#Roberta Cella
Explore tagged Tumblr posts
Text
SCOPERTE / Scritta a Ravenna e recitata nel maggio 1226 davanti a Federico II: ecco la vera storia della più antica lirica italiana
#SCOPERTE / Scritta a #Ravenna e recitata nel maggio 1226 davanti a #FedericoII: ecco la vera storia della più antica lirica italiana Tutti i particolari nell'articolo di @elenapercivaldi su Storie & Archeostorie @UniPisa | @edizionimulino
Il verso della Pergamena 11518 ter dell’Archivio Storico Diocesano di Ravenna-Cervia con il testo della canzone Nell’aprile 1226 Federico II e la sua corte, partiti da Brindisi, sostarono a Ravenna, comune fedele all’impero, facendovi tappa lungo il viaggio che doveva portarli a Cremona per partecipare alla Dieta in cui di sarebbero discussi i dettagli della nuova crociata promessa dallo Stupor…
View On WordPress
#Antonino Mastruzzo#Federico II#Il Mulino#Letteratura#letteratura medievale#libri#manoscritti#poesia#Ravenna#Roberta Cella#studi#Università di Pisa
0 notes
Photo
Aldo Bianzino: 14 anni fa l’assurda morte in carcere Quattordici anni fa, il 14 ottobre 2007 Aldo Bianzino, falegname 44enne e papà del piccolo Rudra, venne arrestato assieme alla compagna Roberta Radici, malata oncologica, per aver coltivato nell’orto di casa una decina di piantine di cannabis. 48 ore dopo uscirà dal carcere in una bara. Bianzino era un falegname, ebanista, che viveva a Pietralunga, un piccolo borgo sulle colline umbre; con lui c’era la compagna Roberta Radici, l’anziana madre di lei e il figlio Rudra. Aldo era un pacifista, esile, amante delle filosofie orientali e della natura. Aveva un orto dove praticava l’autoproduzione e all’interno di quell’orto coltivava anche una decina di piante di marijuana, esclusivamente per uso personale e terapeutico (Roberta aveva un tumore) dal momento che sia lui che la sua compagna erano incensurati e assolutamente estranei a qualsiasi giro di spaccio. L’arresto Quella sera del 14 ottobre 2007, 4 poliziotti e un finanziere si presentarono all’abitazione della famiglia, con lo scopo di eseguire una perquisizione domiciliare che in tutta evidenza era stata ordinata da un giudice. Nel corso della perquisizione gli agenti rinvennero una decina di piantine di marijuana e nonostante Aldo insistesse nel sostenere che si trattava solamente di erba per uso personale e terapeutico (ribadiamo che la compagna Roberta aveva un tumore che la ucciderà appena un anno dopo), procedettero all’arresto di entrambi i coniugi, lasciando a casa il figlio Rudra con la madre di Roberta 91enne. Passarono due giorni, la mattina di domenica 14 Roberta Radici venne invitata a seguire una guardia carceraria in ufficio, dove le si presentò il vice-ispettore capo della polizia che con toni decisi le formulò strane domande: Signora, suo marito soffre di svenimenti? Ha problemi di cuore? Roberta chiese il perché, ma l’ispettore insistette spazientito: Mi risponda! No, mai, mi dica perché… rispose lei. Lo stanno portando all’ospedale Silvestrini, possiamo ancora salvarlo, risponda! Roberta confermò che il compagno era sempre stato in perfette condizioni e così venne scortata nuovamente in cella. Dopo tre ore venne richiamata nella stessa stanza, con le stesse persone ma in più c’era un altro uomo in borghese: Lei è scarcerata, firmi, le dicono. Quando posso vedere Aldo? Fu la domanda immediata di Roberta. La risposta lapidaria: Martedì, dopo l’autopsia. La morte di Aldo le venne riferita così. In questo clima kafkiano per la famiglia iniziò un terribile travaglio. Successivamente si scoprirà che durante il primo colloquio in realtà Bianzino era già in obitorio e non in ospedale. Ma è solo una delle anomalie di una vicenda che è un vero buco nero. Le perizie Gioia Toniolo, ex moglie di Aldo, intervenne al fianco di Roberta per conoscere la verità: nominò avvocati e un medico legale di sua fiducia. Roberta Radici non ce la fece a proseguire la battaglia: morì un anno dopo, nel 2008, per il cancro. Secondo la ricostruzione degli agenti, Bianzino sarebbe stato ritrovato esanime nella sua cella e poi condotto all’infermeria per praticare una rianimazione, fallita. L’autopsia rilevò ematomi cerebrali, lesioni al fegato e alla milza che vennro collegati a evenienze traumatiche legate al tentativo di rianimazione. La morte sarebbe stata causata da un aneurisma cerebrale. Secondo i periti nominati dalla famiglia di Aldo, invece, il corpo presentava ematomi, costole rotte e danni a fegato e milza. Un quadro incompatibile con un semplice malore, ipotizzando invece un quadro lesivo derivante da un pestaggio messo in atto con tecniche militari utilizzate per danneggiare gli organi vitali senza lasciare tracce. Viene inoltre acclarato che la foto inserita nella perizia in cui fu mostrata la zona d’origine dell’aneurisma non fosse riconducibile a Bianzino. Nonostante ciò l’inchiesta venne archiviata due volte. In difesa della parte civile subentrò l’avvocato Fabio Anselmo, noto per aver assistito le famiglie di altre vittime dello Stato tra cui Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. Passano otto prima di arrivare a una sentenza definitiva. Nel 2015 Gianluca Cantoro viene condannato a un anno di reclusione per il reato di omissione di soccorso. Una sentenza che conferma la morte per cause naturali. Restano domande importani Gli altri punti oscuri della vicenda sono così riassumibili: Perché un magistrato avrebbe ordinato la perquisizione di due incensurati fuori da ogni giro di criminalità e spaccio? In base a cosa due coniugi incensurati, con un figlio minorenne, lei malata oncologia, sono stati immediatamente incarcerati? Perché mai Bianzino, un uomo esile, pacifico, non violento, collaborativo d’indole a detta di tutti, sarebbe stato pestato a morte ? Come mai l’indagine sulla morte di Bianzino fu affidata allo stesso magistrato che aveva ordinato la perquisizione, lasciando che ignorasse le perizie medico legali e confermasse la morte per cause naturali contro ogni evidenza? Oggi sono rimasti Rudra Bianzino e suo fratello Elia a chiedere verità per il padre. Kulturjam
29 notes
·
View notes
Text
Aldo Bianzino, “un assassinio di Stato”.
