Good Omens ficlet /// I
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La porta del negozio si aprì con uno scampanellio.
"Siamo chiusi!" trillò Muriel senza staccarsi dal libro che aveva in mano.
Ma sorrise, mentre lo diceva.
Lo faceva sempre.
Sembrava importante.
Se ne stava sulla sua poltrona preferita (una poltrona! Tutta per lei!) con le gambe in su, appoggiate lungo lo schienale, e la testa in giù, il naso affondato fra le pagine.
Chi avrebbe mai pensato che si potesse stare seduti così? Non Muriel!
Ma non c'era nessuno a dirle di non farlo. Alla poltrona non sembrava dare fastidio. E inoltre, mettersi a testa in giù le dava una stranissima vertigine e faceva rimbalzare in buffe molle i suoi riccioli bruni, e questo non mancava mai di farla ridere.
E quella era solo una delle cose curiosissime che aveva scoperto vivendo dentro la libreria!
Per esempio, un pomeriggio si era seduta sulla sua poltrona mentre il sole entrava dalla finestra.
Ah, si chiamava Jane.
La poltrona, non il sole.
E insomma quel pomeriggio, mentre se ne stava insieme a Jane nei raggi caldi che facevano luccicare i vetri, le era capitato di addormentarsi.
Che sorpresa quando aveva riaperto gli occhi e aveva scoperto che nel frattempo si era fatta notte, la finestra si era riempita di lucine elettriche e la tazza di tè che aveva preparato si era tutta raffreddata!
Aveva subito riscaldato Jane (la tazza, non la poltrona. Anche la tazza si chiamava Jane. A Muriel piaceva molto il nome Jane, e le piacevano anche Jane la poltrona e Jane la tazza da tè). Poi era rimasta a guardare dalla finestra finché il sole non era spuntato di nuovo, e a Muriel era piaciuto moltissimo anche quello.
Pensare che quando era arrivata, per un bel pezzo non aveva osato toccare niente. Se ne era restata in piedi davanti alla porta, piuttosto confusa, aspettando che qualcuno le desse qualcosa da fare.
Finché un bel giorno non se lo era dato da sé: dopotutto, tutto intorno c'erano moltissimi, moltissimi libri. E anche il Metatron aveva detto che leggere era un'eccellentissima occupazione!
Quando poi aveva ricevuto anche indicazioni su cosa non fare, aveva scoperto che presidiare la libreria non richiedeva quasi alcun intervento da parte sua; e di avere a disposizione proprio tantissimo, tantissimo tempo. Tempo! Per lei! Tutto il tempo che voleva, in effetti; e tutti i libri che voleva; e Jane, e Jane, e il sole, e nessuno a dirle di smettere.
Ecco dunque che se ne stava a testa in giù con in mano un libro dal titolo Omicidio sul Nilo, ansiosa di scoprire dove l'avrebbe portata questa volta il signor Poirot.
(...A Muriel piaceva moltissimo il signor Poirot. In effetti, le piaceva quasi più di chiunque altro conoscesse, e perfino di Jane. Jane, la tazza, non Jane, la poltrona. Ma anche con Jane era un testa a testa piuttosto serrato).
Quando il campanello suonò, quindi, Muriel rimase sprofondata nella suo libro, riemergendo appena quel che bastava per annunciare allo sbadato visitatore che sì, il negozio era proprio chiuso, come era ormai da un bel pezzo, e come diceva anche il grande cartello appeso sulla porta.
"Lo vedo bene, Muriel," disse una voce gentile; "sono venuto solo per fare visita a te."
A quelle parole Muriel staccò finalmente gli occhi dal libro.
"Arcangelo Aziraphale!" esclamò gioiosamente, prima di estrarsi con qualche sforzo dalla poltrona. Si rimise dritta e fece un piccolo inchino. "Benvenuto nel negozio di libri!"
A Muriel piaceva molto anche Aziraphale, col suo fare incoraggiante e la montagna di cose che sapeva sugli esseri umani e sul mondo materiale.
La prima volta che era stata mandata sulla Terra si era molto dispiaciuta di averlo dovuto trarre in inganno, presentandosi astutamente come Ispettore Agente di Polizia; ma per fortuna, Aziraphale era facile al perdono.
Questa era la prima volta che lo rivedeva dopo la sua felice reintegrazione nei ranghi celesti, e sembrava...
Muriel sentì gli angoli delle labbra tirare spiacevolmente verso il basso; provava una strana sensazione che le faceva desiderare di tenere fra le mani il tepore confortante di Jane, la tazza.
