottiglia di prosecchino in frigo”, “A che ora?”, “Facciamo per le diciotto?”, “Va bene, allora io parto un po’ prima perché arrivo dal piano terra”, “Oh, quando passi per il primo piano mi suoni che andiamo su insieme?”, “Si dai ti faccio uno squillo quando prendo la prima rampa di scale”.
In tutta sincerità non con tutti funziona, ci sono anche quelli litigiosi o burberi. Il menestrello del condominio l’artista GianGianni Mordenti scrisse una canzonetta a tal proposito, quando ebbe da dire con il sig. Tano Caputello. Ogni volta che lo incrociava per le scale il Mordenti che ha sempre, e ripeto sempre, la chitarra con se la imbracciava e cantava “Caro amico ti schivo, così ti distanzio un po’ e siccome sei molto vicino io più forte ti allontanerò”. Fu anche un discreto successo nel condominio, la stessa signora Tamara Longaretti (vedi primo ep. ndr) che per un po’ ci maciullò i timpani cantandola sotto la doccia. Il sig. Tano Caputello quello del quarto piano, è un uomo dal carattere molto iracondo ed è meglio scherzarci poco. Alcune voci su di lui lo accostano al clan degli Scrotolesi, una famiglia di stampo mafioso dedita al racket del riciclo degli Arbre Magique in città, per questo evitiamo come la ̶p̶e̶s̶t̶e̶- pardon… come il coronavirus di avere discussioni con lui. Spesso chi aveva da ridire con lui si trovava una testa di cavallo fuori dalla porta. Anche se negli ultimi episodi usò del caciocavallo, questo perché sembra che sua moglie Concetta Locaco abbia imposto in famiglia una rigida dieta vegetariana. Il Caputello è abituato agli arresti domiciliari, ma da quando la quarantena ha imposto anche alla moglie di stare a casa lo stesso dice di essere sprofondato nel regime casalingo del 14 bis.
In altri casi la quarantena sta mettendo a dura prova dei matrimoni e delle convivenze, oppure delle relazioni extraconiugali. Come la signora Gaia Loprendo moglie del Dott. Fulgido Mancante, la signora Gaia è una nota fredigr… fedrigaf… fradrific… insomma, caro diario, lei è una che allegramente si concede scappatelle. Ieri ha esposto un cartello sul terrazzo con scritto “Andrà tutto bene”. Con i complimenti di buona parte del condominio. Pochi sanno che il cartello è rivolto al condominio dirimpettaio, dove abita un certo Temistocle Pilone, un meccanico d’auto play boy di lungo corso. Lui viene da Cesenatico e con la sua cadenza alla Andrea Roncato del film “Acapulco, prima spiaggia… a sinistra” ha effettuato più controlli a smorzacandela alle automobiliste che alle candele delle automobili. Comunque per risposta ha esposto anche lui un cartello “In astinenza oggi, per godercela domani”. Teneri.
Ci sono poi i nostri amici a quattro zampe che privi di libertà nello scendere a sgambettare nel parco pubblico, cominciano a dare segni d'irrequietezza. Come il cane che vive al terzo piano, si chiama Morsicàlo. Il suo proprietario, il signor Aldo Barzizza, si è beccato spesso insulti e denunce. Quando il suo cane si allontana e si avvicina a degli estranei lui lo richiama a se: “Morsicàlo, Morsicàlo!”, così la gente si spaventa molto. Piuttosto io lo avrei chiamato Leccalo, magari la gente si preoccupava un po’ di meno. Mah!
Il Dcpm (Domani Chiunque Può Morire) ammette però di portare i cani a fare i loro bisogni, ma molti hanno paura e cercano di limitare le uscite. Non tutti. Adriano Zampetti, inquilino del sesto piano di cui si sa ben poco se non che è sposato con figli alla ballerina di night tal Natasha Laprona, usa lo stratagemma di vestire il più piccolo dei suoi figli con il pigiamone di Pluto con tanto di cappuccio con orecchie, poi dopo avergli messo il collare scende in strada dicendo di portare il cane a passeggio. Per uscire un po’ e fare quattro passi. Questa mattina però ha incontrato sul tragitto una coppia di poliziotti in perlustrazione, per non dare nell’occhio ha obbligato suo figlio a fare pipì contro un albero. Zampetti era convinto che la cosa funzionasse, ma i poliziotti hanno capito che era strano vedere un cane fare la pipì in piedi, singhiozzando dalla vergogna. Sembra che il Zampetti se la sia cavata con un cazziatone epocale, senza denuncia.
Comunque caro diario stare a casa non è male, hai tante cose da fare, pensa che ho scoperto che il pavimento di casa mia è costituito da 1.854 piastrelle e 897 listelli di parquet.
Magari dopo che hanno dato il Premier in televisione scendo per un po’ di movida serale, vado a buttare l’immondizia.
Mi chiamo Juri Quarantino e questo è il mio diario di quarantena.