Aldo Bianzino, falegname di 44 anni, muore il 14 ottobre 2007 nella casa circondariale Capanne di Perugia, dove era stato portato in seguito al rinvenimento di alcune piante di canapa indiana nella sua abitazione.
Due giorni prima, il 12 ottobre, Bianzino si trovava nel suo casolare di Pietralunga insieme al figlio Rudra, 14 anni, alla compagna Roberta Radici e alla madre di lei, Sabina, quando bussano alla porta cinque poliziotti. Gli agenti, con in mano un mandato di perquisizione firmato dal pm Petrazzini, ispezionano per ore il casolare finché non trovano alcune piante di marijuana.
Benché Bianzino dichiari subito l’estraneità della compagna e affermi che si tratta di una coltivazione ad uso personale, sia lui che Roberta vengono portati al commissariato di città di Castello, poi alla questura di Perugia e infine nella casa circondariale Capanne, lui in isolamento e lei nel braccio femminile.
La visita medica di rito attesta che entrambi sono in buone condizioni fisiche.
Il 13 ottobre l’avvocato d’ufficio ha un colloquio con Aldo Bianzino, che trova in buone condizioni, e poi con Roberta Radici. Poco prima, Bianzino era stato portato all’ufficio del comando di polizia penitenziaria all’interno del carcere, ma ancora oggi non se ne conoscono i motivi. Secondo la testimonianza di un detenuto, quel pomeriggio Bianzino era stato fatto uscire dalla cella altre due volte: si sa per certo che nel corso del pomeriggio viene portato in infermeria, e sulla cartella clinica viene annotato solo che si tratta di una “visita”, senza alcun dettaglio ulteriore.
La mattina del 14 ottobre, intorno alle 7, un detenuto lavorante intento a fare le pulizie, scorge Bianzino seminudo ed esanime sul suo letto (le deposizioni dei testimoni non sono unanimi a proposito della posizione in cui fu trovato). Nella stanza la finestra è spalancata, malgrado sia quasi inverno. Solo un’ora più tardi gli agenti si renderanno conto della gravità delle condizioni dell’uomo. Bianzino viene allora portato in infermeria, che però è chiusa e così viene adagiato per terra. Con l’uomo sdraiato sul pavimento due medici effettuano un massaggio cardiopolmonare per tentare di rianimarlo, ma invano: alle 8.30 si constata il decesso.
Roberta Radici, insieme al Comitato Verità e Giustizia per Aldo, alle associazioni Antigone e A Buon Diritto, si è battuta per la verità sulla morte del compagno, fino a quando è scomparsa a causa di un tumore nel 2009. Da quel momento, è il figlio Rudra a portare avanti la richiesta di verità e giustizia per suo padre.. - via la classe operaia va in paradiso, fb
13 notes
·
View notes
Text
Si impiccò in cella dopo essere stato picchiato, riaperta l’inchiesta per istigazione al suicidio: coinvolti due agenti
Roberta Davi Era il 23 luglio 2018 quando Hassan Sharaf si impiccò nella sua cella. Quello stesso giorno era stato schiaffeggiato da un agente della Polizia penitenziaria in forza al carcere Mammagialla di Viterbo. Aveva 21 anni: morì una settimana dopo all’ospedale Belcolle. Sulla vicenda della morte del giovane ci saranno ulteriori approfondimenti. Lo ha stabilito la Procura generale presso…
View On WordPress
0 notes
Text
Perché è morto Aldo Bianzino? Chi lo ha ucciso?
A dieci anni dai fatti si riapre la battaglia per la verità sulla morte di Aldo Bianzino, «Ok, è arrivato il momento – scrive Rudra Bianzino sul suo profilo social – in queste ore i miei legali stanno lavorando alla RICHIESTA DI RIAPERTURA DEL PROCEDIMENTO PER OMICIDIO volontario A CARICO DI IGNOTI per quanto riguarda la vicenda di Aldo Bianzino, mio padre, morto dopo nemmeno 48 ore di carcere il 14-10-2007».
Rudra annuncia così «importantissime analisi e rivelazioni medico legali, che mettono a dir poco in discussione la verità processuale emersa sino ad oggi riguardo alle cause della morte di mio padre».
Stasera, in un centro sociale romano, il Forte Prenestino, Bianzino spiegherà meglio quali siano le relazioni che, esaminati tutti i fatti, i reperti, e le vicende processuali susseguitesi sino ad ora, hanno persuaso alcuni esperti «ad accettare l’incarico da me proposto volto alla richiesta di riapertura del fascicolo per omicidio ad oggi archiviato in virtù delle evenienze all’epoca acquisite, ma ad oggi superate».
E’ un appello per sostenere una battaglia lunga oltre dieci anni. «Chiedo a tutte le persone che leggeranno queste parole di unirsi alla mia voce, in maniera tale che non sia più solo un urlo perso nel vuoto di un ragazzo rimasto solo, ma un coro composto da tutta la società civile, dove l’interlocutore non potrà che prendere atto della voglia di verità e giustizia di una moltitudine di persone». Rudra, infine, ringrazia i legali Massimo Zaganelli e Cinzia Corbelli, i consulenti medico legali, Luigi Gaetti e Antonio Scalzo, per «la possibilità di proseguire in una battaglia importantissima per me e per tutte quelle persone che pretendono di vivere in uno Stato dove di carcere non si debba più morire».
«Altro ringraziamento al CSOA FORTE PRENESTINO ed a tutti gli organizzatori, gli artisti e le associazioni che parteciperanno oggi, Venerdi 27 Aprile 2018 alla serata benefit per far conoscere il caso di Aldo Bianzino».
