Tumgik
#Quando sento questo pezzo mi commuovo
fallimentiquotidiani · 7 months
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Spengo il telefono
Ora sto un po' con me
La strada del Brennero
Mi aspetta immobile
Per andare verso la città
Dove andavamo insieme
Nell'estate del 93'
Amico dove sei
Con le spalle larghe e i piedi buoni
Con tutto quel fiato nei polmoni
A Bologna con l'Italia intera
Con la sua ferita sempre accesa
La notte è fragile
Confonde un po' le idee
Se l'imprevedibile
Segna le pagine
Di quel libro scritto anche per noi
Che siam cresciuti insieme
Calpestando il mondo un po' così come eravamo noi
Quelli fuori corso, quelli fuori, ma volevamo essere i migliori
Poi giocarsi tutto in una sera
Tra le gambe di una cameriera
E mi chiedo cosa resterà
Tra le luci di questa città
Resto solo io coi miei pensieri
Penso a quello che eravamo ieri
Cerco un po' di vita tra i lampioni
Chiudo gli occhi e penso a Frank Antoni
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lexotanconghiaccio · 1 year
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Empatia.
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Da un post su Instagram di una pagina sulle malattie croniche: “Non siamo la nostra malattia, e lo conferma il fatto che sia lì come una gabbia che spesso ci prende, intrappolando ciò che siamo.
Non è qualcosa da cui si può scappare e in alcuni momenti diventa così ingombrante da risultare schiacciante. La soluzione ha comunque un suo peso, e pensare a questo tutto insieme lo fa sembrare insormontabile.”
Il peso di un presente che non sento mio, che sento limitante e frustrante;  il disappunto per il riflesso che vedo allo specchio, un’immagine nella quale non mi riconosco, e per tutte le cose che vorrei fare ma che il mio corpo non regge più; la preoccupazione per il futuro, l’ansia per ogni nuovo sintomo, ogni nuovo esame, ogni nuovo farmaco; il lutto per la vita passata, in salute e senza problemi, che non tornerà mai più, e la stanchezza di tutto questo, da ormai cinque anni, tre di semi-digiuno e mal di stomaco quotidiano. E io non sono neanche un’ammalata grave. Non oso pensare quanto deve sentirsi solo e spaventato chi ha problemi più gravi dei miei.
Una patologia cronica ti logora, anche quando non grave, perché è un problema quotidiano, che non ti lascia rilassarti mai. Ma tutto ciò non è comprensibile a chi non lo prova ogni giorno. Anzi, chi non lo prova ti trova lamentoso e debole. E ti dice pure di non pensarci e andartene un po’ al mare (eh, se ne avessi le forze, e se potessi alimentarmi come le persone normali, non dovresti dirmelo tu! Se recupero un po’ di salute, e chi mi ferma più!). Sapeste quanta forza ci vuole per sopportare di stare male ogni giorno!
I deboli siete voi, che di fronte alla sofferenza minimizzate e guardate altrove. Dispensate consigli inutili, o vi lagnate di qualche piccolo disturbo, e poi tornate felici alle vostre cose. La possibilità della malattia spaventa, meglio non pensarci, tanto a me non può succedere. La pensavo anch’io così. Se c’è una cosa che ho notato da quando ho problemi di salute (e anche quando a stare male era mia mamma), è l’assoluta mancanza di empatia da parte del prossimo, il più totale disinteresse, spesso da parte di chi quando eri in salute diceva di volerti bene. Ho trovato l’indisponibilità emotiva e anche pratica. Ho trovato il giudizio, e tanti consigli poco utili, spesso non richiesti e non graditi. Consigli totalmente senza logica. Sarebbe bastato l’ascolto, e la vicinanza, ma la vicinanza vera, non le domande di cortesia su whatsapp, per poi scomparire o attaccare con le proprie lagne inutili. Ho imparato dalla malattia, dalla mia patologia e anche, mio malgrado, dalla sofferenza di mia mamma. Ho imparato a vedere il prossimo, ancora più di quanto facessi prima (sempre stata crocerossina, io). Vedo la gente soffrire, e mi commuovo, e DEVO fare qualcosa per aiutarla. Sennò sto male. Anche solo con qualche parola di conforto o comprensione, anche se spesso, poi, mi sento inappropriata, oppure temo di ferire la sensibilità della persona, e non mi escono frasi decenti. Ieri, poi, ho ricevuto un grande regalo, ho trovato l’empatia che ho spesso desiderato in persone amiche, ma in una persona totalmente estranea. Una persona che lavora a contatto con la sofferenza, e ha provato sulla propria pelle la paura di non farcela, mi ha guardata e mi ha VISTA. “Non stare rassegnata. Lo vedo che sei rassegnata. Ma dobbiamo combattere. Mai arrendersi, se ci arrendiamo è finita, il nostro corpo non reagisce più. Quindi, sii positiva, è fondamentale.” Me lo ha detto pacata, sorridendo dolcemente, come una carezza. Mi sono commossa, e ho dovuto trattenermi per non piangere. Poi sono tornata a casa, e mi sono sentita grata. Mi sono sentita fortunata, stesa sul divano, nella mia bella casa, col mio meraviglioso compagno, dopo aver (non) cenato con la mia famiglia che mi supporta e SOPPORTA costantemente (e che sta perdendo la salute mentale appresso a me), nonostante qualche incomprensione, nonostante ci manchi sempre un pezzo fondamentale. E mi sono resa conto di quanto quelle parole mi avevano fatto bene, mi avevano un po’ guarita. Mi hanno ridato speranza, mi sono detta che, forse, il genere umano non fa ancora completamente schifo, che qualche esemplare si salva. Ce ne fossero di più! Mi piacerebbe fare del bene al prossimo allo stesso modo. Ogni tanto ho considerato di fare volontariato. Fatelo anche voi, non voltatevi dall’altra parte, ognuno di noi soffre per qualcosa. Non siate ciechi, non siate egoisti, non sapete quanto bene potete fare con un solo attimo di comprensione VERA a qualcuno che da tempo sta male. E potrebbe arricchire anche voi.