Pagina 4 (to be continued)
#Libero De Mente#Juri Quarantino#Diario di una quarantena#racconto#ironia#divertente#condominio#battuta#storia#coronavirus#covid19#quarantena
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La frazione del paesello in cui vivo è suddivisa in due parti: “di sopra” e “di sotto”. I più malvagi e i non avvezzi alla vita in questa borgata, se così vogliamo chiamarla, la suddividono in “di sopra”, “di sotto” e “zona fantasma”. Le ultime due, sempre secondo loro, sono marcate dal confine di una strada: se la si supera si è nella zona “di sotto”, ma ok, ognuno ha le sue convinzioni. Io, pasionaria, la divido solo in due parti, ovviamente.
Fino ai 12 anni della mia breve esistenza ho vissuto nella parte “di sopra”, va senza dire che ci ho passato il periodo più bello di sempre perché avevo i miei amichetti con cui giocavo per strada, avevo a fianco due miei cugini, con cui sono praticamente cresciuta e che, sebbene ora vivano lontano, considero come fratelli maggiori perché sono una coccolina che vuole sempre essere protetta, avevo un grande giardino, un grande balcone e un bar in cui Maria la proprietaria mi regalava sempre le caramelle all’anice quando andavo a comprare le zigaretten per mia madre. Mi piaceva tantissimo la mia casa, che alla fine era un semplice appartamento, ma col tempo è nato in me il desiderio di avere una casa simile quando vivrò per i fatti miei. Cosa impossibile, ma ok sognare non costa niente.
Poi, per una serie di motivi astrusi siamo stati costretti a trasferirci in città, vicino alla ferrovia, ma anche vicino al mare, in una appartamento molto più piccolo, ma pur sempre dignitoso.
Con il flusso di eventi che successivamente ha travolto la mia vita, sono tornata nella frazione di cui sopra, con papà, MA nella zona “di sotto” (quella che i malvagi chiamano “fantasma”). All’inizio la detestavo perché mi sentivo isolata in mezzo alla collina, ma col tempo, grazie anche alla mie innumerevoli passeggiate con Isotta, ho imparato ad apprezzarne sia gli abitanti, sia la vita tranquilla e semplice. Appena fuori casa ci sono gli orti di: Mario il biciclettaro, tirchio che non regala mai niente, Ario l’ex gestore dell’albergo che mi regala uova, pomodori, zucchine e insalata, Camillo il nuovo arrivato che addirittura mi ha detto di poter scavalcare la rete divisoria e prendere quello che voglio anche in sua assenza, e infine Mario il meccanico, soprannominato “lo sceriffo” per la sua meticolosità nel gestire il suo terreno, che mi regala frutta e verdura. Superato questo spazio contadino c’è un albergo (quello che gestiva Ario e che ora gestisce il figlio Adriano), che ovviamente d’estate si popola di persone, famiglie e cani e con cui mi capita di scambiare qualche parola quando passo (sia con le persone sia con i cani). Spesso incontro la signora Bettina, una vecchina con lo scialle per i giorni più freschi e un cappellino verde per quelli più caldi, che mi saluta sempre, che dice a mio padre che sono brava perché ho studiato, vado a lavorare, a fare la spesa e a spasso con il cane, e con cui mi è capitato anche di passeggiare per qualche metro, a passo molo lento ma non fa niente, ascoltandola parlare della sua gioventù, delle gite a Sanremo e dei gatti a cui la signora Romina, sua amica che non conosco, porta da mangiare. A volte la incontro con la signora Rina e il signor Camillo passeggiare insieme.
Più in là dell’albergo c’è la casa del signor Pasquale, padrone del meticcio Lucky, che mi saluta ogni volta che passo davanti al suo giardino e che mi chiede in che città lavora al momento mio padre.
Superata la strada che i maligni dicono suddivida la zona fantasma da quella “di sotto” c’è un campetto pieno di bambini, in estate, e dove la sera può capitare di incontrare una coppietta su una panchina (io stessa ho preso parte, in passato, a questa usanza di sedersi e parlare au clair de la lune). Qualche metro più avanti c’è il bar in cui faccio rifornimento di tabacco, cartine e filtri (che ieri sera ho scoperto che quest'estate sarà aperto fino alle 20:00) e che in inverno vedo come porto sicuro quando passeggio la sera e vengo colta da manie di persecuzione: almeno so che al bar c’è sempre gente, anche se si tratta di ragazzi scemi o anziani allupati ma ok. Poi c’è l’estetista Valentina, a cui va il merito delle mie cerette e delle mie sopracciglia perfette, la fornaia Daniela, paffutella e gentile, un po’ meno la madre che va sempre di fretta e non dice mai “grazie e buona giornata” come fa, invece, il genero, di cui non so il nome, che ha braccia da impastatore, tatuaggi, modi gentili e verso cui non nego di aver avuto qualche fantasia in passato. Il proprietario del negozio di riparazione TV, di cui so solo il cognome, mi saluta ogni volta e mi ribadisce sempre che Isotta è grassa e che scoppierà. Ok, prendo appunti!