«E se ad ucciderti fosse proprio chi dovrebbe difenderti, a chi ti rivolgeresti?», è la domanda che il dibattito nel centro sociale formulerà di nuovo. Rudra, figlio di Aldo, non ha intenzione di fermarsi e va avanti nella legittima richiesta di verità per lui e per chi subisce una qualsiasi forma di abuso da parte dei rappresentanti dello Stato e perché episodi come questo non possano piu ripetersi. «La seratà – spiegano gli organizzatori – verrà aperta dai racconti, dalle parole e dalle esperienze di chi in Italia per sua scelta o SUO MALGRADO si è trovato faccia a faccia con casi di “ordinaria” barbarie. Chi si fa carnefice attraverso una divisa puo contare su un sistema di garanzia di impunità. Noi ci interrgohiamo sul perchè tutto questo venga permesso! Abbiamo voglia di capire insieme agli altri come questo meccanismo possa essere non solo monitorato, ma definitivamente scardinato; siamo stanchi di questa macabra conta». Alla discussione con Rudra e gli occupanti del Forte interverranno: Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa; il “nostro” (nel senso di Popoff), Checchino Antonini che fu il primo a scrivere del caso dalle colonne di Liberazione, Gennaro Santoro (Antigone), Rosso Fiorentino (Regista indipendente), Giancarlo Castelli autore di un video su Mario Scrocca, ucciso in un carcere il primo maggio di 31 anni fa.
Aldo Bianzino, l’ebanista pacifico
Aldo Bianzino era un falegname di 44 anni residente a Pietralunga, a una ventina di chilometri da Città di Castello in provincia di Perugia. Il caso è ricostruito in una sezione del sito di Acad. Aveva scelto una vita appartata insieme alla compagna Roberta Radici e a suo figlio Rudra: un appezzamento di terra nel cuore delle colline umbre, una cascina, uno stile di vita alternativo all’insegna del pacifismo e delle filosofie orientali. Questo fa di Aldo il perfetto “attenzionato”, un elemento che non può passare inosservato in una piccola comunità collinare, ma che era e rimane una persona ben vista da tutti. Un hippie con la barba lunga, una decina di piante di marijuana coltivate nell’orto di casa e con un modesto lavoro di falegname, facilmente può essere etichettato come diverso. Per quelle piantine di canapa, la notte del 12 ottobre Aldo e Roberta vengono arrestati con l’accusa di possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Suo figlio Rudra, di appena quattordici anni e la nonna di novanta vengono lasciati completamente soli e lontani da tutto per due giorni. Vengono condotti al carcere di Capanne e separati in diversi reparti. Dall’ingresso in carcere Roberta non vedrà più Aldo se non dopo la sua morte. La mattina seguente alle ore 8.15 Aldo viene trovato morto nella sua cella. Ad annunciarlo alla moglie ancora detenuta nella sezione femminile , è un dipendente del carcere che ambiguamente esordisce con questa domanda: «Signora che lei sappia suo marito soffriva di svenimenti?». Sarà Roberta a descrivere il tono incalzante di quel surreale dialogo, che avveniva mentre Aldo era già steso sul tavolo dell’obitorio. «Signora suo marito soffre di cuore? Ha mai avuto problemi al cuore? E’ mai svenuto?», queste le domande che il dipendente dell’amministrazione penitenziaria rivolge alla compagna di Aldo. Roberta viene scarcerata verso mezzogiorno. Nei corridoi incontra quel funzionario accompagnato da un’altra persona e si precipita a chiedere quando avrebbe potuto vedere Aldo. L’uomo testualmente le risponde: «Signora, martedì dopo l’autopsia». Roberta muore un anno dopo di tumore, dopo aver dedicato gli ultimi mesi della sua vita alla ricerca della verità, convinta fin da subito che Aldo abbia subito violenze. Sarà il medico legale nominato da Gioia Toniolo, ex moglie di Aldo, il primo a parlare chiaramente di pestaggio “particolare”, effettuato con tecniche militari atte a non lasciare segni esterni ma a distruggere gli organi interni. Il fegato di Aldo presentava una profonda lacerazione. A curare le indagini è lo stesso Pm che ha ordinato l’arresto di Aldo che al primo incontro con la signora Toniolo esordì dicendo: «Signora lei non si deve preoccupare, svolgeremo indagini a 360 gradi, ma non è detto che troveremo il colpevole», dettaglio inquietante visto che il carcere è una struttura circoscritta sotto il pieno controllo delle istituzioni. Per ben tre volte il Pm Giuseppe Pietrazzini chiederà di archiviare il procedimento a carico di ignoti e ci riuscirà concludendo che Bianzino è morto per cause naturali in seguito alla rottura di un aneurisma cerebrale. Una prima fase delle indagini tecniche, basata sulle consulenze del Pm, evidenziava una causa di morte violenta. Ulteriori approfondimenti sulle videoriprese del carcere e su altri dati ricondurranno nuovamente il decesso a cause naturali determinando la definitiva archiviazione.
