#Stracci della Memoria
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Volano gli stracci e l’audience aumenta
Non è il titolo di una pièce teatrale, ma, la cartina al tornasole dell’attrattività dei programmi di basso e infimo contenuto, della tv commerciale.
Sgombriamo il campo da ogni equivoco, specificando che, anche i programmi di basso contenuto sono nei palinsesti della televisione del servizio pubblico, proseguendo una china di inarrestabile caduta verso il nulla.
In questo panorama di desertificazione culturale, si salva, in Rai, qualche programma degno di nota, sia esso per il pubblico giovanile, che per il pubblico più anziano (la cui componente è maggioritaria – come riportato dai dati Auditel), sebbene sempre meno giovani - con scolarizzazione elevata - disertano la tv (di servizio pubblico o commerciale) per altre forme di intrattenimento, mentre i più anziani (con titoli di studio più bassi) prediligono i programmi tv spazzatura (più del 70% dei contenuti dei palinsesti).
Ulteriore chiarimento, per tacitare chi vede nel post del classismo e interpreti secondo propri Bias: rientro nella ctg 60, seguo in replica i programmi tv (mai quelli spazzatura), quando possibile e se interessanti; di fatto non faccio/sono target per le inserzioni pubblicitarie.
Lungi dal giustificare/accettare le scelte strategiche e aziendali, che hanno preferito far slittare il programma di A.Angela a settembre, con o senza il proprio consenso poco importa, ma, preme sottolineare l’altro aspetto di questa grottesca vicenda: i programmi a contenuto più scientifico/culturale, non possono tenere il passo con gli stracci volanti dei format, delle corna, dei palestrati e delle labbra siliconate, persino dei giochi olimpici moderni (breakdance, skateboard, bmx etc.)
In breve la cultura (scientifica o umanistica, seppur accennata in formato televisivo), non rende, non attrae, non stimola riflessioni e approfondimenti, anche per mera curiosità personale.
Il nulla, di contro, ma, non il nulla di Parmenide memoria, o, il non ente di Heiddeger, o l’inconsistenza concettuale del nulla di J. Locke, piuttosto il nulla inteso come disvalore negativo assoluto, è la pietra angolare dell’auditorium televisivo italico.
Che tristezza.
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altro giro. oggi 7-6-7/6-7-8: sotto il fuoco, l'acqua sopra. due linee mobili.
esagramma iniziale:
63 既 濟 Ki Tsi / Dopo il Compimento
L'Immagine
L'acqua è al di sopra del fuoco:
L'immagine dello stato dopo il compimento.
Così il nobile pondera la disgrazia e se ne premunisce a tempo.
Quando l'acqua nella caldaia sta sospesa al di sopra del fuoco i due elementi sono in rapporto, e questo produce forza (la produzione del vapore). Ma la tensione che ne nasce impone prudenza. Se l'acqua trabocca il fuoco viene spento, e l'effetto della sua forza va perduto. Se il vapore è troppo grande l'acqua evapora sperdendosi nell'aria. Gli elementi che qui stanno in rapporto e così producono forza, sono di per sè nemici. Solo l'estrema prudenza può evitare il danno. Così vi sono anche nella vita delle situazioni nelle quali tutte le forze sono equilibrate e cooperanti, e quindi tutto sembra essere in ordine perfetto. E solo il saggio riconosce durante tali tempi i segni del pericolo, e sa scongiurarli con tempestive misure.
le linee mobili (mutanti)
Sei al secondo posto significa: La donna perde la cortina della sua carrozza. Non correrle dietro, dopo sette giorni la riottieni.
Quando una donna andava in carrozza aveva una cortina che la nascondeva agli sguardi dei curiosi. Se questa cortina andava perduta sarebbe stato contrario al buon costume continuare la strada. Trasferito sulla vita pubblica ciò significa che qualcuno che vorrebbe eseguire un'opera proficua non incontra da parte superiore quella fiducia della quale avrebbe, per così dire, bisogno, per essere protetto. Proprio nei tempi dopo il compimento si può constatare che coloro che dominano diventano superbi ed altezzosi e non si curano più di favorire con affabilità i talenti ignoti. Da ciò nasce di solito la caccia ai posti. Quando dall'alto non viene concessa fiducia ognuno cerca vie e mezzi per suscitarla e per mettersi in luce favorevole. Questo metodo indegno è però da sconsigliarsi. ″Non ricercarlo″. Non sperperare i tuoi sforzi verso l'esterno, ma aspetta tranquillo, e coltiva indipendente i pregi del tuo carattere. I tempi mutano. Quando i sei gradi del segno sono passati viene l'era nuova. Quello che ci appartiene non si può perdere per sempre. Ritorna a noi con naturale spontaneità. Bisogna solo saper aspettare.
Sei al quarto posto significa: Anche le vesti più belle danno stracci. Tutto il giorno sii prudente.
Nei tempi in cui la civiltà fiorisce avviene sempre gualche scossa che rivela una crepa interiore della società, e che poi in un primo tempo suscita gran scalpore. Siccome però la situazione generale è favorevole, tali strappi si lasciano facilmente rammendare e nascondere al pubblico. Allora tutto svanisce dalla memoria, e sembra quasi che regni la più serena pace. Ma per gli uomini ponderati tali incidenti sono seri indizi, che essi non negligono. Solo così si possono allontanare le brutte conseguenze.
esagramma finale
43 夬 Kuai / Lo Straripamento (la Decisione)
L'Immagine
Il lago è salito al cielo : L'immagine dello straripamento.
Così il nobile largisce ricchezza verso il basso
Ed è schivo di soffermarsi presso la sua virtù.
Quando l'acqua del lago è salita al cielo vi è da temere un nubifragio. Il nobile considera ciò come un avviso e prende a tempo le misure atte ad impedire un crollo catastrofico. Chi volesse accumulare ricchezza solo per se stesso senza pensare agli altri dovrà certamente assistere al proprio crollo. Giacché ogni accumulamento è seguito da una dissipazione. Perciò il nobile, già mentre accumula, dissipa. Così pure nella formazione del suo carattere egli sta attento a non irrigidirsi in caparbietà, ma a mantenersi, compiendo costantemente un severo esame di se stesso, accogliente verso le impressioni esteriori.
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quanta prosoché. quanta praemeditatio malorum. ma il vero insight, lo spunto su cui riflettere, è sulla causa della forza: due elementi che vengono messi in rapporto.
