#Sala dei Gigli
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Judit con la cabeza de Holofernes Cristofano Allori (Florencia 1577-1621)
Características Museo: Palacio Pitti Recopilación: Galería Palatina Colocación: Salón de Educación Júpiter Técnica: Pintura al óleo sobre lienzo Dimensiones: 139x116 cm Inventario: Inv. 1912 n. 96
El cuadro más famoso del florentino Cristofano Allori, pintado entre 1610 y 1612, experimentó un éxito inmediato y una gran circulación de ejemplares, gracias también a la creencia popular según la cual el pintor interpretó la historia de la heroína bíblica Judit de forma autobiográfica, retratándose a sí mismo. en la cabeza del decapitado Holofernes y su amante Mazzafirra en el bello rostro de la joven, que con su vestimenta extraordinariamente suntuosa ofrece un homenaje explícito a la floreciente industria textil de la ciudad. Tras la muerte del pintor en 1621, el cuadro llegó a las colecciones de los Medici y llegó a los Pitti en 1666. En la obra Cristofano demuestra que ha recibido la influencia de Caravaggio a través de la lección de Artemisia Gentileschi quien, en los mismos años, al servicio del Medici, pintó para Cosme II dos impetuosas Judith (Uffizi, Sala 90, Inv. 1890 n. 1567 y Galería Palatina, Sala de la Ilíada, Inv. Palatina n. 398). Cristofano resalta la belleza de la heroína, la blancura de su tez y la riqueza de su vestido, en contraste con el horror de la cabeza cortada que sostiene en su mano. Judit parece orgullosa de su gesto y segura de la protección divina. El tema figurativo de Judit y Holofernes tuvo un gran éxito en Florencia gracias sobre todo al grupo de bronce de Donatello colocado en la Piazza della Signoria en 1494 (actualmente en la Sala dei Gigli del Palazzo Vecchio), que se convirtió en el manifiesto de astucia, coraje y fe. en Dios, virtudes necesarias para obtener la libertad frente a cualquier opresor. Texto por Anna Bisceglia
Información de la web de la Gallerie degli Uffizi, fotografía de mi autoría.
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Michelangelo e il Potere: dal 18 ottobre a Palazzo Vecchio
‘Michelangelo e il Potere’, dedicata a me e alle relazioni che ebbi con i personaggi più influenti della mia epoca, è la nuova mostra che aprirà i battenti al pubblico dal 18 ottobre a Palazzo Vecchio. L’esposizione, allestita nella Sala delle Udienze e nella Sala dei Gigli con la curatela Cristina Acidini e Sergio Risaliti, propone un percorso che inizia nel periodo in cui frequentavo il…
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"Colnago per il Tour de France 2024"
Giovedì 6 giugno 2024 presso la Sala dei Gigli di Palazzo Vecchio, la presentazione della Bici Ufficiale del Tour de France 2024. Colnago sarà appunto una delle aziende protagoniste di BECYCLE, il nuovo evento di Pitti Immagine dedicato alla bicicletta e al ciclismo, in che si terra dal 26 al 28 giugno 2024 alla Stazione Leopolda Firenze, in occasione della partenza del Tour de France da Firenze.…
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Random worldbuilding stuff
De figuris Veneris, Chapter 12-19
Spinal tap procedure
Treatment for Anti-NMDAR Encephalitis. Again, this form of encephalitis was not documented in medical literature until 2007.
Arm port insertion. Peripheral IVs with internal catheters were introduced later in the 80s, so also slightly anachronistic, but PICC insertion is way more invasive than standard cannulation, and we're going for medical horror here, so I went with it.
Chest port insertion apparently became a thing in 1982, so it's not entirely anachronistic (but this is probably isn't the exact procedure that would be used for plasmapheresis... oh well!)
Plasmapheresis
Urinary Catheter Insertion (warning: pictures of a dummy)
Neural mechanisms and circuitry of the pair bond. I don't think there were that many studies on prairie voles back in the 80s, but the thought of Hannibal reading scientific papers in order to figure out how to get Will to like him was too precious. :'( His big evil plan was... to cuddle... oh my heart.
I took a line from Italian Wikipedia's article on Piazzale Michelangelo.
The Lungarni are the streets running parallel to the Arno River in Florence.
Bernini's Saint Lawrence (San Lorenzo) at the Uffizi Gallery. I took more Italian from Wikipedia.
Tests for catatonia/echopraxia
Pigeon with Carrots starter
Coratella con Carciofi
San Lorenzo's final words
Bernini and Michelangelo
Famous Bernini thigh squeeze...
Black Mountain Rag played on piano. Now imagine it on harpsichord. (Black Mountain Rag was Will's song with Molly in Red Dragon)
Judith and Holofernes in the Sala dei Gigli. It was referenced briefly in Chapter 19 of Hannibal.
Hair shaft analysis for drug testing wasn't that advanced in the 80s, but it's cool so I wanted to include it anyway. I think the first sectional analysis was performed in 1989.
Wikipedia has many fantastic articles on Blake's poetry. I took a quote from Harold Bloom on A Poison Tree and the Clytie comparison and a quote from Northrop Frye from Ah! Sun-flower.
Not to be a major literature nerd, but Will's inner monologue ("...and time itself was like a river, flowing on an endless course...") is supposed to be a counterpoint to what Hannibal is always quoting ("everything must change, but nothing perishes"). Both quotes are from The Metamorphoses. Will is letting go of the past, accepting that time always moves forward, while Hannibal is always holding onto the past, trying to reverse his teacup. :(
"Will stood at the edge of a dark ocean, at the mercy of the moon, the breeze that beat upon him, and the waves that invited him. Foam curled around his feet and coiled like serpents around his ankles. Looking out at that black expanse, the old terror flamed up for an instant, then sank again. He walked out into its sensuous embrace." <- entirely taken from the last page of The Awakening by Kate Chopin.
Next: Chapter 20
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Sanremo: il video del brano “PAZZO DI TE”, con cui RENGA e NEK sono in gara al Festival
Sanremo: il video del brano “PAZZO DI TE”, con cui RENGA e NEK sono in gara al Festival. È online il video del brano “PAZZO DI TE”, con cui Francesco RENGA e NEK Filippo Neviani sono insieme in gara al 74° Festival di Sanremo. «Assistiamo sempre più spesso a rappresentazioni di amori tossici, malati, autolesionisti e distruttivi. Per questo, da uomini, abbiamo sentito l’urgenza di raccontare un amore assoluto, adulto, maturo. PAZZO DI TE è un omaggio onesto e sincero alle canzoni d’amore di un tempo lontano… quello dei Festival in bianco e nero. Canzoni così potenti nella loro apparente semplicità da risultare immortali». A dirigere l’orchestra per RENGA NEK a Sanremo è il Maestro Luca Chiaravalli. Il brano sanremese (Musica di D. Faini, Nek, F. Renga - Testo di F. Renga, D. Mancino) sarà contenuto nel repack del loro album insieme “RENGANEK” (Epic / Sony Music), in uscita venerdì 9 febbraio in formato DIGITALE, CD, CD AUTOGAFATO e VINILE AUTOGRAFATO e già disponibile in pre-order (RENGANEK): dodici brani eseguiti da entrambi gli artisti, che mostrano così la grande sinergia che unisce le loro voci, capaci di creare un connubio unico, con sfumature sonore diverse e complementari da quelle finora affrontate nelle loro carriere soliste. A Sanremo gli artisti vestono abiti sartoriali realizzati appositamente per loro da Maurizio Miri. Dopo il lunghissimo tour in tutta Italia che li ha visti protagonisti la scorsa estate, i due speciali appuntamenti SOLD OUT all’Arena di Verona e al Forum di Milano e le date nei principali teatri italiani, RENGA e NEK a luglio saranno nuovamente insieme sul palco, in una serie di appuntamenti live che li porteranno a esibirsi in tutta Italia. E da settembre saranno impegnati con i concerti nei teatri, con ben 4 date a MILANO (Teatro