Attraversando una stradina c’è il supermercato del quartiere, sotto il comando della signora Patrizia, austera, pragmatica e che sorride poche volte, in cui lavorano Pietro il macellaio che mi ama e per questo mi toglie il grasso dalle fettine che mi taglia, Lucio l’altro macellaio che mi serve sempre con un po’ di :/ e questa mancanza di affetto nei miei confronti mi dispiace perché ehi se Pietro mi ama, perché tu no??, Martina, la figlia della signora Patrizia con cui ho fatto le medie, che mi saluta gentile e mi consiglia gli spray anti zanzare sbagliati, Nicoletta la sorella a cui piacciono i Coldplay e che si fa i capelli dei colori più accesi, chissà quanto saranno danneggiati, e Stefania che adesso passa i prodotti in cassa standosene seduta perché aspetta un figlio e ha, per il momento, la pancia che sembra un cocomerino. Di fronte al supermercato c’è Tony il ristoratore che accoglie persone che vogliono infognarsi di carne, vino e pasta per pochi euro, ma che non vedo quasi mai. C’è la mia pizzeria di fiducia che ormai quando prendo l’ordine al telefono sa già chi sono e non devo ripetere il mio cognome (grazie Francesco) e qualche passo più avanti si affaccia lo studio del veterinario, luogo che Isotta ha cominciato a odiare perché quando varchiamo il cancello si blocca, devo trascinarla e inventare qualcosa per farla entrare. Qui finisce la zona “buona” del quartiere, perché poi ci sono 200 metri di zona Bronx in cui gli abitanti delle popolari ricevono costanti visite dai Carabinieri, e tra questi, una signora due anni fa mi ha dato della puttana, fermandomi per strada, perché credeva volessi rubarle il compagno 50enne che poi ho scoperto mi pedinava da un anno. Ma ok, bisogna sempre concentrarsi sulle cose carine.
In realtà ci sarebbero tante altre cose cute di cui raccontare, tipo dei cani che conosco e di cui non conosco i nomi dei padroni, ma ne scriverò quando riuscirò scoprirli (e ricordarli) tutti.
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Una domenica a Palazzo: Phaya Thai Royal Palace, residenza reale nel cuore di Bangkok
Visto che in tanti mi chiedete informazioni su monumenti che siano fuori dai classici percorsi turistici ho deciso di condividere con voi la mia ultima scoperta. Chi legge il mio diario online sa bene che non mi tiro mai indietro quando si tratta di andare a passeggio per Bangkok; se poi invece che fare da guida ho la possibilità di essere guidato la cosa si fa decisamente più interessante... A questo giro è stata tutta colpa dell’invito degli studenti del corso d’Arte del Dipartimento di Italiano dell’Università Chulalongkorn, invito che si è rivelato pieno di piacevoli sorprese. Con la scusa di passare del tempo insieme, l'Università ha pensato bene di organizzare una passeggiata culturale in un angolo d'Italia in Thailandia.
Un gruppo di studenti, qualche insegnante e diversi expat italiani. Appuntamento in una calda domenica di fine ottobre alla fermata dello Skytrain Victory Monument. Combinazione perfetta per andare alla scoperta di questo palazzo reale nel cuore di Bangkok che nessuno del gruppo aveva mai visitato prima. In realtà K. Neung Lohapon, la direttrice del Dipartimento di Italiano, il palazzo lo conosceva già molto bene visto che fa parte per di uno di quei luoghi che quasi per magia legano da secoli la Thailandia all’Italia.
Foto degli interni del palazzo
Per 2 ore abbondanti la nostra guida ci ha raccontato nei minimi dettagli la storia del palazzo, alternando descrizioni in tailandese a racconti in un inglese forse meno comprensibile del tailandese stesso.
Per fortuna che gli studenti si sono improvvisati traduttori!
La costruzione del palazzo iniziò nel 1909 come progetto di ampliamento voluto da Re Rama V (Re Chulalongkorn – a cui è dedicata l’Università che ha organizzato la visita) dell’allora Bangkok. All’epoca la zona era ancora coperta di canali e risaie – poco più di un secolo dopo è considerata pieno centro della capitale tailandese. Il Re però poté godere della quiete del palazzo solamente per pochi mesi visto che morì poco dopo il suo completamento. Divenne così la residenza della Regina Madre di Re Rama VI. Dopo la morte della madre, Rama VI fece demolire quasi interamente il palazzo e lo sostituì con costruzioni che conservarono parzialmente l’originale stile liberty fondendolo con un più moderno stile coloniale. Alla morte di Re Rama VI, il fratello Re Rama VII, una volta salito al trono ne ordinò la trasformazione in Hotel Internazionale (nota curiosa – Rama VII fu l’unico sovrano della dinastia Chakri ad aver abdicato). Dell’originale struttura oggi rimane solamente il Phra Thinang Thewarat Sapharom (sotto potete vedere le foto di questa sezione del palazzo). Le altre parti della residenza reale sono un misto di stili architettonici che variano dall’Art Nouveau – con vetri dipinti e decorazioni a fiamma e conchiglia, con balaustre in ferro battuto e legno intagliato – al Neoclassico – con giardini che ci hanno descritto come all’italiana ma che di italiano non hanno nulla – ad uno stile nordeuropeo che vagamente ricorda quello austriaco dell’inizio del novecento - la caratteristica più evidente del Palazzo Phaya Thai è una torretta rotonda con un tetto conico rosso, che ricorda il castello delle fiabe dei fratelli Grimm. La torretta fa parte della sala del trono di Phiman Chakri, costruita da Rama VI al cui interno sono ancora visibili bellissimi affreschi sul soffitto in stile italiano. Appena messo piede nel palazzo la guida ci fa notare che anche i pavimenti sono italiani: Re Rama V era infatti innamorato del marmo di Carrara.
