#Regina del Regno delle Due Sicilie
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La figura di Maria Cristina di Savoia
Un cortometraggio mette in scena il sogno di Roberto Bonaventura su Maria Cristina di Savoia: la reginella diventa davvero Santa di Stanislao Scognamiglio CITTÀ METROPOLITANA DI NAPOLI – Completata la fase progettuale, la splendida figura di Maria Cristina di Savoia, Regina del Regno delle Due Sicilie. sarà presto omaggiata con la realizzazione di un cortometraggio artistico musicale. Una…
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#cortometraggio#Gioacchino Vellutino#Maria Cristina di Savoia#Regina del Regno delle Due Sicilie#Roberto Bonaventura
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Filomena Pennacchio
Filomena Pennacchio è stata una delle più note briganti nel periodo post-unitario.
Nata come Filomena Sipicciani, il 6 novembre 1841 a San Sossio Baronia, in provincia di Avellino, da Giuseppe, macellaio e Vincenza Bucci, fu costretta a lavorare a servizio nelle case sin da piccola perché rimasta presto orfana.
Si sposò in giovane età con un impiegato di cancelleria del tribunale di Foggia, ma l’uomo era manesco e geloso, dopo l’ennesimo maltrattamento, lo uccise conficcandogli in gola uno spillone d’argento. Si diede così alla macchia, ai tempi un uomo poteva difendersi, per la donna non c’erano attenuanti.
Unitasi ai banditi, divenne la compagna di Giuseppe Schiavone, detto lo Sparviero, che ha affiancato da pari in diverse battaglie e incursioni.
Chiamata la regina delle selve per la sua abilità nel destreggiarsi in radure inesplorate, aveva un grande coraggio e buona abilità nel maneggiare le armi.
Filomena detta Pennacchio per il cappello con le piume da cui non si separava mai, ha partecipato a furti, imboscate, rapimenti, razzie. La sua prima azione intimidatoria, quando aveva 21 anni, avvenne contro la ricca Lucia Cataldo che non voleva pagare il dazio ai briganti. Aveva agguantato per le corna un bue che pascolava lì vicino e lo aveva sgozzato con un solo colpo.
Il 4 luglio 1863, a Sferracavallo, sulla consolare che da Napoli conduce a Campobasso, ha partecipato all’attacco di un drappello del 45° reggimento di linea, in cui dieci soldati hanno perso la vita.
Era incinta quando Schiavone venne catturato e l’aveva denunciata sperando in uno sconto di pena. Arrestata in casa di una levatrice, venne rinchiusa nel carcere di Melfi e, dopo aver partorito il figlio (registrato come Prigioniero a Melfi e ufficialmente “trovatello”), il 30 giugno 1865, fu condannata a vent’anni di lavori forzati nel carcere duro delle Fenestrelle, poi ridotti a nove per buona condotta e infine a sette. Intanto era stata accolta dalle suore dell’Opera Pia Barolo di Torino dove aveva imparato a leggere e scrivere.
Scontata la condanna, rimase in Piemonte a servizio in alcune famiglie prima di sposarsi, nel 1883, col commerciante di olio Antonio Valperga, con il quale condusse una vita borghese e tranquilla.
Nella seconda parte della sua vita si è dedicata all’accoglienza e all’aiuto di orfani, carcerati e poveri, ricevendo perfino la benedizione papale da Benedetto XV poco prima di morire, a Torino, il 17 febbraio 1915, proprio nel 54° anniversario della resa dell’esercito delle Due Sicilie alle truppe del Regno d’Italia.
La sua storia ha ispirato racconti, canzoni e nei libri Filomena Pennacchio. La brigantessa ritrovata, di Andrea Massaro (2014) e Filomena Pennacchio la regina delle selve. Storia e storie delle donne del brigantaggio di Valentino Romano (2024).
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#IdentitàPartenopea
NAPOLI 💙⚜
Città bistrattata, sottovalutata e abbandonata al giogo della criminalità organizzata. Ma Napoli non è così e non fu così. Lo è diventata. Metropoli brillante, aristocratica e colta, luogo d’incontro di svago e del bel mondo, viva e felice sotto la dinastia dei Borbone che inizia nel 1734 quando Carlo di Spagna conquista i regni di Napoli e Sicilia sottraendoli alla dominazione austriaca. Incoronato nel 1735 re delle Due Sicilie a Palermo, sceglie Napoli, come capitale del regno. Considerata dalla corte di Vienna un regno lontano e poco degno di prestigio…quasi fossero “le Indie”, Napoli in realtà era una magnifica metropoli di arte e cultura del Sud, per il Sud, per l’Europa, per il mondo, intorno alla quale si raccoglieranno ben presto letterati, filosofi e architetti provenienti da tutta Italia.
Il “buon re”, così come veniva chiamato Carlo di Borbone, farà venire a Napoli il toscano e saggio Bernardino Tanucci a cui affiderà le sorti finanziarie del regno. Pittori e architetti come Fuga e Vanvitelli per dare vita a teatri, porti, fortificazioni e ospedali. E’ l’inizio del gran settecento dei Borbone a Napoli e dintorni. La prima fabbrica di locomotive a Portici, e la vicina reggia dove insieme a Maria Amalia, sua sposa e figlia del re di Sassonia, si darà vita ad un maestoso progetto residenziale con due grandi parchi, l’orto botanico e il real museo delle antichità con i reperti e le sculture provenienti dagli scavi archeologici di Ercolano. E ancora, il palazzo reale a Napoli, il tunnel borbonico come via di fuga, il real albergo dei poveri, il Teatro San Carlo, il golfo di Napoli con la più grande acciaieria e i più grandi arsenali d’Italia.
Costretto a lasciare Napoli per tornare in Spagna, dopo 25 anni di regno, a Carlo succederà il figlio di otto anni, Ferdinando, che passata la reggenza, vedrà una Napoli all’apice del suo splendore con la regina Maria Carolina, severa e austera per amore della sua città. Centro di cultura e svago, la città partenopea attrarrà le più grandi corti d’europa e dei lumi, fino a quando con l’annessione al Piemonte e la successiva unità d’Italia nel 1861 si passerà dall’epoca d’oro settecentesca ad un periodo di brigantaggio nato dalla reazioni sanguinose suscitate dalla politica repressiva dei piemontesi e parallelamente l’avanzare della criminalità organizzata che approfitterà “… per accamparsi sul deserto delle istituzioni.”