Arcimboldi), 3 a BOLOGNA (Europauditorium) e 2 a ROMA (Auditorium Parco della Musica – Sala Santa Cecilia). Queste tutte le date, prodotte e organizzate da Friends & Partners: - 24 luglio 2024 - BERGAMO - SUMMER MUSIC FESTIVAL - 26 luglio 2024 - ESTE (PD) - ESTE MUSIC FESTIVAL - 28 luglio 2024 - PORTO RECANATI (MC) - ARENA BENIAMINO GIGLI - 02 agosto 2024 - FANANO (MO) - FANANO IN MUSICA c/o PALAGHIACCIO - 06 agosto 2024 - L'AQUILA - ALL'OMBRA DELLA MUSICA ITALIANA - 09 agosto 2024 - EDOLO (BS) - VALLE CAMONICA SUMMER MUSIC - 16 agosto 2024 - CATANIA - VILLA BELLINI - 17 agosto 2024 - PALERMO - TEATRO DI VERDURA - 19 agosto 2024 - CORIGLIANO ROSSANO (CS) - ANFITEATRO DE ROSIS - 23 settembre 2024 - MILANO – TEATRO ARCIMBOLDI - 24 settembre 2024 - MILANO – TEATRO ARCIMBOLDI - 26 settembre 2024 - MILANO – TEATRO ARCIMBOLDI - 27 settembre 2024 - MILANO – TEATRO ARCIMBOLDI - 29 settembre 2024 - BOLOGNA – EUROPAUDITORIUM - 30 settembre 2024 - BOLOGNA – EUROPAUDITORIUM - 01 ottobre 2024 - BOLOGNA – EUROPAUDITORIUM - 06 ottobre 2024 - ROMA – AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA (SALA SANTA CECILIA) - 07 ottobre 2024 - ROMA – AUDITORIUM PARCO DELLA MUSICA (SALA SANTA CECILIA) I biglietti sono disponibili in prevendita su www.ticketone.it e nei punti vendita abituali. Tra le più grandi voci del panorama musicale italiano, Francesco Renga quest’anno celebra 40 anni di straordinaria carriera con all’attivo 8 album d’inediti, 1 album con orchestra, 2 album dal vivo (di cui uno insieme a Max Pezzali e Nek), ha totalizzato oltre 1 milione di copie vendute, 9 certificazioni di platino e 9 d’oro. Colleziona singoli di grande successo, da “Raccontami” a “La tua bellezza”, da “Angelo” (brano vincitore del Festival di Sanremo 2005) a “Meravigliosa (la Luna)”, da “Il mio giorno più bello del mondo” a “Guardami amore” e tantissimi altri. Nel corso della sua carriera Francesco ha realizzato più di 1900 concerti tra palasport, teatri e location mozzafiato come l’Arena di Verona e il Teatro Antico di Taormina. Ha alle spalle 9 partecipazioni al Festival di Sanremo come concorrente in gara, 1 vittoria nel 2005 con il brano “Angelo” e 2 premi della critica, con i brani “L’uomo che ride” e “Raccontami”. Cantante e polistrumentista, con alle spalle oltre 10 milioni di dischi venduti in tutto il mondo e 18 album in studio, Nek è una delle voci maschili più affascinanti e amate del panorama musicale italiano. Dopo l’esordio nel 1992 con l’album “Nek”, tantissimi i successi che si sono susseguiti nei suoi 30 anni di carriera, da “Laura non c’è” a “Se io non avessi te”, da “Almeno stavolta” a “Lascia che io sia”, o ancora “Fatti avanti amore” e “Se una regola c’è”, senza dimenticare la cover di “Se telefonando”, eseguita sul palco del Festival di Sanremo nel 2015. Negli ultimi anni è stato impegnato nella conduzione di fortunati programmi televisivi, ultimo dei quali “Dalla Strada Al Palco”, che ha raccolto consensi di pubblico e critica, e che tornerà con la terza stagione dal 20 febbraio in prima serata su Rai Due. Nel 2022 è uscito l’album celebrativo “5030”, che racconta i 30 anni di carriera e i suoi 50 anni di età.... #notizie #news #breakingnews #cronaca #politica #eventi #sport #moda Read the full article
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3. (Sola)
Elena ha prenotato un posto all’Hotel Solitudine, quest’estate. Le piace, ogni tanto ha una voglia spaventosa di mettersi in un buco pieno di luce e buttare fuori tutti. Tutti. Non sentire più nessuna voce, ad esempio. E anche le sagome, anche quelle danno fastidio, anche quelle che ti amano. Basta.
Fine Maggio va bene per il mare. E infatti sulla spiaggia ci sono appena due famiglie, oltre a lei. Una quella classica, con i bambini e il materassino e almeno due borse tra giochi e cose da mangiare. Nell’altra c’è una coppia di mezza età ed una vecchia, sotto l’ombrellone. Non c’è neanche vento, un soffio appena. Elena si stende. Ha da leggere un giornale ed un libro, un solo tubetto di crema. Ma il giornale le dà il voltastomaco e del libro legge tre sole pagine, prima di posarlo. Le lettere si erano ammassate sciocche, una dietro l’altra, e il candore del foglio sotto quel sole era insopportabile.
Sono una stronza, si dice.
Il mare sembra non avere alcun interesse. Si stende beato, si riprende le pieghe, e continua, continua. Il mare non ha carne, né pensieri, luccica solo del gran finimondo azzurro, là, sopra di lui, e disperde il suo colore in milioni di schizzi, li raccoglie e li ributta in mezzo.
Elena vorrebbe starsene sola, così pensa. Vorrebbe starsene dimenticata su quella spiaggia, non sentire nient’altro che il sole e la risacca. Vorrebbe restarsene così almeno qualche anno e forse nel frattempo scomparire.
Se solo fosse così facile. Se solo non la cercasse nessuno. Se solo non venissero a cercarla quelle cose, dentro. Dimenticare.
Però qui non è male. Le macchine sono lontane. Sulla sabbia galleggiano oggetti andati persi. Sembrano riposare. Ogni tanto le arriva l’odore dei gigli di mare e le sembra pulito. Un profumo che non chiede nulla, non vuole intromettersi, non ha quella indiscrezione di cui nessuno pare non volere fare a meno. Elena vuole riposare. Vuole starsene come un fiore tra gli altri, come un sasso. Non l’ha chiesto lei, il suo nome. Ecco. Farsi curare da quella pace. Forse è ancora possibile che la pelle guarisca. Chissà. Nel frattempo è ovvio che un treno non ci sia, solo la sala d’attesa, che non è una meraviglia.
Ma aspettare cosa.
L’aria è talmente pulita da far male. Chissà la nonna sotto l’ombrellone cosa pensa. Magari le stesse cose. Starà maledicendo il fatto di non essere più giovane e di non avere un ragazzo dalla pelle profumata che la porti via.
Ma no. Starà pensando alla morte che arriva, a quanto poco le resta. È impossibile che abbia pensieri riverenti. Sarà persa in qualche spiazzo dove anche lei può dimenticare.
Elena si raccoglie sotto il sole. Se vuoi prendimi, gli dice. Ma il sole non l’ascolta.
È ora di andare. Elena raccoglie i pensieri, mette nella borsa le sue cose. È ora di tornare. “Perché?”- si chiede. Non lo sa. Si alza, come se fosse la fine. Sa solo che lo farà, come ci fosse ancora qualcosa di bello.
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“Ricerche di stile”: la mostra degli Archivi Mazzini sui percorsi della creatività
Ogni volta che la moda va in mostra è un’occasione preziosa: è come se si aprissero delle finestre nuove su valori e concetti fino a quel momento rimasti silenti, ma che invece è cosa buona e giustissima conoscere, per riallacciare i fili di una narrazione più ampia che spesso ha a che fare con la società che cambia, il gusto che evolve, i guizzi d’ingegno che sorgono. Ci sono occasioni in cui la moda va in mostra proprio per tessere racconti che diventano un richiamo ancor più forte ad andare oltre la superficie estetica, un invito a prendere parte alla rivelazione di un percorso solitamente nascosto agli occhi di chi non è parte integrante del mestiere.
È proprio questa la dichiarazione d’intenti sottesa a “Ricerche di stile”: la mostra che ha come protagonisti i famosi Archivi Mazzini ed il settecentesco Palazzo Tozzoni.
Fissiamo subito le informazioni basilari. Quando? Dallo scorso primo dicembre al prossimo 28 febbraio. Dove? Nel cuore di Imola. Grazie a chi? Grazie alla Fondazione Cassa di Risparmio di Imola in collaborazione con i Musei Civici di Imola – Assessorato alla cultura… e naturalmente alla passione instancabile degli Archivi di Ricerca Mazzini di Massa Lombarda. Perché? Eh, è da questa domanda che la suddetta dichiarazione d’intenti spalanca le porte di vari mondi ricchi di cultura, suggestione… e bellezza, ça va sans dire! La mostra, per l’appunto, non basta definirla una sorta di sfilata da contemplare, non è sufficiente pensarla come una grande lezione sulla storia del costume.