Foto degli esterni del palazzo
Passeggiando per le varie parti del palazzo ci si imbatte in interessanti pannelli illustrati con didascalie ben scritte (e pertanto più comprensibili dell’inglese della guida) e informazioni curiose. Ho così scoperto che:
fino al secolo scorso i tailandesi avevano solo il nome: il cognome per indicare una persona venne infatti introdotto con il Surname Act del 1913 da Re Rama VI con annuncio dato proprio in questo palazzo;
Dusit Thani (thai: ดุสิตธานี), nome legato per me fino a questa visita alla catena di hotel, in realtà era un progetto creato da Re Rama VI per la creazione di una città in miniatura e micronazione per esplorare aspetti della democrazia. Fu il primo tentativo di realizzare un governo costituzionale in Thailandia e aveva sede proprio nel Phaya Thai Palace e nei dintorni della residenza (zona appunto ancora oggi chiamata Dusit);
fu proprio questo palazzo ad ospitare la prima stazione radiofonica della Thailandia, nel 1930, ovvero 6 anni dopo la messa in onda della prima trasmissione radiofonica in Italia;
una notte nella Suite dell’hotel Phaya Thai Palace costava 150 baht, pari a 1/3 dello stipendio allora ricevuto dagli architetti italiani Mario Tamagno e Annibale Rigotti (le cui opere sono ancora oggi visibili – ma non visitabili) qui a Bangkok;
una volta chiuso l’hotel il palazzo divenne sede dell’ospedale militare e poi importante scuola di medicina per la Royal Thai Army;
l’elegante caffetteria con interni neoclassici e a cui si accede solo togliendosi le scarpe che si trova davanti all’ingresso del palazzo (Cafe de Norasingha) fu il primo cafè in stile occidentale creato a Bangkok – è aperto tutti i giorni dalle 9:30 alle 19:00;
Il Dipartimento di Belle Arti ha inserito il Phya Thai Palace come sito del patrimonio nazionale tailandese solamente nel 1979
Foto della facciata principale del palazzo
Una camminata di più di 2 ore non poteva che concludersi con una bella chiacchierata, rigorosamente in italiano ovviamente, fra noi italiani e gli studenti del corso d'arte della Chulalongkorn University proprio nell’elegante Cafe de Norasingha. Ed è proprio chiacchierando con gli studenti che hanno studiato in Italia per periodi più o meno lunghi che ho riconfermato che
il RISOTTO è di gran lunga il piatto della cucina italiana MENO AMATO dai tailandesi
e che, tanto per peggiorare le cose, dicono anche che il formaggio puzza!
Foto del Phra Thinang Thewarat Sapharom
Per facilitarvi le cose, qui sotto trovate notizie e link per organizzare la visita al Palazzo Phaya Thai. Informazioni pratiche per il Palazzo Phaya Thai:
Sito internet: Phyathaipalace.org disponibile solamente in tailandese
Sito Museumthailand: pagina dedicata al Phaya Thai Palace
Indirizzo: 315 Phyathai Road Thung Phaya Thai Khet Ratchathewi Bangkok
Come arrivare: 10 minuti a piedi (circa 900 metri) dalla fermata della BTS Victory Monument – direzione Ratchawithi Road. Il palazzo si trova accanto all’ospedale Phramongkutklao Hospital.
Posizione sulla mappa: cliccare qui per aprire il percorso pedonale per raggiungere il Palazzo Phaya Thai su Google map.
Numero di telefono: 02-354 7987
Orario d’apertura: martedì e giovedì ore 13:30; sabato e domenica 9:30 e 13:30. Attenzione – l’orario è da intendersi come orario di inizio delle visite che sono obbligatoriamente guidate da un accompagnatore autorizzato. È necessario arrivare in anticipo. Per la guida in inglese si deve fare richiesta all’ingresso con un certo anticipo.
Biglietto: ingresso libero – è segno di cortesia lasciare una donazione
Codice d’abbigliamento e comportamento: abbigliamento decoroso, non sono ammessi pantaloncini corti, canottiere gonne corte e scollature vistose. Non è consentito scattare fotografie (ma si può chiedere e in genere le guide sono permissive), fumare, consumare cibo e bevande alcoliche o introdurre animali.
Durata della visita: circa 2 ore.