“La storia dei vinti è scritta dai vincitori… ci saranno verità che i conquistatori vorranno nascondere“. E così, prima dell’arrivo dei Savoia, Napoli godeva di un’ ottima consistenza finanziaria. Il banco di Napoli contava 443 milioni di lire rispetto ai 148 dei piemontesi; il 51 %degli operai italiani erano occupati nelle industrie del Sud, la pressione fiscale sui cittadini meridionali era la metà rispetto a quella esercitata sui piemontesi dai Savoia, le produzioni agricole detenevano il primato grazie alla fertilità delle terra, alla salubrità dell’acqua e al clima mite. Finirà lo splendore, famiglie costrette all’elemosina, il commercio quasi del tutto annullato; opifici privati costretti a chiudere a causa di insostenubli concorrenze: tutto proveniva dal Piemonte, dalla carta finanche alle cassette della posta, non vi era faccenda con non era disbrigata da uomini e donne piemontesi che si prenderanno cura dei trovatelli…”quasi neppur il sangue di questo popolo più fosse bello e salutevole.”
Lina Weertmuller
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Calabria e Sicilia si incontrano per la prima volta quando ancora nessuno dei due porta il nome odierno: i loro padri, Italos e Sikelos, sono fratelli, e nonostante Sicania disprezzi entrambi gli uomini i due bambini interagiscono e formano una sottospecie di diffidente amicizia.
Amicizia che verrà poi cementata dall'avvento dei Greci: tutto il Sud inizia a prendere forma con la Magna Grecia, ma se spesso i rapporti tra le poleis sono tanto travagliati da non permettere a Lucia di legare molto con gli altri magnogreci, quelli fra le poleis calabre e sicule sono spesso di mutuo beneficio, al punto che più di una volta Reggio e Zancle furono unite in una sola entità amministrativa (basti pensare al tiranno di Reggio Anassila, che portò la/le città allo splendore). In questo periodo i due fanciulli sono in rapporti più o meno amichevoli, si fanno i dispetti e le linguacce e fanno a gara a chi ha più poleis, ma sono bambini, è normale.
Roma sta sul cazzo a Lucia e a tutto il Sud da quando questo li conquista, e lei per un bel po' evita tutto ciò che ha a che fare col continente da quando perde padre e madre davanti ai suoi occhi; con l'avvento del Cristianesimo, tuttavia, inizia a proiettarsi un po' più versi l'Italia, se non Roma, e in particolare recupera i rapporti con Calabria, ora che i primi focolari della Chiesa in Occidente nascono nelle loro città e i due si convertono -- e proprio il Cristianesimo sarà uno degli elementi che più li terrà legati, ho scoperto l'altro giorno che entrambe le regioni hanno il santo patrono in comune e che la patrona di Messina viene venerata anche a Palmi e sono sconvolta.
I due restano "legati" anche con la conquista bizantina, ma decisamente la vicinanza facilita i litigi e accende la rivalità fra i due che si era un po' stemperata sotto Roma. Complice anche il fatto che Rosa si faccia perlopiù i cazzi suoi, i due litigano su tutto e in particolare su Bisanzio e la sua autorità, finché Lucia non passa nelle mani degli Arabi e la situazione non cambia drasticamente.
Gli Arabi segnano un punto di svolta nella loro relazione: è la prima volta da circa l'età del bronzo che i due vengono separati, con la Calabria bizantina e la Sicilia araba, ed è in questo periodo che ha luogo la formazione dell'uno e dell'altra, in particolare per Lucia: cresce e impara a gestire i suoi sentimenti oltre che a regnare in pace, e ha una riluttante presa di coscienza nei confronti di quello che possibilmente prova per Calabria, mentre questo prova a reprimerli comunque, perlopiù fallendo. L'Impero Islamico muove guerre di conquista pi tutti i banni, ma lei combatte solo più vicino a casa, dove già ha degli avamposti ben piazzati e degli interessi, e non esita a chiedere aiuto militare ai fratelli bizantini contro i Sassoni quando arriva il tempo di scassare di botte i tedeschi.
Nel 1061 arrivano i Normanni, e Sicilia dal nulla si ritrova Contea e poi Regno, a cui è sottoposto quasi tutto il Sud. Lucia, nonostante mai avesse voluto governare su tutte quelle terre, prende il trono, e rende suoi consiglieri ufficiali tutti i rappresentanti dei territori che comanda (in particolare Puglia e Calabria), ritenendo che l'unico modo di conoscere i desideri del popolo sia circondandosi di validi consiglieri che siano al corrente dei bisogni delle genti. Una brava regina, ovviamente, non può mancare di amanti, e così Lucia ama Rosa, in seguito anche Antonio, ma soprattutto Salvatore, ora che lo può avere; non so bene che relazione avessero, ma immagino non avesse chissà quale natura romantica, considerato anche l'amore di litigare che hanno i soggetti in questione. Sicuramente lei ha scritto qualche sonetto su di lui, per quanto lo negherà fino alla morte.
Fast-forward alla morte di Manfredi, Lucia dice ciaone agli Angioini e va sotto la protezione di Aragona, mentre Salvatore resta controvoglia sotto gli Angiò ma molte sue città giurano fedeltà ad Aragona. Gli Aragonesi prenderanno poi tutto il Sud, regno di Sicilia e di Napoli, e la situazione rimane stabile per molto tempo, così come il loro rapporto di odi et amo tarocco. Nel frattempo Lucia fa altre conoscenze, inizia il Rinascimento, Messina diventa uno dei più grandi porti e città d'arte d'Italia e Salvatore rosica come non mai.
Salto a piè pari la storia napoleonica, ché non ci ho mai capito un fico secco e non mi ci voglio complicare la vita. Quella dei Borboni è una stagione di rivolte e di forte cameratismo l'uno verso l'altro, soprattutto a partire dal Regno delle Due Sicilie: quasi tutte le più grandi rivolte contro i Borboni sono opera loro, fino al 1848 che è il periodo in cui collaborano più strettamente, inviandosi aiuti e soccorsi a vicenda (e qua assistiamo a un ritorno di fiamma, vuoi per ripicca, vuoi per disperazione finiscono di nuovo insieme).
