#Recensione Ghetto
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jaysreviews · 5 years ago
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Da quanto non scrivo una recensione? Beh, diciamo che spesso mi sono dimenticato di farlo, non ho avuto tempo o materiale per farlo. Amazon Prime Video mi è venuto in soccorso con Carnival Row, una serie interessante ma anche molto, molto particolare.
È la storia di un mondo in guerra dove esseri umani e creature mitiche come fate, fauni ed altro convivono (male) in un'epoca simile al 17º-18º secolo britannico. La storia di Vignette (Cara Delevigne), una fata che, dopo anni ad aiutare altri come lei a fuggire dalle zone di guerra, si rifugia nella città di Bourgue dove vive una sua amica e dove trova, a sorpresa, l'uomo che amava, il detective Philostrate (Orlando Bloom). Ora diventa lui il protagonista che da la caccia ad un serial killer di fatati e poi a qualcosa di ancora più inquietante. Carnival Row, però, è anche la storia del cancelliere Breakspear e della sua famiglia, del suo dissoluto figlio, dei fratelli Spurnrose in rovina e del loro nuovo vicino di casa, della guerra che incombe, di sette segrete, magia, intrighi... Tutti nella strada-ghetto in cui sono relegati i fatati e che da il titolo alla serie.
La serie si compone di poche puntate da 40 minuti ma fanno in modo di farcire ogni secondo con tante di quelle storie parallele, informazioni. È tanto una storia sociale che si rifà a temi come razzismo e parità di diritti quanto un giallo a la Sherlock Holmes, una storia fantasy con venature horror, una spruzzata di vita vissuta sopra ad una base di intrighi politici alla Game of Thrones. Sono partito pensando che Vignette fosse la protagonista vera e propria della serie solo per vederla diventare marginale a vantaggio delle indagini di Philostrate (Philo per gli amici), intervallato con le vicende di altrettanti. Il ritmo poi non è proprio rapido e molte scene avvengono nell'oscurità, rendendo difficile capire cosa sta accadendo.
Inoltre, verso la fine, si incomincia a delineare un quadro molto stretto tra tutti i vari elementi che ho trovato inizialmente esagerato ma successivamente ho apprezzato. Come ho apprezzato che sia stato fatto un enorme lavoro di world building, come se questa prima stagione fosse un'introduzione a quella che è la situazione socio-politica del mondo. Ok, alcuni punti sono stati lasciati in sospeso come la natura della forza militare che ha conquistato le terre dei fatati e minaccia il resto del mondo, il reale funzionamento della milizia fatata Corvo Nero... Si spera che la seconda stagione possa fare luce su questi ed altri punti.
Comunque Carnival Row è stata una piacevole visione (dopo la delusione di The Man in the High Castle di cui vi parlerò presto) ma mi riservo di rivederla per darle una seconda occasione, forse in lingua originale.