Mario Scrocca, l’uomo che lottava per i marciapiedi
Il 1 maggio 1987 alle 21.30 viene dichiarata, dai medici del S. Spirito di Roma, la morte di Mario Scrocca. Era stato prelevato il giorno prima da casa, accusato di un pluriomicidio avvenuto quasi dieci anni prima; su sua espressa richiesta durante l’interrogatorio era stato sottoposto a vigilanza a vista. Il ragazzo (27 anni) costretto in isolamento era sorvegliato con la cella aperta. Per un “errore” nel cambio di consegna degli agenti penitenziari, la sorveglianza a vista si trasforma in controllo ogni dieci minuti dallo spioncino. Alle 20 del primo maggio, orario del cambio di guardia, gli agenti trovano il giovane impiccato, non in una cella antisuicidio, ma in una cella anti impiccagione. Riuscì ad impiccarsi per uno scarto di 2 millimetri usufruendo dello spazio del water, incastrando la cima del cappio nella finestra a vasistas, cappio confezionato con la federa del cuscino scucita e legata alle estremità con i lacci delle sue scarpe (che erano stato confiscati insieme alla cintura al momento della carcerazione); lacci che torneranno magicamente sulle scarpe del ragazzo (uno regolarmente allacciato) quando arriverà al S.Spirito. I primi soccorsi vengono effettuati direttamente a Regina Coeli, sembra, nella stessa cella, poi il detenuto viene portato all’ospedale che dista circa 500 metri dalla casa circondariale, che purtroppo sono contromano, 1.6 km per un tempo stimabile al massimo in 10 minuti. Il trasporto avverrà nel portabagagli di una 128 Fiat familiare, anziché sull’autoambulanza di servizio del carcere. Due agenti di custodia e un maresciallo, senza alcuna presenza del medico che avrebbe dovuto prestare teoricamente il primo soccorso; appare evidente ai sanitari dell’Ospedale che nulla è stato tentato per salvare Mario. Arriverà al S. Spirito alle 21.00 già cadavere. Non sarà permesso ai familiari (avvisati per altro al telefono e senza qualificarsi) di vedere il corpo fino alle 6 del mattino successivo, che non presenta tracce di lesioni se non per l’enorme ematoma sulla spalla destra e sul collo, solcato da larghi e profondi segni, dichiarati dagli stessi sanitari, non prodotti da stoffa. Tre giorni dopo la morte di Mario, il Tribunale del Riesame revocherà il mandato di cattura. Dopo la costituzione come parte civile, nel procedimento aperto contro ignoti, della moglie, spariranno tutti i fogli di consegna, di ricovero e requisizione degli oggetti al momento dell’arresto. A distanza di un anno il procedimento si chiuderà in primo grado senza responsabili se non lo stesso giovane. L’accaduto è sempre stato volutamente nebuloso fin dall’arresto su dichiarazioni di una pentita che all’epoca dei fatti aveva 14 anni, dichiarazioni non di scienza diretta, ma di natura di relato proveniente da persona non rintracciabile e soprattutto al disconoscimento fotografico di Mario da parte della stessa pentita. Passando per le irregolarità nella carcerazione, nella morte del giovane e nei referti autoptici. Nessuno ha mai dato risposte se il giovane sia “stato suicidato” o se sia stato istigato al suicidio, reato che all’epoca non esisteva. La responsabilità “reale” di quel giovane è stata avere un nome troppo comune, una famiglia, un bimbo di due anni, un lavoro stabile, essere uno dei fondatori delle RdB del settore sanitario, amare il suo lavoro, la sua vita e le sue convinzioni politiche.
3 notes
·
View notes
Photo
ALDO BIANZINO (14 OTTOBRE 2007) Aldo Bianzino era un falegname di 44 anni residente a Pietralunga, paese che dista una ventina di chilometri da Città di Castello in provincia di Perugia. Aveva scelto una vita appartata insieme alla compagna Roberta Radici e a suo figlio Rudra: un appezzamento di terra nel cuore delle colline umbre, una cascina, uno stile di vita alternativo all’insegna del pacifismo e delle filosofie orientali. Questo fa di Aldo il perfetto “attenzionato”, un elemento che non può passare inosservato in una piccola comunità collinare, ma che era e rimane una persona ben vista da tutti. Un hippie con la barba lunga, una decina di piante di marijuana coltivate nell’orto di casa e con un modesto lavoro di falegname, facilmente può essere etichettato come diverso. Per quelle piantine di canapa, la notte del 12 ottobre Aldo e Roberta vengono arrestati con l’accusa di possesso e spaccio di sostanze stupefacenti. Suo figlio Rudra, di appena quattordici anni e la nonna di novanta vengono lasciati completamente soli e lontani da tutto per due giorni. Vengono condotti al carcere di Capanne e separati in diversi reparti. Dall’ingresso in carcere Roberta non vedrà più Aldo se non dopo la sua morte. La mattina seguente alle ore 8.15 Aldo viene trovato morto nella sua cella. Ad annunciarlo alla moglie ancora detenuta nella sezione femminile , è un dipendente del carcere che ambiguamente esordisce con questa domanda: ”Signora che lei sappia suo marito soffriva di svenimenti?”. Sarà Roberta a descrivere il tono incalzante di quel surreale dialogo, che avveniva mentre Aldo era già steso sul tavolo dell’obitorio. “Signora suo marito soffre di cuore? Ha mai avuto problemi al cuore? E’ mai svenuto?”, queste le domande che il dipendente dell’amministrazione penitenziaria rivolge alla compagna di Aldo. Roberta viene scarcerata verso mezzogiorno. Nei corridoi incontra quel funzionario accompagnato da un'altra persona e si precipita a chiedere quando avrebbe potuto vedere Aldo. L’uomo testualmente le risponde: “Signora, martedì dopo l’autopsia”. Roberta muore un anno dopo di tumore, dopo aver dedicato gli ultimi mesi della sua vita alla ricerca della verità, convinta fin da subito che Aldo abbia subito violenze. Sarà il medico legale nominato da Gioia Toniolo, ex moglie di Aldo, il primo a parlare chiaramente di pestaggio “particolare”, effettuato con tecniche militari atte a non lasciare segni esterni ma a distruggere gli organi interni. Il fegato di Aldo presentava una profonda lacerazione. A curare le indagini è lo stesso Pm che ha ordinato l’arresto di Aldo che al primo incontro con la signora Toniolo esordì dicendo:”Signora lei non si deve preoccupare, svolgeremo indagini a 360 gradi, ma non è detto che troveremo il colpevole” cosa al quanto inquietante visto che il carcere è una struttura circoscritta sotto il pieno controllo delle istituzioni. Per ben tre volte il Pm Giuseppe Pietrazzini chiederà di archiviare il procedimento a carico di ignoti e ci riuscirà concludendo che Bianzino è morto per cause naturali in seguito alla rottura di un aneurisma cerebrale. Una prima fase delle indagini tecniche, basata sulle consulenze del Pm, evidenziava una causa di morte violenta. Ulteriori approfondimenti sulle videoriprese del carcere e su altri dati ricondurranno nuovamente il decesso a cause naturali determinando la definitiva archiviazione. -Davide Libero Escogito-
7 notes
·
View notes
Text
“Una tragedia americana” è un romanzo fondativo e folgorante, un viaggio nelle viscere degli Stati Uniti, tra puritanesimo bigotto, ambizioni sfrenate, ferocia del capitalismo
Da quando è stato pubblicato, nel 1925, è al centro del dibattito letterario. La questione intorno alla quale critici ed esperti del settore si arrovellano è se siamo di fronte al tanto favoleggiato “grande libro” della letteratura americana o no. Per intenderci, il testo fondativo e alla base di una letteratura nazionale. Quello che I promessi sposi rappresenta per l’Italia, o il Don Chisciotte per la Spagna. Confesso che il dibattito mi lascia del tutto indifferente. Una cosa però non me la toglie nessuno dalla testa, soprattutto dopo avere riletto il romanzo a distanza di parecchi anni dalla prima volta: Una tragedia americana è un romanzo così americano che più americano non si può. Il suo autore, Theodore Dreiser (1871-1945), in quelle mille e passa pagine ha messo dentro veramente tutto quello che caratterizza e marchia a fuoco, nel bene e nel male, un grande Paese come gli Stati Uniti. Anche lo stile in cui è stato scritto, contraddittorio, farraginoso, a volte arruffato, è l’immagine sputata dell’America, con il suo sviluppo impetuoso e spesso brutale, generoso e selvaggio, così diverso e lontano dalla vecchia paralitica Europa.
