#Un fiumano a Roma
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Damir Grubiša – Diario diplomatico. Un fiumano a Roma – Gammarò / Oltre edizioni
Damir Grubiša – Diario diplomatico. Un fiumano a Roma – Gammarò / Oltre edizioni
Damir Grubiša – Diario diplomatico Un fiumano a Roma Gammarò /Oltre edizioni Dal 2012 al 2017 Damir Grubiša è stato ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia. Professore universitario con molte pubblicazioni alle spalle, studioso del Machiavelli, del quale ha tradotto in croato e commentato le opere scelte, con pregresse esperienze politiche (è stato, tra l’altro, dal 1986 al 1990…
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“Gioia di leggere sui muri questo amore frenetico per l’Italia”. Il rocambolesco viaggio di Filippo Tommaso Marinetti verso Fiume
Il 28 agosto 1919 D’Annunzio ricevette l’accorato appello di liberare Fiume da Riccardo Frassetto, Vittorio Rusconi, Rodolfo Cianchetti, Claudio Grandjacquet, Lamberto Ciatti, Enrico Brichetti e Attilio Adami, i Giurati di Ronchi, sette ufficiali appartenenti alla Brigata Granatieri di Sardegna.
Il pluridecorato ed eroe di guerra D’Annunzio, a cinquantasei anni, si trasformò in Poeta-Condottiero e si mise al comando di un manipolo di truppe irregolari (composte da militari, socialisti rivoluzionari, futuristi, nazionalisti, anarco-sindacalisti, anarchici e avventurieri provenienti da ogni parte del mondo) per restituire all’Italia la città di Fiume (in slavo Rijeka), porto adriatico del Regno d’Ungheria, che, nonostante la vittoria della Prima Guerra Mondiale, era stata sottratta con un vergognoso accordo stipulato tra il ministro degli esteri italiani Sidney Sonnino e i diplomatici alleati.
Appresa la notizia del gesto patriottico dannunziano, il fondatore del Futurismo Filippo Tommaso Marinetti, come scrisse nelle pagine del Diario fiumano, decise di partire per Fiume e da Roma raggiunse in treno prima Trieste poi, di notte, assieme a Francesco Giunta e ad alcuni volontari con un’autovettura riuscì ad arrivare a venti chilometri dalla città occupata, quando l’automobile si schiantò contro un mucchio di ghiaia finendo inesorabilmente la sua corsa. Allora il gruppo intraprese una lunga marcia seguendo i sentieri pietrosi sino ad Abbazia, ed arrivando a Fiume a bordo di una barca a remi. In città, Marinetti prese alloggio all’Hotel Lloyd nella centralissima Piazza Dante e iniziò così la sua breve avventura fiumana, durata soltanto sedici ma intensi giorni.
Il 16 settembre il poeta-esteta D’Annunzio abbracciò Marinetti e per il fondatore del Futurismo fu una specie di incipit per il racconto di una nuova, ennesima straordinaria esperienza di vita.
A Marinetti Fiume apparve una città fervente, animata da un «amore frenetico per l’Italia», da uno «spaventoso ardore patriottico», ravvivata da allegria, da musica e da parate che si trasformavano in feste cittadine, dove lunghi ranghi di Arditi, di legionari e di ragazze, impazzite «dalla gioia», sfilavano alternati a braccetto. Di fronte a quella spontanea euforia collettiva, Marinetti inviò un messaggio telegrafico alla redazione del quotidiano “Roma Futurista”, l’organo ufficiale del Partito Politico Futurista diretto da Mario Carli, «Sono a Fiume dopo una marcia fantastica. In pieno futurismo! Tutto, tutto per la NUOVA Italia! Fiume è divina! Merita tutto!».
Il Diario fiumano di Filippo Tommaso Marinetti, pubblicato dalla editrice genovese ITALIA Storica (info: [email protected]) è costituito dalla trascrizione delle pagine dei Taccuini marinettiani (i cosiddetti Libroni o Marinetti Papers, custoditi presso la Beinecke Rare Book and Manuscript Library della Yale University, New Haven, Connecticut), riguardanti il periodo che va dal 13 al 30 settembre 1919 e tra il 2 ottobre 1919 e il 3-5 settembre 1920: in particolare questi ultimi giorni riguardano l’attività della propaganda pro-Fiume del capo del Futurismo svolta tra Trieste, Milano, Roma e Firenze. Il testo era già presente nei Taccuini 1915/1921, pubblicati a cura di Alberto Bertoni per la casa editrice il Mulino di Bologna nel 1987, ma è stato rivisto e ampliato con l’aggiunta di annotazioni bibliografiche o con la modifica, laddove necessario, delle note già esistenti. Di seguito, un estratto dall’opera. (Guido Andrea Pautasso)
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13 Settembre
Arriva il nuovo Giornale. Notizia strabiliante. D’Annunzio ha occupato Fiume! Contengo la mia emozione… Decido di partire domani per Fiume.
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14 Settembre
Parto per Firenze.
Stazione. Buffet. Trovo la Duse la saluto. È invecchiatissima. Senza fiamma. Mi parla di Fiume senza dire una parola di D’Annunzio. Indovino dei volontari fiumani in 3 ufficiali. Attacco discorso con loro. Combino partenza. Vengono Nannetti Rosai Chiti [Si tratta dei futuristi fiorentini Ottone Rosai, Remo Chiti e di uno dei due fratelli Nannetti, o Vieri o Neri]. Saluti augurali.