Risorgimento, Unità, eccetera: Lucia, delusa dalle promesse che i garibaldini hanno infranto, si ritira nell'entroterra e sulle coste tirreniche, occidentali e meridionali per allontanarsi il più possibile dall'Italia, contro cui si ribella più e più volte ma senza successo, e perde i contatti con tutto il continente, almeno fino al 1908. Il terremoto, forza distruttrice com'è, riesce a rinsaldare il loro rapporto apparentemente logoro, ed entrambi provano a consolarsi e farsi forza a vicenda, tanto che passeranno più e più tempo insieme, e ancora oggi quando succede qualcosa di grave sono i primi e fra i pochi a controllare come stia l'altro.
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15 MAGGIO 1860 - BATTAGLIA DI CALATAFIMI
Fu tutto una lotta terribile e cruenta senza risparmio di colpi come solo fra fratelli può accadere e per cui alla fine restarono morti sul campo una settantina di soldati borbonici e garibaldini, il più giovani di questi aveva quattordici anni. Ma andiamo per gradi.
La seconda guerra di indipendenza aveva dimostrato a quegli italiani che volevano la riunificazione della penisola sotto un'unica bandiera che il Regno di Sardegna non poteva da solo far fronte alla creazione dell’Italia. Benché l’Austria fosse uscita dalla guerra ridimensionata nel suo potere militare, il Regno di Sardegna non poteva impegnarsi militarmente ed economicamente per combattere lo stato pontificio ed il regno delle due Sicilie. Un altro punto che la guerra aveva reso chiaro era che un esercito di volontari poteva contrastare efficacemente un esercito agguerrito e ben addestrato. Questo era già stato dimostrato a Curtatone nella prima guerra di indipendenza, dove il Battaglione dei Studenti toscani guidati dai loro professori e coadiuvati da alcuni disertori dell’esercito borbonico, era riuscito a bloccare l’esercito austriaco nella sua manovra di aggiramento delle linee sabaude. Nella seconda guerra di indipendenza Garibaldi con i suoi Cacciatori delle Alpi aveva attraversato tutta la Lombardia battendo ripetutamente gli austriaci prima di essere fermato dalla firma dell’armistizio nei pressi di Trento. Apparve quindi chiaro che l’unica mossa da fare, se si voleva l’Italia unita, era procedere con dei volontari verso la Sicilia dove le rivolte erano ormai continue e regolari per poi risalire verso Napoli e quindi Roma. Sul piano internazionale Il regno Borbonico era inoltre isolato politicamente in quanto non aveva partecipato alla guerra di Crimea e non aveva più buoni rapporti con l’Austria e con l’Inghilterra che erano stati i suoi grandi protettori durante le guerre e rivolte precedenti. Venne affidato il compito di attaccare il Regno delle due Sicilie al vecchio Garibaldi che parti verso l’isola portandosi dietro i soldati che avevano combattuto con lui, i Cacciatori delle Alpi appunto, ed altri volontari provenienti dal nord Italia più alcuni fuoriusciti siciliani. Poiché parleremo spesso di Cacciatori anche per i Borboni è bene ricordarti che militarmente il termine Cacciatori indicava una truppa armata in modo leggero, abile a muoversi velocemente per contrastare il nemico.
Garibaldi per la sua partenza dettò una condizione: avrebbe partecipato all’impresa solo se il popolo siciliano si fosse ribellato. I siciliani che del ribellarsi ai Borboni avevano fatto ormai una sanguinosa ricorrenza, si ribellarono. Intorno a Palermo le truppe Borboniche faticarono a sopprimere i ribelli che li avevano attaccati. A Palermo, i rivoltosi sorpresi nel convento dove si erano riuniti per poi poter iniziare una rivolta in città, furono uccisi per la maggior parte sul luogo mentre i superstiti vennero fucilati senza processo in quella che è ora chiamata Piazza dei XIII martiri. Altre bande di ribelli restarono intorno Palermo attendendo l’arrivo di Garibaldi con cui si sarebbero coordinati per la presa di Palermo. Restò un clima di ribellione e attesa che rendeva insicuri i Borbonici aumentandone la cattiveria nella repressione. L’annuncio della ribellione siciliana convinse Garibaldi a partire. L’organizzazione della partenza verso la Sicilia ebbe qualche pecca organizzativa visto che vennero lasciati a Genova armi e munizioni, ma in fondo tutti quanti quando partiamo ci dimentichiamo qualcosa. Garibaldi dopo essere sbarcato a Marsala, si spostò a Salemi con un esercito armato con fucili delle guerre napoleoniche e con poco più di dieci proiettili per ogni soldato.
A Salemi Garibaldi prese alcune decisioni importanti. La prima fu quella di confermare che occupava la Sicilia in nome e per conto del Regno Sabaudo; la seconda fu quella di riorganizzare i Mille dividendoli in due battaglioni affidati a Bixio e Carini assorbendo anche tre compagnie siciliane appena formate. Queste tre compagnie erano costituite dai nobili che condividevano l’idea di Garibaldi e dai capi popolo locali; i loro uomini combattevano o per seguire una figura di riferimento o per rabbia, lasciando poco spazio a quell’ideale che nutriva i garibaldini e che li aveva portati a voler lottare 1000 contro circa 40.000 effettivi dell’esercito borbonico presenti in Sicilia. Le compagnie siciliane non si distinsero granché durante la battaglia, anche se Garibaldi ebbe buone parole per loro. Venne notato dai reduci garibaldini, la loro abilità ad evitare la lotta e sparare cercando prima di tutto un rifugio sicuro. Non dimentichiamoci però il proverbio siciliano “Megghiu porco chi suddatu”, meglio essere il peggio degli animali che un soldato, per evidenziare il valore minimo che i siciliani davano a chi combatteva o a chi si considerava un soldato; infatti nell’esercito borbonico i siciliani erano si e no il 10% degli organici ed erano tutti volontari perché gli isolani erano esonerati dalla leva; i re napoletani avevano infatti capito che dare un fucile a un siciliano equivaleva a regalare una tanica di benzina a un piromane. La propensione alla battaglia per i siciliani era elevata se pensiamo l’odio per i Borboni ma dal punto di vista militare era caotica e guidata dalla tradizionale indisciplina anarcoide siciliana e dalla riluttanza a diventare come chi odiavano; per questo inizialmente apparvero poco adatti alle tattiche di Garibaldi che si basavano sulla disciplina e sugli attacchi all’arma bianca. Il resto dei volontari Siciliani che si presentò a Salemi venne organizzato nei Cacciatori dell’Etna, nome pomposo che poi divenne più semplicemente “i Picciotti” dato comprendeva uomini e ragazzi con poche armi e valenza militare.