La mostra “Ricerche di Stile” va ben oltre i confini disciplinari: li intreccia, li confronta, li fonde, e ne crea un racconto delle infinite visioni e suggestioni di cui da sempre si nutre la creatività, in particolare quella che da forma al mondo della moda. Un aspetto, questo, di cui gli Archivi di Ricerca Mazzini sono testimoni d’onore da lungo tempo: gli oltre 400.000 capi, che coprono un arco di ottant’anni di storia di moda e costume, e che abitano i loro spazi, accolgono creativi, designer, stilisti, i quali lì vanno a nutrire l’ispirazione e lo studio meticoloso dei dettagli da cui formeranno le proprie creazioni. Di questo vastissimo patrimonio, Carla Marangoni e Attilio Mazzini hanno selezionato 150 abiti, che son stati messi in dialogo virtuoso e bellissimo con le stanze ricche d’arte e di storia del Palazzo Tozzoni.
Un vero percorso della creatività che si svela passo passo: la mostra mette in luce il fascino che le creazioni d’artista, è davvero il caso di dirlo, appartenenti a svariati decenni fa, ancora regalano a chi sa goderne, assieme agli spunti di ricerca che ancora offrono, all’abilità che tuttora serbano di saper trasformare un iconico capo storico in un oggetto del desiderio contemporaneo.
Facendone un tour ideale, ecco quel che s’incontra lungo il cammino: Miyake, Fortuny e Jil Sander aprono la mostra nell’elegante salone d’onore, i sontuosi abiti di Romeo Gigli allacciano l’ispirazione etnica ai decori dorati dell’appartamento barocchetto, le sculture couture di Maurizio Galante coabitano con i mobili dai grandi volumi dell’appartamento impero, la leggerezza dei vestiti da ballo di Yohji Yamamoto e Jean Paul Gaultier danzano nella sala della musica, i corpetti opera di vari stilisti sedotti dalla biancheria intima sono esposti tra gli oggetti per l’igiene personale degli antichi abitanti. E ancora, la loggia luminosa accoglie la moda floreale tra cui il costume da bagno anni Quaranta di Elsa Schiaparelli, nella cucina si trovano le creazioni geniali di Issey Miyake, mentre nelle cantine inebriate dal profumo di vino si trovano i capi Stone Island ispirati alle divise da lavoro.
E la meraviglia continua a perdersi felice tra gli ambienti del palazzo percorsi dagli abiti di Valentino, Callaghan, Marni, Roberto Capucci, John Galliano, Gianni Versace, Prada, Vivien Westwood, Martin Margiela, Monica Bolzoni, Junya Watanabe, Comme des Garcons e delle sorelle Fontana. Fino a giungere nella sede della Fondazione Cassa di Risparmio di Imola, al Centro Gianni Isola, che ospita gli abiti dell’Archivio Mazzini selezionati per la copertina dell’ultimo disco di Mina e Celentano “Le migliori”, dove spiccano l’abito di carta anni ’60 di Harry Gordon con stampata la poesia di Allen Ginsberg e due giacche di Yohji Yamamoto ispirate da dipinti di Joan Mirò.
Silvia Scorcella
{ pubblicato su Webelieveinstyle }
#Archivi Mazzini#vintage#mostradimoda#modaecultura#storiadellamoda#modaearte#fashion writing#webelieveinstyle
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𝘾'𝙚𝙧𝙖 𝙪𝙣𝙖 𝙫𝙤𝙡𝙩𝙖 𝙞𝙣 𝙄𝙩𝙖𝙡𝙞𝙖 è a #Fabriano #martedì #16maggio, ore 20:45, #Cinema multisala #Movieland, via Beniamino Gigli n.19.
UN'INCHIESTA SULLA PRIVATIZZAZIONE DELLA SANITÀ, UNA STORIA EPICA DI RIBELLIONE E LOTTA❗✊
🎞️ #trailer: https://youtu.be/ePNtgZmMOW8
Non è solo la storia dell'ospedale di #Cariati, in provincia di Cosenza, chiuso nel 2010 per il piano di rientro dei conti pubblici, ed occupato dieci anni dopo, in pieno periodo covid, da un gruppo di cittadini che ne chiedono la riapertura. Nel film 𝘾'𝙚𝙧𝙖 𝙪𝙣𝙖 𝙫𝙤𝙡𝙩𝙖 𝙞𝙣 𝙄𝙩𝙖𝙡𝙞𝙖 c'è la storia tutto il Paese, ci sono i 200 ospedali chiusi in Italia nel decennio dal 2010 al 2020, ci sono le migliaia di altri presidi ospedalieri che nello stesso periodo sono stati oggetto di declassamento, soppressione di reparti, decurtazione di servizi, specialità, professionalità.
Ma qual è il filo conduttore che unisce il destino di questi ospedali e delle popolazioni dei rispettivi territori? Quali sono le cause profonde che muovono le politiche di smantellamento del sistema sanitario nazionale, dello stato sociale e dei diritti costituzionali dei cittadini?
𝘾'𝙚𝙧𝙖 𝙪𝙣𝙖 𝙫𝙤𝙡𝙩𝙖 𝙞𝙣 𝙄𝙩𝙖𝙡𝙞𝙖 vede nel cast personaggi eccezionali come #RogerWaters dei #PinkFloyd, #KeanLoach, #GinoStrada, il prof. @agnolettovittorio, il prof. #JeanZiegler, il prof. #IvanCavicchi ed altri.
Dopo la visione del film, dibattito in sala con i registi e con le associazioni del territorio.
Biglietti acquistabili direttamente al cinema oppure on line al seguente link: https://fabriano.movieland.18tickets.it/film/10922
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Museo Novecento e Dante
Museo Novecento e Dante
In occasione delle celebrazioni per i 700 anni dalla morte di Dante, il progetto Museo Novecento OFF rende omaggio al Sommo Poeta con la personale dell’artista iraniano-americano Ali Banisadr (@simorgh3) ‘Beautiful Lies’ (30 aprile – 29 agosto 2021).La mostra, a cura di Sergio Risaliti e in collaborazione con la galleria Thaddaeus Ropac London Paris Salzburg, si articola in due luoghi simbolo…
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#700Dante#Alì Banisadr#Artista#Firenze#Galleria Thaddaeus Ropac London Paris Salzburg#Iraniano-americano#Museo del Novecento#Museo Stefano Bardini#Palazzo Vecchio#Progetto Off#Sala dei Gigli
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Fragment Of The Renaissance Carved Ceiling In The Sala Dei Gigli In The Palazzo Vecchio, Florence, Tuscany
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Deusa deus
O lampião que, solitário, ilumina o porto abana com o vento e luta para manter a fraca luz ainda acesa. Todos os outros, dois ou três, a vários metros de distância já desistiram, sucumbiram às rajadas que fazem os pequenos barcos bater uns contra os outros. Mais uma noite deserta, gélida. Já não chove, o ar sente-se como quem molha até aos ossos, a água corre rua abaixo, desde a lua ao seu reflexo no mar. É como se os gatos tivessem abandonado a ilha e nem os pescadores se atravessam na sorte da corrente.
A voz da La Divina mais forte a cada trovão. A lâmpada quebra-se e a água foge por onde pode, esconde-se em qualquer valeta. Os cães não uivam, tremem de medo.
Suicidio! / In questi fieri momenti / Tu sol mi resti / E il cor mi tenti.
Suicídio! / Nestes momentos terríveis / Só tu me restas / E me tentas o coração.
Artémis rodopia já mal equilibrada nos saltos altos brancos tão gastos. Pelo abuso, mais do que pelas oportunidades. O vestido branco, justo, brilha sob o toque da agora única luz da rua íngreme, a do alpendre. Uma lâmpada no centro, mais forte que os lampiões da aldeia, testemunha de danças e óperas de cristal. Testemunha em silêncio de gritos e choros sufocados nos anos em que ainda lhe chamavam Apolo.