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Preso alla lettera Ti scrivo per consegnarti le parole che la sera al telefono non è semplice gestire, in bilico sul sapore che resta della trattoria e lo spazio di queste stanzette, che annullano qualsiasi istinto territoriale e ti fanno eterno straniero. Ti scrivo in punta di polpastrello, sperando che lo schermo sia più veloce del sangue che carica le mie solite stilografiche. Ti scrivo dopo aver salutato l'alba senza vederla, affogato nel buio necessario regalato dalla tapparella per risparmiare a questo pulsare di vita del cortiletto, l'ombra del mio corpo pesante e nudo che muove il suo passo coattivo da qui a lì e da lì a qui, come la fiera del circo stipata nel gabbione tra un numero e l'altro. Ti scrivo per dirti di questa città che attraverso cercando e scoprendo ma restando in bilico come non m'era mai capitato. Fuggo la disposizione nevrite al nulla che scambiano per il tutto lasciandomi stupito, che è la cifra del mio presente, quello con cui sono arrivato a misurarmi ora. Ma ne ho viste di cose io, mi ripeto mentre il sonno mi saluta e mi lascia nel letto a ascoltare nelle cuffie questo sassofono napoletano e amico che mi recupera al respiro. Ti scrivo da una stanza che mi hai prenotato da lontano, scegliendo a caso che quella è la regola dell'ennesimo gioco che ci siamo inventati e mi accorgo che se mangiare a un tavolo da solo la sera mi piace, non si può dire lo stesso per il letto. Non mi piace dormire solo in un letto. In spiaggia, nel bosco, in treno, su un lembo di prato a bordo strada, in macchina ho dormito milioni di volte e da solo ma nel letto mi manca quella sensazione di un corpo altro, di un respiro altro. Ti scrivo come a salutarti con la prudenza delle parole, come accostassi a un molo senza abitudine. Scrivo e conto i passi che mi dividono dal bar del mattino che deve bastare. A pranzo passeggio per strade sempre diverse, non lo crederesti ma il tempo del pranzo lo passo da solo a camminare e a fermarmi sui ponti per guardare quel garbuglio di storie che fa intuire la forza dell'acqua che trascina. La mia prodigiosa memoria a pranzo mi lascia al presente e basta. Ancora non lo crederesti. Così passo davanti alla chiesa di Sant'Andrea Apostolo, che quel santo porta il nome di mio fratello e già per questo mi piace. Ogni giorno c'è questa coppia di barboni e lei è anziana e ha piedi gonfi e la faccia pure, segnata dall'abitudine al merdosissimo vino nei cartoni e con la pelle conciata dal caldo e dal freddo, dal freddo e dal caldo. Lui è più giovane, alto e vestito sempre con un tocco folle. Cuffie rosa e gialle di lana e un mantello scuro e scarpe fuori tempo e misura. Tengono mille masserizie ordinate in un cubo monolitico di coperte e stracci. Lui legge giornali, lei guarda la gente che sfila. Parlano fitto tra loro e si bastano. Ieri sono passato nel tardo pomeriggio e lei cingeva il ragazzo in un abbraccio che accoglieva un abbandono disperato e vinto. La marea mugghiante dei turisti passava diretta all'arte raccontata dalle guide e nessuno s'avvedeva di quella formidabile Pietà. Ti scriverò ancora da questi letti dormiti a caso. Sembra un buon trucco per dar tregua al calore bianco di questo amare che mi brucia da una vita.
la ballata dei passi e della passione: preso alla lettera
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Di noi che cosa fugge sul filo della corrente? Oh, di noi una storia che non ebbe un seguito stracci di luce, smorti volti, sperse lampàre che un attimo ravviva e lo sbrecciato cappello di paglia che questa ultima estate ci abbandona. Le nostre estati, lo vedi, memoria che ancora hai desideri: in te l’arco si tende dalla marina ma non vola la punta più al mio cuore. Odi nel mezzo sonno l’eguale veglia del mare e dietro quella certe voci di festa.
E presto delusi dalla preda gli squali che laggiù solcano il golfo presto tra loro si faranno a brani.
— Vittorio Sereni, Gli squali.
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Possiamo soltanto amare il resto non conta, non funziona, al mattino appaiono la tazza, il vecchio pino, le zolle umide, fumo dell’alito mentre apri l’auto nel gelo. Potevano non apparire, non arrivare più qui, alla riva degli occhi. E l’estate c’era, c’è nella calda bruna memoria dei rami tagliati, i visi diventano ricordi
le voci gridate stracci silenziosi –
i denti conoscono il sapore del niente, e l’oblio che ha portici e portici infiniti.
Possiamo soltanto amare strappandoci felicemente figli dalla carne parlando d’amore continuamente ubriachi, feriti, vili ma con gli occhi lucenti come laser di fiori splendidi e il canarino nel palmo della mano.
Mormorare come dare baci nell’aria.
Il rametto profumato non si raddrizza con i colpi della nostra ira, lo sguardo di tuo figlio non perde il velo di tristezza se glielo togli mille volte dal viso… Possiamo soltanto amare fino all’ultimo nascosto spasmo che nessuno vede e diviene quella specie di sorriso che si ha nell’abbraccio finalmente di morire come scendendo nell’acqua.
Le stelle a miriadi saranno testimoni, e i venti passati una volta accanto sulla gioia profonda delle ossa diranno: era fatto di allegria, amava, oppure non diranno niente e poi niente per sempre.
Possiamo soltanto amare, il resto è il teatro amaro dell’impotenza sotto il sole giaguaro.
Davide Rondoni, da La natura del bastardo
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Ho chiesto aiuto a Dio una volta sola Mi ha buttato a terra e poi mi ha preso a calci Tornai a casa con un occhio viola Ma ho imparato cosa vuol dire fidarsi La miseria non sta solo negli stracci Nei ragazzini che giocano scalzi So che un sogno vale più di ogni altra cosa Quindi guardatevi dentro, siete voi i poveracci
Condividiamo lo stesso dolore Per questo nelle mie parole ti ritrovi Ma puoi perderti se entri nel mio cuore Intricate geometrie di rovi La felicità va conquistata Quindi preparati perché la guerra è appena cominciata Lacrime di rugiada sopra i caschi dei soldati Caduti per strada in questo scontro Io contro me stesso E il mio riflesso nello specchio lo prendo a testate Lascio il sangue sopra il muro ops, scusate Stendo quattro strisce sul mio disco E tiro su dal naso la cenere nera di vecchie poesie bruciate Sono ciò che mancava al rap di adesso Uno schizzofrenico depresso mezzo pazzo Metto su YouTube un video in cui mi tiro fuori il cazzo Guardalo e facci una rap reaction Non puoi fermarmi e chi ci prova si scava la fossa Sono letale come un cobra che stringe la morsa Senza catene d'oro Puttana salirò sul palco con una collana fatta con le loro ossa Dentro quattro mura di cemento Ma più passa il tempo Più mi sento che divento violento e brutale Rinchiuso nella mia prigione mentale I miei occhi sono le finestre da cui guardo il mondo bruciare
Notti infinite aspettando quell'alba che non sorgerà Pensavo soltanto a una cosa, fuggire lontano da qua Ricordo avevo solo il buio intorno So che avrei dato luce a questo sogno Io lo sapevo, ci credevo, me lo ripetevo ogni maledetto giorno
Ogni maledetto giorno, ogni maledetto giorno Ce l'avrei fatta, lo sapevo, ci credevo Me lo ripetevo ogni maledetto giorno Ogni maledetto giorno, ho detto ogni maledetto giorno Io lo sapevo, ci credevo, me lo ripetevo ogni maledetto giorno
Ho chiesto aiuto al diavolo una volta sola Mi ha teso la mano per rialzarmi Mi ha dato un microfono ed una pistola Poi se n'è andato senza salutarmi Per caricare e calibrare ogni parola Sputo proiettili dalla mia gola Perché so cosa vuol dire stare male Fino a diventare tu quel mostro che ti divora E allora sali su quella montagna Ma se scivoli, se cadi ancora, ci riprovi ancora E quando sarai in cima salta, chiudi gli occhi e tira i dadi Apri le tue ali e vola Sognavo di non essere mai nato Pensavo che sarei finito accoltellato Che sarei impazzito, poi tutto è cambiato Quando questa musica mi ha impossessato È stato il rap che mi ha salvato Sarò sempre grato a Bassi Maestro Lui non lo sa ma è stato il mio maestro "Succhiatemi il cazzo", ricorderò per sempre quella canzone So a memoria ancora tutto il testo Ero ragazzino, rimasi scioccato Quando per la prima volta per caso ascoltai quel pezzo Mi ha insegnato che se hai merda da sputare Cristo santo, devi farlo, non esiste via di mezzo Io griderò per la gente come me Come me quella gente griderà Per la mia città Per chi non ce la fa Griderò per chi è sempre giù Per chi non c'è più però è sempre qua Per le cicatrici e i lividi Per tutte quelle cose orribili che ancora io mi porto dentro Questa penna è la chiave della prigione Stronzo comincia a scappare, le porte si stanno aprendo
Notti infinite aspettando quell'alba che non sorgerà Pensavo soltanto a una cosa, fuggire lontano da qua Ricordo avevo solo il buio intorno So che avrei dato luce a questo sogno Io lo sapevo, ci credevo, me lo ripetevo ogni maledetto giorno
Ogni maledetto giorno, ogni maledetto giorno Ce l'avrei fatta, lo sapevo, ci credevo Me lo ripetevo ogni maledetto giorno Ogni maledetto giorno, ho detto ogni maledetto giorno Io lo sapevo, ci credevo, me lo ripetevo ogni maledetto giorno
Notti infinite aspettando quell'alba che non sorgerà Pensavo soltanto a una cosa, fuggire lontano da qua Ricordo avevo solo il buio intorno So che avrei dato luce a questo sogno Io lo sapevo, ci credevo, me lo ripetevo ogni maledetto giorno
Ogni maledetto giorno, ogni maledetto giorno Ce l'avrei fatta, lo sapevo, ci credevo Me lo ripetevo ogni maledetto giorno Ogni maledetto giorno, ho detto ogni maledetto giorno Ogni maledetto giorno
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La risposta del vento scompiglia le mie inutili domande.