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15 Settembre
Bologna. Poi Monfalcone. Carso. Trincee. Reticolati. Lago di Pietra Rossa. Emozione. Trieste. Alla Stazione trovo Pinna [Il futurista Federico Pinna Berchet, nipote del letterato Giovanni Berchet e tenente d’artiglieria, fu tra i primi ad entrare a Fiume assieme a D’Annunzio, e raccolse le sue memorie fiumane nel volume Liriche d’assalto (Edizioni Mercurio, Roma 1939), pubblicato con la prefazione di Filippo Tommaso Marinetti]. Passo senza passaporto.
Trovo Benco [Silvio Benco, scrittore e giornalista, il 13 gennaio 1910 su “Il Piccolo” recensì con entusiasmo la prima serata futurista della storia al Politeama Rossetti di Trieste quando Marinetti lanciò il suo movimento dalla “rossa polveriera d’Italia”] in piazza. Vado Trento Trieste. Mi offrono posto in automobile per domani. Preferisco partire con Giunta [Francesco Giunta, interventista, capitano di cavalleria durante la Grande Guerra fu segretario della sezione fiorentina dell’Associazione Nazionale Combattenti] e altri compagni in automobile ore 9. Passiamo 2 controlli bene. Poi a tutta velocità verso Castelnuovo. A un terzo di strada l’automobile aggredisce un monte di ghiaia e si sfascia. Paghiamo e scendiamo. Ci diamo al monte boschi pietrame sotto la luna. Perdiamo la strada. Ombre insidiose della luna. Ogni tanto a terra sotto la mantellina con dei cerini consultiamo la carta. A destra la strada bianca, giù. La raggiungiamo. Ma subito allarme. Pattuglia di ciclisti. Giù giù dal parapetto giù. Come dei ladri inseguiti. Sarà 2 o 3 metri di altezza. No sono 6 o 7 metri. Giù giù nel buio. Precipito giù sotto il peso d’un compagno mutilato d’un braccio e d’un occhio. Cade su di me gridando: Ho perso l’occhio! Ho perso l’occhio! Riprendiamo la salita sul pietrame rasoiante pungente carsico pieno di rovi. Piedi in marmellata. Stanchissimi. Cani che si svegliano. Ognuno vuol guidare. Tutti sbagliano. Alla destra nostra la montagna ci fa sentire prossimo il golfo del Quarnaro. Vediamo giù le luci di città marinare.
Abbazia. Alle prime luci dell’alba ecco sotto il mare. Scendiamo. Vi sono 2 barche piccole senza remi. Vicino c’è una villa deserta. Poi delle voci di bambini. Acqua diaccia. Gioia di immergere i piedi stanchi feriti.
Angoscia dei compagni. Ottimismo mio dopo il bagno nella piccola rada deserta sugli scogli. Siamo sul Quarnaro ma alle porte di Fiume! Arrivano 2 barcaioli coi remi. Non vogliono portarci. Siamo in 6, la barca piatta è fragile e fa acqua. Finalmente tutti in barca. Equilibrismo. Pigiati coll’acqua che sale fino ai ginocchi arriviamo passando davanti alle sentinelle che dall’alto ci intimano di fermarci.
*
16 Settembre
A Fiume. Gabriele mi abbraccia.
Tutte le strade offrono avvisi grandi O Italia o morte. Gioia di leggere sui muri questo amore frenetico per l’Italia.
Filippo Tommaso Marinetti
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23 AGO 2019 12:54
IL DIARIO DI UN MORTO DI FAME - QUELLO DI VALENTINO ZEICHEN È IL RACCONTO DI UN'AGONIA LETTERARIA ROMANA DOVE ''UN POETA AL MASSIMO PUÒ SPERARE DI IMBUCARSI A UNA "CENA PER 500 FINTI VIP"– ‘’MARTONE HA PRETESO DI RICAVARE UN TEATRO DA UN CAPANNONE INDUSTRIALE SITUATO LUNGO IL TEVERE, ALL'ALTEZZA DEL GAZOMETRO. HA GETTATO 22 MILIARDI DI DENARO PUBBLICO NELLA DISCARICA DI RIFIUTI INDUSTRIALI. LE ZANZARE AVRANNO IL COMPITO DI TENERE SVEGLI GLI SPETTATORI DAGLI SPETTACOLI NOIOSI” - "QUEI MAFIOSI COMUNISTI DI GARBOLI E GIUDICI"
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IL DIARIO DI UN MORTO DI FAME CHE INSEGNA A VIVERE E A NON PERDERE TEMPO -
Camillo Langone per “il Foglio”
‘’Stanotte vado a letto senza cenare. Digiuno dietetico, precauzione igienica, purificazione? La verità è che non ho niente da mettere sotto i denti". Quello di Valentino Zeichen è un diario della fame, il racconto di un' agonia letteraria romana, l' attualizzazione della massima latina "carmina non dant panem".
Al poeta Zeichen le poesie procuravano molti inviti a cena, è vero, ma fra un invito e l' altro era complicato riempire il frigorifero, nella baracca a pochi metri da Piazza del Popolo dove ha vissuto buona o cattiva parte della sua incredibile vita. Io ci sono stato e quindi so che quando scrive, il 22 maggio, "la baracca avrebbe bisogno di una serie di lavori di manutenzione", non sta facendo del vittimismo ma dell' eufemismo.
A Valentino (lo chiamavano tutti così, vuoi per la rarità del nome, vuoi per la difficoltà del cognome) davvero pioveva in casa, e non era più un ragazzo. Al tempo di "Diario 2000", pubblicato ora da Fazi, aveva per la precisione sessantadue anni e si trovava senza lavoro, senza reddito, senza pensione, senza casa di proprietà, senza famiglia, senza libri in classifica, senza niente.