Ela não se lembra. Rasgou todas as fotos, queimou as roupas. Apagou o dia em que viu o pai pela última vez, o casaco coçado que lhe pesava nas costas já corcundas sob a dimensão da honra enxovalhada nas mesas de sueca. Os próprios peixes pareciam rir-se da sua sorte e tantos dias dançaram fora das suas redes. Artémis não se lembra do dia em que o mar levou a vergonha do pai para aquelas terras que se escondiam atrás do nevoeiro, para lá das ondas maiores. Não se lembra do ar tão frio que a esbofeteou na noite em que entrou pela água adentro atrás do canto da sereia que a levasse para a morte.
Je veux vivre / Dans ce rêve qui m'enivre / Ce jour encore / Douce flamme / Je te garde dans mon âme / Comme un trésor!
Eu quero viver / Neste sonho que me intoxica / Naquele dia, mais uma vez / Chama suave / Eu mantenho-o em minha alma / Como um tesouro!
As vozes que o acordaram e tantos olhares reprovadores. As costas que lhe voltaram quando a aldeia percebeu que afinal não tinha morrido aquele rapaz que se bamboleava nas ruas, dançava de vestidos brilhantes no corpo e batom vermelho nos lábios. Tão estranho que nem o mar o quisera. Apolo, deus da morte súbita, das pragas, das doenças. Aquela doença sem nome que o fazia acreditar ser mulher.
- O diabo no corpo.
- Era melhor que o mar o tivesse engolido.
- Pobres pais.
Depois dos insultos, a aldeia preferiu deixar de lhe falar. Algo naquele rapaz trazia mau agoiro. Filho único de uns pais que lhe deram aquele batismo na capela que ainda hoje se debate com as ondas do mar. Apolo, deus da beleza, da perfeição, da harmonia, do equilíbrio, da razão. Uma rasteira do divino.
Artémis lembra-se, porém, do dia em que ela própria se batizou. Artémis, irmã gémea de Apolo, deusa da vida selvagem, da caça, da lua e da magia. Uma espécie de Aramis a fazer-se valente entre os pares. Mimi.
Sì. Mi chiamano Mimì / Son tranquilla e lieta / Ed è mio svago / Far gigli e rose / Mi piaccion quelle cose / Che han sì dolce malìa / Che parlano d'amor, di primavere / Di sogni e di chimere.
Sim. Chamam-me Mimi / Sou tranquila e feliz / E o meu passatempo / É plantar lírios e rosas / Eu gosto das coisas / Que têm um doce feitiço / Que falam de amor, da primavera / Dos sonhos e fantasias.
Artémis nunca percebeu de redes nem de marés. Em terra de pescadores, o cheiro do mar causava-lhe náuseas e os dias passava-os entre o quarto e a pequena sala da máquina de costura onde cosia as roupas como via nas revistas que chegavam ao café da aldeia. Tinha nove anos quando descobriu a vitrola do pai e a voz da La Divina.
Apolo leu o nome naquele vinil - Maria Callas - com dois l’s, como as estrangeiras. Mas as sobrancelhas, de um preto tão familiar, desenhavam um rosto bicudo, parecia esculpido, e moldavam uns olhos escuros como pérolas negras. María Kekilía Sofía Kalogerópulu. A grega Maria Callas. La Divina, ecoava o mundo e fazia ferver o sangue de Artémis.
O primeiro vestido que coseu, negro, com ramos de árvores brilhantes bordados no veludo que cobrem o tule cinzento, era igual ao de Callas. Artémis prometeu guardá-lo para o dia em que subisse ao palco, em Paris, para interpretar, ela própria, a La Traviata.
Sì, la vita s'addoppia al gioir
Sim, a vida mistura-se com alegria
Tinha a imagem bem definida. Tinha tudo sonhado. Tinha a certeza das luzes da ribalta quando, ainda a manhã não tinha acordado, entrou na camioneta dos madrugadores, a única do dia. Tinha 16 anos, uma mochila com os vestidos que fez entre lágrimas, as feridas pouco saradas, o negro nos braços da mão pesada do pai desonrado, o álbum de Maria Callas.
Dez horas depois, chegava, enfim, a Atenas. O rebuliço da cidade grande, os edifícios, as luzes dos teatros, as mulheres tão bem vestidas, tudo o que os olhos viam fez valer a pena todas as dores. Apolo morria.
Sempre libera degg´io / Folleggiare di gioia in gioia / Vo´che scorra il viver mio / Pei sentieri del piacer
Sempre livre eu quero / voar de alegria em alegria / Quero que minha vida discorra / pelos caminhos do prazer!
Em Atenas, Artémis correu as ruas e as salas de espetáculo. Todos os dias. Todas as noites. Dormiu na soleira dos prédios, nos bancos dos jardins. Meteu conversa com os porteiros, os distribuidores de jornais à procura de uma oportunidade de trabalho. Não levou bagagem para mais maus tratos nem mais insultos. Este era o presente para o qual sabia ter nascido. Dia e noite procurou o palco da sua vida. Bateu a todas as portas.
- O que sabes fazer?
- Sei interpretar.
- Interpretar? Hum...e cantar?
- Sei dar espetáculo.
- Aparece aqui de manhã. Há uma porta nas traseiras.
Artémis subiu ao palco na noite seguinte, os critérios de seleção não tinham a mínima exigência. Uma entre quatro, mais maquilhagem do que sonhou, menos roupa do que desejou. A extravagância em contraste com a vulgaridade dos olhares e dos apupos na plateia. O fumo intenso no ar quase nem deixa perceber as nódoas nas toalhas.
Artémis, a drag queen, sonha todas as noites com as lâmpadas à volta de um enorme espelho. Um camarim para ela, um ramo de flores de um admirador, um copo de vinho. Callas.
Num tempo que deixou de contar, sobreviveu a demasiadas noites falsas, sonos sem teto, o estômago vazio. Artémis, deusa da caça, sem arco e flecha, presa frágil num corpo que não sente, entre corpos bêbados demais, suores pestilentos, hálitos sem decoro.
- Então, príncipe, queres boleia hoje?
- Belas pernas, matulão!
O pior era não ter onde tomar banho. Livrar-se de toques, de cheiros e arrepios. Foi a um balneário público uma única vez. Eles eram três. Ninguém ouviu a sua súplica, o choro abafado pela água que caía do chuveiro. Quando ficou sozinha, a água acumulada virou orquestra e Artémis cantou.
Vissi d'arte, vissi d'amore / E diedi il canto agli astri, al ciel / Che ne ridean più belli / Nell'ora del dolor / Perchè, perchè, signor / Ah, perchè me ne rimuneri così?
Eu vivi para a arte, eu vivi para o amor / Eu dei minha música para as estrelas, para o céu / Que brilharam com mais beleza / E na hora de dor / Porquê, porquê, senhor / Ah, porque me recompensas desta forma?
Numa madrugada cheia de luz, esperavam-na à saída uns olhos cor de amêndoa. Doces. Envergonhados. Pela primeira vez, Artémis não sentiu medo. Sorriu-lhe.
Uma voz de rugido a quebrar o encanto: Loukás! Os olhos alarmaram-se e o seu dono saiu a correr para a rua principal para juntar-se ao grupo, fardado, ébrio e gozão.
- Ei, bonitão, canta para nós.
Artémis não se mexeu e o grupo continuou caminho. Loukás não voltara a olhar para trás. Na noite seguinte, um bilhete no cacifo, uma flor.
“Espero-te no palco onde Callas foi feliz. L.”
L. Loukás.
Caro nome che il mio cor / festi primo palpitar / le delizie dell'amor / mi dêi sempre rammentar!
Caro nome que o meu coração / fez primeiro palpitar / as delícias do amor / Sempre me lembro!
Maria Callas fez o mundo feliz na beleza monumental do Herod Atticus Odeon. Ali, Artémis e Loukás viveram a felicidade dos amantes que o mundo esconde e só as estrelas testemunham. Um anfiteatro a céu aberto, palco de confissões de amor e de sonhos onde falavam em dar as mãos nas ruas de Paris. Artémis cantaria no palco e Loukás seria o primeiro a levantar-se na ovação. Encher-lhe-ia o camarim com flores. Rosas vermelhas, as preferidas das divas.
- Promete-me que, quando chegar o dia, e te tornares a diva do palco, cantarás comigo nos teus lábios. Promete-me que dormirei sempre no teu regaço, Artémis.