Perché il tempo passa anche senza lasciare tracce, nel bene quanto nella misura del male
Perché il vento spazza anche sulle nostre facce, scorre sotto le vene fin quando il pianto sale.
Perché sento che niente resta oltre la misura delle cose vissute, brandelli di memoria come stracci lisi dal tanto vivere.
Perché ieri è già passato, fresco archivio nel settimino delle nostre stagioni...
Perché domani si farà posto anche senza chiedere il permesso, perché vivere è un dritto nel stomaco sul rovescio della medaglia di un tempo che non sarà mai nostro finché non sarà passato.
Il valore dell' acquisito è un posto in prima fila, nella nostra memoria a lungo termine.
@vefa321
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“Ad Auschwitz si va sempre e solo a sinistra. Non c’è una volta, in oltre tre ore di visita, che Beata e poi un lunghissimo cognome polacco, guida in lingua italiana del museo del campo di sterminio nazista, dirà di andare a destra. Anzi, una volta lo dirà, cioè alla fine della visita, quando ci porterà ai resti dei forni crematori di Birkenau o se preferite Auschwitz II. D’altra parte andava così anche nella realtà del campo di sterminio. Appena scesi dai treni merce c’era la prima selezione: se il medico SS indicava a destra era la camera a gas per i più deboli, a sinistra la morte più lenta nelle baracche.
“Qui sono state ammazzate un milione e trecento mila persone, di queste oltre un milione e cento erano ebrei”. Dice “ammazzate”, non un generico “sono morte”: “ammazzate”, punto. E guardandoti negli occhi snocciola i numeri: ebrei, polacchi, prigionieri sovietici, rom, intellettuali critici, partigiani, omosessuali. Ma poi puntualizza, per anticipare fraintendimenti: “ma più del 90 per cento ebrei”.
E io guardo e non capisco. Non riesco a immaginarlo. Vedi tutto. Vedi quel che resta, quel che è stato ricostruito, le tonnellate di capelli, i quintali di occhiali, le divise macilente, le foto dei forni crematori in funzione, le perle di zyklon B (il gas letale), le baracche, vedo ma non riesco a figurarmelo.
E mi accorgo che supera la mia comprensione perché finisce sempre male e sempre senza un motivo accettabile, umanamente accettabile. Se sei la mamma che scende dal treno con i suoi bimbi e il neonato in braccio e non vuoi separarti dai tuoi piccoli, muori. Se sei un uomo con il bastone muori. Se sei piagato da un viaggio di una settimana in un vagone merci, muori. Se alla SS dici di avere tredici anni, muori. Se il tuo treno è il quinto ad arrivare a Birkenau, muori. Tu arrivi qui e muori e non c’è un perché. Muori perché sei ebreo e muori perché ingenuamente ti fidi della SS che, nello spogliatoio della camera a gas ti dice di ricordarti del numero di gancetto a cui appendi i vestiti perché poi li dovrai riprendere. Ma il poi non ci sarà. Muori settecentomila volte.
Ma mettiamo invece che la selezione la superi. Morirai, insieme ad altri cinquecento mila, ma lo farai molto più lentamente di quelli finiti subito nelle camere a gas. Morirai di fame dopo solo sei mesi di prigionia. Sei mesi dove non sarai più una persona, ma una cosa con un numero tatuato sul braccio sinistro. “Le donne sopravvissute - racconta Beata davanti a foto orribili - pesavano tra i 23 e i 35 chilogrammi, alcune sono morte perché hanno dato loro un pasto normale e il loro corpo non sapeva più assimilarlo”.
I sopravvissuti, già perché qualcuno è sopravvissuto. Gli italiani più famosi li conosciamo. 174.517 era la matricola di Primo Levi. Lo ha scritto chiaro e tondo nei suoi libri che è rimasto in vita solo per caso, per fortuna. Dei 650 con i quali arrivò da Fossoli, si salvarono in venti. 75.190 è il tatuaggio fatto sopra il polso sinistro a Liliana Segre, fa parte dei 776 ragazzini italiani arrivati ad Auschwitz quando non avevano ancora quattordici anni, lei e altri ventiquattro sono sopravvissuti.
Il sopravvissuto lo riesci a immaginare. Ne conosci il volto. I morti, alcuni, li conosci qui. Le foto nei “pigiami” a righe. Ma sembrano lapidi. Sembra un cimitero. Invece questo non è un cimitero, è un massacro. Un massacro di dimensioni tali che la parola non esiste e, anche se ti ci vuoi rifugiare in quella che sembra coniata apposta, la puoi sentire, ma non comprendere. È troppo.
“Anche noi quando pensavamo ai deportati, avevamo vergogna: non avevamo niente da rimproverarci, ma non avevamo sofferto abbastanza”.
Lo scrive Simone De Beauvoir ne I Mandarini ed è per questa frase che sono qui. Però è arrivato qui che mi accorgo dove sta l’inganno.
Io posso cercare di immedesimarmi quanto voglio per cercare di comprendere, ma io non sono un deportato. Io non sono un condannato a morte. Io qui non ci sono finito. E quindi, inequivocabilmente io sto dall’altra parte del filo spinato. Di quel filo spinato elettrificato così tanto che alcuni, esausti, vi si attaccavano per suicidarsi.
Dei miei due nonni uno era partigiano e non l’ho conosciuto, l’altro invece era scappato da Napoli con l’Armistizio e a piedi era tornato a casa in Veneto. Questo nonno l’ho conosciuto e io, beh, ero fiero dell’altro. Di quello che faceva saltare i ponti contro i nazisti e non di quello che da loro si nascondeva. Ma ero troppo piccolo e troppo vigliacco per chiedergli: “nonno ma perché tu non sparavi alle SS, come l’altro nonno”. La paura che mi ha sempre attanagliato a ogni 25 aprile era che io poi non avrei avuto il coraggio del nonno partigiano.
E qui ad Auschwitz la domanda si moltiplica per milioni di morti. È facile oggi dire da che parte sarei stato. Ma settantacinque anni fa io mi sarei chiesto come mai scomparivano i miei compagni di scuola? Avrei saputo non girare le spalle al compagno ebreo? Avrei aiutato qualcuno a fuggire? Avrei avuto il coraggio di nasconderlo? Mi sarei rifiutato di essere il macchinista di un treno del binario 21? E se fossi nato tedesco, avrei saputo oppormi alla “bestia umana”?
È evidente che non c’è risposta o non abbastanza convincente.
Il 27 gennaio del 1945 i sovietici entrarono ad Auschwitz e trovarono poco meno di otto mila prigionieri. Gli altri sessantamila erano stati obbligati dai nazisti ad una marcia di centinaia di chilometri verso altri campi, in giornate a meno dieci come oggi, pochi stracci addosso e zoccoli di legno ai piedi, morirono in quindicimila. Volevano nascondere le tracce della loro disumanità.