Faticava anche a vincere quei premi letterari che per i poeti rappresentano delle pre-Bacchelli, oboli umilianti e però utili per pagare qualche bolletta, qualche mese di spesa al supermercato. Al Viareggio di quell' anno non riuscì nemmeno a entrare in cinquina, essendo la giuria "una banda di mafiosi comunisti, capeggiata da Cesare Garboli e Giovanni Giudici".
Poche parole che dicono tantissimo: che Valentino non era comunista e nemmeno di sinistra, un' anomalia se non una iattura; che il mondo della poesia è quanto di più prosaico, tutto maldicenze e miserabili rivalità; che sono sufficienti 19 anni per terremotare un panorama culturale. Garboli e Giudici, chi erano costoro? E se anche qualcuno li ricorda, difficile che qualcuno li rilegga.
Degli antichi commensali dello Zeichen 2000, limitandomi ai più noti e ai più (allora) influenti, risultano defunti Carla Accardi, Nico Garrone, Renato Mambor, Alda Merini, Mario e Marisa Merz, Ilaria Occhini, Nico Orengo, Vettor Pisani, Giovanni Raboni, mentre parecchi altri non si percepiscono più, ammutoliti dall' anagrafe.
In qualche caso è un bene, in altri è un peccato, comunque è una tristezza. Se non ci fosse Elido Fazi, editore ma innanzitutto amico ("Diario 2000" non serve certo al fatturato), forse anche Zeichen sarebbe caduto nel pozzo dell'oblio. In vita gli dedicammo una miriade di articoli ma più che il poeta poteva il personaggio: il profugo fiumano (era nato sulle rive del golfo del Quarnaro nel 1938), il letterato baraccato, il nuovo Marziale nutrito dai nuovi mecenati... I caporedattori dicevano sempre sì, un' intervista al bizzarro soggetto era sempre ben accetta.
E infatti proprio nel 2000 lo incontrai, lo intervistai. Nel diario, con un misto di rammarico e sollievo, non mi trovo citato, eppure nella pittoresca baracca mangiammo insieme una peperonata e insieme bevemmo vino giallo e un po' rancido versato da un inquietante bottiglione. Non è bello essere ignorati ma poteva andarmi peggio, potevo essere citato e stroncato come succede a Fulvio Abbate e a Giuseppe Conte, al giovane poeta ligure Lamberto Garzia che "vive al di sopra dei propri mezzi perché fuma e beve troppo", ad Antonella Anedda "saprofita letteraria", ad Alda Merini "la rastrella-premi, l' ex ospite di manicomi che intenerisce i giurati".
A proposito della poetessa pazza: il razionale Zeichen era in qualche modo l' anti Merini ossia un poeta antisentimentale, completamente maschile, inutilizzabile per alimentare corteggiamenti. Oggi poco instagrammabile. Era addirittura un militarista, un nostalgico dell' Impero Romano, scrisse di radioattività, logistica, guerre delle Falkland, chi se lo doveva comprare.
Se dovessi consigliare di Valentino Zeichen un libro, un libro solo, consiglierei questo, il diario di un morto di fame (definizione sua) che insegna a vivere e dunque a non perdere tempo con la poesia e a non perdere tempo con Roma, dove un poeta al massimo può sperare di imbucarsi a una "cena per cinquecento finti VIP" e ingozzarsi di filetto di tacchino.
ZEICHEN. "DIARI 2000": LE CENE DEL POETA CON AMICI E NEMICI
"QUEI MAFIOSI COMUNISTI DI GARBOLI E GIUDICI"
In libreria per Fazi il "Diario 2000" di Valentino Zeichen, raccolta di testi inediti del poeta. Ne pubblichiamo alcuni.
Dal “Fatto quotidiano”
Sabato 1° gennaio
Si passa il Capodanno da Christine Flery, P.R. Ci sono diversi artisti del Circo di Mario Pieroni, gallerista. Mario e Marisa Merz, Renato Mambor, Vettor Pisani e consorte, poetessa frustrata, e anche Carla Accardi. Dopo i brindisi ripeto un discorso già fatto, credo l' anno passato. Negli artisti commensali non vedo nessun senso di vertigine, neanche qualche linea di febbre spirituale. Manca quel senso di decadenza da Belle Époque, che prende la gente per la gola a ogni fine di secolo; che fa sì che le opere d' arte somiglino a fuochi d' artificio. È anche vero che gli esponenti sopraccitati appartengono tutti all' Arte Povera, ma c' è un limite anche nella miseria, sebbene da costoro non c' è da aspettarsi grandezza.
Mercoledì 2 febbraio
La signora Kikka Monicelli, che non sentivo più da oltre due anni, mi invita a una cena in occasione del compleanno di A. Arbasino. Mi sorprendo per l' invito, e le propongo di sostituirmi con un altro invitato, un possibile amico intimo del festeggiato. Mi chiede: "Non gli sei nemico?". Rispondo: "No". Lei: "E allora accetta".
Giovedì 9 marzo
Giorgio Napolitano: ex notabile del Pci, ex ministro dell' Interno Ds, presidente di varie commissioni parlamentari ecc., ha avuto l' impudenza di dire che il presidente Usa, inventore del New Deal, aveva contro tutta l' industria americana perché era di sinistra; mentre è stata la sua tenacia interventista, andata a buon fine, a moltiplicare la potenza degli Usa. Come faccia un uomo, presumibilmente intelligente, a credere, e a volerci far credere, a simili "palle"? Cena da Kikka Monicelli.