* La trama del romanzo è presto detta: il giovane protagonista, Clyde Griffths, che sogna ricchezza e prestigio sociale, dopo aver lasciato la propria famiglia di predicatori, si trasferisce prima a Kansas City e poi in una piccola città dello stato di New York per lavorare in una fabbrica. Si lega a una giovane operaia, Roberta, ma contemporaneamente si innamora di Sondra, figlia della buona borghesia e che gli appare quasi irraggiungibile per la posizione sociale che occupa nella piccola città. Quando Roberta gli rivela di essere incinta, Clyde teme che la ragazza possa impedirgli di realizzare il suo miraggio di ascesa sociale e così decide di ucciderla; la porta in barca sul lago, ma al momento decisivo esita a mettere in pratica il suo piano. Però la barca si rovescia e mentre Clyde si salva la ragazza annega senza che lui muova un dito per salvarla. Accusato di omicidio, viene processato e condannato a morte. L’ultima parte del libro segue la sua lunga agonia nella cella della morte, nella vana e tormentosa attesa di una grazia che non arriverà mai.
* Nel romanzo c’è veramente tutto: il puritanesimo bigotto, la ferocia del capitalismo, l’insopprimibile individualismo, la sfrenata ambizione sociale, il sistema giudiziario ottuso, i miti del denaro e di un Paese dalle mille opportunità. Leggerlo è come fare un corso accelerato sulla società americana. Quella che abbiamo imparato a conoscere a spizzichi e bocconi attraverso tanto cinema, dai film western a quelli sulla malavita, con quei personaggi e quelle avventure che non potrebbero essere ambientate da nessuna altra parte.
*
Poi, come in tutti i grandi libri, ognuno ci trova anche quello che vuole. A me, per esempio, è piaciuta in modo particolare tutta la ricostruzione del processo al protagonista. C’è il presidente in toga seduto nel suo scranno con il martelletto, l’imputato, i vari testimoni chiamati alla sbarra, le personalità degli avvocati dell’accusa e della difesa. “Vostro onore mi oppongo alla domanda”, “Opposizione accolta” oppure “Opposizione respinta”. Quante volte abbiamo sentito queste battute. Confesso che a un certo punto non capivo più se stavo leggendo un romanzo o stavo vedendo uno di quei telefilm ambientati nelle aule di un tribunale degli Stati Uniti. *
Una tragedia americana è stato interpretato quasi sempre come una critica spietata al sistema americano e non c’è dubbio che uno degli obiettivi di Dreiser era quello di tirare fuori i mali di una società per molti versi spietata. Ma, a mio parere, sarebbe un peccato utilizzare il libro solo per confermare o meno i nostri pregiudizi. Molto meglio prenderlo come uno straordinario viaggio nell’America profonda, con i suoi grandi orrori e i suoi grandi ideali, multiforme e caleidoscopica, sogno e incubo. Io l’ho fatto e quando sono arrivato al termine mi è venuto spontaneo sulle labbra un semplice commento: That’s America!
Silvano Calzini
L'articolo “Una tragedia americana” è un romanzo fondativo e folgorante, un viaggio nelle viscere degli Stati Uniti, tra puritanesimo bigotto, ambizioni sfrenate, ferocia del capitalismo proviene da Pangea.
from pangea.news https://ift.tt/2Ngi8Vi
0 notes
Photo
Aldo Bianzino: 13 anni fa l’assurda morte in carcere Tredici anni fa, il 14 ottobre 2007 Aldo Bianzino, falegname 44enne e papà del piccolo Rudra, venne arrestato assieme alla compagna Roberta Radici, malata oncologica, per aver coltivato nell’orto di casa una decina di piantine di cannabis. 48 ore dopo uscirà dal carcere in una bara. Bianzino era un falegname, ebanista, che viveva a Pietralunga, un piccolo borgo sulle colline umbre; con lui c’era la compagna Roberta Radici, l’anziana madre di lei e il figlio Rudra. Aldo era un pacifista, esile, amante delle filosofie orientali e della natura. Aveva un orto dove praticava l’autoproduzione e all’interno di quell’orto coltivava anche una decina di piante di marijuana, esclusivamente per uso personale e terapeutico (Roberta aveva un tumore) dal momento che sia lui che la sua compagna erano incensurati e assolutamente estranei a qualsiasi giro di spaccio. Quella sera del 14 ottobre 2007, 4 poliziotti e un finanziere si presentarono all’abitazione della famiglia, con lo scopo di eseguire una perquisizione domiciliare che in tutta evidenza era stata ordinata da un giudice. Nel corso della perquisizione gli agenti rinvennero una decina di piantine di marijuana e nonostante Aldo insistesse nel sostenere che si trattava solamente di erba per uso personale e terapeutico (ribadiamo che la compagna Roberta aveva un tumore che la ucciderà appena un anno dopo), procedettero all’arresto di entrambi i coniugi, lasciando a casa il figlio Rudra con la madre di Roberta 91enne. Passarono due giorni, la mattina di domenica 14 Roberta Radici venne invitata a seguire una guardia carceraria in ufficio, dove le si presentò il vice-ispettore capo della polizia che con toni decisi le formulò strane domande: Signora, suo marito soffre di svenimenti? Ha problemi di cuore? Roberta chiese il perché, ma l’ispettore insistette spazientito: Mi risponda! No, mai, mi dica perché… rispose lei. Lo stanno portando all’ospedale Silvestrini, possiamo ancora salvarlo, risponda! Roberta confermò che il compagno era sempre stato in perfette condizioni e così venne scortata nuovamente in cella. Dopo tre ore venne richiamata nella stessa stanza, con le stesse persone ma in più c’era un altro uomo in borghese: Lei è scarcerata, firmi, le dicono. Quando posso vedere Aldo? Fu la domanda immediata di Roberta. La risposta lapidaria: Martedì, dopo l’autopsia. La morte di Aldo le venne riferita così. In questo clima kafkiano per la famiglia iniziò un terribile travaglio. Successivamente