Sempre durante la permanenza a Salemi Garibaldi decise inoltre di puntare direttamente su Palermo senza cercare di unirsi con i rivoltosi che nell’isola stavano insorgendo. Una iniziativa saggia in quanto i pochi mezzi ed armamenti non potevano essere dispersi per l’isola dove era presente quasi metà dell’esercito effettivo borbonico. Lasciando Salemi, Garibaldi già sapeva che avrebbe presto incontrato i Borbonici. Per cui passato il paesino di Vita fece disporre i suoi uomini su una collinetta tenendoli nascosti e pronti all’azione. Le compagnie dei veterani davanti, quelle dei meno esperti dietro e sui fianchi le compagnie siciliane. La prima linea è formata dai carabinieri Genovesi e dalle Guide, gli esploratori che avevano informato il Generale della presenza dei nemici. I Borboni infatti aspettavano Garibaldi a Calatafimi, l’unica strada che da Salemi portava a Palermo, forti di quasi 2000 uomini al comando dell’appena nominato generale Landi.
Malgrado la nuova nomina a generale, Landi aveva sessantotto anni, un’età in linea con l’età media degli appartenenti allo stato maggiore Borbonico. Landi aveva passato tutta la sua vita nell’esercito, dove era salito di grado in grado, reprimendo le tante rivolte siciliane, combattendo quindi contro uomini male equipaggiati ed ancor meno organizzati. Era chiaro, come appare dai rapporti inviati ai suoi superiori, la sua preoccupazione nell'affrontare Garibaldi di cui ignorava le forze ma di cui temeva però il coraggio e l’esperienza. Landi non era stato mandato su quella strada alla cieca. Lo stato maggiore di Palermo, saputa la partenza di Garibaldi, aveva richiesto a Napoli di inviare truppe scelte formate da soldati svizzeri e bavaresi, a Marsala per prendere alle spalle Garibaldi. I battaglioni Re e Regina partirono quindi da Napoli diretti a Marsala, per fermarsi invece a Palermo cancellando di colpo il piano di chiudere tra due fuochi Garibaldi. Landi doveva quindi verificare e contrastare da solo la presenza dei ribelli in un territorio che gli era assolutamente ostile. Vi è un’unica strada che da Palermo portava a Salemi, il telegrafo era stato interrotto in molti punti, la popolazione si era nascosta nei paesi e non voleva dare vettovaglie ai suoi uomini ed ancora in azione erano le squadre dei ribelli di Rosolino Pilo, tutto questo rendeva Landi poco ardimentoso ed ancor di meno sicuro di impegnarsi in battaglia. Landi inoltre sapeva dei numerosi scontri che i Cacciatori Borbonici avevano avuto intorno Palermo ed il suo timore era doversi scontrare contro i ribelli e contro Garibaldi con le sue truppe costituiti da compagnie di fanti di linea armati anche loro di vecchi fucili napoleonici. A Calatafimi la sua colonna è però raggiunta da quella del maggiore Sforza proveniente a marce forzate da Trapani. Landi, a questo punto è forte ormai di quasi 3000 uomini, si sistema quindi prudentemente nel castello di Calatafimi e manda alcune colonne di uomini in giro per la campagna per intimorire i paesani e per verificare la presenza dei Garibaldeschi. Insieme alla colonna del maggiore Sforza al comando dell’8 Regimento Cacciatori, uscirono in esplorazione anche una compagnia di Carabinieri alcune di fanti di linea e una di Compagni d’Armi meglio noti come Birri di campagna, la polizia Borbonica che controllava il territorio. In totale la colonna che stava per affrontare le camice rosse aveva circa 600 soldati con quattro cannoni ed alcuni cavalleggeri.
Il maggiore Sforza rappresentava la nuova generazione dell’esercito Borbonico, era Palermitano ed aveva già ricevuto una medaglia d’oro per come aveva affrontato i ribelli Siciliani dodici anni prima. Era al comando dell’8 Regimento Cacciatori, un corpo scelto che stupidamente Landi mandò in giro per la campagna invece di tenerlo a sua disposizione. Forse voleva liberarsi di Sforza e dei suoi uomini troppo propensi alla battaglia e alla lotta. Landi inoltre ordina di esplorare la zona e di non impegnarsi in combattimento ordine che Sforza non esegue. Landi e Sforza rappresentano in modo esemplare l’esercito Borbonico. Landi attendista e per nulla combattivo, Sforza determinato ma senza una vera esperienza di guerra. Tra l’uno e l’altro manca la generazione degli ottimi comandanti che erano cresciuti nelle guerre Napoleoniche e che erano stati epurati nell'esercito con il ritorno dei Borboni. Entrambi hanno vissuto la vita militare quasi come un moderno nucleo antisommossa, intendendo la guerra come azioni di soldati ben armati contro civili senza alcuna esperienza militare e male equipaggiati.
Arriviamo al momento della battaglia. Il maggiore vedendo la compagnia dei Carabinieri Genovesi dispersi alla base del monte su cui si trova si dispone come da manuale militare in cima alla collina con i cannoni in bella vista ed i suoi Cacciatori, armati di ottimi fucili di fabbricazione belga a canna rigata, schierati su due file. Il suo problema maggiore è la mancanza di informazioni sul nemico che deve affrontare. Davanti a sé nota la presenza di uomini che invece di disporsi allo scoperto su una unica linea come fanno i suoi uomini si nascondono tra i cespugli e gli alberi. Solo alcuni di loro hanno la camicia rossa la maggior parte ha vestiti borghesi che permettono loro di non risaltare tra gli arbusti. Verso mezzogiorno però decide di muoversi ed ordina ai Cacciatori di scendere dal colle per attaccare i Carabinieri Genovesi e le Guide. Forse si era convinto che aveva di fronte pochi civili mal armati.
Garibaldi, che aveva alle spalle più di trent’anni di battaglie molti delle quali lo vedevano contrapporsi ai migliori eserciti europei. Attese quindi la discesa dei Cacciatori e all’ultimo minuto, quando ormai i Carabinieri Genovesi avevano incominciato a sparare con i loro fucili svizzeri a canna rigata (quelli che usavamo al Tiro a Segno di Genova) fece uscire allo scoperto i suoi uomini. i Cacciatori Borbonici nello scendere il colle subirono il tiro di precisione che ne scompagino i ranghi ed il morale, arrivati comunque in prossimità dei garibaldini si riallinearono ed aprirono il fuoco. In passato a questo punto i ribelli siciliani sparavano qualche colpo con i loro vecchi fucili e quindi si davano alla fuga determinando la vittoria dei militari. Questa volta invece il grosso dei garibaldini, uscendo allo scoperto si allinearono a loro volta e, passato il torrente che divideva le due collinette su cui erano attestati, incominciarono a caricare alla baionetta i soldati. Sforza diede ordine di sparare con i cannoni ed i garibaldini, come soldati esperti aprirono i quadrati in cui erano raggruppati per minimizzare le perdite dovuto al fuoco dei cannoni. Questo comportamento sorprese Sforza in quanto capì che non aveva di fronte dei semplici paesani incazzati ma dei soldati esperti. Dopo un fitto scambio di fucilate i Cacciatori vennero fatti indietreggiare al secondo terrazzamento dei tre che costituivano la collina, ed attesero i garibaldini.