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esanzone · 2 years ago
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"C’erano notti in cui mi svegliavo e rimanevo pietrificata. Una volta, due SS entrarono nella nostra baracca nel cuore della notte quando tutti gli altri dormivano, ma io ero sveglissima. Li guardai con orrore mentre passavano da una cuccetta all’altra, scrutando i bambini. Non capivo cosa stessero facendo. Pensavo che stessero cercando gemelli per conto dell’Angelo della morte, Josef Mengele, il medico nazista, tristemente noto per aver condotto esperimenti disumani sui prigionieri. Il laboratorio di Mengele era vicino alla nostra baracca, separato soltanto da una recinzione di filo spinato." Tola nasce a Gdynia, in Polonia, nel 1938. Quando il paese viene occupato dai tedeschi, lei ha 2-3 anni e vive nel ghetto ebraico appena istituito di Tomaszów Mazowiecki con i suoi familiari. Il primo ricordo di Tola (che si fa chiamare in seguito Tova) è il tavolo della cucina di casa sua al di sotto del quale trascorre la maggior parte del suo tempo. Infatti, durante l’occupazione tedesca, il ghetto viene progressivamente isolato dal resto del mondo e le rappresaglie nei confronti degli ebrei si fanno sempre più violente. La famiglia viene obbligata dapprima a traslocare in un campo di lavoro a Starachowice e dopo esser divisa è caricata su un treno bestiame in condizioni disumane alla volta di Auschwitz, dove Tova sperimenta le atrocità del campo. Dalla fame ai morti di inedia, dagli esperimenti sui bambini alle violenze e le morti sul lavoro forzato, alla fortuna di essere scampata alla camera a gas: l’autrice racconta la sua straziante avventura di bambina all’interno del campo di concentramento più simbolico dell’Olocausto, durata dall’autunno del 1944 alla liberazione dei sovietici del 1945. #TovaFriedman e #MalcolmBrabant raccontano le vicende in manier asciutta, con il punto di vista di una bambina oramai abituata alla disumanità delle deportazioni, umiliazioni e uccisioni tedesche senza sminuirle o banalizzarle. Il libro non si ferma a raccontare la tragedia dell’Olocausto ma anche le conseguenze sulla vita dei sopravvissuti. Recensione completa sul blog in bio — view on Instagram https://ift.tt/URV3NBk
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gazemoil · 7 years ago
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RECENSIONE: Jay Rock - Redemption (TDE / Interscope, 2018)
L'etichetta TDE aka Top Dawg Entertainment vanta nella sua scuderia alcuni degli artisti hip-hop ed rnb contemporanei più validi quali Kendrick Lamar, Schoolboy Q, SZA, Ab-Soul e Jay Rock, tra tutti colui che ha più esperienza con la vita del ghetto e la violenza delle gang e che col suo flow pesante e rime taglienti ha fatto sperare per un l'album della maturità che si cementasse nella storia dell’etichetta come hanno fatto i suoi colleghi. Sfortunatamente con il terzo album Redemption, successore di 90059 del 2015 e dei featuring nella colonna sonora di Black Panther, Jay Rock rischia di annacquare ulteriormente le sue potenzialità.
Nel 2016 la vita del rapper di Watts è cambiata a seguito di un evento che l'ha fortemente segnato: un incidente in motocicletta che l'ha lasciato ricoverato in ospedale a lungo con numerose ossa rotte. Parlarne all'interno del nuovo disco sarebbe stato legittimo anche se scelto come topos principale, cosa che invece non fa, divagando con argomenti che si, servono a non appesantire troppo l'ascolto, ma d'altra parte fanno perdere il focus di un album che avrebbe potuto avere più spessore.
Dell'incidente si parla in The Bloodiest, una bella traccia d'apertura sotto il punto di vista dell'interpretazione, in cui il rapper sputa al massimo della voce con delle rime forti e spietate su un'apprezzabile strumentale incline alla trap ed un pizzico macabra che bene si adatta al contenuto."The devil thought he had me, I was on back burners" esordisce. Le fila tematiche sono riprese solo quando l'album si appresta alla conclusione con la title-track Redemption, inattaccabile in quanto a coerenza narrativa, è la traccia che più rivela i sentimenti di Jay Rock attraverso amare e lucide riflessioni. “I think 'bout if my motorcycle crash was fatal / Broken bones, internal bleedin', stretched on the table / Goin' through surgery, two machines helpin' me breathe / Sorry mama, I wanna stay but I gotta leave”. Ad accompagnare le confessioni del rapper ci sono synth morbidi ed ovattati e qualche nota di pianoforte, mentre il malinconico ritornello è cantato da SZA - una che di problemi di salute ne sa qualcosa - giustamente apprezzatissima nella scena rnb, aggiunge una dimensionalità piacevole alla canzone. 