Così si schiarì la voce e, nel modo più urbano che le riuscì, chiese "Tè..?"
"Oh, grazie, mia cara. Con molto piacere."
Muriel si ricordò di sorridere e si diresse nel retrobottega dove abitavano Jane e le altre tazze. Ne riempì due, cercando di prendere tempo e venire a capo di quella sensazione.
Il fatto era che l'Arcangelo Aziraphale sembrava... diverso.
Come il cielo fuori dalla finestra, quella volta che si era addormentata, sembrava aver perso la propria luce; dove prima c'erano calore e il riflesso del sole che rideva danzando sui vetri, adesso c'era solo tanto silenzio.
Sorrideva sempre, ma il suo sorriso assomigliava a una grande sala da ballo quando tutti se ne sono andati.
Muriel sentì il cuore farsi più piccolo; per farsi forza, pensò al signor Poirot.
Tornò nel negozio e vide Aziraphale ancora in piedi, con le mani strettamente serrate in grembo.
Muriel sentì l'ansia aumentare, ma si fece avanti brandendo coraggiosamente le due tazze.
"Se le va di sedersi," disse porgendone una all'Arcangelo, "a Jane farà sicuramente piacere."
Per un istante Aziraphale la guardò senza capire, pur accettando la tazza di tè con un gesto automatico. Poi guardò la stanza, volgendo gli occhi sugli scaffali pieni di libri, le poltrone e il vecchio sofa; e sul suo volto passò una contrazione dolorosa.
"Grazie, cara," replicò con voce un po' soffocata. "Meglio...meglio di no."
Bevve rapidamente un sorso di tè, facendo tintinnare appena la tazza contro il piattino.
"Dopotutto, sono solo di passaggio," mormorò, mentre esitante rivolgeva lo sguardo verso la finestra affacciata sulla strada.
E Muriel rimase in silenzio, senza sapere cosa dire, ma con la sensazione che quel tè fumante fosse l'ultima traccia di calore e vita in un universo improvvisamente vuoto.
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"Quanto tempo ti manca per esser pronta?
Io sono sotto che ti aspetto,
Così ti porto al mare.
Quanto è passato dall’ultima volta
Che mi hai detto, sì, mi hai detto,
Che ti manca il sale
Che brucia le ferite?
E sulla pelle, tra i capelli, sulla tua bocca [...]"
Ricominciamo tutto, Negramaro
emme🌷
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Ormai nessuno osa studiare con me, se non i disperati, i masochisti e i coraggiosi. Mi tremano innanzi, perché pretendo sempre il massimo (nulla più di quanto minacciosamente richiestomi dai genitori), laddove il massimo non sarebbe altro che una sufficiente capacità di rielaborazione del testo a parole proprie e un minimo di coerenza semantica e sintattica nella costruzione di frasi di senso compiuto fondate su soggetto, verbo e complemento (tutto questo a libro chiuso).
Sembrerà una banalità, ma nulla gli è più gravoso dell'organizzare un discorso armonico, per cui spesso tentano di mandare a memoria termini ed espressioni che risorgono mostruose dalla loro bocca, creature deformi e fuori contesto.
Di solito a questo punto m'arrabbio e li costringo a ripetermi TUTTO dall'inizio, finché non sono contento (ma non sono mai contento). Sommersi dall'ansia e dalla frustrazione, molti di loro non reggono e scoppiano allora a piangere. La mia reazione solitamente è aspra di fastidio, sono stanco, vorrei andare a casa e il tempo passato a piangere è solo tempo perso. Per quanto la mia anima sadica goda amaramente di quei pianti, esco un attimo da me ed entro in loro, mi calmo, mi ci siedo a fianco e li abbraccio, li consolo, li sprono. Ricominciamo, ma prima di farlo abbasso il livello di difficoltà da "Ultimo respiro" a "A fuoco lento", soprassiedo con dolcezza a libro aperto e fanculo i miei standard, fino alla prossima. So che non dovrei imporre a quei piccoli esseri la croce delle mie pedanti ossessioni, esigendo da loro una perfezione che non c'è, so anche che spesso e volentieri la vita là fuori gli chiederà di spingersi oltre la comfort zone di limiti autoimposti. Se non li si abitua a dare il massimo sotto pressione, teneramente cullati nella mediocrità, che adulti diventeranno? Evito di rispondermi e lascio che studino con le mie dipendenti, dolci, pazienti, comprensive. Almeno per un po' mi resterà la soddisfazione di non aver fatto piangere nessuno.
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