Generalmente, se ti scontri con forze superiori e non hai il vantaggio della sorpresa, retrocedi ordinatamente fino al grosso delle tue forze. Se a questo punto Sforza si fosse ritirato avrebbe obbligato Landi a combattere e Garibaldi avrebbe dovuto affrontare delle forze che erano il doppio dei suoi uomini. Sforza invece insiste a voler combattere contro un numero di uomini superiori ai suoi e manda messaggeri a Landi per sollecitarne l’intervento, cosa che Landi si guardò bene dal fare. Garibaldi ordinò quindi l’assalto frontale con le baionette. In realtà non aveva scelta; se si fosse ritirato i Borbonici nel vedere la loro ritirata sarebbero scesi dal colle e meglio armati e organizzati com’erano avrebbero avuto facile gioco sulla maggior parte dei volontari che non avrebbero saputo come disimpegnarsi. Si doveva quindi attaccare e poiché non c’erano munizioni per tutti l’unico modo per farlo era all’arma bianca, la qualcosa non deve essere mal considerata. A quei tempi i fucili in dotazione ai garibaldini e (con l’esclusione dei Cacciatori di Sforza) al resto dei Borbonici, avevano una gittata di 300 metri e le pallottole raggiungevano il bersaglio nel 50% dei casi. Come diceva allora il generale russo Suvarov “La palla è cieca, la baionetta sa quello che vuole!”, così Garibaldi si mise in prima linea e senza far caso alle fucilate dei cecchini Borbonici incominciò a prendere d’assalto con la maggior parte dei suoi uomini la collina da cui in cima i Borbonici incominciarono a fare un fuoco continuo.
Una breve regressione militare. Nel suo libro “l’arte della guerra” il generale prussiano von Clausewitz aveva scritto molti anni prima che nessun soldato che veniva comandato ad attaccare con il rischio di morire, avrebbe mai eseguito propriamente il suo dovere se il suo comandante non avesse avuto le qualità morali per ordinarglielo e se non gli avesse dato l’esempio. Questo era quello che stava facendo Garibaldi incitando i suoi e risalendo il colle con loro ebbe l’effetto di moltiplicare la loro determinazione ed ardimento. Il Landi invece seduto indietro nella sua carrozza (per problemi fisici non poteva stare a cavallo) era il classico soldato burocrate che pur facendo il suo dovere in modo da minimizzarne i rischi, non motivava né tanto meno spingeva i suoi uomini nella battaglia con il suo esempio: dovevano obbedire perché erano soldati. L’esperienza di Garibaldi si vedeva inoltre nelle sue tattiche sul campo con attacchi nella parte centrale dello schieramento nemico e altri attacchi sui fianchi per aggirare ed indebolire la siepe delle baionette Borboniche. I garibaldini riuscirono quindi a risalire il monte e ad arrivate in prossimità della cima della collina. Quando Garibaldi vide che i Borboni tiravano sassi invece di sparare, capì che erano a corto di munizioni e quindi ordinò l’assalto generale di tutti i suoi uomini. A lui si unirono le compagnie che aveva lasciato di riserva e quelle siciliane che controllavano i suoi fianchi. Il maggiore Sforza si trovò in grossa difficoltà e chiese aiuto al Landi che preferì ordinare la ritirata. I Cacciatori borbonici si piazzarono tra i garibaldini ed il resto della colonna ed aprirono il fuoco con continuità con le ultime cartucce per potersi ritirare ordinatamente. Garibaldi non li insegui. Tre ore di assalto avevano sfiancato i suoi uomini e non voleva che da Trapani arrivassero altri soldati prendendolo tra due fuochi. Nella notte Landi decise di ritirare le sue truppe, la maggior parte delle quali non aveva nemmeno visto Garibaldi.
Qualche settimana dopo, di fronte alla corte marziale, Landi giustifico il suo ritiro con la paura di essere bloccato in un territorio ostile senza viveri e munizioni. In effetti nel ritirarsi mentre attraversarono Partinico i borbonici vennero presi a fucilate, e nel paese successivo diedero fuoco alle case di chi non voleva dare loro da mangiare. In fondo più che una battaglia era stato uno scontro cruento dove uno dei due contendenti si era ritirato per paura di danni più gravi e per evitare di restare circondato. La corte marziale diede ragione al Landi: i vecchi generali che lo avevano giudicato ammisero che anche loro si sarebbero comportati come lui aveva fatto a dimostrare come anche senza Landi la battaglia sarebbe finita allo stesso modo.
La vittoria però fu strategicamente importante per Garibaldi in quanto il ritorno degli uomini di Landi a Palermo male in arnese e da sconfitti fece una grande impressione sui palermitani che per anni si erano abituati a violente rivolte seguite da feroci repressioni e che ora vedevano per la prima volta l’esercito Borbonico seriamente sconfitto dai ribelli e capirono che la resa dei conti era vicina. Garibaldi inizio quindi quella che fu una marcia da manuale verso Palermo, depistando le colonne Borboniche che lo inseguivano ed entrando in città dalla parte dove i Borbonici non lo aspettavano. Una volta in città, forte dell’appoggio del popolo, i Borbonici non lo poterono più fermare.
(P.s. Qualcuno mi scriverà (soprattutto i neo Borbonici) che Landi fu accusato di aver ricevuto dei soldi dal regno Sabaudo per aver perso a Calatafimi cosa per cui Garibaldi dovette scrivere una lettera che scagionava il generale dall’accusa infamante. In realtà, qualche settimana dopo, nella battaglia di Milazzo si ebbe un comportamento simile a quello di Calatafimi: il maggiore borbonico Beneventano Del Bosco aveva effettuato un efficace contrasto dell’attacco garibaldino ma alla sua azione si contrappose il rifiuto del vecchio comandante borbonico del castello di far partecipare i suoi uomini alla battaglia, nel momento più cruciale della stessa, obbligando il maggiore al ritiro delle truppe nell'abitato. I generali borbonici erano più attenti a seguire il loro dovere che gli interessi del loro governi, come molti burocrati attuali, e come in uno stato feudale, il loro ruolo era più importante del motivo per cui gli era stato dato. Landi fu comunque più fortunato del generale Briganti, che venne trucidato dai suoi uomini, stanchi di dover ripiegare senza combattere).