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overflowingirl · 7 years
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E alla fine mi sono innamorata di te. Non ricordo il momento preciso. Dio mio, quante cose meravigliose non ricordo..quante cose che vorrei quasi tatuarmi addosso pur di non perderle. Mi mancano le forze e le parole per te. Perché ho paura che mi potrei svegliare. Che una sveglia di un giorno qualsiasi suonerà alle 7 del mattino. E andrò a lezione, il cielo sarà grigio e io mi renderò conto che ti avevo solo sognato. Sembra stupido, adolescenziale, melodrammatico in modo sgangherato. Ma è una paura che ho davvero. Perché io sento che ti insinui in ogni mia mancanza e che combaci con essa. Che lasci me insinuarmi nelle tue. E non è quella cazzata del “tu mi completi”. No, cazzo, io SONO completa. L'ho capito quando sono rimasta da sola e potevo ancora camminare e respirare. Io non ho bisogno di nessun pezzo mancante. Ma tu accanto a me stai benissimo, come io sto benissimo accanto a te. Vicini da poter respirare insieme ma anche capaci di tornare alle nostre solitudini. Perché ho scelto un compagno, non un pezzo di puzzle. Mi sono innamorata alla fine. O forse all'inizio? Mi sono innamorata lentamente e sono scivolata con cautela ma inesorabilmente come la resina sulla corteccia. Anche ora vado lentamente. Perché amo te e amo godermi questo viaggio. Assaporarlo piano. Poter toccare tutto per sentirne la concretezza. Se è concreto non è un sogno. Vorrei poter affinare tutti i miei sensi. Vorrei vederci meglio e vorrei non essere sempre tappata dalle sigarette. Perché voglio guardare il tuo viso, sentire il tuo odore e il tuo sapore. Vorrei essere più sciolta per sentirti tutto in un abbraccio. Vorrei essere libera dai miei demoni per poter trovare più spazio per viverti. Ma infondo questo non mi importa. Perché sono felice. E mi fa ridere..io che dico di essere felice. E che quasi lo sbandiero al mondo. Una felicità senza ombre, senza lacrime e senza rimpianti. Forse è per questo che non mi commuovo. Ho pianto troppe volte in passato. Ho pianto per ciò che pensavo fosse la felicità. Invece quelle erano lacrime di paura, quello era dolore. E l'amore non dovrebbe mai farti sentire così. Con te sorrido e non piango. Ho anche paura ma non sono terrorizzata. E alla fine mi sono innamorata. E spiegami come potrei fare a non amare te. Tu troveresti mille motivi in realtà. Ma questa è solo un'altra cosa che amo di te. Che poi non mi viene di fare il solito sonetto tipo “amo i tuoi occhi e le tue labbra”..ma vaffanculo, è ovvio che è così. Io amo TE, tutto quanto. Tutto unito, intero. Non voglio scomporti in frammenti. È chiaro che i tuoi occhi mi fanno impazzire.. perché mi parlano e brillano. Perché hai gli occhi di un bambino. Questo lato di te mi fa perdere. Il fatto che sei un uomo, sei forte, sai tantissime cose su tutto..e che poi però sparisci fra le mie braccia. Quando ti poggi sul mio petto e ti nascondi. Quando ho bisogno di te sai far sembrare tutto pratico e risolvibile ma poi puoi crollare per un dubbio e vieni da me. Amo l'uomo che sei e amo il bambino che c'è dentro di te. Amo che sei permaloso e dispettoso. Amo che sei orgoglioso e testardo per alcune cose. Sei determinato e mi tieni testa. Ma sei anche paziente e dolce quando meno me lo merito. E la tua dolcezza mi fa diventare una stupida, una femminuccia sognante. E non me ne vergogno. Con te posso fantasticare, posso avventurarmi in ogni anfratto di me stessa senza dovermi preoccupare di apparire figa. Con te mi sento una donna. L'amore mi ha sempre regalato miliardi di insicurezze mentre tu mi fai sentire bella, mi fai sentire sexy e per me è assurdo. Mi hai insegnato un modo diverso