Il 27 gennaio è la giornata della memoria. Io il così detto “Tribunale della Storia” lo immagino con gli occhi inquirenti dei miei figli e magari domani dei figli dei miei figli, pronti alla domanda che io non ho saputo fare a quel mio nonno. E li immagino fra un po’ di anni chiedermi: “ma tu da che parte stavi?” e io so che non avrò alibi. “Da che parte stavi quando sono cominciate a ricomparire le svastiche sui muri?”, “Da che parte stavi quando le teste rasate picchiavano per strada i ragazzi omosessuali?”, “Da che parte stavi quando le croci uncinate sono ricomparse, riempiendole, le nostre piazze?”, “Da che parte stavi quando rabbino era il sinonimo di tirchio e tutti sorridevano?”, “Da che parte stavi quando i miei compagni rom scomparivano dalla classe perché il loro campo era stato sgomberato?”, “Da che parti stavi quando lo zio di Mohamed affogava in mezzo al Mediterraneo?”, “Da che parte stavi quando mal vestiti in centinaia attraversavamo le Alpi per raggiungere la Francia dall’Italia?”, “Papà, ma tu da che parte stavi?”.
“Those who do not remember the past are condemned to repeat it” (“chi non ricorda il passato è condannato a ripeterlo”) è la frase di George Santayana all’ingresso di uno dei primi blocchi di detenzione che si visitano. Ogni 27 gennaio io di quello che è stato e di quello che è cerco di avere memoria, ma, perso dalle piccolezze mie, non sono poi così sicuro di riuscirci.”
-William Beccaro-
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Girando per Volterra capiterà quasi matematicamente di entrare dentro il duomo cittadino. La prima cosa che vi rapirà l’occhio, sia che siate amatori o non amatori d’arte, sarà il soffitto a scomparti “alla veneziana”, riccamente decorato con serafini dorati. Se siete poi amatori d’arte verrete catturati da una “Maddalena penitente” di Guido Reni (più aiuti), da una “Caduta di Saulo” del Domenichino e, anche se non ve ne intendete poi così tanto di pittura, è impossibile non rimanere affascinati dalle prime due scene nella navata sinistra: “il Martirio di San Sebastiano” di Francesco Cugni e “L’allegoria dell’Immacolata Concezione” di Niccolò “Il Pomarancio” Cirignani.
Quest’ultima, soprattutto, riesce a ipnotizzare lo spettatore grazie ai suoi colori cangianti, quasi fluorescenti, grazie alle torsioni dei personaggi rappresentati e al tortuoso stile manierista. Il Pomarancio vanta una carriera abbastanza altalenante fra le alte citazioni tibaldesche e michelangiolesche (S. Giovanni dei Fiorentini, Roma; S.Croce in Gerusalemme, Roma), scene civili a Castiglione del Lago e interessanti imitazioni di Pontormo (a Umbertide). Questo tipo di Allegoria dell’Immacolata Concezione è tanto curioso e particolare quanto circoscritto in questa area del nord della Toscana. Nello stesso duomo di Volterra, basterà imboccare il transetto a sinistra, voltarsi di 180 gradi per ritrovare una tavola analoga, dipinta da Cosimo Daddi, ma di poco interesse.
Nella vicina chiesa di San Francesco c’è una variante della stessa Allegoria, in uno stile che può dirsi fra Pontormo e Bartolomeo Cesi. L’autore è Giovanni Battista Naldini, l’opera è degna di nota ma sicuramente rimane all’ombra di questa sensazionale del Pomarancio.
Per risalire ai primi modelli di ispirazione di questa Allegoria (quella del Pomarancio, che è il nostro oggetto, ma anche le altre che vedremo) dobbiamo risalire a Giorgio Vasari che sarà il primo a scegliere un certo tipo di fonti letterarie e, allo stesso tempo, creare un modello iconografico. Nel 1543 realizzerà per Messer Bindo Altoviti, quello che per noi sarà il primo prototipo destinato alla chiesa dei Santi Apostoli, Firenze (Vasari, Ricordanze, p.16).
Vasari decide di mettere in mostra una fusione fra un passo della Genesi (“E io porrò inimicizia fra te e la donna, e fra la tua progenie e la progenie di lei; questa progenie ti schiaccerà il capo, e tu le ferirai il calcagno” Genesi 3,15) e uno dell’Apocalisse (“Poi apparve un gran segno nel cielo: una donna rivestita del sole con la luna sotto i piedi, e sul capo una corona di dodici stelle” Apocalisse 12). Gli altre figure imprescindibili sono Adamo ed Eva, coloro che erano senza peccato ma che, a causa della tentazione del Demonio sono diventati i primi peccatori del mondo e, con il loro gesto, hanno gettato nel Peccato Originale tutta la loro progenie. Ai loro lati i Padri della Chiesa, che possono essere Abramo, Isacco e Giacobbe; a volte Mosè, a volte David; colonne portanti dell’ebraismo e del Vecchio Testamento che però, essendo nati prima di Cristo non possono usufruire del Battesimo. Guardano tutti in alto perché Maria, ha il potere di sciogliere i lacci e le catene del peccato purificando lo spirito peccatore anche di chi è vissuto prima di lei. Gli angioletti intorno alla Madonna sorreggono spesso un carteggio che, nonostante le poche variazioni recita “chi è stato condannato dalla colpa di Eva, sarà salvato da Maria”.
Nel 1541 egli aveva eseguito una piccola tavola come bozzetto, poi sequestrata dai Medici e ora agli Uffizi.
L’invenzione piacque così tanto al Vasari che la replicò varie volte, in perfetto stile di velocità e riproduzione dei modelli, tanto cari al manierismo. Altre copie si trovano nel Museo di Arte Medieval e Moderna di Arezzo (già nella chiesa di S. Francesco):
Una tavola all’Ashmolean Museum di Oxford:
Un’altra del 1543 che fa parte di un trittico con ai lati i Santi Remigio e Biagio, al Museo di Villa Guinigi, Lucca:
Una grande tavola nella Pieve di S. Salvatore a Fucecchi (ma di recente attribuita a Jacopo “Da Empoli” Chimenti.
L’anello di congiunzione con Vasari (visto che prima si era data proprio a lui l’attribuzione) sarà la successiva versione nella Cappella del Ss. Sacramento, nella chiesa di S. Stefano ad Empoli. Qui tutto rimane pressoché identico, si allungano le forme del registro superiore, la Madonna acquista caratteri più cari al futuro Seicento; l’incarnato dolce di Eva si discosta da quello più bruno di Adamo mentre il resto dei colori diventa più squillante. Ma nient’altro cambia.
Fra tutte le altre versioni, la più rocambolesca, affollata come un mercato (o una sauna, a giudicare dalle contorsioni muscolari) è quella di Carlo Portelli, ora alle Gallerie dell’Accademia, Firenze. Sfugge decisamente da tutte le nostre analizzate ma vale la pena darci una veloce occhiata, anche solo per diletto.
Il Pomarancio esegue un’Allegoria dell’Immacolata Concezione a Città di Castello dove sembra essersi ispirato tanto dal modello vasariano quanto da quella dell’Empoli a S. Miniato. Nella versione di Città di Castello emergono, nel registro inferiore, i Padri della Chiesa, i quali tengono un carteggio identificativo; la Madonna, pur nella sua staticità è ornata sia di stelle che di falce di luna mentre, ai suoi piedi ci sono i progenitori, di correggesca memoria e, con un rimando di impostazione alla tavola di Daddi: simile sono adagiati i corpi, seduti e con le mani legate dietro. Ma alle loro spalle vi è il Diavolo che sta compiendo un gesto interessante: sta tirando verso di sé i gli artigli del demonio ghermiscono una grossa catena alludendo alle carni appena corrotte e in suo dominio decisionale.
A San Miniato, l’Empoli rappresenta i corpi di Adamo ed Eva non più penzolanti o morenti ma sono legati l’uno all’altro, come due schiavi e nemmeno si distinguono i lineamenti dei volti, tanto sono oscurati dal peccato originale; anche i loro stracci, alludono ad un momento della loro vita nel quale sono stati scacciati da tempo dall’Eden. La lettura globale dell’opera di S. Miniato, con pochi personaggi, presenti, con forti contrasti fra luci ed ombre, in uno stile più consono alla fine del Cinquecento e con forte lessico didascalico, inserisce la rappresentazione direttamente dopo la svolta dogmatica della Controriforma. C’è il serpente/diavolo, con tanto di ali da drago e corna; la Madonna non cavalca la mezzaluna né si vedono attorno a lei le dodici stelle, ma compare un dettaglio interessante che svelerò fra poco.