- Só saberei cantar assim, meu marinheiro. E tu, a quem um dia o mar me levará também, que as ondas te indiquem o regresso.
O mar devolve apenas o que lhe damos. O mar dá sempre de volta.
Os anos de Artémis em Atenas haviam de ver pouca luz, além das madrugadas que viravam manhãs nos braços de Loukás. No dia em que o destino e o exército levaram Loukás a bordo, Artémis guardou as juras de que voltariam a encontrar-se junto ao colar de diamantes falsos que o pobre marinheiro lhe colocara ao pescoço.
- Brilharás sempre mais do que qualquer jóia. Mas, assim, estarei sempre encostado ao teu peito, a ouvir como canta belo o teu coração.
Artémis cantou baixinho.
Mon cœur s'ouvre à ta voix comme s'ouvrent les fleurs / Aux baisers de l'aurore! / Mais, ô mon bien-aimé, pour mieux sécher mes pleurs / Que ta voix parle encore! / Dis-moi qu'à Dalila tu reviens pour jamais!
Meu coração se abre à tua voz como as flores se abrem / aos beijos da aurora! / Mas, ó bem-amado, para melhor secar minhas lágrimas / Que tua voz fale novamente! / Diz-me que a dalila vais voltar para sempre!
Tudo se tornaria mais escuro para Artémis. A rua onde continuava a deitar-se e o palco de falsas glórias. Anos se passaram e ela definhava sem os braços onde descansar por fim. Conheceu os vícios, deitou-se nos piores lençóis por dois tostões. Às vezes por um vestido, uma pulseira. Artémis lembrava o pai, as nódoas negras doíam. As novas e as dos anos de adolescente. H��s-de aprender a ser homem com uma sova valente.
Estava a levar uma sova valente e nem por isso se sentia mais homem. Porque não podia ser o que sentia? Porque não podia vestir o vestido vermelho e usar os sapatos que as mais elegantes mulheres desfilavam nas ruas? Artémis sabia que a sua alma era tão feminina como todas. Só queria não ter que se esconder, ser vergonha.
No prédio em frente, começavam a ser retirados os andaimes que ali tapavam a fachada há uns dias. Artémis sentiu o coração saltar-lhe fora do peito quando aqueles gigantes olhos negros a olharam de frente.
“Callas vive - audições para sopranos”.
O grande teatro da cidade anunciava o espetáculo de tributo à La Divina e procurava quem interpretasse o principal papel. Artémis percebeu, ali, todas as sovas, todas as humilhações que a perseguiam desde que chegara a Atenas.
- Honrarei a tua vida, diva. Serei Callas, finalmente. E que se calem todas as demais.
Artémis seria Maria Callas. Toda a adolescência a ensaiar as poses, os gestos e a praticar cada nota mais aguda teriam, agora, um porquê. Primeiro, Atenas. Depois, Paris. O que diria o pai? Artémis foi à audição, passou. Percebeu que já não chovia lá fora.
Gioia provai che agli angeli / solo è provar concesso!... / Al core, al guardo estatico / la terra un ciel sembrò.
Eu senti a alegria que os anjos / concedem apenas a provar! … / No centro, para assistir ao êxtase / a terra parecia um paraíso.
Abriu a bolsa à procura de moedas espalhadas. Trinta cêntimos. Trinta cêntimos tinham que ser suficientes. Estava na hora de sentirem orgulho por ela. Caminhou até à cabine do outro lado da rua. Ainda sabia o número de cor.
- Kalimera…
Não conhecia a voz, ter-se-ia enganado? E aquele “Kalimera” que não dançava como em todo o sangue grego. A mão tremia mais.
- Mitéra…? Mãe…?
- Apolo?
Ouvir aquele nome fez Artémis suar. Não era a voz da mãe do outro lado da linha, mas ao vento conseguia reconhecer como se estivesse ali ao lado. Apeteceu-lhe desligar a chamada. Estava tudo a voltar. Engoliu.
- Sim.
- Apolo, é a Lydia. Onde estás?
- Atenas. Vou cantar.
- Atenas. Apolo vem para casa. A tua mãe precisa de ti.
- Não. A minha mãe nunca precisou de mim. Ela queria o filho que eu não fui. Ela precisa do Apolo. E o Apolo morreu.
- Agapiméni mou (meu querido)...a tua mãe está a morrer.
- O que é que queres dizer com isso?
- A tua mãe tem um cancro, está a morrer. Volta para casa.
- Eu não tenho casa.
- Apolo…
- Não posso. Eu vou ser cantora. Vou ser Maria Callas.
- Como queiras. Tenho que desligar, deixei a sopa para a tua mãe ao lume. Boa sorte, Apolo.
Artémis deixou o telefone pendurado pelo fio. As luzes do teatro desfocadas no vidro embaciado da cabine. Tinha fechado a porta e só agora percebia que ali não se ouvia nada. Nem os carros, nem os passos, nem os cães. Nem o seu coração. Até os olhos de Maria Callas, do alto do prédio, pareciam agora evitá-la. Queria gritar, mas nem uma palavra ganhou forma. Não havia uma palavra nas músicas de Callas que a abraçassem naquele momento.
Quando desceu as escadas da camioneta, Artémis tinha nela os olhos de toda a aldeia. Nas suas roupas de mulher, no casaco de pêlo branco, nos brincos, nas botas, nos lábios vermelhos. Vozes desdenhavam mais alto do que as boas maneiras e a discrição pediriam. Artémis reconheceu tudo. Estava tudo igual, doze anos depois. O mesmo cheiro a peixe, o mesmo frio cortante, as mesmas cores gastas nas portas. Os mesmos gatos sujos por todos os cantos. Encheu o peito, não falou a ninguém, e deixou a praça com a classe que a cidade grande lhe ensinara. A luz do alpendre acesa, os vasos secos.
Em casa, cheirava a doença. Foi ao quarto da mãe, que gemia na cama, enquanto a vizinha espermia mais uma toalha que lhe refrescava a testa. Lydía sentiu a energia da presença de Artémis.
- Apolo!
- Podes ir, Lydía. Eu tomo conta dela. Obrigada.
A mãe abriu os olhos no máximo que as dores lho permitiam.
- Apolo, meu filho.
- O Apolo morreu.
Fühlt nicht durch dich Sarastro / Todesschmerzen / So bist du meine Tochter nimmermehr / Verstossen sei auf ewig / Verlassen sei auf ewig / Zertrümmert sei'n auf ewig / Alle Bande der Natur.
Se Sarastro não sentir as dores da morte / Por suas mãos / Então você não é mais minha filha / Renegada para sempre / Abandonada para sempre / Deixados serão para sempre / Todos os nossos vínculos naturais.
Durante as três semanas em que a doença a consumiu, a mãe chorou todos os dias o filho morto, e aquela personagem estranha que o mundo lhe trazia a casa. A música de Maria Callas engolia toda a aldeia.
E a cabeça de Artémis sucumbiu dentro da realidade que quis criar. Foi tudo rápido demais. Os espelhos partidos, as fotos deles os três rasgadas, o estore do seu quarto sempre fechado. Voltava tudo a invadi-la e ela não se lembra de nada, tudo lhe parece pertencer a outra vida. Na cozinha, há ainda tachos queimados e os álbuns de música ali estão, naquele quarto de costura, na mesma ordem em que os mantinha no dia em deixou a casa para trás.
Quando a mãe foi a enterrar e toda a aldeia se fez preto e silêncio, Artémis dançava na mesma rua inclinada. Cantava tão alto que envergonhava os sinos da capela. O vestido, de cetim verde, salientava o colar de diamantes falsos, prenda do marinheiro que nunca mais voltou. Não estava feliz. Estava louca, sentenciaram todos, por fim.
- Que vergonha.
- Um dia, todos nós daremos em loucos.
Naquela noite de tempestade, a lâmpada do alpendre lutava por se manter acesa, por resistir aos trovões que protagonizavam a disputa ensurdecedora com as notas mais altas da soprano, vindas da vitrola do velho pai grego desaparecido. Era a última testemunha do desvario que havia tomado conta da alma desta que já não sonhava ser Maria Callas, a diva, a sacrificada, a morta por amor. Artémis já tinha deixado de lutar por Artémis.