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Oltre a questo, sentiamo Jay Rock offrire una prospettiva più comprensibile e dettagliata su tematiche relative alle gang dal punto di vista di un'ex spacciatore, esplorando il senso di colpa e di responsabilità nei confronti della famiglia, aspetti che ad esempio sono mancati in un DAYTONA di Pusha T che sebbene esplori simili tematiche finisce per risultare superficiale e tutt'altro che condivisibile. Tuttavia, Redemption non è un'opera completa e convincente, al contrario ha a sua volte le sue falle, evidenziate soprattutto se ascoltato nella sua integrità e qui mi ricollego al fatto che spesso il focus viene perso per concentrarsi su campi nei quali Jay Rock non è ferrato - come il canto, non camuffato con del fastidioso auto-tune ma sempre fuori luogo ed impacciato - o non giovando alla credibilità del suo personaggio decidendo di ostentare fama, successo e vizi. E' un peccato che i dettagli vividi sull'incidente e sulla guarigione si limitino a due tracce e qualche altro accenno, perché sono quelli i momenti in cui l'ascoltatore riesce a relazionarsi con l’opera. L'asticella, sfortunatamente, si alza oltre la sufficienza meno volte di quanto si abbassi nella mediocrità. Ininfluente è Knock It Off, in cui il rapper esordisce con la frase "Dear God, I wanna thank you for this big redemption", redenzione che però non è riflessa nel resto della canzone, della quale si fatica a comprendere la funzione narrativa all'interno dell'album. Sullo stesso errore seguono Troopers, WIN ed una versione ridotta di King's Dead, già presente nella colonna sonora di Black Panther che non aggiunge granché e stona nel suo nuovo contesto. Tap Out con la collaborazione di Jeremih ci azzecca in quanto ad estetica, produzione e strumentale, più rilassata e seducente, ma inciampa ancora nel convincere coi testi. 
A riportare sui giusti binari ci pensano l'abrasiva ES Tales e la schietta Broke +-, entrambe solide e inscalfibili, impostano il liricismo su un piano più complesso e autobiografico, gettando luce sulla vita nelle prigioni, ingiustizie politiche, violenza e razzismo, argomenti non nuovi nel mondo dell'hip-hop, ma narrati da Jay Rock in modo da far risaltare a pieno le sue potenzialità. A mettere la ciliegina sulla torta c'è For What It's Worth. “Struggle with who I am and who I wanna be / Got the streets and these beats right in front of me [...] / I can't have my babies walkin' around in projects / While I'm on my bunk stressin' through the process". Ed OSOM aka Out of Sight Out of Mind, in cui il featuring con J. Cole - che a tratti mette un pò nell'ombra Jay Rock - ricollega per stile e narrazione al suo KOD. Entrambe sono le vere e proprie protagoniste dell'album. 
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In conclusione Redemption è ancora lontano dalla redenzione, ma se ascoltato estrapolando i suoi momenti migliori possiamo accontentarci di un assaggio di buon hip-hop. Sicuramente non erano queste le intenzioni dell'artista, e un album non dovrebbe essere smantellato in modo da farselo piacere. E' per questo che il terzo tentativo di Jay Rock non prova la sua crescita artistica e può puntare solo alla sufficienza.
TRACCE MIGLIORI: For What It���s Worth; ES Tales; OSOM; Broke +-
TRACCE PEGGIORI: Knock It Off; King’s Dead; Troopers
CLICCA QUI PER LA VALUTAZIONE FINALE
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koufax73 · 7 years ago
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Bruno Belissimo, "Ghetto Falsetto": recensione e streaming
Bruno Belissimo, “Ghetto Falsetto”: recensione e streaming
 Ghetto Falsetto è il nuovo album di Bruno Belissimo, in uscita per La Tempesta/Stradischi. Dopo l’omonimo debut album del 2016 il producer italo-canadese torna con il suo sound destinato ancora una volta a far ballare i più importanti dancefloor nazionali e continentali e ad animare le più prestigiose rassegne musicali.