Sabato 15 aprile
Non solo penne alla salsa di pomodoro, con battuto a base di cipolla soffocata nel soffritto, ma anche carciofi ripieni con pane grattugiato, prezzemolo, aglio. Entrambe le pietanze vengono salutate da un unanime gradimento. Settimana con le borse mondiali in calo; invece le mie quotazioni di cuoco sono visibilmente in salita, la presenza di ben quindici ospiti accresce la propagazione della mia fama in cucina.
Martedì 30 maggio
9 milioni dai troppi zeri, questo era l' ammontare del premio Gatto, assegnato al vincitore Maurizio Cucchi. Mi confida F. Cordelli, giurato e sostenitore del mio libro Ogni cosa a ogni cosa ha detto addio, che fra le motivazioni a sostegno della mia causa c' era anche quella sulle mie condizioni economiche difficili, perciò Franco era per l' assegnazione del premio a me. E Alba Donati ha riferito a Franco la reazione di Cucchi: "E che dobbiamo pagare noi per lui perché ha pochi soldi?". Questo è un buon motivo per diradare le telefonate fra noi.
Giovedì 29 giugno
Purtroppo, l' intero staff della Fazi ha abboccato all' invito di partecipare al premio Viareggio, siamo caduti nella trappola del concorrere, e siamo stati eliminati. Quella banda di mafiosi comunisti, capeggiata da Cesare Garboli e Giovanni Giudici, non rispetta nessuna oggettività basata sulle valutazioni critiche delle opere, avvalorate dalle recensioni. È la seconda volta che mi impediscono di entrare in cinquina. I nomi dei prescelti sono tutti di secondo piano, e fra questi spicca il modesto De Signoribus, onesto poeta delle Marche.
Venerdì 8 settembre
Devo limitarmi nel bere, in modo da difendermi dall' autodistruzione; non mi è consentita poiché sono troppo povero e non posseggo né case di proprietà né pensione futura. Se mi accadesse qualcosa, al momento, non saprei su chi gravare, non essendoci nessuno intorno a me, su cui posso interamente confidare. Io mi sento solo, profondamente solo. Cena all' Augustea con L. Ontani.
Lunedì 30 ottobre Film: The Golden Bowl.
L' addetto della biglietteria mi chiede se ho qualche forma di riduzione sul prezzo del biglietto. Io nego, seccato. Vuol dire che riconosce i sessantenni oppure è prassi rivolgersi in questo modo a tutti coloro che vanno al cinema di pomeriggio. Dopo cena si accentua il diverbio con l' amico Nick, a cui avevo dato del cameriere del regista Mario Martone. E io, secondo Nick, lo sarei dell' amico F. Cordelli.
M. Martone ha preteso di ricavare un teatro da un capannone industriale situato lungo il Tevere, all' altezza del Gazometro. Ha gettato 22 miliardi di denaro pubblico nella discarica di rifiuti industriali, costituiti da edifici fatiscenti, strade sterrate, e incerte condizioni igieniche. Le zanzare avranno il compito di tenere svegli gli spettatori dagli spettacoli noiosi. Cena Garrone.
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Damir Grubiša - Diario diplomatico. Un fiumano a Roma - Gammarò /Oltre edizioni
Damir Grubiša – Diario diplomatico. Un fiumano a Roma – Gammarò /Oltre edizioni
Damir Grubiša – Diario diplomatico Un fiumano a Roma Gammarò /Oltre edizioni Dal 2012 al 2017 Damir Grubiša è stato ambasciatore della Repubblica di Croazia in Italia. Professore universitario con molte pubblicazioni alle spalle, studioso del Machiavelli, del quale ha tradotto in croato e commentato le opere scelte, con pregresse esperienze politiche (è stato, tra l’altro, dal 1986 al 1990…
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2 AGO 2019 08:05
UN INTREPIDO FIUMANO – AVVENTURE, EROISMI, DOLORI E TRAGEDIE DI GIOVANNI HOST-VENTURI, UNA VITA TRA D'ANNUNZIO E PERON – A FIANCO DEL 'VATE' DURANTE L’OCCUPAZIONE DI FIUME, DIVENTO’ MINISTRO DI MUSSOLINI. DOPO LA GUERRA EMIGRÒ IN ARGENTINA E FECE DA CONSIGLIERE AL LEADER DEL PAESE. IL FIGLIO, ARTISTA, FU IL PRIMO ARTISTA DESAPARECIDO IN ARGENTINA – IL LIBRO
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Adriano Scianca per “la Verità”
Il centenario dell' impresa fiumana con cui, nel 1919, Gabriele D' Annunzio cercò di annettere all' Italia la città dalmata che, al termine della grande guerra, era stata assegnata al neocostituito Regno dei serbi, croati e sloveni, ha un non secondario effetto positivo: far riscoprire tutta una serie di eccezionali storie nella storia.
Sono tantissimi, infatti, i libri sulla Reggenza del Carnaro - così si chiamava il mini Stato instaurato dal Vate - ultimamente ristampati da grandi e piccole case editrici, molto spesso scritti dai protagonisti di quell' epopea.
E, fra di loro, si trovano fior di personaggi incredibili, con vite originalissime e percorsi umani e intellettuali che non sfigurerebbero in un film. Un caso tipico è quello di Giovanni Host-Venturi, di cui la casa editrice Aspis ha appena ripubblicato L' impresa fiumana. Già ideatore della Legione volontari fiumani, lui, che nella città dalmata ci era nato, fu tra i principali ideatori e organizzatori della marcia di Ronchi che portò all' occupazione di Fiume da parte del Vate.