Or piombo esausta / Fra le tenèbre! / Tocco alla m��ta / Domando al cielo / Di dormir quieta / Dentro l'avel
Agora, tombo exausta / Na escuridão! / Estou chegando ao fim / Peço ao céus / Para que durma tranquila / Dentro da tumba
As tormentas, no ar e no coração, tornaram-se uma só e a deusa Artémis, de tanto cantar, desfez-se em luar e misturou-se na água que corria rua abaixo. Calou-se a deusa. Calou-se a diva e levou com ela a tempestade e o amor. Dali em diante, o mar haveria de devolver ambos à vila em doses iguais. Um dia, todos dariam em loucos.
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ZARA di Reggello, vince lo sciopero.
12 MARZO 2019 |IN PRECARIATO SOCIALE.
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ZARA di Reggello, vince lo sciopero.
Finisce con la vittoria della lotta lo sciopero iniziato lo scorso 10 febbraio nel magazzino Zara di Reggello. Si è arrivati all'accordo dopo ventotto giorni di occupazione dell'impianto e mobilitazione per difendere i 39 posti di lavoro minacciati dalla “ristrutturazione del ciclo logistico” di Zara: un progetto che prevede la chiusura del magazzino di Reggello, teatro già negli scorsi mesi di dure lotte e scioperi del Si Cobas, e del magazzino di Bergamo (anche esso, non a caso, con forte presenza del Si Cobas).
Proprio grazie a queste agitazioni, dal mese di Aprile ad oggi, i lavoratori avevano strappato importanti conquiste e abolito il regime di sfruttamento selvaggio e caporalato che – intanto – continua ad essere norma nel resto degli appalti del marchio. Tutti i lavoratori avranno diritto al trasferimento presso altri cantieri mantenendo le stesse condizioni economiche e contrattuali strappate con la lotta (condizioni, per altro, migliorative anche rispetto al CCNL). L'obiettivo della chiusura era proprio quello di distruggere le conquiste strappate dai lavoratori negli scorsi mesi e liberarsi della forza lavoro organizzata nel Si Cobas, dirottando la merce sul maxi-hub di Piacenza (anch'esso bloccato dai facchini di Reggello in queste settimane) dove il conto della forza lavoro resta bloccato ai livelli minimi.
Dopo aver provato a bloccare l'espansione delle lotte con i licenziamenti politici avvenuti a luglio – subito respinti attraverso la forza esercitata dai picchetti – Zara, infatti, aveva deciso di andare allo scontro frontale con la soggettività operaia maturata in questi mesi di conflitto, decidendo di fatto per una delocalizzazione interna che facesse piazza pulita di chi aveva osato ribellarsi.
Si tratta di giovani e giovanissimi pakistani, uno spaccato di quella forza lavoro migrante oggetto dei più spinti meccanismi di sfruttamento e su cui insistono le politiche del razzismo istituzionale. E' proprio questa condizione di doppia subalternità e di ricatto che era stata spezzata dalle agitazioni che si erano susseguite dalla primavera all'estate dello scorso anno. Non solo importanti conquiste salariali, non solo liberazione del tempo precedentemente scippato da turni di lavoro infernali, ma anche un ribaltamento dei rapporti di potere all'interno del magazzino, ovvero il presupposto per conquistare “rispetto” e “libertà” lì dove paura e umiliazione sono sistema di controllo della forza lavoro.
L'ultima occasione
Lo sciopero inizia nel pomeriggio del 10 febbraio quando l'intenzione di chiusura da parte di Zara è ormai evidente sebbene non ci sia nulla di ufficiale. Quando i responsabili provano a fare la serrata, chi è al cancello entra dentro per impedirla. Viene convocata un assemblea straordinaria per decidere l'occupazione del magazzino. Piano piano arrivano tutti, anche quelli non iscritti al sindacato. Durante l'assemblea di domenica il nucleo di lavoratori protagonisti delle agitazioni dello scorso anno si salda a chi all'epoca era rimasto a lavorare e fedele all'azienda. E' il primo fallimento dell'operazione padronale che avrebbe voluto far schierare i lavoratori “affidabili” contro quelli “colpevoli” della chiusura a causa dei loro maledetti scioperi. Il gioco non funziona. Nonostante la promessa di ricollocazione per chi avrebbe fatto il crumiro circolata con decine di telefonate nelle ore precedenti, scelgono tutti di non perdere l'ultima occasione per mettersi anche loro davanti al cancello e ribellarsi ai loro padroni. Sono tutti ora a lottare. Le tensioni tra lavoratori nei giorni precednti non erano mancate, ma alla fine la certezza della chiusura imminente polarizza nel senso dell'unità nella lotta e non in quello, sperato e previsto dall'azienda, dello scontro tra lavoratori iscritti al Si Cobas e quelli rimasti fino a quel giorno “fedeli”.
L'assemblea viene interrotta dai carabinieri che ci tengono ad informare i lavoratori di cosa stanno rischiando: “verrete denunciati tutti, e perderete il permesso di soggiorno. Siete sicuri? Fatemi sapere”. La risposta arriva subito: “Stiamo tutti qui, fino alla vittoria”. I carabinieri possono solo prendere atto. Il magazzino è degli operai.
Il magazzino in mano agli operai
Solo un anno fa, prima dei picchetti, i caporali della cooperativa si facevano fotografare in magazzino seduti su delle poltrone, mentre altri gli lasciavano cadere addosso manciate di banconote. Probabilmente era i soldi dei facchini che ogni mese dovevano “restituirgli” una parte del proprio già schifoso salario in cash. Le foto venivano poi postate su Facebook, insieme a quelle delle abboffate delle domeniche che padroni, capi e caporali della cooperativa erano soliti fare. Rappresentazioni grezze e spudarate di “chi comanda”. Ad aprile il primo risultato strappato dagli scioperi fu proprio la cacciata dei caporali e dei vecchi responsabili. La chiusura del magazzino vuole essere la chiusura di questo spazio di libertà conquistato. La risposta operaia accetta la sfida e per 28 giorni prende possesso del magazzino. Le assemblee, le serate attorno al fuoco ai cancelli, le parite di cricket nel piazzale, il cinema in sala mensa, le grigliate della domenica, i balli: centinaia di nuovi scatti, fotografie di una storia nuova che non vuole tornare indietro. E ogni foto pubblicata su facebook è uno schiaffo in faccia a chi aspettava di vedere la paura, la disperazione e il pentimento tornare a governare quella forza lavoro.
Una nuova presenza
Il presidio permanente ai cancelli che blocca nel magazzino 39mila capi di abbigliamento diventa dai primi giorni, progressivamente, il punto di incontro tra la lotta e il territorio. Abitanti per lo più operai del Valdarno ed in particolare della vicina Bekeart (o ex-Pirelli), passata alle cronache nazionali negli scorsi mesi per la delocalizzazione che ha lasciato in cassa integrazione 300 lavoratori. Per chi viene a solidarizzare quegli operai, fino al giorno prima, erano solo quei misteriori pakistani che in biciletta sulla statale, ad orari improbabili, andavano chissà dove. I ventotto giorni di sciopero affermano una nuova presenza. Il Valdarno di crisi industriali e di impianti produttivi sparire da un giorno all'altra lasciando senza reddito intere famiglie ne vede quotidianamente. Ma è la combattività di questa nuova classe operaia migrante di cui il territorio fa esperienza per la prima volta. “Guarda questi fanno sul serio, fanno alla vecchia maniera. Davanti ai cancelli a bruciare i bancali, tutto bloccato”. L'anima operaia del territorio non nasconde una certa simpatia ed ammirazione.
Nessun funerale
In effetti, anche questa delocalizzazione, ha qualcosa di diverso. I diritti che si svogliono smantellare non sono i diritti “acquisiti” da mitiche lotta dei decenni passati. Gli operai che vengono scaricati dalla delocalizzazione sono gli stessi che pochi mesi prima quei diritti li avevano conquistati a quegli stessi cancelli. La multinazionale va allo scontro con una soggettività operaia che sa di poter fare male al proprio padrone. Sa come fare. Una soggettività che sa riconoscere nella propria unità collettiva una forza, già dimostratasi capaci di vincere e piegare alle proprie rivendicazioni un colosso multinazionale come Zara. La vertenza contro la chiusura non è un percorso assistito verso il funerale, alla ricerca di qualche ammortizzatore sociale. Fin dal primo giorno il presidio permanente non è lo strumento per dare visibilità alla disgrazia di 39 famiglie, ma il dito puntato contro la rapacità di una multinazionale e il simbolo di una resistenza possibile che si vuole portare avanti con tutti i mezzi a disposizione. La solidarietà che raccoglie è una solidarietà politica e di classe. Non ci sarebbe stata vittoria possibile diversamente. Fare male alla multinazionale, bloccare i flussi di merce e mettere i bastoni tra le ruote alla fabbrica del consumo: è questo il problema che per 28 giorni gli operai si sono posti nelle assemblee ai cancelli. Convinti di poter vincere.