La pala del Pomarancio a Volterra, tornando all’inizio del ragionamento, mostra i progenitori legati ma in piedi, opposti fra loro ma speculari. Gli allungamenti delle membra ricordano le anatomie di Rosso Fiorentino mentre i volti delle donne quelle di Pontormo; La donna alla nostra estrema destra, porta delle vesti tanto vaporose che, paradossalmente, mostrano l’ombelico e la punta dei seni; in modo meno surreale, invece, ci ricorda Andrea del Sarto o Pellegrino Tibaldi. Le piccole foglie di vite coprono le nudità dei genitali di Adamo ed Eva in quel modo che tanto bastava al decoro per mostrarsi; le pose sono michelangiolesche, soprattutto nei seni marmorei di Eva che richiama le allegorie femminili delle tombe medicee Intanto la novità della pala di Volterra sta nell’includere alcune figure femminili nel primo registro, forse Sara (moglie di Abramo) ed Ester (moglie di Isacco). Seconda novità è San Francesco che compare in primissimo piano in mezzo ai progenitori, ma questo inserimento è forse da attribuire a decisioni di committenza.
Altra interessante licenza sono le due figure maschili che paiono anch’esse legate dietro Adamo ed Eva; non hanno elementi di riconoscimento se non per un cappello uno e un mantello l’altro. Quest’ultimo presenta l’incarnato tipico di Pontormo e delle sue invenzioni nella Deposizione di Santa Felicita: la sua nuda muscolatura, con tanto di addominali e capezzolo in mostra, è colorata di grigio.
L’ultima innovazione è forse la più interessante: Satana compare con un mezzo busto che fuoriesce in maniera indipendente sia dal tronco dell’albero che dal corpo del serpente. Il serpente dovrebbe presumibilmente avere la testa dentro il cespuglio alberato e, allo stesso modo avvinghia il corpo muscoloso del demonio, che compare senza ali né corna; non ha alcuna caratteristica demoniaca ma solo delle singolari orecchie d’asino. La doppia citazione michelangiolesca risiede in queste orecchie e in questo strano rapporto fra il busto muscoloso del Diavolo e le spire del serpente, dettagli che provengono entrambi dal Minosse nell’Inferno del Giudizio Universale. Capigliatura e torsione ricordano gli schiavi del Louvre, soprattutto se si rimane sui parallelismi col Buonarroti.
In ultimo, ma non in ordine di importanza, anzi, proprio sul finale: il dettaglio che avevo anticipato prima e che solo Jacopo da Empoli sembra aver rappresentato in quasi tutte le sue varianti: la Madonna è incinta. Questo dettaglio è ben espresso in Apocalisse 12, 2 (”Era incinta e gridava per le doglie e il travaglio del parto”), ma può alludere anche al fatto della sua doppia natura ed “entità immacolata”: la sua e quella di suo figlio Gesù. Ricordiamo che ben prima dell’istituzione dell’Immacolata Concezione, effettuata da Papa Pio IX l’8 dicembre 1854, da sempre i dibattiti teologici si sono interrogati su questo tema. Dal Cantico dei Cantici (“… in te nessun macchia…”; Cantico 4, 7), a S. Agostino, Alberto Magno, Bernardo di Chiaravalle... il tema diventò sempre più controverso dal XIV secolo e i dipinti analizzati erano spesso chiamati con il titolo di “Disputa sull’Immacolata Concezione”.
elenco delle immagini in ordine alfabetico: Jacopo Da Empoli Chimenti – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Abbazia di San Salvatore, Fucecchi Jacopo Da Empoli Chimenti – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Cappella del Ss Sacramento, S. Stefano, Empoli, 1596 Jacopo Da Empoli Chimenti – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Museo di S. Chiara, S. Miniato, 1600-10 Jacopo Da Empoli Chimenti – Allegoria dell’Immacolata Concezione, S. Agostino, Prato Niccolò “Il Pomarancio” Cirignani – Duomo di Volterra Niccolò “Il Pomarancio” Cirignani – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Pinacoteca di Città di Castello, 1573 Cosimo Daddi – Allegoria dell’Immacolata Concezione, duomo di Volterra. Giovanni Battista Naldini – Allegoria dell’Immacolata Concezione, S. Francesco, Volterra, 1582 Carlo Portelli – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Gallerie dell’Accademia, Firenze Giorgio Vasari – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Uffizi, 1541 Giorgio Vasari – Allegoria dell’Immacolata Concezione, Ss. Apostoli, Firenze, 1543 Giorgio Vasari – Pala dell’Immacolata Concezione con i Ss Remigio e Biagio negli sportelli laterali, Museo Nazionale di Villa Giungi, Lucca. Giorgio Vasari – Allegoria dell’Immacolata Concezione,Ashmolean Museum, Oxford
#Pomarancio#Vasari#Empoli#Daddi#Volterra#Firenze#Manierismo#Mannerism#Renaissance#Madonna#Immacolata#Concezione#Lucca#Oxford#Miniato
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Una storia di mare e di sangue | Claudio Zonta S.I.
Il 20 giugno si celebra la Giornata Mondiale del Rifugiato. Il termine «rifugiato» porta con sé la fuga nel presente e un passato che in qualche modo non si potrà cancellare, ma rimarrà nel tempo e nella memoria. Una canzone ricorda come questo aspetto sia una costante nella storia altrui, ma anche dell’Italia: si intitola «Venezia 1948», del violinista e cantautore Michele Gazich.
Ascolta il post anche in podcast.
È una canzone che ricorda i profughi della Dalmazia che dopo il ‘47 cominciarono ad arrivare a Venezia, collocati in un campo del quartiere popolare di Cannaregio, «alle spalle dello storico Ghetto ebraico e di fronte all'isola-cimitero di San Michele». In tutte queste esistenze in fuga, che continuano ancora oggi, come dice Gazich, «non c’è stato un eroe, non c’è stato un Omero, non è stata una storia esemplare».
Le vicissitudini dei rifugiati sono prive di eroismi, spesso ricolme di miserie umane; non possiedono la forza di Omero che sfida il fato, i propri limiti, o il desiderio di «virtute e canoscenza». Continua Gazich nel suo profondo recitar cantando: «Odissea di stracci, esodo senza Mosè, ma io so c’è stato dolore». Ancora oggi li vediamo ammassati sui gommoni, coperti di stracci, gente che non appartiene a nessun popolo eletto, come poteva essere il popolo d’Israele durante la fuga dall’Egitto sotto la guida di Mosè. Assomigliano ai tapeinoi (gli umili, i tapini) che vengono innalzati nel Magnificat di Maria (Lc 1,52), ma che vivono il dramma di sperimentare nella loro carne il dolore della persecuzione, dell’esilio, della sconfitta.
La loro vita è riconsegnata ad altri nella speranza di un’accoglienza. Il semplice accompagnamento del pianoforte riprende, musicalmente, la fragilità della scelta della fuga; è tolto qualsiasi orpello, o abbellimento, ma esistono solo gli estremi: le note gravi suonate con forza, per sottolineare il dramma vissuto, altre, più acute, con delicatezza, per esprimere la pace desiderata. Il suono della tromba conferisce dignità a ciò che è misero, perduto, prendendo, forse, il posto dello shofar, strumento sacro biblico della presenza e della potenza di Dio nell’umanità.
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Possiamo soltanto amare il resto non conta, non funziona, al mattino appaiono la tazza, il vecchio pino, le zolle umide, fumo dell’alito mentre apri l’auto nel gelo. Potevano non apparire, non arrivare più qui, alla riva degli occhi. E l’estate c’era, c’è nella calda bruna memoria dei rami tagliati, i visi diventano ricordi
le voci gridate stracci silenziosi –
i denti conoscono il sapore del niente, e l’oblio che ha portici e portici infiniti.