Il disco nasce dalle esperienze live degli ultimi due anni – oltre 100 sono…
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pangeanews · 5 years ago
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“Caro Daniele, fuggi, restiamo irriconoscibili, con l’arroganza di chi ama anche le pietre”. Lettera aperta a Mencarelli
Caro Daniele,
ti scrivo perché l’esercizio della recensione, lo schema del giornalismo, la messa in scena di un giudizio, l’andate in pace la messa è finita, non bastano. Sarebbero un tradimento. Questa, in effetti, non è una lettera – è un allarme. Comincio con una metafora, mi viene meglio, a me che per non deludere guarisco con una capriola. Il tuo primo romanzo, La casa degli sguardi (Mondadori, 2018) mi sembrava una lice. Qualcosa di estinto e improvvisamente risorto dai nostri sogni residui. Qualcosa di pericoloso, ma da accarezzare: una implorazione a esistere. Ne ho scritto ovunque – ricorderai – come di un antidoto alla narrativa recente e vincente, vincolata da una estetica sociologica, ornamentale, ombelicale. Finalmente una scheggia di vetro nella melma – finalmente, il morso della lince. Scrivevo: “Mencarelli ci insegna, come può fare solo chi è stato preso a pugni dal vivere, quanto è difficile – e necessario – scrivere la gioia, descrivere la rinascita. Troppo facile fare i piagnoni nel fango intellettuale”. L’ultimo romanzo che hai scritto, Tutto chiede salvezza (Mondadori, 2020), mi sembra un cobra. Mi attrae il suo sibilo, che galleggia nel vuoto, che assapora l’odore della vita, ne ammiro i denti – ma devo estrarre il veleno.
*
Il cuore del libro credo sia qui: “Una parola per dire quello che voglio veramente, questa cosa che mi porto dalla nascita, prima della nascita, che mi segue come un’ombra, stesa sempre al mio fianco. Salvezza… Salvezza. Per me. Per mia madre all’altro capo del telefono. Per tutti i figli e tutte le madri. E i padri. E tutti i fratelli di tutti i tempi passati e futuri. La mia malattia si chiama salvezza, ma come? A chi dirlo?”. Nel libro racconti la tua esperienza in Trattamento Sanitario Obbligatorio accaduta nel giugno del 1994, l’anno dei Mondiali americani – che vediamo di sguincio, la partita contro l’Irlanda. Sei un uomo che non si rassegna al dolore, alla morte. Come Giobbe. Solo che al posto di Giobbe, tu non ragioni, non prevedi speculazioni, non dai di matto col cervello. Soccombi. Il dolore ti sfascia, ne avverti l’inaccettabile spina. Ti capisco. Noi dobbiamo incaricarci del dolore altrui, non c’è scampo – per questo, molti anni fa, sono letteralmente scappato dalla gogna di una metropoli. I palazzi, sorretti dal cemento del dolore, mi pesavano sulla testa, mi spaccavano il cranio, sentivo i molteplici pilastri della sofferenza che s’irradiavano lungo le scale, gli infissi, gli ascensori. Vedevo il retroscena di una parentela avvitata nel dolore, dietro i sorrisi dei vicini, che respingono annuendo. Ciò che è normale per molti, per me è follia. Il tuo romanzo ha un titolo più bello del precedente, Daniele, un titolo meraviglioso. Anche la copertina è più bella. Il libro, però, no.
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C’è un pezzo straordinario in questo tuo ultimo libro, che voglio ricalcare: “Questo contenitore di malattie e disperazione, di follia lucidissima, ha partorito un figlio… Un figlio nato da madre instabile e padre suicida viaggia per il mondo. Un principe. Un messia. Un futuro uomo capace di tutto. Perché è troppo facile, perché non me lo posso permettere, qui, ora, di immaginarmelo disadattato, emarginato, fedele al sangue che lo ha generato. No. In lui la somma dei mali si è trasformata in bene supremo, in bellezza, equilibrio, futuro degno di questo nome”. Ecco. Questa è la pagina degna di un grande scrittore, dove idea e scrittura, tenebra e forma si temperano con sferica esattezza. Pretendevo, perdonami, un libro intero, così.