Il conflitto nelle cattedrali del consumo
Se al primo tavolo in Prefettura il rappresentante di Zara si era limitato a ridere letteralmente in faccia alla delegazione degli operai, rivendicando la piena libertà di impresa, la vertenza inizia la sua svolta dopo circa 20 giorni. L'azienda è esaurita dai continui picchetti davanti agli ingressi dei negozi del marchio. Le vendite calano fino al 50%. E non si sa come venirne a capo. I facchini compaiono all'improvviso dentro il centro commerciale e rovinano tutto con la loro presenza. I centri commerciali sono e devono essere luoghi organizzati in tutto e per tutto per il consumo – lo spazio, le luci, le musiche: una gigantesca finzione che crolla di fronte a una piccola dose di realtà del conflitto sociale. Il boicottaggio raggiunge il suo obiettivo. Dopo qualche giorno anche i magazzinieri Zara del Centro Commerciale I Gigli entrano in sciopero. Li seguono quelli dei negozi di Via Calimala e Piazza della Repubblica. L'operazione della multinazionale è un boomerang.
Gli scioperi della scorsa primavera ai magazzini di Reggello inaugurarono la stagione di lotte nei magazzini e nelle fabbriche del territorio fiorentino e pratese che ad oggi non accenna ad arrestarsi. La battaglia combattuta in questi 28 giorni è facile immaginare che darà una nuova spinta ai processi di organizzazione e conflitto operaio sul territorio.
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Nuovo post su http://www.fondazioneterradotranto.it/2019/01/04/la-poesia-popolare-del-salento-parte-ii/
La poesia popolare del Salento (parte II)
di Cristina Manzo
Anche quando i Longobardi si stanziarono in Italia e vi furono le alterne vicende della lotta tra Bizantini e Longobardi, la penisola salentina fu una delle pochissime terre che restarono legate a Bisanzio, quindi anche allora i legami marini furono più forti di quelli terrestri. E così fino al secolo XI, in cui finalmente la potenza bizantina venne debellata da quella Normanna, una potenza peraltro venuta dal mare.
La penisola Salentina, che aveva mantenuto una continuità di legami prima con la Grecia e poi con Bisanzio, era stata quindi permeata da quella civiltà, lingua, costumi, cultura e continuerà, anche nelle epoche seguenti, a manifestare quella civiltà greca e bizantina, sia nel periodo normanno che in quello svevo e in quello angioino, fino all’aragonese. Dunque il mare per la penisola salentina è un elemento di unione, non di separazione. Da questa realtà sono derivati non solo la storia della penisola e la sua civiltà, ma i caratteri etnici, etnografici linguistici, folklorici.
È questa la causa dello stupore che suscita il Salento come regione pugliese così diversa dalle altre, sia pur vicinissime, che la sua unità e indipendenza dalle sorti e dalla civiltà del resto della Puglia ne fanno una regione a sé.
L’importanza dunque del mare nella vita della penisola salentina è capitale ed è la chiave di volta per la comprensione della civiltà, della realtà storica di essa.
Tutto il folklore salentino testimonia di tale realtà ed è illuminato da tale prospettiva. Dalla lingua, permeata, oltre che nelle forme, nell’atteggiarsi e nel flettersi, di classicismo greco e romano; alla fantasia e all’immaginativa fortemente estetizzanti; alle tradizioni e ai costumi, nei quali si rivela una continuità dalle antichissime epoche della Magna Grecia; alle leggende, in molta parte derivate dalla tradizione classica greca e romana e riecheggianti le varie vicende della regione, sempre legate all’Oriente; alle tradizioni religiose e profane; alle abitudini di vita dei pescatori e contadini; al loro modo di vivere e di poetare; alle manifestazioni d’arte popolare, in cui una raffinatezza di gusto e di genialità fa pensare alla vena artistica greca immessa d’oltremare in questa regione.
immagine tratta da http://www.expopuglia.it/turismo/visita-la-puglia/brindisi-e-provincia/lecce-e-provincia/gallipoli-e-i-gabbiani-lecce-208
La poesia popolare del Salento porta i riflessi del mare in tutte le sue forme e spesso tale riflesso segna i canti salentini di note che li rendono indipendenti dai canti delle altre regioni, tanto da poter fare avanzare l’ipotesi dell’origine locale dei canti stessi. Dalle ninne nanne, versetti: “Nare nare nare / A Caddipuli è bellu stare / Te ‘n facci te li fanésce iti l’onde te lu mare” o Scongiuri; proverbi: “Scerocche kiàre e tramendàne scure / Mittete a mare e nun avè pagùre” o filastrocche: “Lu rùsciu te lu mare è tantu forte”, ai canti d’amore, in cui i termini di paragone, le similitudini per la bellezza della donna amata sono attinti all’esperienza di vita.
Così in alcuni canti raccolti in luoghi marini si trovano più numerosi accenni al mare, termini tecnici marinari, immagini e visioni determinate dall’ambiente: “La ripa te lu mare”, “La nave”, “ L’àncuara”, “Lu pìscatore”5 . (trad. nelle note).
La poesia del Salento non è stata studiata in modo organico nelle sue molteplici espressioni ma, non sono mancate raccolte, alcune più ampie, come quella dell’Imbriani e Casetti, altre più ristrette come quella del Gigli e di altri. In tempi recenti un impulso più vivo e concreto alla raccolta e allo studio sistematico della poesia popolare salentina è stato dato dall’Istituto per le Tradizioni Popolari di Roma, sotto la guida illuminata e dinamica dell’illustre Prof. Paolo Toschi, che ha fatto svolgere ai suoi allievi salentini tesi di laurea e saggi su vari argomenti di poesia e di tradizioni popolari di questa regione.
Attingendo anche da questo prezioso lavoro svolto in precedenza, quindi, è poi stato fatto un tentativo molto faticoso e lungo di raccogliere poesie, filastrocche e canti lirici e popolari riguardo ogni tipo di evento (riti religiosi, funerali, lu cunsulu, credenze pagane, la storia dei tarantati, feste dei santi patroni, Natale, la passione di Cristo, leggende e tragedie, promesse e matrimoni), in un’area non molto vasta attorno a Lecce e cioè: Surbo, Castro e Castrignano del Capo, ponendo attenzione alle significative o, a volte impercettibili, varianti del dialetto e del conseguente significato attribuito alle parole6.
Giovani marittimesi negli anni ’70
Tutte le Strofe o gli Stornelli, anticamente e con frequenza, venivano usati nelle famiglie per comunicare con i bambini, (che li amavano particolarmente quando erano in rima), altresì, venivano narrati o cantati nei campi, per recare sollievo durante le lunghe ore di lavoro; o nascevano come proverbi e “spramenti” (avvertimenti esperienziali, nel senso che solo dopo che se ne è fatta esperienza se ne capisce il significato, a qualsiasi soggetto lo “spramento” sia connesso) riferiti a qualche mestiere faticoso come, per esempio, un canto raccolto a Surbo, che a quanto pare è collegato al lavoro del trappeto (termine salentino che indica il frantoio, dove avviene la spremitura delle olive per produrre l’olio): “Ci vuèi sacci le pene de lu ‘nfièrnu fane ‘nu mese e mìenzu lu trappìtu, la prima notte ‘nde pièrdi lu sennu, l’àutra notte lu sennu e l’appetitu”7. (Trad. nelle note).
A volte nascevano stornelli improvvisati per le strade o nelle piazze; in qualche ritrovo comune come una sala ricreativa, si creava l’occasione di una gara poetica in cui tutti amavano cimentarsi, dai più piccini ai più grandi; inoltre rime e strofe si prestavano molto bene quando si voleva trattare un argomento usando la satira o nelle dichiarazioni amorose. Gli stornelli e le filastrocche popolari, in tutto il Salento erano o narrati o canticchiati, con tonalità, musica e melodia quasi sempre improvvisati, le strofe o il numero dei righi o dei versetti di ogni componimento erano giustificati dall’occasione e dal contesto che li richiedeva.