Possiamo soltanto amare strappandoci felicemente figli dalla carne parlando d’amore continuamente ubriachi, feriti, vili ma con gli occhi lucenti come laser di fiori splendidi e il canarino nel palmo della mano.
Mormorare come dare baci nell’aria.
Il rametto profumato non si raddrizza con i colpi della nostra ira, lo sguardo di tuo figlio non perde il velo di tristezza se glielo togli mille volte dal viso… Possiamo soltanto amare fino all’ultimo nascosto spasmo che nessuno vede e diviene quella specie di sorriso che si ha nell’abbraccio finalmente di morire come scendendo nell’acqua.
Le stelle a miriadi saranno testimoni, e i venti passati una volta accanto sulla gioia profonda delle ossa diranno: era fatto di allegria, amava, oppure non diranno niente e poi niente per sempre.
Possiamo soltanto amare, il resto è il teatro amaro dell’impotenza sotto il sole giaguaro.
Davide Rondoni
BUONGIORNO TUMBLR::è bello pensare che amare è risolvere ogni tipo di problema
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Glimpses of Cities / Avamposti Festival
Glimpses of Cities / Avamposti Festival
La Compagnia Instabili Vaganti va in scena ad Avamposti Festival 2019 con un ultimo studio del nuovo spettacolo, che debutterà il prossimo 9 ottobre a Genova. (more…)
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#Anna Dora Dorno#Avamposti Festival#Instabili Vaganti#International Project Megalopolis#Nicola Pianzola#Recensione Glimpses of Cities#Recensione Megalopolis#Stracci della Memoria#Teatro Stabile di Genova
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L’Urlo
Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche, trascinarsi per strade di negri all’alba in cerca di droga rabbiosa, hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte,
che in miseria e stracci e occhi infossati stavano su partiti a fumare nel buio soprannaturale di soffitte a acqua fredda fluttuando sulle cime delle città contemplando jazz (...)
(...) che mordevano i poliziotti nel collo e strillavano di felicità nelle camionette per non aver commesso altro delitto che la loro intossicazione e pederastia pazza tra amici,
che urlavano in ginocchio nel subway e venivano trascinati dal tetto sventolando genitali e manoscritti,
che si lasciavano inculare da motociclisti beati, e strillavano di gioia,
che si scambiavano pompini con quei serafini umani, i marinai, carezze di amore Atlantico e Caribbeo,
che scopavano la mattina la sera in giardini di rose e sull’erba di parchi pubblici e cimiteri spargendo il loro seme liberamente su chiunque venisse,
che gli veniva un singhiozzo interminabile cercando di ridacchiare ma finivano con un singhiozzo dietro un tramezzo dei Bagni Turchi quando l’angelo biondo & nudo veniva a trafiggerli con una spada,
che perdevano i loro ragazzi d’amore per le tre vecchie streghe del fato, la strega guercia del dollaro eterosessuale, la strega guercia che strizza l’occhio dal grembo e la strega guercia che sta li piantata sul culo a spezzare i fili d’oro intellettuali del telaio artigianale,
che copulavano estatici e insaziati con una bottiglia di birra un amante un pacchetto di sigarette una candela e cadevano dal letto, e continuavano sul pavimento e giù per il corridoio e finivano svenuti contro il muro con una visione di fica suprema e sperma eludendo l’ultima sborra della coscienza,
che addolcivano le fiche di milioni di ragazze tremanti al tramonto, e avevano gli occhi rossi la mattina ma pronti ad addolcire la fica dell’alba, natiche lampeggianti sotto i granai e nude nel lago,
che andavano a puttane nel Colorado in miriadi di macchine notturne rubate, N.C., eroe segreto di queste poesie, mandrillo e Adone di Denver — gioia alla memoria delle sue innumerevoli scopate di ragazze in terreni abbandonati & retrocortili di ristoranti per camionisti, in poltrone traballanti di vecchi cinema,
su cime di montagna in caverne o con cameriere secche in strade familiari sottane solitarie alzate & solipsismi particolarmente segreti nei cessi dei distributori di benzina, & magari nei vicoli intorno a casa,
che dissolvevano in grandi cinema luridi, si spostavano in sogno, si svegliavano su una Manhattan improvvisa, e si tiravano su da incubi di cantine ubriachi di Tokay spietato e da orrori di sogni di ferro della Terza Strada & inciampavano verso l’Ufficio Assistenza,
che camminavano tutta la notte con le scarpe piene di sangue su moli coperti di neve aspettando che una porta sullo East River si aprisse su una stanza piena di vapore caldo e di oppio (...)
(testo di Allen Ginsberg - foto in alto di Michael Tighe - NYC 1974)
(foto Burt Glinn - locale di NYC)
La poesia di Allen Ginsberg esplode in uno dei periodi più controversi della storia statunitense. La seconda guerra mondiale è appena terminata e la popolazione appare, nel medesimo tempo, euforica per il significato di quella vittoria, ma terrorizzata da un ipotetico sopravvento del pensiero comunista che avrebbe potuto travolgere le fondamenta democratiche di quel paese recante con sé tutti gli onori e gli oneri del porsi come modello di libertà e di uguaglianza per tutti i popoli.
L’ombra del Maccartismo opprime silenziosamente la tanta declamata libertà di pensiero ambita dal popolo americano e, in quel clima di sospetto e persecuzione, cresce Allen Ginsberg la cui produzione poetica s’inserisce prepotentemente in quella corrente letteraria e artistica denominata “Beat Generation“, termine coniato nel 1947 da Jack Kerouac.
Grazie all’aiuto del poeta e promotore del Rinascimento Poetico di San Francisco, Kenneth Rexroth, riesce ad organizzare un evento, passato poi alla storia come “The 6 Gallery Reading” in cui legge in pubblico la sua poesia “Howl -L’Urlo“.
É il 13 ottobre 1955 e tale avvenimento, primo nel suo genere, viene ritenuto uno dei più rappresentativi manifesti della Beat Generation. La poesia declamata da Ginsberg fa parte della sua prima raccolta di liriche, “L’Urlo e altre poesie“, che viene pubblicata l’anno seguente da una piccola casa editrice fondata da Lawrence Ferlinghetti. Tale pubblicazione costa all’editore un processo per oscenità. Ma cosa c’è di così scabroso in quella raccolta? Ginsberg in quelle poesie sottolinea la rovina delle menti più eccelse della sua generazione a causa del materialismo americano (“Moloch“, un hotel a forma di mostro che prende vita in una delle sue visioni) e utilizza come punto di riferimento una di quelle che considera vittime del sistema, il suo caro amico Carl Solomon, rinchiuso in manicomio. Il poeta usa lo stile dei versetti biblici e la sua visione, del tutto innovativa, rappresenta una fusione tra l’immaginario religioso e quello tecnologico: la passione della sua generazione per la droga, per esempio, è «hipsters dal capo d’angelo ardenti per l’antico contatto celeste con la dinamo stellata nel macchinario della notte…» (incipit della poesia L’Urlo).