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Se ti scrivo, Daniele è per dirti: fuggi. Fuggi dall’opalescenza della fama. Fuggi da chi vuole inscatolarti in un editto: “lo scrittore dei reietti”. Fuggi dagli epicentri del noto. Fuggi da chi ti relega a esegeta dei “pazzi, di tutti i tempi, ingoiati dai manicomi della storia”. L’esaltazione del pazzo, su cui apri (il libro è dedicato “Ai lottatori, ai pazzi”) e chiudi il romanzo, dopo aver raccontato, con dedizione affettuosa, gli ‘strani’ con cui hai abitato per una settimana, nel sottosuolo della sanità, è dote comune, è detto corretto, non più disadatto. La ‘stranezza’ convince perché siamo tutti strani, stravolti. Non basta cogliere la dolcezza negli occhi del matto, ma la malattia dietro gli sguardi razionali del normale. Questo fa lo scrittore. Va oltre se stesso, penzolando tra grido e ghigno. In tutti cerca la domanda di salvezza, soprattutto quando essa è assente, sfinita, satura. Quando mi sono trovato – il caso ha natura di pitone – a dirigere un liceo linguistico grasso di ‘figli di papà’ implorai di lavorare in una missione nel luogo più infame della Terra. Un frate, antico compagno di David Maria Turoldo, replicò, “guarda che è qui la missione, nel terzo mondo dello spirito”. Aveva ragione. Dell’uomo non puoi abolire nulla, il ghetto del giudizio non ci riguarda.
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Provo a spiegarmi maneggiando i Vangeli. “Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori” (Mt 9, 13) va letto insieme all’episodio dell’adultera, quando Gesù dice, “Chi è senza peccato getti contro di lei la pietra, per primo” (Gv 8, 7). In entrambi i casi c’è la ‘chiamata’ di un ipotetico peccatore: da una parte Matteo, un esattore delle imposte, uno che traffica coi soldi, che trama coi faccendieri, dall’altra un’adultera. Gesù ci dice: bisogna andare nei luoghi oscuri, nei luoghi ignobili della terra, tra le ombre dell’uomo, dove cala lo scandalo. Ma allo stesso tempo dice: chi non è peccatore, chi non ha bisogno, chi non è ignobile? Non c’è uomo che non sia degno di racconto, non c’è uomo che non abbia la nobiltà di una storia – e noi dobbiamo essere lì, nel momento più scomodo, pronti all’irriconoscenza, irriconoscibili.
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Fuggi, Daniele, scappa dai normalizzatori, dai moralizzatori del linguaggio, da chi cerca consenso e conferma, perché noi – e scusa se mi affratello a te – siamo sentinelle senza città, uomini senza appigli, propensi al cadere, che da un urlo traggono endecasillabi, che dall’orrore cagliano una epopea. Tutto chiede salvezza – lo ripeto e ridico: che titolo magnifico, potente come una legge – è scritto peggio de La casa degli sguardi. È come se per depurare di liricità la prosa, per renderla più veloce, pronta alle prestazioni del lettore d’oggi, tu abbia voluto sacrificare la presenza, la prestanza linguistica. Certo, ci sono parti bianche nel libro, di nevosa meraviglia, rivelazioni – come questa: “Io so compiere gesti che fanno del male. Gesti che nella mia vita hanno transitato anonimi, indegni di entrare nella memoria, ma che hanno prodotto dolore in quella degli altri. Gesti che ancora vengono scontati”. Ma sono troppo poche, queste pozze di grandezza, in un romanzo altrimenti nervoso, nevrotico, ‘in presa diretta’. Tu dirai: è così che va narrato quel gorgo. Io ti ricordo la prosa adatta, rabdomantica di Varlam Salamov per raccontare i Gulag, le grida e i denti spappolati resi clamorosi con una scrittura scavata nel bronzo. (E continuamente, lì, dove l’uomo è niente, il poeta torna alla ragione e all’origine della scrittura: come posso dirlo, perché? “Tutte le cose che nascono in modo non disinteressato non sono le migliori. Il meglio è ciò che non viene annotato, che è stato creato e scompare, che si scioglie senza lasciare traccia, e solo il lavoro creativo che il poeta sente, e che non si può confondere con nient’altro, è la prova che una poesia è stata creata, che il bello è stato creato”). Il compito dello scrittore, il nostro compito non è rappresentare, ma adempiere alla forma. Ogni rappresentazione è sacrilega – dissacra i fatti – se non esprime una forma peculiare, una icona. La letteratura non deve essere sincera, ma autentica.