Ma la parentesi fiumana è solo una parte della avventurosa vita di Host-Venturi, che qualche anno dopo si ritroverà in Argentina a fare da consigliere a Juan Domingo Peron e a vivere in famiglia il dramma dei desaparecidos. Un uomo, quindi, che ha attraversato tutto il Novecento, vivendone sulla propria pelle tutti gli entusiasmi, gli eroismi, le tragedie e i dolori. Ma andiamo con ordine.
Host-Venturi nasce a Fiume, il 24 giugno 1892. Il cognome originale è Host-Ivessich, cambiato durante la prima guerra mondiale perché gli austriaci fucilavano immediatamente i loro sudditi che combattevano per l' Italia, rifacendosi anche sulle famiglie. Alla grande guerra partecipa da volontario, con il grado di capitano degli alpini e poi degli arditi, guadagnandosi tre medaglie d' argento al valore. Dopo il conflitto sembra quasi naturale per lui, fiumano di nascita, partecipare all' avventura di D' Annunzio.
Durante la reggenza dannunziana, l' ex combattente auspica un colpo di mano che si estenda a tutta l' Italia, fino a coinvolgere il re in persona.
Ma il piano è nebuloso e velleitario: il poeta soldato preferisce seguire i consigli del più assennato Giovanni Giurati e lascia cadere le tesi radicali di Host-Venturi.
Dopo il conflitto, aderisce al fascismo, prima con qualche intemperanza, poi, dopo la marcia su Roma, allineandosi alle direttive di Benito Mussolini, che chiedeva una Fiume pacificata e che non creasse problemi diplomatici con gli iugoslavi. Nel gennaio 1923 divenne capo della Milizia nazionale fiumana, dal 1925 al 1928 diresse la segreteria della Federazione fascista di Fiume e fu commissario straordinario di quella di Pola.
Fu consigliere nazionale del Partito nazionale fascista e, dal 1934 al 1935, membro della Corporazione della previdenza e del credito; dal gennaio 1935 all' ottobre 1939, fu sottosegretario alla Marina mercantile presso il ministero delle Comunicazioni, di cui poi divenne ministro. Ostile all' ordine del giorno Grandi, aderì alla Repubblica sociale italiana, pur non ricoprendo cariche né posti di rilievo. Alla fine della guerra preferì abbandonare l' Italia. Come molti ex fascisti, sceglie il Sudamerica per rifarsi una vita. Argentina, nel suo caso. Ma non abbandona la passione per la politica.
Così, nel 2013, il giornalista Giorgio Ballario, sul sito Barbadillo.it, ricostruiva questo nuovo capitolo della vita di Host-Venturi: «In una recente intervista a un quotidiano argentino, l' avvocato Leonardo Gigli, che durante la Seconda guerra mondiale aveva combattuto agli ordini di Host -Venturi, racconta che l' ex capitano degli arditi e comandante della Legione fiumana si era incontrato più volte con il presidente Peron, suggerendogli di creare delle zone franche industriali a Bahia Blanca e Rosario per favorire lo sviluppo economico del Paese.
Un progetto che incontrò un certo gradimento nel governo peronista, anche se non venne mai concretamente realizzato». L' ex combattente - che nel 1976 aveva pubblicato presso Giovanni Volpe le sue memorie fiumane, ora ristampate da Aspis - morirà suicida a Buenos Aires, il 29 aprile 1980.
Dietro il gesto estremo, probabilmente, il dolore per la sorte del figlio Franco. Nato a Roma nel 1937, Franco Host-Venturi era emigrato in Argentina col padre a soli undici anni. Secondo Ballario, Franco, conosciuto anche come Nino, «fin da ragazzo aveva militato nella Juventud Peronista e successivamente era confluito nelle Fap (Fuerzas Armadas Peronistas), una frazione guerrigliera attiva nei primi anni Settanta a Buenos Aires e nelle principali città argentine».
Era un artista, pittore e vignettista, entrato a far parte del «Grupo Espartaco» (1959-1968), un movimento artistico argentino dalle forti connotazioni sociali. Franco Host-Venturi partecipò a mostre contro la guerra in Vietnam e per Ernesto Che Guevara. La sua ultima mostra fu un omaggio al Cordobazo, una insurrezione popolare avvenuta nel Paese nel 1969. Poi il primo arresto, nel 1972. Grazie all' amnistia del 1973 tornò in libertà, ma nel 1976, a Mar del Plata, fu sequestrato da una banda paramilitare. Dopodiché non se ne seppe più nulla.
Fu il primo artista desaparecido in Argentina.
«Anche io fui arrestata», ha ricordato qualche anno fa a Repubblica la moglie Mabel Greemberg, «ero incinta del secondo figlio che nacque in carcere, e non ha mai conosciuto suo padre». Per poi aggiungere, con tragico presentimento: «Forse me l' hanno buttato a mare da un aereo, ancora vivo». Nel 2004, l' allora sindaco di Roma, Walter Veltroni, promise di inaugurare una scuola alla memoria di Franco Host-Venturi. Non sappiamo che fine abbia poi fatto quel progetto.