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🌞 Tanto tempo fa, d’estate, quando ancora non era disponibile tutta questa scelta di preparati al pomodoro, c’era la tradizione di preparare in casa la conserva di Pomodoro, che poi sarebbe servita per i mesi invernali. Si cominciava una settimana prima, andando a prendere le cassette di san Marzano 🍅 nei campi della campagna romana, dove ancora a raccogliere erano operai italiani o giovani studenti in cerca di guadagni per le vacanze. Poi, una bella mattina di Luglio, cominciava la kermesse di due giorni all’aperto sul terrazzo assolato… pentoloni di Pomodori che bollivano sui fuochi a gas emanando il profumo leggermente pungente delle bucce calde, alimentavano una catena di montaggio tutta familiare, in cui si passava poi la polpa nella macchina raccogliendola ancora calda e fumante in bottiglie di vetro colorato, accuratamente lavate e messe da parte. Prima di chiuderle con il tappo a corona, si infilava nel collo, sopra la polpa, una fogliolina di Basilico fresco ed un cucchiaino di Olio. Le bottiglie poi venivano avvolte in stracci e bollite in altri pentoloni prima di essere pronte per finire in dispensa. Tutti erano impegnati nella produzione, ognuno col suo compito . A me spettava, appunto, quello di infilare la fogliolina di Basilico e quel profumo di polpa di Pomodoro calda e Basilico, assieme a quello di casa, è ancora così vivido nella mia memoria da poterlo richiamare anche nelle più fredde serate d’inverno, dovunque io mi trovi. Forse oggi, abituati alle conserve commerciali, non riuscite ad immaginare il profumo ed il gusto di quel Pomodoro, quando poi durante i mesi più freddi si apriva quel tappo a corona e si condiva un semplice piatto di Spaghetti con quel succo, non prima di aver usato un pezzetto di Pane per assaggiare… Ecco, oggi io ho cercato semplicemente di ricreare quella sensazione con questo semplicissimo piatto di pasta fredda al Pomodoro e Basilico, usando la polpa dei frutti solo scottati, poi sbucciati e privati dei semi. I filetti di Pomodoro a pezzetti poi si lasciano insaporire per un’ora circa con Olio Extravergine, uno spicchio di Aglio fresco e Basilico, prima di poter accogliere la Pasta. Da provare, no? 🙋♂️🙋♀️😘 (presso Merano, Italy) https://www.instagram.com/p/BzAc7MaIEU-/?igshid=1o0i3pdlpmc3l
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Di noi che cosa fugge sul filo della corrente?
Oh, di una storia che non ebbe un seguito
stracci di luce, smorti volti, sperse
lampàre che un attimo ravviva
e lo sbrecciato cappello di paglia
che questa ultima estate ci abbandona.
Le nostre estati, lo vedi,
memoria che ancora hai desideri:
in te l’arco si tende dalla marina
ma non vola la punta più al mio cuore.
Odi nel mezzo sonno l’eguale
veglia del mare e dietro quella
certe voci di festa.
.
E presto delusi dalla preda
gli squali che laggiù solcano il golfo
presto tra loro si faranno a brani.
.
Vittorio Sereni, Gli squali, da Gli strumenti umani, Einaudi, 1965
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Favole Fiorentine: L'oggetto misterioso.
(NdR) Queste favole scritte da Francesco Manetti hanno come recapito un pubblico giovanile, ma sono sicuro non saranno disdegnate da lettori più maturi. Si tratta di tre favole che hanno come protagonisti Lapo & Baldo due ragazzi che vivono le loro avventure nel 1400, cioè in pieno medioevo. Vi lascio alla lettura della prima. L'OGGETTO MISTERIOSO: UN'AVVENTURA DI LAPO & BALDO, RAGAZZI MEDIEVALI di Francesco Manetti Un branco di antilopi, come tutte le notti, dorme nei pressi del grande corso d'acqua, che a tratti si allarga formando acquitrini e paludi. Un maschio adulto, agile e robusto, monta di guardia contro i predatori. D'un tratto l'animale drizza le orecchie e alza lo sguardo al cielo, con un'espressione di terrore negli occhi. Una palla di fuoco sta piombando giù dalle stelle a velocità folle. Un poderoso grido di allarme e le bestie si scuotono dal torpore per allontanarsi a grandi balzi. La sfera ardente precipita a terra con un boato scavando un cratere e sollevando un'immane nube di polvere. Poi torna il silenzio e le creature della vallata pian piano si acquietano.
Un milione di anni dopo sorge in quel luogo la ricca città di Firenze, importante tappa per le centinaia di migliaia di pellegrini che da tutta Europa si recano a Roma per celebrare il primo Giubileo. Fa già caldo in quel pomeriggio di fine marzo del 1300 quando Lapo e Baldo, due amici e figli di benestanti commercianti in stoffe, stanno attraversando il ponte di Santa Trinita per andare in Oltrarno a vedere i lavori di costruzione delle nuove mura. "Uffa, Lapo, essere giovani in questa città sta diventando sempre più uggioso. Gli adulti non pensano ad altro che alla politica. Guelfi e Ghibellini, bianchi e neri: chi ci capisce più niente?" "Davvero! Oppure si danno da fare per organizzare il pellegrinaggio. Ora va di moda la scusa dell'indulgenza plenaria promessa dal Santissimo Padre Bonifacio a tutti quelli che vanno a visitare le chiese dei Santi Pietro e Paolo a Roma." "Sì, bella penitenza. Il tutto si risolve in quindici giorni di mangiate e bevute nelle hostarie dell'Urbe. Noi invece dobbiamo restare qua, tutte le mattine a scuola. Oggi si legge, domani si studia l'abbaco, poi si rilegge e si ristudia l'abbaco. E tutto a memoria, sennò son bacchettate. E..."
"Baldo! Guarda là!" "Uh... cosa?" "Là, in riva all'Arno, dove i garzoni dei carpentieri scavano il materiale per le mura" "Sì... e allora?" "Non vedi qualcosa che brilla?" "Uhm... No, non mi sembra... Aspetta... Sì! Lo vedo anch'io! Cosa sarà?" "Non lo so. Scendiamo" Lapo e Baldo, attratti dal misterioso luccichio, raggiungono l'argine del fiume e vanno giù. In quel momento non c'è nessuno. Gli operai sono andati a portare l'ennesimo carico di terra per il tratto di cinta muraria alle spalle di San Frediano. In fondo a una buca fangosa qualcosa fatto di metallo lancia sinistri bagliori. Aiutato da Baldo, Lapo si cala nello scavo per rimuovere lo sporco che ricopre quasi del tutto lo strano oggetto. "Ehi, Lapo! Cos'è?" "Non lo so. E' una sfera metallica lucentissima. Sembra argento, ma non ho mai visto niente di così liscio. E' grande come la palla di stracci che ci ha fatto tuo padre per giocare". "Ce la fai a sollevarla?" "Ora ci provo. Mmm... sì, non è molto pesante, poche libbre." "Passamela, che poi ti tiro su."
Coperta la palla con un fazzoletto i ragazzi decidono di portarla dal loro maestro, Brunetto Cavalcanti, un uomo di scienza dalle larghe vedute con una delle più vaste biblioteche di tutta Firenze: cento libri, fra letteratura, filosofia, medicina, matematica, astrologia, chimica e retorica. Arrivati alla seconda casa di Via Vacchereccia, Lapo bussa a un portone di legno scuro. "Chi è"? "Siamo Lapo e Baldo, signor Maestro. Abbiamo da farle vedere una cosa." "Dovreste essere a casa a ripassare l'algorismo invece che stare a zonzo", risponde una voce mentre scatta il meccanismo della serratura. "Signor Maestro", dice Baldo, "siamo sicuri che quello che le mostreremo è più interessante di un pomeriggio passato fra i numeri". Detto ciò Baldo svela la sfera lucente, ancora in parte coperta di fango. Il maestro la prende fra le mani e la rigira meravigliato. "Venite a prendere una focaccia salata che intanto ripuliamo un po' quest'affare. Dove l'avete trovato?" "Dalle parti del ponte Santa Trinita", dice Lapo, "sulla riva dell'Arno, dove estraggono la terra per le mura". "Ah, sì. Sono più di dieci anni che vanno avanti questi benedetti lavori. Ce la faranno a finirli per il prossimo Giubileo?" L'abitazione del maestro Cavalcanti è situata in una vecchia torre. Le scale e la cucina sono buie, ma lo studio, con le sue due finestre sempre ben pulite, è illuminato ottimamente.