si scoprirà che durante il primo colloquio in realtà Bianzino era già in obitorio e non in ospedale. Ma è solo una delle anomalie di una vicenda che è un vero buco nero. Gioia Toniolo, ex moglie di Aldo, intervenne al fianco di Roberta per conoscere la verità: nominò avvocati e un medico legale di sua fiducia. Roberta Radici non ce la fece a proseguire la battaglia: morì un anno dopo, nel 2008, per il cancro. Secondo la ricostruzione degli agenti, Bianzino sarebbe stato ritrovato esanime nella sua cella e poi condotto all’infermeria per praticare una rianimazione, fallita. L’autopsia rilevò ematomi cerebrali, lesioni al fegato e alla milza che vennro collegati a evenienze traumatiche legate al tentativo di rianimazione. La morte sarebbe stata causata da un aneurisma cerebrale. Secondo i periti nominati dalla famiglia di Aldo, invece, il corpo presentava ematomi, costole rotte e danni a fegato e milza. Un quadro incompatibile con un semplice malore, ipotizzando invece un quadro lesivo derivante da un pestaggio messo in atto con tecniche militari utilizzate per danneggiare gli organi vitali senza lasciare tracce. Viene inoltre acclarato che la foto inserita nella perizia in cui fu mostrata la zona d’origine dell’aneurisma non fosse riconducibile a Bianzino. Nonostante ciò l’inchiesta venne archiviata due volte. In difesa della parte civile subentrò l’avvocato Fabio Anselmo, noto per aver assistito le famiglie di altre vittime dello Stato tra cui Federico Aldrovandi e Stefano Cucchi. Passano otto prima di arrivare a una sentenza definitiva. Nel 2015 Gianluca Cantoro viene condannato a un anno di reclusione per il reato di omissione di soccorso. Una sentenza che conferma la morte per cause naturali. Gli altri punti oscuri della vicenda sono così riassumibili: Perché un magistrato avrebbe ordinato la perquisizione di due incensurati fuori da ogni giro di criminalità e spaccio? In base a cosa due coniugi incensurati, con un figlio minorenne, lei malata oncologia, sono stati immediatamente incarcerati? Perché mai Bianzino, un uomo esile, pacifico, non violento, collaborativo d’indole a detta di tutti, sarebbe stato pestato a morte ? Come mai l’indagine sulla morte di Bianzino fu affidata allo stesso magistrato che aveva ordinato la perquisizione, lasciando che ignorasse le perizie medico legali e confermasse la morte per cause naturali contro ogni evidenza? Oggi sono rimasti Rudra Bianzino e suo fratello Elia a chiedere verità per il padre. Kulturjam
23 notes
·
View notes
Text
Domenica 23 settembre a Cagliari, presso Palazzo Siotto, alle ore 19.00 Roberta Bruzzone, criminologa e psicologa forense, presenterà il libro "A pista fredda, il delitto di Nada Cella" . Introduce il giornalista Fabio Marcello.
0 notes
Text
I dittatori made in America nel lungo silenzio elettorale
Ho grande nostalgia dei due giorni di ‘silenzio elettorale’. Dipendesse da me farei almeno un’elezione al mese. Due giorni senza le solite facce da culo sugli schermi di tutte le televisioni pubbliche e private, nazionali e periferiche, senza Marie Latelle intervistanti anche nel giorno che i cristiani dovrebbero dedicare al riposo, alla riflessione e ad altri riti più o meno santi. Due giorni senza talk politici, senza radio che gracchiano le note voci, odiose anche alle orecchie più insensibili e persino ai sordi. Vale a dire: la lussuria. O quantomeno due giorni di ecologia mentale e anche estetica. Perché se è vero come diceva Gillo Dorfles che il kitsch è utile per esaltare l’opera d’arte c’è un limite a tutto. Per non vedere certi nani politici o propriamente detti sarei disposto a rinunciare anche alla Muta di Raffaello. Anche i giornali, privati nei due giorni sacri ai cristiani e agli ebrei (e io vi aggiungerei pure il venerdì per non discriminare i musulmani) della polpa politica di cui abitualmente si nutrono e della sotto polpa dei sondaggi, cui generalmente dedicano quasi la metà del loro prezioso spazio (prezioso non per quello che vi è scritto ma perché va a tutto danno della Foresta Amazonica) sono costretti a servire un menù più variato e interessante.
E pure noi, disgraziati ‘addetti ai lavori’, abbiamo più tempo per leggere pezzi interessanti anche perché più visibili e collocati in una posizione adeguata. A me per esempio è capitato sottocchio un importante pezzo di Roberta Zunini pubblicato su Il Fatto domenica 4 marzo e intitolato La verità di Berta: in cella il mandante della eco-paladina. Vi si apprende che gli Stati Uniti hanno piazzato in Honduras la loro più importante base militare in Centroamerica e che, come scrive Zunini, “è ormai acclarato che il golpe militare del 2009 fu organizzato dalla Cia per deporre l’allora presidente Manuel Zelaya reo, agli occhi dell’allora segretario di Stato Hillary Clinton, di aver stretto un patto politico-economico con Hugo Chavez, a quei tempi ancora presidente del Venezuela e leader della Sinistra sudamericana”. Zelaya, un liberale, era il legittimo presidente, democraticamente eletto, dell’Honduras, ma la democraticissima Hillary Clinton non si è fatta scrupolo di toglierlo di mezzo attraverso un golpe militare, così come nel 2013 Barack Obama, questo finto nero e finto democratico, favorì il golpe militare del generale tagliagole Abd al-Fattah al-Sisi ai danni di Mohamed Morsi leader dei Fratelli Musulmani, eletto nelle prime elezioni libere egiziane dopo decenni di dittatura. Insomma gli americani non hanno perso il vizietto di piazzare dittatori qua e là nel mondo sbattendosene del loro sbandierato culto per la democrazia che poi cercano di imporre anche a popolazioni che, in modo autoctono, della democrazia non ne vogliono proprio sapere (vedi voce: Afghanistan).