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Le visite del re Borbone Francesco I a Formia
Francesco I di Borbone In realtà in quel tempo esistevano i due quartieri di Mola e Castellone di Gaeta ma questo non ha impedito, come ha raccontato il cultore di storia locale Daniele Iadicicco, di veniore a visitare l'amena Formia antica di un tempo, in quanto appartenente al suo regno. Si tratta del re Borbone Francesco I, che regnò su Napoli solo dal 1825 sino al 1830, eppure in almeno due occasioni soggiorno a Formia. Nell’ aprile del 1825, è domenica 11 quando Re Francesco e la sua consorte Maria Isabella, accompagnati dal Duca e dalla Duchessa di San Valentino, arrivano a Mola di Gaeta. Si tratta del primo viaggio ufficiale di Francesco e Isabella all’estero, da quando sono diventati Re e Regina delle Due Sicilie. L’arrivo previsto è Milano e la prima sosta non poteva che essere Mola di Gaeta. Un soggiorno piuttosto lungo, a differenza delle consuetudini. La compagnia, formata peraltro anche dal Principe di Scilla, dal Duca di Ascoli e dalla Duchessa di S. Teodora, stazione in città per quasi due giorni, intrattenendosi per domenica ma anche per buona parte di lunedì 11 aprile 1825. La seconda visita di re Francesco I è più intima ed avviene quattro anni dopo. Siamo nel 1829 ed il Re accompagna la propria figlia prediletta, Maria Cristina, nel viaggio che l’avrebbe portata alla volta della Spagna dove sposerà il cugino Ferdinando VII divenendo Regina. #cultura Read the full article
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IL MUSMI ARRICCHISCE L' OFFERTA ESPOSITIVA
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IL MUSMI ARRICCHISCE L' OFFERTA ESPOSITIVA
Il Musmi arricchisce la sua offerta espositiva. Un nuovo allestimento è pronto a valorizzare il Museo Storico Militare collocato nel Parco della Biodiversità di Catanzaro.
Grazie alla convenzione stipulata, a suo tempo, dalla dirigente Rosetta Alberto con l’associazione “Calabria in Armi”, sarà possibile apprezzare il rinnovato progetto espositivo curato dal colonnello Salvatore Moschella.
Nello specifico, il periodo napoleonico e quello risorgimentale duplicheranno la loro superficie espositiva con la collocazione di numerosi nuovi cimeli, quali l’elmo delle Guardie d’Onore a cavallo della guardia reale del Regno Italico, quello di ufficiale del reggimento di cavalleria dragoni “Regina” e la divisa completa di sciabola, corazza ed elmo di un ufficiale di un reggimento corazzieri dell’impero Austro-Ungarico. Mentre lo spazio dedicato agli Ussari ospiterà rari reperti e uniformi del Regno delle due Sicilie.
Una nuova grande sala accoglierà, inoltre, i cimeli militari riguardanti la battaglia di Maida del 4 Luglio 1806, la cui ricostruzione modellistica costituirà uno strumento didattico prezioso per comprendere l’evoluzione del confronto fin nei suoi minimi particolari.
A realizzare una perfetta e fedele riproduzione in scala della Battaglia, con la finitura di oltre 1000 soldatini di piombo e la pitturazione degli stessi, sono stati numerosi ragazzi che, svolgendo il servizio civile, hanno dedicato il loro tempo all’arte, coordinati dal prof. Giuseppe Spatola dell’Accademia di Belle Arti di Catanzaro.
L’idea del presidente del Parco Michele Traversa, condivisa dal presidente della Provincia Sergio Abramo, è servita a regalare al Museo tanti nuovi pregiati pezzi da esporre al pubblico.
A dieci anni dalla sua inaugurazione, avvenuta sotto la presidenza di Michele Traversa, oggi presidente del Parco, il Musmi è divenuto un punto di riferimento per appassionati di storia e scolaresche provenienti da tutta la regione.
E le novità al Parco della Biodiversità continuano con la ristrutturazione della voliera che da tempo non era più in grado di ospitare gli esemplari di uccelli. Tre avvoltoi, un gufo reale e la famiglia delle aquile rapax sono ritornate nella loro casa.
La sostituzione dei travi portanti in stato di marcitura, il ripristino dei posatoi con erba sintetica e la ricostruzione dei nidi hanno reso possibile il ripristino del riparo per animali, curati dall’amorevole opera prestata dal direttore sanitario del Cras, Debora Giordano.
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Lo stemma asburgico della chiesa del SS. Crocifisso di Latiano
Le pietre raccontano: lo stemma asburgico della chiesa del SS. Crocifisso
di Latiano, una traccia dell’architettura latianese del XVI secolo
di Marcello Semeraro
Premessa
L’identificazione di stemmi anonimi raffigurati su dipinti, monumenti, edifici, chiese e altri manufatti è un’operazione molto utile nel lavoro di ricerca dello storico e dello storico dell’arte. Molto spesso, infatti, è proprio la corretta lettura di un’insegna araldica lo strumento che consente di restituire uno “stato civile” (una datazione, una provenienza, una committenza) al manufatto su cui essa è riprodotta. Eppure, nonostante queste premesse, le potenzialità dell’araldica come scienza documentaria della storia restano ancora oggi inesplorate o, peggio ancora, mal espresse, soprattutto nel Sud Italia. Il caso della stemma della chiesa del Santissimo Crocifisso di Latiano è esemplificativo di quello che può essere l’enorme contributo offerto dall’araldica alla ricerca storica. L’analisi di questo manufatto sarà oggetto di un mio più corposo contributo che vedrà la luce prossimamente sulle pagine della Rivista del Collegio Araldico. In questa sede mi limito pertanto a presentarne una breve sintesi.