Il riassunto dela visita lo potete vedere in questo breve video
youtube
Se non visualizzate il video potete cliccare su questo link per aprirlo su YouTube
Se vi state ancora chiedendo perché non era mai stato al Phaya Thai Palace, la risposta la trovate essenzialmente negli orari di apertura. Fino a qualche anno fa, per di più, il palazzo era chiuso al pubblico. Tutt’oggi gli orari limitati e la quasi completa assenza di informazioni in inglese rendono questa bella residenza reale una meta poco conosciuta dai turisti stranieri e anche tailandesi. Se pertanto volete vedere qualcosa di meno turistico e che sia per di più legato all'influenza avuta dal nostro paese sulla Thailandia non potete perdervi il Palazzo Phaya Thai!
Foto dell'interno del Cafe de Norasingha
L'arte scuote dall'anima la polvere accumulata nella vita di tutti i giorni Pablo Picasso
Foto della scala a chiocciola in ferro battuto (un nuovo termine imparato dagli studenti)
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Eppure mi hai cambiato la vita
Parte due
Ho continuato a tenermi il passato cucito addosso per più di dieci anni ma un paio di settimane fa finalmente ho riempito le mie valige e sono partito verso Roma. Alla fine mi sono convinto e l'ho fatto, me ne sono andato e ho raggiunto il mio amico. Nuovo posto, nuova gente, nuova vita, mi sembrava veramente di aver finalmente chiuso i conti con il passato, di poter ricominciare tutto da capo senza il peso opprimente dei ricordi. Vedere Leo così tranquillo, così preso dalla sua nuova vita mi aveva convinto che forse c'era una possibilità per uno tormentato come me. Massì, va bene ricominciare qui, è il posto perfetto. Anche se il cuore continuava a battermi forte ogni volta che uscivo di casa e incrociavo un qualsiasi essere umano che me lo ricordasse anche per dettagli insignificanti. Lo stesso taglio di capelli, gli stessi occhi scuri, la stessa improbabile risata. Lui era ovunque e stavo impazzendo.
Per il primo mese non ho fatto nulla se non avere la paranoia ogni volta che mettevo piede fuori casa. Così Leo ha iniziato a suggerirmi di cercare un lavoro, una distrazione, sapevo che la sua pazienza stava finendo ma ehi, io ero in una piena crisi esistenziale che lui non poteva certamente capire. Lui sa a malapena di Fabrizio, figuriamoci se sa che mi sono appena imbucato nella tana del lupo solo per dimostrarmi che posso sopravvivere. Quindi mi sono limitato ad annuire un paio di volte finché stamattina mi sono ritrovato spedito fuori casa a calci in culo con la minaccia di dormire sulle scale del cortile se non mi sforzavo minimamente di fare qualcosa della mia vita. E ok, lo capisco benissimo quindi ci ho messo poco a convincermi a scendere in città alla ricerca di un qualsiasi cosa non sia "disperarsi a casa per essermi buttato in una cazzata più grande di me che nessuno capisce a mia esclusione."
Le strade sono piene di persone verso l'una, io è un po' che passeggio e non ho concluso molto. In realtà nulla. Mi sono reso conto con rammarico che probabilmente dovrei partire con aspettative piuttosto basse per il momento, sempre se ci tengo a tornare a dormire su un materasso vero. Questa prospettiva non mi fa impazzire ma alla fine sono venuto qui un po' troppo a caso e senza preparazione per avere qualsiasi tipo di pretesa. Così mi arrendo e metto da parte la vocina che mi dice "Hai studiato per fare molto di più nella vita!" e mi imbuco in dei bar a caso per chiedere se cercano nuovi dipendenti. Ho pure un po' di fortuna dal momento che da alcuni di quei bar me ne esco tutto contento con un foglio in mano pieno di numeri e "ci faremo risentire presto!" promessi con dei sorrisi smaglianti. A quanto pare in centro c'è una carenza di persone laureate in lingue che hanno voglia di buttare i loro anni di studio lavorando in un bar, chi lo avrebbe mai detto.
Mi siedo su una panchina con una leggera sensazione di soddisfazione che aleggia fra me e quei turisti distratti che mi passano davanti, uno uguale all'altro.
Oggi ero talmente distratto dalla mia missione che non ho nemmeno avuto tempo per farmi paranoie su Fabrizio, ero talmente preso dal mio presente che sono riuscito a dimenticarmi per mezza giornata del mio passato. Mi fa talmente strano pensarci che per un secondo mi sento vuoto come se la mancanza del pensiero di Fabrizio avesse lasciato un buco, che si riempie quasi subito della solita malinconia con contorno di rabbia e rimpianti. Sono a Roma per chiudere questo capitolo perché se qui, dove la presenza del suo ricordo diventa quasi fisica, riesco ad andare comunque avanti posso dire di essere libero, di aver vinto. E poi quante possibilità ci sono che me lo ritrovi davanti? Una su un milione se mi va bene? Dai, potrei quasi uscire vivo da questo mio tentativo di suicidarmi definitivamente a livello emotivo.