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Ma forse, dirai, Daniele, qui ho voluto dire l’inferno, l’immersione nell’amniotico dell’uomo, l’anormale – che è la legge dell’essere né bestia né angelo, amico mio, di tutti, anche dei crudeli che dobbiamo confondere con una pietà ben più cruda. La casa degli sguardi è stato il tuo Purgatorio, la storia sacra della passione nell’ospedale Bambino Gesù. Questo, al TSO, è l’Inferno, dove Tutto chiede salvezza. Se continuo il gioco, potrei dire che il Paradiso era il romanzo per poesie Storia d’amore, che hai pubblicato cinque anni fa, con quei versi nudi, come un salmo:
L’intero verso del futuro si consumerà senza fuochi dal cielo, ai tuoi piedi mai poggerò la preda la prova che alla fine resisteremo, ma tolta l’impazienza che mi smania altro atto vuole la mia fede, dare rinascita ogni giorno al clamore che sei per i miei occhi, poi con ogni fibra di esistenza amare e ringraziare, questo mi basta.
Ma forse, nel nostro esistere a testa sotto, paradiso è inferno e viceversa, tutti saremo perdonati e perduti, la gloria dei pochi sarà scissa per amore dei molti, di ogni spietatezza capiremo l’incantesimo, dello strazio raschieremo il quarzo, rischiando, sempre, la lapidazione da parte dei tiepidi. Forse saprai sorprendermi con un Paradiso spiazzante, con un romanzo che di ogni uomo raccolga l’insistente speranza, il destino ineguagliabile, la luce oltre la lussuria dell’indifferenza, del gemito di giudizio che ghettizza i sani dagli insani. Restiamo inconsapevoli, Daniele, pieni della nostra stupefacente arroganza di amare perfino le pietre.
*
Un amico è stato costretto al TSO. Lo ha denunciato la madre. Ha ucciso uno in macchina, ha tentato di ammazzarsi, a casa, sfasciando tutto, la propria vita e quella degli altri. Per sette giorni sono andato a trovarlo. Lui non voleva nessuno. Andavo a comprargli le sigarette. Stavo con lui durante quegli acquatici pomeriggi, in apnea dal mondo. Niente lacci alle scarpe, inferriate alle finestre per evitare che alcuni volassero, altri scappassero. C’era una nudità oscena e ostile, un’alba violenta, ovunque. Qualche settimana dopo essere uscito dall’ospedale, quell’amico mi sveglia di notte, vuole menarmi – non tentai di chiedergli riconoscenza né di capirlo. Per anni, ho portato i nonni, falciati da demenza senile grave, in luoghi dove tra ospitalità e prigionia lo spazio di luce è molto sottile. Di notte, quando la nonna, rabbiosa, si strappava le flebo e se ne andava per i corridoi, redigendo in improperi l’attività delle infermiere, mi telefonavano. Alcuni anziani urlavano, dando altra consistenza alle pareti. Frequentavo i luoghi dove l’uomo è disossato di sé con fasciata eleganza, per raccogliere materiale buono per i prossimi libri. No, non ho avuto il tuo coraggio e la lucidità non snatura il corrotto in grazia. Ma questo è un altro discorso.
Ti abbraccio,
Davide
L'articolo “Caro Daniele, fuggi, restiamo irriconoscibili, con l’arroganza di chi ama anche le pietre”. Lettera aperta a Mencarelli proviene da Pangea.
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