Fig. 1. Latiano, chiesa del SS. Crocifisso, muro perimetrale, particolare dello stemma lapideo
Lo stemma asburgico
Lo stemma è murato sul lato del muro perimetrale della chiesa del SS. Crocifisso prospiciente Via Colonnello Montanaro. Il manufatto, di chiare fattezze cinquecentesche, è delimitato da una cornice rettangolare scavata nella pietra e nobilita l’architettura anonima del lato dell’edificio su cui è collocato. Dai documenti di archivio si ricava che l’attuale chiesa, edificata negli anni 1603-1624, fu costruita sulla preesistente chiesa di San Sebastiano, sede dell’omonima confraternita, della quale tuttavia non sono note le vicende costruttive. La composizione araldica è particolarmente complessa e si caratterizza per la presenza di ben trentaquattro quarti, distribuiti sulla superficie di uno scudo semirotondo dalla foggia tipicamente spagnola (fig. 1). L’esemplare appare in un stato di conservazione non buono e si presenta con vistose carenze osservabili nella parte relativa alle ornamentazioni esterne dello scudo. Circa la sua attribuzione, l’opinione dominante fra gli studiosi locali vuole che l’insegna sia da assegnare all’imperatore Carlo V d’Asburgo (*1500 †1558). Di questo parere è, ad esempio, Salvatore Settembrini, uno dei più noti cultori di storia latianese, che considera la presunta arma carolina una prova importante della continuità storica fra la chiesa di San Sebastiano e quella del SS. Crocifisso. Tuttavia, l’analisi attenta dell’esemplare in questione dimostra tutta l’infondatezza di tale consolidata attribuzione. L’araldista esperto riconosce facilmente che sulla superficie dello scudo inquartato è rappresentata una combinazione di due differenti armi: quelle della Casa d’Asburgo-Spagna uscita da Carlo V (1° e 4° gran quarto) e quelle del Regno di Inghilterra (inquartato di Francia moderna e di Inghilterra), queste ultime rappresentate secondo la modifica apportata da Enrico IV nel 1405 (2° e 3° gran quarto) (fig. 2).
Fig. 2. Stemma del re d’Inghilterra Enrico IV. Armes, noms et qualités de touts les chevaliers du tres noble ordre de la Jartiere, qui ont esté depuis l’institution dudit ordre, faicte, l’an 1350, par Eduard 3, roy d’Engleterre, jusqu’à present 1647; par Charles Soyer, genealogiste et enlumineur du roy” (1601-1700), BNF, ms. fr. 2775, fol. 24r.
Al centro dell’inquartato, nella posizione detta sul tutto, è collocato lo scudetto d’Austria, arma d’origine che sottolinea l’appartenenza del titolare dello stemma alla Casa d’Asburgo, mentre nella punta dello scudo è innestata l’insegna di Granada. Non è questa la sede per descrivere dettagliatamente i singoli quarti e le loro modalità aggregative nel corso del tempo, aspetti che verranno trattati in maniera approfondita nel mio saggio di prossima pubblicazione. Qui mi limito ad osservare che nel primo e nell’ultimo gran quarto, la disposizione dei quarti di Castiglia, León, Aragona, Aragona-Sicilia, Ungheria antica, Borgogna antica e moderna presenta vistose irregolarità sia nell’organizzazione delle singole insegne, sia nel rispetto delle proporzioni delle partizioni che le dividono. Mancano, inoltre, alcuni quarti che solitamente trovano posto negli stemmi degli Asburgo di Spagna: Fiandra, Brabante e Tirolo, per la parte asburgico-borgognona, e Gerusalemme, associata a Ungheria antica, per la parte relativa al Regno di Napoli. I restanti gran quarti mostrano invece i gigli di Francia correttamente inquartati con i leoni passanti inglesi, sebbene questi ultimi non siano rappresentati nella loro abituale posizione, cioè con la testa di fronte, ma di profilo. Lo stemma è completato da una serie di ornamentazioni esterne impiegate come insegne di dignità che alludono, come vedremo, a determinati status del titolare: una corona, mutila della parte relativa al rialzo, un’aquila accollante lo scudo, che si presenta acefala, e, attorno allo stesso scudo, il collare dell’Ordine del Toson d’Oro. Malgrado le irregolarità osservabili nella composizione dello stemma, dovute probabilmente a un errata copia del blasone da parte dello scalpellino, non ci sono dubbi sulla sua attribuzione.
Fra i sovrani asburgici che si succedettero sul trono di Spagna fino a Carlo II (†1700), infatti, solo uno può aver innalzato un’arma come questa: Filippo II (*1527 †1598), figlio e successore di Carlo V, re di Napoli dal 1554, re di Spagna e delle Due Sicilie dal 1556 e sovrano consorte d’Inghilterra dal 1554 al 1558 a seguito del suo matrimonio con la regina Maria I Tudor (†1558), dalla quale non ebbe figli.
Fig. 3. Oxford, cappella del Trinity College, vetrata con stemma Filippo II (periodo 1556-1558).
Dall’osservazione dei numerosi esemplari araldici realizzati nel quadriennio 1554-1558 e riprodotti su supporti di vario tipo (monete, sigilli, monumenti, opere a stampa, vetrate e altri manufatti), emerge chiaramente che entrambi i sovrani solevano abitualmente rappresentare le rispettive armi sulla superficie di uno scudo partito (figg. 3, 4, 5 e 6).
Fig. 4. Arma reale di Filippo II e Maria Tudor scolpita sulla Mary Tudor Tower del Castello di Windsor
Fig. 5. Mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556.
Fig. 6. Fig. Altro mezzo ducato d’argento di Filippo II, Napoli, 1554-1556
La forma inquartata, attestata sull’esemplare latianese, costituisce da questo punto di vista una variante insolita che, tuttavia, nulla toglie alla riconoscibilità del titolare dell’arma. Un’ulteriore prova dell’attribuzione certa del manufatto latianese ci viene offerta dall’analisi delle insegne di dignità che completano la composizione dello stemma. Come si vede nell’illustrazione, l’aquila che accolla lo scudo appare acefala, ma il resto del corpo non lascia dubbi sulla sua natura. Si tratta della cosiddetta aquila di San Giovanni, di colore di nero, nimbata d’oro e munita della caratteristica coda a ventaglio.