Dopo aver concluso la mia sessione giornaliera di "auto incoraggiamento a sopravvivere alle mie stesse paranoie", mi ricordo di non aver ancora mangiato nulla e la fame mi attacca come se ne fosse ricordata pure lei in quel momento. Sposto lo sguardo in giro alla ricerca di un posto in cui andare e opto di andare a mangiare qualcosa di veloce in uno di quei bar in cui non sono ancora stato, giusto per finire di catalogare mentalmente la quantità allucinante di edifici che mi ritrovo attorno. Roma è parecchio più grande di quel che mi aspettassi, ci si rischia di perdere al solo pensiero, figuriamoci gironzolare un po' a caso come faccio io che poi di senso dell'orientamento sto a meno uno.
Mi alzo e dopo aver ricevuto un'occhiataccia da parte di una turista che aspettava di sedersi su quella panchina da mezz'ora, mi avvio verso il primo bar che attira la mia attenzione. Non è proprio quel genere di posto che si può definire carino ma sicuramente ha un suo perché, uno stile a metà fra il rustico e il retrò che gli da un'aria esterna un po' improbabile. Mi convinco ad entrare spinto si dalla fame, ma anche da un'innata curiosità che mi si è insinuata in un angoletto della testa appena ho visto questo posto. Anche l'interno si riconferma improbabile, la prima cosa che si nota è questo gigantesco lampadario antico provato a rimodernare seguendo uno stile inesistente riassunto con un'accozzaglia di tante foto e cartoline attaccate un po' a caso. Lo osservo per un po' meravigliato alla ricerca di posti che ho visitato anche io. Trovo in un angolo una foto della mia Albania, una cartolina di Bari, di Firenze, Milano, Atene, qualche paesaggio spagnolo e tanti altri posti meravigliosi che però mi sfuggono. Alle mie spalle si avvicina qualcuno ma io sono ancora tutto preso dall'ammirare quel buffo e al contempo bellissimo lampadario.
<Bello, eh? E' quello che è grazie ai miei viaggi, con qualche contributo dei clienti più affezionati> gli si sente il sorriso nella voce mentre mi si avvicina ulteriormente.
Ci manca poco che mi prenda un colpo e muoia nel posto esatto in cui mi trovo. Mi sto sentendo male perché questo non è possibile, perché sono passato di fronte a questo bar almeno cento volte solo questa mattina e non posso credere che lui fosse qui per tutto questo tempo. Sotto il mio naso. Lui. Una possibilità su un milione. Una, cazzo. Davvero mondo, davvero?
<Tutto apposto, amico?>
Sobbalzo quando un Fabrizio Mobrici con una decina di anni in più mi si piazza davanti con un sopracciglio alzato. Mi fissa perplesso per un attimo senza capire, si chiede sicuramente che cazzo di problemi mi affliggano a starmene impalato di fronte a lui come mi fosse appena apparsa la Madonna. Ma poi finalmente capisce. Gli occhi gli si illuminano di consapevolezza e brillano come la prima sera in cui ci siamo conosciuti. Il bicchiere che stava per mettere a posto gli cade di mano e i suoi occhi si incollano ai miei come se ne dipendesse la vita di entrambi.
<Ermal...> lo sussurra appena e mi chiedo come riesca a parlare perché io mi sento gelare fino al centro delle ossa, l'unica cosa che da segno di vita è il cuore, che batte impazzito come se si stesse scavando una via di fuga da questa situazione. Probabilmente proverei anch'io a scappare se non mi fossi ghiacciato alla prima sillaba che ha pronunciato.
Ebbene eccolo, per anni ho segretamente sognato di rivederlo e ora lui è qui di fronte a me in carne, ossa e un sacco di inchiostro. Gli fisso le braccia tatuate per staccare gli occhi dai suoi perché inizia a far male, sento tutti i ricordi repressi fare capolino insieme alle lacrime e non ho proprio voglia di fargli vedere quanto mi ha fatto male la sua assenza.
<Fabrizio...> la voce mi trema e mi maledico perché dopo tanti anni mi fa ancora un grande effetto solo dire il suo nome, figuriamoci averlo a due palmi da me. E' così fottutamente vicino e non accenna ad allontanarsi...
<Tu... cosa ci fai qui? Cioè, insomma, qui siamo a Roma e...> ha la faccia di uno che ha bisogno di sedersi per non cascare per terra dallo sgomento insieme al bicchiere che adesso se ne sta in frantumi ai nostri piedi. Continua a fissarmi alla ricerca di una risposta nella mia espressione ma in realtà non so nemmeno io cosa rispondergli. Sono venuto qua cercando di lasciarmi il passato alle spalle, sperando di ricominciare tutto da capo, io e le mie cazzo di convinzioni di merda. Ma che cazzo ho in testa? La segatura, forse?