Ma le notizie che ci fornisce Zunini, a me ignote ma probabilmente ignote a tutto il mondo ‘democratico’, vanno ben al di là della questione honduregna. Ci spiegano gli attacchi pressoché quotidiani e spesso pretestuosi all’erede di Chavez, Nicolas Maduro, che a differenza di Al Sisi e dell’honduregno Juan Orlando Hernandez non è un dittatore ma un capo di Stato messo in difficoltà col solito metodo di accerchiare economicamente un Paese fomentando così rivolte nella popolazione.
Adesso, finiti i beati giorni del silenzio elettorale ci tocca l’orgia della politica postelettorale. Spero che si vada di nuovo e presto alle urne prolungando possibilmente il silenzio ‘elettorale’ a un mese. Così torneremo, almeno per un po’, a respirare un’aria meno inquinata.
Massimo Fini
Il Fatto Quotidiano, 11 marzo 2018
Preso da: http://www.massimofini.it/articoli/i-dittatori-made-in-america-nel-lungo-silenzio-elettorale
https://ift.tt/2J0jLDx
0 notes
Photo
Parione9 gallery e amaneï presentano Yoga on My Skin mostra collettiva a cura di Rossana Calbi e Giulia Piccioni dal 22 luglio al 30 settembre 2017 inaugurazione 22 luglio, ore 19.00 Sabato 22 luglio alle ore 19.00 da ameneï, Yoga on My Skin è presentato nello spazio espositivo della galleria Parione9, inaugurando la stagione di Amaneï a Sana Marina di Salina. Se il corpo cambia, cambia lo spirito e se lo spirito cambia il cosmo intero si modifica* Yoga on My Skin è un progetto espositivo nato dalla collaborazione con lo studio tattoo Namaste di Torino e dalla sua titolare e artista Anita Rossi, ideato e curato da Rossana Calbi e Giulia Piccioni. Ci siamo ispirati allo studio di quest’antica disciplina del corpo e della mente per strutturare una progetto espositivo che avvicina il nuovo corpo femminile, quello tatuato delle stesse creatrici dei disegni sul corpo. L’insegnate di yoga e psicologa Giulia Piccioni ha scelto le Asana da proporre alle artiste che hanno realizzato dei lavori inediti per la mostra ideata dalla curatrice Rossana Calbi, per scoprire delle interpretazioni nuove, originali e non esclusivamente didascaliche. Opere di Nicoz Balboa, Genziana Cocco, Cecilia De Laurentiis, Cecilia Granata, Marta Ierfone, Marta Messina, Roberta Kinney, Anita Rossi, Maria Grazia Tolino *Gabriella Cella Al-Chamali, Il Grande Libro dello Yoga, Rizzoli Edizioni, p. 18 amaneï | via Risorgimento 71 Santa Marina Salina (ME) Isole Eolie orario: tutti i giorni 10.00 — 13.30 / 18.00 — 22.00 tel: 0909843547 | [email protected] | [email protected] | www.amanei.com
0 notes
Text
Veronica Anzovino sarà interrogata dal giudice nella giornata di giovedì 9 dicembre
Tribunale di Latina Nella giornata del 9 dicembre sarà interrogata Veronica Anzovino, la 34enne che è stata arrestata nei giorni scorsi per quanto riguarda l'inchiesta sulle estorsioni all'interno del carcere di Latina. Alla donna viene contestato il reato di estorsione continuata in concorso con lo zio Renato Barbieri, che si trova in carcere per la stessa vicenda, e la madre Roberta Barbieri, agli arresti domiciliari. La donna secondo gli investigatori era il collegamento tra il carcere, ove si trovava detenutolo zio e l’esterno, dove fungeva da sua emissaria tanto da essere stata l’unica, in un lungo arco temporale, ad accedere in carcere per far visita al detenuto, anche per definire i piani criminali già concordati: sarebbe stata lei, infatti, a gestire i proventi dell’estorsione posta in essere nei confronti del compagno di cella di Barbieri, vittima delle continue richieste di denaro e ricariche di Postepay. E se la Anzovino non era stata arrestata il 17 novembre insieme ai familiari a fornire gli elementi determinanti per arrivare al suo fermo sarebbe stati forniti proprio dallo zio e dalla madre i quali nel corso degli interrogatori di garanzia hanno consentito agli investigatori di definire con maggior precisione il quadro indiziario a carico della donna.L ’interrogatorio sarà svolto dal giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Latina Mario La Rosa, firmatario dell’ordinanza di custodia cautelare. Read the full article
0 notes
Text
Giovedì 7 giugno alle ore 21, al Festival del giornalismo 2018, presso piazzetta Francesco Giuseppe I di Ronchi dei Legionari (GO), Roberta Bruzzone presenta A pista fredda: il delitto di Nada Cella. Intervengo l'avvocato Roberta Gentileschi, il criminologo forense Emiliano Boschetti, la criminologa Margherita di Biagio e l'avvocato Laura Genovesi. Introduce e modera la presentazione la giornalista del Messaggero Veneto Luana de Francisco. Evento organizzato dall'associazione culturale Leali delle Notizie
0 notes
Text
Ennesimo scontro tra RATTI a Tripoli, ed a pagare sono i civili.
è da alcuni giorni che a Tripoli si susseguono gli scontri tra 2 milizie ENTRAMBI SOSTENITRICI DEL GOVERNO DI OCCUPAZIONE, SERRAJI; ma questo cercano tutti di negarlo, un altra cosa che a noi "occidentali" non è dato di sapere è che nella milizia "mucca", ci sarebbero combattenti Tunisini dei "Fratelli Musulmani", intanto i morti e feriti sono per la maggior parte civili. Ecco uno dei tanti atricoli disponibili, tra mezze verità, inesattezze più o meno volute.