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Il Rivoluzionario della Giovinezza temuto dal Duce: dialogo su Fiume (100 anni dopo) e su D’Annunzio con Giordano Bruno Guerri
In effetti, siamo un Paese inospitale agli eroi e che tratta a male parole i propri grandi. Al netto dei gusti personali e della propria palestra letteraria (dettagli irrilevanti), per dire, m’immagino cosa sarebbe di Gabriele d’Annunzio se fosse accaduto in Usa, in UK, nell’avida Francia. Lo avrebbero accudito, coccolato con musei e mausolei, accolto come un immortale. Basta pensare alla retorica in cui intingono le imprese di Lord Byron, i vagabondaggi di Walt Whitman, le smargiassate poematiche di Victor Hugo. Cito solo autori dell’Ottocento, perché nel secolo scorso nessuno ha fatto ciò che ha fatto d’Annunzio, che ha crogiolato la propria istrionica individualità non solo nell’alcova letteraria ma anche nell’azione, nella presenza. Omerico, uomo fuori dal tempo perché autore del proprio tempo, d’Annunzio ha forgiato la storia dell’arte e ha cambiato la Storia, ha fatto e disfatto, ha impalcato i miti di cui ha abusato il Fascismo e sfotteva il Duce, è stato rivoluzionario e carismatico, capopopolo e icona di se stesso, animatore di folle e esegeta del proprio ego. “Ho sempre vissuto contro tutto e contro tutti, affermando e confermando ed esaltando me medesimo… ho giocato col destino, ho giocato con gli eventi, con le sorti, con le sfingi e con le chimere”, scrive nel suo Libro segreto, al termine della parabola, nel 1935. Esteta in guerra, ideatore di slogan e di simboli corroboranti – durante la Grande guerra, il fatidico volo su Vienna e la ‘Beffa di Buccari’ – il fato di Gabriele d’Annunzio è all’apice un secolo fa, nel 1919, con la presa di Fiume, laboratorio artistico (chiedere a Giovanni Comisso) e politico (l’eccellente “Carta del Carnaro”) e sessuale e sociale, preludio ai beat e al Sessantotto, ululato delle minoranze, riassunto di ogni contraddizione, l’epica dell’istante e dell’irripetibile. Insomma: un poeta che preda una città, un artista avventuriero e visionario che si erge a guida di una nuova ipotesi di civiltà. Chi non sente l’elettrificazione dell’epica, in quel ciclo di albe che hanno annullato le distanze tra antica Grecia e romanzo di fantascienza? Sui “Cinquecento giorni di rivoluzione. Fiume 1919-1920” lo studio più dettagliato, autorevole – ma che ha fibra narrativa – non poteva essere che quello di Giordano Bruno Guerri: quasi 600 pagine stampate da Mondadori con un titolo eccellente, Disobbedisco. Storico che ama riabilitare gli irriverenti e i vinti (ha scritto di Giuseppe Bottai e di Galeazzo Ciano, di Curzio Malaparte e di Italo Balbo, di Ernesto Buonaiuti e di Filippo Tommaso Marinetti), presidente e direttore generale della Fondazione Vittoriale degli Italiani, l’ho chiamato al dialogo. (Davide Brullo)
Giordano Bruno Guerri è presidente della Fondazione Il Vittoriale degli Italiani
Fiume: ai suoi occhi l’Impresa è stata l’alcova del Sessantotto e di alcuni temi del tempo presente, ha anticipato “la spettacolarizzazione della politica, la distorsione della realtà tramite la propaganda, la ribellione generazionale, l’avanguardia e la festa come mezzi di contestazione, la rivolta contro la finanza internazionale, il conflitto tra nazionalismi, i volontari che lasciano i paesi d’origine per combattere guerre globali, la libertà sessuale e di abbigliamento, il ribellismo e la trasgressione”. Di per sé è l’ultima utopia del poeta che guida un esercito, un regno. Quali valori estetici e culturali preparano questa Impresa, danno impeto al non più giovane D’Annunzio?
Per capire il comandante di Fiume bisogna capire d’Annunzio, che è stato un irrequieto rivoluzionario in ogni stagione della sua vita. Da giovane scrittore, ha scosso l’Italia mettendola di fronte alle sue contraddizioni. I suoi romanzi e i suoi drammi sono veri studi antropologici che indagano ogni volto della società del tempo, dai vertici alle radici contadine. A Roma, a Napoli, a Firenze, a Parigi ha lasciato traccia di sé tra gli spiriti più geniali e inquieti dell’epoca. Quando scoppia la Prima guerra mondiale, d’Annunzio s’innamora di quel cataclisma, non solo per patriottismo. Nel grande conflitto vede, come molti altri intellettuali del tempo, l’inizio di una rivoluzione. Fin dai suoi primi discorsi interventisti si rivolge ai giovani, invitandoli a rinnovare la Nazione e la società. Durante la guerra s’impegna in prima linea per motivare i cittadini in armi. Per il ‘poeta soldato’ e per molti giovani rivoluzionari, la guerra contro l’Impero asburgico rappresenta soprattutto l’opportunità di plasmare la società del futuro. Ma al termine della guerra è chiaro – e a d’Annunzio più di tutti – che quelle aspettative sono state disilluse e che il mondo non è affatto cambiato. Migliaia di giovanissimi che avevano conosciuto la violenza e l’avventura, tornarono a casa gonfi di rabbia contro quel sistema che li aveva gettati in trincea e che li riportava a una normalità cui non erano più abituati, governata da una politica distante e estranea, che non capivano e non li capiva. La questione della “Vittoria mutilata”, della mancata annessione di Fiume e della Dalmazia erano certo questioni vitali per il poeta, da sempre tenace sostenitore di una “Grande Italia”. Ma nella mobilitazione irredentista, d’Annunzio vede soprattutto l’inquietudine di un’intera generazione tradita dalle istituzioni. Per questo, prendendo la guida della ribellione fiumana, fin da subito la presenterà come una rivolta generazionale contro l’ordine costituito. Sognerà una rivolta di tutti gli oppressi della terra, scriverà una costituzione rivoluzionaria e vivrà per cinquecento giorni circondato da giovani, lui quasi sessantenne. È qui, a mio parere, la radice psicologica e morale del d’Annunzio fiumano: quella di un rivoluzionario che, come tutti i vecchi rivoluzionari, cerca una seconda giovinezza, e la trova in una generazione che sembra perduta. In cambio, le trasmetterà il suo immaginario sconfinato e la sua irrequietezza visionaria. Uno scambio che purtroppo molti non capirono, o travisarono, o plagiarono. Come il fascismo, che sfruttò quella generazione e le visioni dannunziane, trasformandoli in strumenti della politica totalitaria.