Fig. 7. Toledo, Escuela de Artes y Oficios Artísticos, facciata, particolare dello stemma dei Re Cattolici con l’aquila giovannita
Fu questo un emblema caro a Ferdinando II d’Aragona e a Isabella di Castiglia (fig. 7), che in seguito fu adottato anche dalla figlia Caterina (regina consorte d’Inghilterra come moglie di Enrico VIII e madre di Maria Tudor) e dallo stesso Filippo II, pronipote per via paterna dei due Re Cattolici (figg. 8 e 9). Quanto alla corona che timbra lo scudo, si osserva che essa è abrasa nella parte superiore, limitandosi ad solo cerchio e a qualche frammento di fiorone: troppo poco, apparentemente, per descriverne l’esatta foggia. Tuttavia, l’osservazione attenta di quel che resta del rialzo permette di affermare che questa corona, simbolo del potere reale, dovette essere simile a quella impiegata da Filippo II nella monetazione napoletana coniata durante il matrimonio con Maria Tudor: una corona aperta o chiusa, formata da un cerchio rialzato da cinque fioroni (tre visibili), alternati a quattro perle (due visibili), sostenute da altrattente punte (figg. 5 e 6).
Fig. 8. Stemma di Filippo II con l’aquila di San Giovanni scolpito sulla facciata della Casa consistorial de Baeza
Fig. 9. Scudo di Filippo II sostenuto da due aquile di San Giovanni. “Les Armories et enseignes du souverene et compagnions du tresnoble ordre de la Jarretiere, en nombre de XXV, come ilz sont par ordre au chasteau de Wyndsor, l’an 1572”, BNF, ms. fr. 14653, fol. 3r.
Infine, la presenza attorno allo scudo del collare del Toson d’Oro indica chiaramente l’appartenenza del sovrano asburgico al celebre e omonimo Ordine cavalleresco istituito nel 1430 da Filippo il Buono, duca di Borgogna, ed ereditato dalla casa d’Asburgo in conseguenza del matrimonio fra l’imperatore Massimiliano I e Maria di Borgogna, bisavoli paterni del nostro Filippo, al quale in data 22 ottobre 1555 il padre Carlo V trasferì il Gran Magistero dell’Ordine. L’identificazione certa del titolare dell’esemplare litico latianese consente dunque di datarne la collocazione entro una forchetta temporale di soli quattro anni, limitata alla durata del matrimonio fra Filippo II e Maria Tudor (1554-1558). In questo lasso di tempo il feudo di Latiano apparteneva da più di un decennio a Francesco Antonio Francone (1542-1585). Settembrini, attribuendo erroneamente lo stemma a Carlo V, sostiene che tale manufatto era collocato originariamente nella cinquecentesca chiesa di San Sebastiano, ma questa tesi appare poco convincente se si considerano la tipologia di arma rappresentata e la natura dell’edificio che la ospita. Nel Regno di Napoli e nella stessa Terra d’Otranto, infatti, questo tipo di rappresentazione araldica del potere regale trovava quasi sempre posto su edifici o monumenti civili o militari di particolare rilevanza pubblica: porte urbiche, torri, bastioni, castelli, titoli confinari, sedili, luoghi deputati all’amministrazione della giustizia ecc., supporti privilegiati per la mise en scène di un signum attestante l’autorità regia. Numerosi sono gli esempi in tal senso, sui quali non vale pena soffermarsi. Ciò che è insolito, invece, è trovare una composizione come quella in esame su un piccolo edificio religioso, tanto più che nel corso di questa indagine non è emerso nessun tipo di legame diretto fra Filippo II e l’antica chiesa di San Sebastiano tale da giustificare la presenza del suo stemma. Pertanto, benché la tesi del Settembrini non sia da scartare a priori (e in tal caso lo stemma sarebbe un forte elemento datante), è più verosimile ipotizzare per l’esemplare litico in questione una sua originaria collocazione su una costruzione civile o militare, una costruzione evidentemente ancora in piedi negli anni 1554-1558. Se così fosse, la chiesa di San Sebastiano andrebbe fatta risalire alla fine del XVI secolo, come attestano del resto i più recenti studi sulla topografia cinquecentesca di Latiano. È evidente, comunque, che l’attribuzione dell’arma e la cronologia ristretta che essa sottende offrono agli studiosi di storia locale nuove piste di ricerca sulle quali sarebbe utile investigare in futuro. Com’è noto, dopo la morte di Maria Tudor, El Rey Prudente eliminò le armi inglesi dal suo stemma e a partire dal 1580 aggiunse lo scudetto del reame portoghese, collocandolo sul punto d’onore dello scudo (fig. 10). Nel corso del tempo il suo stemma fu soggetto a numerose varianti, la cui descrizione, tuttavia, esula dall’argomento oggetto di questo studio.
Fig. 10. Stemma di Filippo II, dal Theatrum Orbis Terrarum di Abraham Ortelius (1603).
Conclusioni
Arma di dominio attestante l’autorià regia nonché vero e proprio “ritratto sociale” del titolare, l’esemplare araldico oggetto di questa disamina rappresenta una delle più antiche testimonianze dell’architettura latianese del XVI secolo e, come tale, merita di essere apprezzato e valorizzato. È evidente che le condizioni in cui versa oggi il manufatto ne impongono con urgenza un recupero mediante restauro che lo sottragga agli effetti nefasti prodotti dalle ingiurie del tempo e dall’incuria dell’uomo. In una lettera del 24 febbraio 2005 indirizzata alla Soprintendenza per i Beni architettonici e paesaggistici, al Comune di Latiano e al parroco della chiesa di S. Maria delle Neve, Ilario Mosca (all’epoca giovane studente liceale), attribuendo erroneamente l’esemplare a Carlo V, auspicava “il recupero, il restauro, la valorizzazione e la preservazione di un pezzo di storia latianese che al momento passa inosservato ai più”. L’appello del Mosca restò lettera morta. L’auspicio è che questa mia ricerca possa spingere le istituzioni e le associazioni locali (fra cui la Pro Loco, che nel suo sito persevera nell’errata attribuzione dello stemma) a intervenire concretamente in tal senso.
BIBLIOGRAFIA
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Menéndez Pidal de Navascués, El Escudo de España, Real Academia Matritense de Heráldica y Genealogía, Madrid, 2004.
Parker, Un solo re, un solo impero. Filippo II di Spagna, Bologna 2005.
Semeraro, Propaganda politica per immagini. Il caso dello stemma carolino di Porta Napoli a Lecce, in “Il delfino e la mezzaluna”, agosto 2006, anno IV, nn. 4-5.
Settembrini, Il culto del SS.Crocifisso a Latiano: storia e tradizioni, Oria 1996.
Settembrini, La piazza, il centro storico, l’espansione urbanistica di latiano nei secoli XVI-XX, Latiano 2012.
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