Libia, assalto pro jihadisti Scontri e 20 morti a Tripoli
In azione un gruppo che si oppone al governo Serraj: voleva liberare i terroristi detenuti vicino all'aeroporto
Fausto Biloslavo - Mar, 16/01/2018 - 06:00
A Tripoli scoppia l'ennesima battaglia fra milizie alla vigilia del settimo anniversario della "rivolta2 contro Muammar Gheddafi. E in vista delle ipotetiche elezioni che dovrebbero tenersi in marzo con i gheddafiani che si stanno organizzando in massa per votare Seif el Islam. Gli scontri, che hanno causato 20 morti e 63 feriti, sono esplosi poco prima dell'alba di ieri attorno l'aeroporto Mittiga della capitale, che ha fermato tutti i voli. L'obiettivo principale era la prigione delle Forze di deterrenza Rada, un gruppo armato salafita integrato dal ministero dell'Interno del primo ministro Fayez el Sarraj appoggiato dall'Onu. Nel carcere sono detenute 1000-2000 persone, compresi terroristi dello Stato islamico e l'italiano Giulio Lolli. Il bolognese di 52 anni, dal 2011 in Libia, è rincorso da due mandati di cattura internazionale per reati finanziari. Le richieste di estradizione erano state fino ad ora respinte dai tribunali di Tripoli. Rada lo accusa di traffici illeciti, ma le sue avventure in Libia hanno sempre riguardato l'evacuazione di civili e feriti via mare dalle zone di battaglia come Bengasi. Nessun detenuto è stato ferito. La famiglia sottolinea che Lolli, in cella dal 28 ottobre, non sta bene e ha bisogno dell'assistenza consolare italiana. La milizia Zimrina che ha sferrato l'attacco è guidata da Bashir Al Bugra (la mucca), che voleva liberare i suoi uomini catturati dalle forze pro governo Sarraj. Mezzi delinquenti e mezzi rivoluzionari hanno un certo seguito nel riottoso quartiere di Suq Al-Jumaa e soprattutto nel vicino porto di Tajura. L'assalto è iniziato con artiglieria, armi pesanti e almeno due carri armati, che sono arrivati sulla pista dell'aeroporto. Al Bugra è appoggiato da alcune fazioni di Misurata, la città stato, che ha rotto con il governo Sarraj. I riferimenti della milizia sono il discusso grande mufti di Tripoli, Sadiq Al-Gharyani, che ha sempre puntato sul governo non riconosciuto dalla comunità internazionale di Khalifa Ghwell scalzato da Sarraj. L'aeroporto di Mittiga si trova nella parte orientale della capitale non lontano dall'ambasciata italiana. Colonne di fumo nero si sono levate dallo scalo. Raffiche e cannoneggiamenti hanno risuonato per ore. Il ministro Roberta Pinotti assicura che «il personale italiano della cellula di collegamento con il ministero della Difesa libico è stato messo in sicurezza da subito». Alla base navale di Tripoli è ormeggiata nave Capri con a bordo un reparto del reggimento San Marco di protezione. Anche l'ambasciata è presidiata dai nostri corpi speciali. Le forze governative hanno respinto gli assalitori e l'islamista, Abdulrauf Qara, capo della milizia attaccata vorrebbe lanciare la controffensiva fino a Tajoura per farla finita con Al Bugra. Nel frattempo lo scalo è chiuso. L'attacco non riguarda solo la liberazione dei prigionieri, ma avviene poche settimane prima del settimo anniversario della primavera araba che ha insanguinato la Libia sprofondando il paese nell'anarchia. Proprio ieri il premier Paolo Gentiloni ha avuto un lungo colloquio telefonico con il presidente russo Vladimir Putin incentrato sulla Libia. Grazie alle pressioni di Mosca sull'uomo forte nell'est del paese, il generale Khalifa Haftar, è stato trovato un accordo con il governo di Serraj su elezioni presidenziali e parlamentari quest'anno. Il voto dovrebbe tenersi a marzo. Due milioni di libici si sono già registrati per recarsi alle urne. Molti sarebbero ex fan del colonnello Gheddafi. Dopo anni di caos e milizie i gheddafiani, attraverso i loro canali tv all'estero, che trasmettono in Libia, dicono di voler votare per Seif el Islam. L'erede del colonnello era stato liberato lo scorso anno e si trova da qualche parte in Libia pronto a tornare in auge, milizie permettendo.
Con aggiustamenti da: http://www.ilgiornale.it/news/politica/libia-assalto-pro-jihadisti-scontri-e-20-morti-tripoli-1483416.html
http://ift.tt/2F25lzE
0 notes
Photo
Parione9 gallery e amaneï presentano Yoga on My Skin mostra collettiva a cura di Rossana Calbi e Giulia Piccioni dal 22 luglio al 30 settembre 2017 inaugurazione 22 luglio, ore 19.00 Sabato 22 luglio alle ore 19.00 da ameneï, Yoga on My Skin è presentato nello spazio espositivo della galleria Parione9, inaugurando la stagione di Amaneï a Sana Marina di Salina. Se il corpo cambia, cambia lo spirito e se lo spirito cambia il cosmo intero si modifica* Yoga on My Skin è un progetto espositivo nato dalla collaborazione con lo studio tattoo Namaste di Torino e dalla sua titolare e artista Anita Rossi, ideato e curato da Rossana Calbi e Giulia Piccioni. Ci siamo ispirati allo studio di quest’antica disciplina del corpo e della mente per strutturare una progetto espositivo che avvicina il nuovo corpo femminile, quello tatuato delle stesse creatrici dei disegni sul corpo. L’insegnate di yoga e psicologa Giulia Piccioni ha scelto le Asana da proporre alle artiste che hanno realizzato dei lavori inediti per la mostra ideata dalla curatrice Rossana Calbi, per scoprire delle interpretazioni nuove, originali e non esclusivamente didascaliche. Opere di Nicoz Balboa, Genziana Cocco, Cecilia De Laurentiis, Cecilia Granata, Marta Ierfone, Marta Messina, Roberta Kinney, Anita Rossi, Maria Grazia Tolino *Gabriella Cella Al-Chamali, Il Grande Libro dello Yoga, Rizzoli Edizioni, p. 18 amaneï | via Risorgimento 71 Santa Marina Salina (ME) Isole Eolie orario: tutti i giorni 10.00 — 13.30 / 18.00 — 22.00 tel: 0909843547 | [email protected] | [email protected] | www.amanei.com
0 notes