I rapporti tra Mussolini e D’Annunzio. Lei ricorda che il Vate ‘battezzò’ a male parole Mussolini all’epoca della presa di Fiume. Anche quando Mussolini fu Duce, il politico guardò sempre con sospetto le bizze estetiche del Vate. In quale misura D’Annunzio è stato profeta e antesignano del fascismo?
A Fiume d’Annunzio dimostrò che la politica tradizionale e lo stato democratico potevano essere sfidati e abbattuti. Il fatto che sia rimasto a Fiume per sedici mesi a dispetto del mondo intero, che cittadini, legionari e sostenitori potessero essere motivati tramite cerimonie, discorsi e visioni esaltanti, era il chiaro segnale che si stava affermando un nuovo tipo di politica fondata sul carisma, sulle emozioni e sui rituali di massa. Da questo punto di vista, l’esperimento dannunziano costituì un esempio per Mussolini, che si proclamò suo “soldato” fin dal primo momento. Poi lo tradì due volte: prima, lasciando che il governo italiano scacciasse i legionari da Fiume, poi saccheggiando i riti, i simboli e i reduci dell’Impresa, includendoli nel movimento fascista. Saccheggiò tutto dall’Impresa, tranne ciò che era più importante: la sua essenza libertaria e visionaria. D’Annunzio non era certo un democratico: credeva in uno Stato forte, che educasse e guidasse il cittadino. Ma la sua visione prevedeva masse elevate culturalmente e moralmente, non inquadrate nello Stato caserma che il fascismo creò dopo il 1925. Ciò nonostante, il poeta scelse di rimanere in Italia. In fondo sapeva di essere un fantasma vivo e ingombrante per quel regime che a lui doveva gran parte dei suoi miti e dei suoi riti. “Nel movimento cosiddetto fascista il meglio non è generato dal mio spirito?”, scrisse provocatoriamente a Mussolini. Considerava dovuti e necessari gli onori che il regime gli tributava per ottenere il suo silenzio, che amava interrompere di tanto in tanto con gesti di sfida o di sberleffo. Quando, dopo l’annessione di Fiume nel 1924, Mussolini lo nominò principe di Montenevoso, il Vate scelse il motto “Immotus nec iners”: fermo ma non inerte. A dimostrazione che era più vivo e indipendente che mai rispetto alla dittatura che l’aveva eletto suo simbolo. E lo dimostrò fino all’ultimo, quando si oppose apertamente all’alleanza tra Mussolini e Hitler.
D’Annunzio ‘politico’, dalla parentesi Parlamentare del ‘salto della quaglia’ in qua: puro esibizionismo o audace lungimiranza?
Né l’uno, né l’altra. Per d’Annunzio, la politica non era che un mezzo per esprimere la propria complessa visione del mondo. Più è vasto e tormentato un percorso intellettuale, più è difficile costringerlo in gabbie ideologiche precostituite. D’Annunzio, nella sua vita artistica, politica e anche spirituale, avvertì sempre il bisogno di attingere contemporaneamente a universi differenti. L’esigenza di diffondere le sue intuizioni sempre nuove, mediate da un’acuta percezione dello spirito dei suoi tempi, lo spinse a frequentare diversi orizzonti politici. Grazie all’agiata borghesia da cui proviene, entra in Parlamento come deputato di destra, ma quando si tratta di difendere la libertà di pensiero, non esita a spostarsi pubblicamente tra i banchi della sinistra. Durante la lotta per l’intervento in guerra la sua duttilità politica diventa un’arma formidabile contro i neutralisti: condivide il programma della destra nazionalista, ma adotta i miti, i riti e i valori della tradizione mazziniana, garibaldina e repubblicana. Anche grazie ai suoi discorsi e ai suoi articoli, che sanno rivolgersi agli uni e agli altri, fu possibile creare un grande coalizione politica interventista. Ma è a Fiume che d’Annunzio sperimenta la massima espressione del suo sincretismo ideologico e filosofico, fondendo patriottismo e ribellismo, nazionalismo e sindacalismo rivoluzionario. Il nuovo e ribollente crogiolo di idee contenute nei suoi proclami fiumani darà vita a un movimento politico: il fiumanesimo. Sarebbe sbagliato identificare nella modernissima Carta del Carnaro la massima espressione del pensiero politico dannunziano, che anche dopo Fiume continuerà a elaborare, sperimentare, evocare nuove forme di coscienza civica e patriottica: nel Libro ascetico, pubblicato nel 1926, il Vate elaborerà un nuovo senso di appartenenza nazionale nell’Italia rinnovata dalla guerra ma sconvolta dall’ascesa del fascismo. La sua variegata esperienza politica ruota intorno a dei pilastri ricorrenti: la tutela del patrimonio monumentale e paesaggistico; l’educazione alla bellezza e all’armonia; il culto della Nazione come sorgente di identità individuale e collettiva; l’intreccio tra celebrazione del passato e proiezione verso il futuro. Pur di realizzarle, d’Annunzio non si precluse mai alcun orizzonte politico, dialogando con tutti, conservatori, repubblicani, fascisti, comunisti e anarchici. “Io non ho mai temuto i contagi”, affermò in un’intervista del 1922: “Né ho mai temuto di trarre al servigio della mia causa bella le forze più pericolose”.