<Volevo dimenticarti... non che abbia senso provarci a farlo nella tua Roma ma... diciamo che non mi aspettavo di ritrovarti, ecco> gli rispondo cercando di non far tremare la voce e un po' mi sento mancare, oltre che infinitamente coglione. Riesco solo a pensare che non ci parlavo da troppi anni e che pure una pseudo conversazione come questa fa bene a quella parte di me che lo aspetta da più di dieci anni. Sento il me diciasettenne riprendere possesso della mia testa e del mio cuore, davanti a me Fabrizio sembra ringiovanire in un battito di ciglia, mi sembra di essere di nuovo in quella vecchia pizzeria che amavamo tanto. Non riesco più a distinguere passato e presente e per un attimo sto bene davvero, tutto il dolore si cancella istantaneamente, tutto si mescola e io sono lui, lui è me e all'improvviso siamo di nuovo noi. Probabilmente sto ammattendo, già.
Mi viene da sorridere solo perché sono qua e c'è anche lui, non riesco a mettere in conto che probabilmente mi spezzerà il cuore di nuovo. Riesco solo a sorridere mentre il cuore mi si risana lentamente, vorrei avere la forza di fermarlo, di fargli capire che tanto è inutile, che tanto sarà di nuovo in pezzi prima di fine giornata, ma non ci riesco. E' così tanto che non batte così leggero che ho paura che se lo fermassi smetterebbe di battere per sempre.
Fabrizio mi sorride a sua volta ma sembra confuso. Chissà quanti cuori avrà rotto in questi anni, sarà abituato a vederli semplicemente sparire dalla sua vita -come gli esseri umani normali, s'intende- e invece io sono qui, a sorridergli come un povero scemo. A pensarci bene se fossi al suo posto sarei confuso pure io. Perché sono ancora qua? Mi aspetto davvero un lieto fine con un ragazzo che ha tutta l'aria di essere andato tranquillamente avanti nella sua vita in questi anni? Il passato mi rende davvero uno stupido, un illuso. All'improvviso è come se mi tornasse la ragione, lo guardo un'ultima volta e a fatica esco dal mio gelido torpore, mi volto e faccio per andarmene. Sono stanco di continuare a sperarci di nascosto, di illudermi, di lui che non è quello che mi serve nella vita. Mi serve andare avanti, solo quello. Bene Ermal, adesso l'hai visto bello e cresciuto, cresci anche tu, smettila di metterti idee coglione in testa e va avanti con la tua vita. Insomma, sempre che non sia chiederti troppo.
Sono quasi sulla porta quando mi sento afferrare per il polso sinistro, non faccio nemmeno in tempo a realizzare cosa sta succedendo che lui mi trascina fin dietro il bancone, sulla sinistra c'è una porta e con poca grazia lui ci si imbuca dentro e mi ci trascina al suo seguito lasciando il bar pieno di persone che ci guardano strabuzzando gli occhi. Oh, le persone, me ne accorgo solo adesso? Sto messo proprio male.
Chiude la porta e me lo ritrovo faccia a faccia, a così pochi centimetri dal mio viso che sento le gambe tremare dalle caviglie al bacino. Istintivamente mi viene da indietreggiare ma non lo faccio, rimango lì a fronteggiarlo alla ricerca di tutta la mia scorta di coraggio che conservo da anni per questo momento. E anche perché mi ci sono ficcato da solo in tutto questo casino e sento che questa è la volta buona per perseguire le mie idee folli fino in fondo.
Ci fissiamo in silenzio per alcuni minuti, lui sembra aver appena realizzato di avermi praticamente sbattuto nel suo ufficio lasciando di là il bar mezzo pieno di persone, persone che hanno assistito alla scena fra un mormorio e l'altro con lo sguardo di chi sta guardando un gatto volare per la stanza. Non so con che dignità uscirò da qui ma probabilmente sarà pure quella a pezzi, tanto per cambiare. Quanto meno posso metterla nella lista insieme al mio cuore e alle mie speranze.
<Non provare mai più ad andartene> il suo tono per un istante ha il potere di congelarmi di nuovo sul posto però non basta a farmi abbassare la testa. Eccheccazzo, che è 'sta storia che sono io quello che prende e sparisce a caso? Ma si è bevuto il cervello o cosa?
<Sei tu che te ne sei andato, Fabrizio, non io> lo vedo tentennare di fronte alla rabbia nella mia voce e quasi mi viene da ridere, sono riuscito a metterlo in difficoltà per una volta e non viceversa. È strano vederlo così, sicuro com'è, non pensavo di poter fare tanto effetto a qualcuno, soprattutto a lui. Mi guarda e nei suoi ci leggo qualcosa di strano, qualcosa che non gli è mai appartenuta, la disperazione. La vedo dilagare nei suoi occhi a macchia d'olio, un attimo prima è quello con la situazione sotto controllo, un attimo dopo è quello che sembra pure più disperato e insicuro di me.
Alza la mano e me la passa lentamente sulla guancia in una carezza che mi sembra così dolce, che fa evaporare in meno di un secondo tutto quel risentimento che mi stava bruciando fino ad un attimo prima. Mi guarda come fosse incantato, come se non ci credesse che sono veramente qui e io non so più come dovrei sentirmi. Se lui è disperato, io che sono infinitamente più insicuro di lui come dovrei sentirmi? Dovrei cadere in ginocchio di fronte al grande amore della mia vita? Svenire, forse? Oh, ma smettila di farti seghe mentali, santo cielo Ermal.