(continua)
Note
4 Poesia religiosa narrativa, (fa parte dei canti raccolti in Castro), canto recitato da Luigi Schifano detto Lu Tarantinu, nato in Castro, nell’anno 1876, non legge e non scrive. Trad.: La presa che fecero i turchi una di quelle robe caricò. Una caricò più di tutti, portò via un grande tesoro. Capitò in mano a una donna turca che era arrivata ai dodici mesi e non partoriva. Lì si trovava una schiava cristiana, “Questa statua al paese devi rimandare”. La donna che sentiva doglie crudeli dentro un grande vascello avrebbe voluto rimandarla, ma prende una barchetta sconsolata e la butta un mare nell’aria imbrunita. La sera si partì dalla Turchia e in una notte fece tanta strada. Le genti otrantine avvistarono una luce, i marinai si buttano nel mare ma la Madonna indietreggiò. Cambiando capitolo, scese il Bonsignore e la Madonna a terra si tirò. Poi scrisse al Santo Papa per dire che si era trovata una gentile rosa. Il Papa dispensò il Giubileo per perdonare e salvare da ogni peccato, p.389, in La poesia popolare del Salento di I. M. Malecore, 1967.
5 Il mare nel folklore del Salento, di I. M. Malecore, Provincia di Lecce – Mediateca – Progetto EDIESSE (Emeroteca Digitale Salentina) a cura di IMAGO – Lecce. Traduzione, secondo l’ordine di scrittura dei versetti in vernacolo: “Nuotare, nuotare, nuotare, a Gallipoli è bello stare, ti affacci alla finestra e vedi le onde del mare”. “ Con gli scirocchi chiari e le tramontane scure, mettiti in mare e non avere paure”. “ Il rumore del mare è tanto forte”. “ La riva del mare, la nave, l’ancora, il pescatore”. http://www.culturaservizi.it/vrd/files/ZG1959_mare_folklore_Salento.pdf
6 Irene Maria Malecore, La poesia popolare nel Salento, Leo S. Olschki Editore MCMLXVII, Firenze, 1967. Biblioteca di «Larès», Vol. XXIV.
7 Canto di lavoro,( fa parte dei canti popolari raccolti in Surbo), canto recitato da Caterina Conte detta la Mangorfa, nata in Surbo, nell’anno 1868, contadina, legge e non scrive. Trad.: Se vuoi conoscere le pene dell’inferno fai un mese e mezzo al trappeto, la prima notte ci perdi il sonno, l’altra notte il sonno e l’appetito, p.342 in La poesia popolare nel Salento, di I.M. Malecore, 1967.
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LASAGNE D’AFRICA
I lapilli di ragù eruttano dalla bocca di un panciuto signore dalla vocalità stentorea e planano sulla sua canottiera che disegna una cartografia untuosa. La rigogliosa peluria pettorale bruna che emerge dalla scollatura arresta il moto gravitazionale di alcuni detriti di manzo in salsa di pomodoro. Compiaciuto alterna la masticazione del bolo di lasagna all’intonazione del motivo “Si va con Mussolini per l’Africa Oriental, abbiam con gli abissini molti conti da saldar…” ritmando vigorose percussioni della mano sopra il ginocchio monolitico ugualmente villoso. Esercito uno sforzo di alienazione acustica e visiva per neutralizzare quella presenza. Inutile. Le vibrazioni aggressive pervadono la sala da pranzo della Trattoria Mafalda, di cui siamo gli unici due avventori. Volgo lo sguardo alla finestra che si affaccia su una strada di Addis Abeba, oppressa dall’edilizia residenziale moderna. La Trattoria Mafalda è una fragile vestigia scampata per distrazione ai mutamenti di una metropoli panafricana competitiva. Le tende sdrucite, come cataratte esauste, offuscano la visuale polverosa su un mondo che non ha compreso. Le crepe nelle mattonelle ottagonali del pavimento insinuano la nobiltà dei gigli stilizzati . Non mi sorprenderei se la demolizione avvenisse in questo momento a opera di un costruttore indiano con noi accomodati ai tavoli, accartocciati nel rudere che sorregge alle pareti ritratti celebrativi dei Savoia e impettiti gerarchi fascisti. Sono alla ricerca delle tracce che hanno segnato la storia della mia famiglia e, drammaticamente, sconvolta la genealogia. Le stesse che sedimentano nel mio nome. A differenza dell’apparente dolcezza di Asmara, Addis Abeba si manifesta faticosa e dolente. Auspico che nessuna delle sordide tracce rigurgitate dall’individuo che canta nella trattoria coincidano con il mio passato avito. Una giovane cameriera etiope, dopo aver estratto il necessario dalla credenza tarlata e sbilenca, percorre la stanza trasportando il vassoio con i piatti e le posate, per apparecchiare il posto che occupo da pochi minuti. Intercetto lo sguardo del raffinato sconosciuto distante pochi metri che tenta di stabilire con me una complicità, quindi sentenzia -“Aò, ste abissine c’hanno er culo che sò dù Ambe. Ce voi morì n’artra vorta sull’Amba Alagi!”- Segue una risata densa di catarro. Scorgo la durezza nella mimica facciale della ragazza che liscia le grinze della tovaglia. Spero non mi stia comparando umanamente a quell’uomo mentre rimpiango di aver scelto questo mausoleo della nostalgia littoria per il pranzo. Riconosco al centro del piatto lo sbiadito emblema imperiale dell’Africa Orientale Italiana la cui base riporta solenne “romanamente”. L’usura ha scrostato il muso di uno dei due linguacciuti leoni avvinti al fascio. Dall’altro tavolo irrompe ancora un -“Bella che ce metti dentr’ar sugo pe fallo così bono? Ce sta’n piccantino. C’ho o metti tu eh? Se vede che te piace er friccicore, mannaggia a te.” Ride crasso battendo le mani. La voce, lo schianto delle membra prodotte da quel soggetto collidono contro i miei denti e i timpani. Cambio idea rivolto alla cameriera -“Mi scusi, servite solo cucina italiana o si può avere l’injera?”- Lei in un fluido italiano -“Abbiamo l’injera, certo!”- -“Ottimo, vada per l’injera! Me la cavo senza le posate.”- Mi sorride e ritira la forchetta e il coltello. Raggiunge l’ospite in canotta per sparecchiare i suoi resti. Lui -“C’ha i segreti questa. To’o farei vedè io’n gran segreto, ah ah ah.”- Si avvolge il pube con la mano sinistra, tende il braccio destro verso l’alto con le dita della mano unite e le domanda -“O sai fà sto saluto?”- Lei, imperturbata, reggendo i piatti -“Ho le mani occupate.”- -“Sempre occupate ce l’hai ste mani, ah ah ah! Tiente libera la bocca pe’cantà, sì va co Mussolini per l’Africa Oriental, c’abbiam co gli abbissini molti conti da saldar…”- La cameriera si dilegua verso la cucina. Lui, rivolto a me -“Se sò dimenticati tutto questi. Se nun era pe’i idaliani stavano ancora a magnà banane ne’e capanne de merda e n’groppa ai somari. Mi nonno, mi padre hanno costruito de tutto qui ner fascismo e mo sti abescià se fanno costruì e ferovie dai scinesi. Quei artri culi ggialli.”- Accosta alla bocca la mano destra a cucchiara e urla verso la porta della cucina -“Aòò, mo’o disci l’ingrediente segreto o c’hai i segreti coi scinesi pure tu? Ah ah ah!”- Un trepestio stanco e lento proviene da quell’uscio, ne emerge un’anziana donna in abiti amhara con la croce ansata tatuata nel centro della fronte e dei versi dalle sacre scritture incisi sul collo. Si regge a un bastone di legno adunco, nell’altra mano afferra un contenitore per le spezie sul quale è applicata un’etichetta indicatrice del contenuto compilata manualmente. L’italiano ammutolisce, con un gesto fermo la donna pone rumorosamente sul suo tavolo il contenitore sul quale c’è scritto in stampatello IPRITE. Decisa, lo guarda negli occhi e scandisce -“NUN CE SIAMO DIMENTICATI DE GNENTE.”-
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