Quali sono gli aspetti ‘rivoluzionari’, imitati, ‘attuali’ – parola orribile per chi mira agli assoluti – della Carta del Carnaro?
La Carta dannunziana fa impallidire molti testi costituzionali vigenti oggi nel mondo. Laicità dello Stato, parità tra i sessi, eleggibilità di ogni cittadino a partire dai venti anni, autonomia locale, tutela delle minoranze, istruzione primaria gratuita, assistenza sociale per malattia, invalidità, disoccupazione, vecchiaia. I lavoratori sono inseriti in un sistema corporativo che ambisce a porre fine al binomio padroni-oppressori e proletari-vittime. Un corporativismo sperimentale che intende proteggere concretamente i deboli e intrecciare il bene dell’individuo a quello della collettività. Rivoluzionario è l’articolo sull’etica del lavoro, che oltre a essere un fondamento dello Stato – anticipando la Costituzione repubblicana del 1946 – deve essere una “fatica senza fatica”, vera realizzazione delle energie creatrici dell’uomo. Tali principi, com’è noto, furono elaborati dal poeta con Alceste De Ambris, celebre teorico del sindacalismo rivoluzionario. Ma i principi più rivoluzionari sono quelli pensati e scritti dal poeta, che vi trasmise tutta la sua sensibilità per la bellezza e l’armonia. Prevedette la costituzione di un collegio di architetti e urbanisti con il compito di curare la salubrità delle case, difendere il paesaggio, pianificare l’urbanistica secondo principi di armonia, allestire manifestazioni pubbliche. Una sensibilità che anticipa la lotta per la difesa dell’ambiente e del territorio, della qualità della vita nelle città. Una lotta oggi più che mai necessaria e che troverebbe nella Carta del Carnaro un manifesto vivo e sferzante.
Perché Fiume non ha avuto altro esisto che una estatica parentesi nella Storia? Cosa vince? La ragion di Stato contro quella lirica, la politica sull’estetica? E poi… quale tra i fiumani le sembra il più rappresentativo di un istante irripetibile?
L’Impresa di Fiume maturò in un momento affascinante e drammatico, in un mondo sconvolto dalla Grande Guerra e che cercava nuovi significati. A Fiume confluirono uomini di tutte le età e le convinzioni: si confrontarono, si fusero, si azzuffarono. Va anche detto che d’Annunzio non era un abile capo politico e, nella sua ansia di attirare le forze più diverse, fece molta confusione provocando conflitti e ripensamenti tra i suoi stessi seguaci. Tuttavia credo che il poeta fosse intimamente soddisfatto di quel grande crogiolo ribollente, impossibile in altri tempi e in altri luoghi. Quel momento non poteva durare in eterno, ma sarebbe rimasto la sua opera più grande (“Un’opera con le altrui vite” lo definì). Sapeva che i suoi seguaci, qualsiasi direzione avessero preso o qualunque fosse la loro convinzione, avrebbero ricordato Fiume come un’esperienza irripetibile. Per questo motivo credo sia difficile scegliere un solo istante dell’Impresa più irripetibile di altri: tutto ciò che accadde in quei sedici mesi avventurosi, dalla conquista pacifica della città alla creazione di una flotta pirata, fu possibile solo in quella città di confine, in un momento di transizione tra due epoche, per opera di un uomo capace di cogliere gli umori di un mondo in trasformazione. Credo valga per tutta l’Impresa ciò che d’Annunzio dichiarò nell’aprile 1920 riguardo la Carta del Carnaro: “Anche se l’annessione ci impedisse di attuare la Costituzione in tutte le sue forme, questa potrebbe sempre rimanere come un esempio a tutto il mondo dell’aspirazione di un popolo e di un gruppo di spiriti”.
Senta ma… la sua vita, di fatto, è consustanziale a quella di D’Annunzio: perché? Cosa la affascina di D’Annunzio, irresistibilmente? E cosa, soprattutto, non le piace?
Nego che sia “consustanziale”. A parte l’evidente differenza di genio, io per esempio sono padre e sposo esemplare… Di d’Annunzio mi affascina la molteplicità del genio, sintetizzato in quel capolavoro che è il Vittoriale, “Libro di pietre vive”: sono fiero di averne risollevato le sorti, facendone un luogo amato, visitatissimo, culturalmente e socialmente vitale, con un bilancio economico affatto dannunziano, cioè in attivo.
Cinga con un aggettivo gli italiani e con un altro l’Italia.
Non mi esercito nei miracoli linguistici.
Marinetti, Malaparte, Van Gogh, Balbo, Bottai, Ciano, D’Annunzio, ovviamente. Lei è attratto dagli irrequieti, dagli anomali, dai personaggi ‘da romanzo’ – che però non romanza ma inquadra e squaderna. Di chi vorrebbe scrivere, ora?
Oltre l’irrequietezza e l’anomalia, hanno tutti in comune una vulgata a mio parere erronea, grossolana, che ho cercato di cambiare. Scrivere di storia è una tale fatica che non ne vale la pena, se non si ha da dire qualcosa di nuovo e di originale. Il prossimo libro? Glielo posso dire, tanto nessuno sarà tentato dal rubarmi l’idea: un vero romanzo, ispirato alla storia della mia famiglia contadina e a me.
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