<Sei qui...> per un secondo gli trema la voce e la sua frase finisce per sembrare per metà una domanda e per metà un'affermazione. Gli occhi gli brillano talmente tanto che mi sento io sull'orlo delle lacrime anche per lui.
<Sono qui> respiro a fondo e mi do una scossa mentale. Ripigliati Ermal, adesso che ce l'hai qui te lo vuoi lasciare scappare? Ma sei scemo?
Gli appoggio la mano sopra quella che ha sulla mia guancia e senza pensarci troppo mi avvicino sempre di più a lui, bramo la sua vicinanza da così tanto che non riesco nemmeno più a ragionare.
<Mi sei mancato.>
<Anche tu> glielo sussurro sulle labbra e sento i brividi ovunque. Voglio che questo momento duri per sempre.
<Non volevo andarmene, io ti amavo ma... mi hanno costretto...>
Rimaniamo immobili, ciò è quello che definirei sganciare una bomba e Fabrizio è sempre stato bravo in questo. Il mio cervello va totalmente in palla al suo "io ti amavo". Me lo sono chiesto così tante volte negli anni se lui mi avesse mai amato quanto l'avevo amato io o anche se si fosse mai posto il problema se mi amasse o meno, e adesso me lo sta dicendo. Fabrizio mi amava e lo dice talmente vicino a me che sento il suo respiro infrangersi sul mio, le sue labbra così vicine alle mie che sono ad un millimetro dal baciarsi.
<Io ti amo ancora> appoggia anche l'altra mano sulla guancia libera e con i pollici mi scaccia quelle lacrime che non mi sono nemmeno accorto di avere. Lui mi ama ancora e anche io lo amo ancora, non ho mai smesso di amarlo.
<Io non ho mai smesso di amarti> finalmente lo bacio, finalmente elimino anche quei pochi millimetri che dopo tutti questi anni mi stavano uccidendo. Non desideravo altro da quando ho messo piede qui dentro e l'ho visto, è come essere arrivato a casa dopo anni di pellegrinaggi attorno al mondo. Lui ricambia come se non aspettasse altro e si stringe a me come se non volesse lasciarmi andare mai più. Mi sento come fossi Ulisse e lui fosse la mia Itaca.
Quando ci separiamo sento la testa girare, Fabrizio davanti a me è come avesse a tratti diciannove anni, a tratti trenta. E' un incontro talmente perfetto fra passato e presente che nessuno dei due si azzarda a dire nulla, rimaniamo semplicemente l'uno perso nell'altro finché lui non mi bacia ancora. E poi ancora e ancora, finché non mi sento più le labbra, finché non sento più male al cuore.
Salve gente! Spero vi sia piaciuta anche la seconda parte di questa breve fanfiction. Vi lascio questa piccola nota sotto per dirvi che forse, in futuro, volevo aggiungere magari anche un terzo capitolo. Per quello però ci sarà un po' da aspettare dato che ho solo una lista piena di idee e poche cose effetivamente concrete. Spero di combinare in fretta, per il momento chiudo qui.
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A PROPOSITO DI PRIVACY. C'È UNA COSA CHE NON HO CAPITO.
IO - Tutti ti proteggono. Tutti ti difendono. PRIVACY - Lo fanno per il tuo bene. IO - Passo tre quarti delle mie giornate a cliccare su "accetto" perché qualsiasi servizio gestisce dati riconducibili a me. PRIVACY - E non sei contento? Difendere me significa difendere te. IO - Mi chiedono sommessamente di accettare persino quando c'è la remota possibilità che un dettaglio marginale di un pezzetto di informazione debolmente collegato con me sia utilizzabile. PRIVACY - Melius abundare quam deficere. IO - Persino quando passeggio ho l'impressione che i passanti siano sul punto di scusarsi perché hanno accesso a informazioni sul mio aspetto che potrebbero essere annotate da qualche parte. C'è il pericolo che si facciano un'idea molto precisa sui miei gusti in fatto di vestiti. C'è il rischio che facciano illazioni sulle mie abitudini nutrizionali per colpa della mia pancetta esposta agli occhi del mondo. PRIVACY - Io sono sacra. Nessuno può violarmi. IO - Ok, ma allora spiegami una cosa. Tempo fa ho cambiato numero di telefono. Il giorno dopo il mio nuovo numero era persino nelle agende di sperduti call center situati in città portuali del Mar Baltico. Cosa diavolo sono questi call center che possono fare ciò che vogliono? PRIVACY - Non posso dirtelo. IO - Perché? PRIVACY - E me lo domandi? A proposito: perché hai detto che questi call center si trovano nelle città portuali del Mar Baltico? E tu cosa ne sai? Dove hai ottenuto queste informazioni? IO - Da nessuna parte. Dicevo per dire. PRIVACY - Non stai mentendo, vero? IO - No, no, tranquilla. PRIVACY - Sarà meglio per te.
Fine
— L’Ideota
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La Nave di Cascella
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