"Uhm... sembra che qui ci sia scritto qualcosa... qualcosa di inciso finemente in questo splendido metallo", dice il maestro mentre spolvera via le incrostazioni terrose dall'oggetto. "Tre lettere e quattro numeri: E, S, A, 2, 0, 6, 5. C'è anche uno strano simbolo... sembra uno stendardo. Un rettangolo con un cerchio di stelle". "Cosa può essere, signor maestro?", fa Baldo. "Ancora non lo so. Mi ci vorrà un po' di tempo. Tornate fra qualche ora e vi saprò certamente dire di più". Dopo esser stati a vedere i lavori per le nuove mura di Firenze, Lapo e Baldo si incamminano di passo svelto verso la casa del Cavalcanti. Sono eccitatissimi. Non stanno più nella pelle per la gran voglia che hanno di conoscere il segreto dell'oggetto misterioso. Giunti in Via Vacchereccia il maestro sta già alla finestra ad attenderli. "Presto, ragazzi, salite!", grida ansioso. I due amici si guardano con un'espressione fra il sorpreso e lo sconcertato: cosa può aver turbato così un uomo tutto d'un pezzo qual'è il loro maestro? Divorati dalla curiosità, fanno le scale a tre gradini per volta ed entrano trafelati in casa di Brunetto che sta ad aspettarli seduto vicino al tavolo di cucina su cui ha poggiato lo strano oggetto sferico. "Ragazzi", dice il maestro "voi certamente sapete come viene comunemente chiamato un miracolo fatto senza invocare il nome d'Iddio..." "Sì, stregoneria!", risponde Lapo "Ce l'hanno ripetuto mille volte in Chiesa", aggiunse Baldo "e ci hanno detto che è peccato anche solamente parlarne. Chi si prodiga in questo genere di pratiche finisce male". "Certo, certo", riprende il Cavalcanti "ma se a fare qualcosa di prodigioso è un oggetto come questo, si può forse parlare di magia nera?" "Mah... non sappiamo... non crediamo... forse...", balbettano all'unisono i due giovani. "Prima di tutto: sapete chi è Re Edoardo?", chiede il maestro. "Certo", risponde Baldo, "è il sovrano di Anglia. Ce l'ha insegnato lei."
"Bene", fa Brunetto ", e sapete anche che la lingua parlata dai sudditi di Edoardo, l'inglese, è diversa dalla nostra che viene dal latino. Vi ho letto qualche pagina originale delle Historie di Arturio e dei suoi Cavalieri della Tavola Rotonda alla ricerca del Santissimo Calice, storie che poi vi ho tradotto in fiorentino. Ora vedrete qualcosa di strabiliante e sentirete risuonare frasi pronunciate in un idioma simile a quello di Edoardo. Non abbiate paura: non vi accadrà niente. Dovete però giurare su tutto ciò che avete di più caro che non direte mai niente a nessuno di quanto osserverete qui." "Lo giuriamo", dichiarano solenni, e un po' divertiti, i due ragazzi. Il maestro, allora, sfiora l'oggetto nel centro del cerchio stellato e un'incredibile melodia che sembra provenire da un altro mondo si diffonde nella stanza. Poi, sopra la misteriosa scritta forgiata nel metallo, si apre uno sportellino e ne esce quello che sembra un occhio perfettamente rotondo. Ne scaturisce un raggio di luce e sospeso a mezz'aria appare un volto d'uomo. Baldo e Lapo fissano increduli l'immagine bloccati da una sensazione che sta a cavallo fra il terrore e la meraviglia. Il volto inizia a parlare in una lingua bizzarra che assomiglia, come diceva Brunetto, a quella di Edoardo, ma con una tonalità diversa. Mentre la voce continua appare un'altra immagine, una carta geografica dove si riconoscono i confini di Italia, di Hispania, di Franza, dell'Anglia e di tante regioni in parte sconosciute. Il disegno è perfetto e sembra quasi come se qualcuno, per tratteggiarlo, sia salito in cima a una torre altissima oppure sulla schiena di un'aquila (o su un manico di scopa, pensano rabbrividendo i ragazzi).
Sull'immagine appare un vessillo blu recante sopra un cerchio formato da trenta stelline gialle: identico a quello inciso sulla sfera d'argento, ma a colori. Poi la carta geografica si allarga sempre più: ora si vedono i confini d'Africa e poi tanto altro ancora finché non viene un globo ricoperto di mari e di terre che si mette a ruotare. Questo diventa sempre più piccolo e lontano. Appaiono altre nove palle che si mettono a girare attorno a un corpo fiammeggiante. Poi, anche questa immagine si allontana e prende il suo posto un vortice nero d'immane potenza. La sfera argentata vi si precipita dentro. Si vedono ora enormi costruzioni, strade larghissime dove migliaia di persone camminano strisciando lungo ai muri per lasciar passare carri di metallo velocissimi. Il cielo è azzurro e la gente sembra felice. D'un tratto riprende la melodia iniziale, l'occhio rientra nell'oggetto e poi cala un silenzio di tomba su Lapo, Baldo e il loro insegnante. "Beh, ragazzi, che ne pensate?" "Oddio, oddio, oddio...", fa Lapo, senza riuscire a dire altro. "Maestro! Cos'era quella roba? Cosa diceva la voce?", prorompe Baldo. "Calma, ragazzi, non c'è niente da temere. Questo oggetto l'abbiamo fatto noi. Viene da Firenze!" "Da Firenze?", chiede Lapo, che sembra aver ritrovato la parola, "Ma io non ho mai visto niente di simile! E nemmeno ne ho sentito parlare!" "Certo", dice il maestro, "perché viene da Firenze come sarà soltanto fra 765 anni. Vedete questa cifra incisa qui? E' una data! 2065. A quanto pare i nostri successori contano ancora gli anni secondo il nostro calendario Giuliano". "Ci sta dicendo che quella sfera viene... dal futuro?"
"Precisamente. Da quello che sono riuscito a capire dello strano dialetto anglio della voce, l'oggetto, chiamato 'sonda spaziale', è stato lanciato in cielo da una 'base' posta a nord di Firenze il 3 agosto 2065. La base apparterrebbe alla ESA che significa 'agenzia spaziale europea'. Lo scopo del lancio era quello di entrare in un 'buco nero' per scoprire cosa c'è aldilà... La voce, la melodia e le immagini sono un messaggio per eventuali 'extraterrestri'..." "Extra... che?" "A quanto pare la 'Terra' è il mondo su cui viviamo, ed è molto più grande di quello che crediamo oggi, a forma di palla e vagante nei cieli. Ruota, insieme ad altri 'pianeti' intorno al Sole. Nel 2065 gli uomini della Terra saranno ben 10 miliardi. Gli 'extraterrestri' sarebbero esseri viventi di civiltà non appartenenti a questo mondo, ma ad altri mondi. Tutte quelle meravigliose immagini che abbiamo visto servono a indicare agli extraterrestri, in modo semplice e comprensibile, dove viviamo noi. Quel vortice che avete visto è un buco nero. Per molti sapienti del futuro rappresenta un ponte per altri luoghi. Ci aspetta un domani fantastico, ragazzi!" "E come ha fatto questa... 'sonda' a tornare indietro nel passato? Cioè, coloro che l'hanno costruita nasceranno fra molti secoli... eppure l'oggetto è qui davanti ai nostri occhi. Come si spiega? E per quanto tempo è rimasta sepolta in riva all'Arno? E poi..."
"Basta, basta... quante domande, figliolo! Ci sono più cose in cielo e in terra di quante possa pensarne la nostra filosofia, Lapo. Tenete: riportate quest'oggetto fantastico nella buca dove l'avete trovato e ricopritelo bene. Oggi abbiamo imparato molte cose che nessuno osa nemmeno sognare. Accontentiamoci e custodiamo nella nostra mente questo segreto. Andate. Ci vediamo domani a lezione". I due ragazzi salutano il maestro e si dirigono con l'oggetto verso la riva dell'Arno per poterlo restituire all'oblio da cui è giunto. Non dimenticheranno mai l'esperienza vissuta e da oggi guarderanno sotto un'altra ottica il mondo in cui vivono. http://ultimoistante.blogspot.it/2012/11/loggetto-misterioso-unavventura-di-lapo.htmlù
Francesco Manetti Read the full article
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