di amare e di fare l'amore. Mi fai sentire importante perché mi conosci e noti le mie piccole cose. Mi hai trovato in un momento in cui non davo più importanza a niente e piano piano mi hai fatto reimparare ad interessarmi a me stessa. Mi hai seguito passo dopo passo e mi hai nutrito e riscaldato e sono di nuovo viva. E vorrei fiorire per te, dedicarti quello che sento, dedicarti le emozioni che mi hai aiutato a resuscitare. Io pensavo di essere morta per sempre ma tu hai scavato sotto il ghiaccio e hai trovato un po’ di vita. Quindi come fai, cristo, come fai anche solo a pensare che non ho motivo per amarti? O che sei inutile? Perché pensi che i problemi pratici, che qualche imprevisto o il tuo tempo per arrivare ai traguardi, possano importarmi? Io in te ho trovato un mondo e questo mondo col cazzo che lo abbandono. Non potrò mai dimenticarmi di te anche se le piccole cose mi sfuggono e anche se ho la testa fra le nuvole. Perché alla fine mi sono innamorata.
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orsattilibri · 6 years
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L’Italia cantata dal basso, un libro che anticipava questa epoca 8 anni fa
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Nel 2011 pubblicavo per Coppola Editore “L’Italia cantata dal basso - finestre sbieche sul Belpaese”. Già all’epoca si intuiva cosa stava accadendo al nostro paese, quali pulsioni lo stavano attraversando. Qui un brano...
Sono padano e porco. Sono nato a uno sputo dal Po, ma sono cresciuto a Roma. Cucino la pasta con le sarde, adoro i cappellacci di zucca e vado pazzo per la coda alla vaccinara. La pajata mi fa un po’ senso, ma del resto la salama da sugo la mangio solo per dovere patriottico. Ho delle belle vocali aperte, eredità di una nonna che parlava emiliano stretto con qualche inflessione veneta, e mi “smoscio” per pigrizia e abitudine nella cadenza “de Tormarancio”. La pianura padana mi deprime un po’, come la nebbia, e spesso mi sento a casa mia solo nei vicoli di Garbatella o alla Kalsa cercando un posto che faccia pesce. Però, quando il treno dopo Bologna passa il Reno mi commuovo sempre un po’.
Ammetto di essermi messo a lutto quando ha chiuso il kebabbaro sotto casa mia, e il giovedì pomeriggio quella folla di migranti che invadono le nostre città mi mette allegria. Avevo al liceo un compagno di banco nigeriano e un paio di amici cileni e ho parenti sparsi fra Argentina  e Brasile . Migranti anche loro. Migrante tante volte anch’io.
Mi piace questo Paese di città, borghi e frazioni. Ognuno con il suo dialetto, le sue tradizioni, la sua cucina, il suo vino. Mi piace pensare che siamo così poco ariani, un po’ arabi, greci, albanesi, spagnoli, francesi, slavi, ebrei, berberi, normanni e longobardi.  Mi piace pensare che siamo dei cialtroni romantici, dei mediterranei creativi, dei pezzi di tante e tante storie. Diverse. Non siamo mai stati “italiani brava gente”, ma siamo stati italiani. Lo siamo stati.
Sono padano e anche porco. Curioso e un po’ troppo pallido. Vorrei pensare che anche tutti gli altri cittadini di questo Paese sgarrupato, ma che è sempre sopravvissuto a tutti i propri difetti, alla fine siano come me, come noi. Meticci.
Ma non è così. E tutto passa attraverso la privazione di cultura, pezzo per pezzo. Stillicidio. C’è chi vuole sbriciolare la vera identità ibrida di questo Paese sostituendola con un’identità artificiale. Dove il cittadino si trasforma in consumatore, l’utente in cliente, la persona in massa. E la massa va alimentata, con la diffidenza, la paura e poi l’odio.
Sono padano e porco. Un po’ ferrarese, romano, palermitano, lucano, triestino, ligure, levantino e ebreo. E nero, cinese, e bangla e chi cazzo mi pare. E ancora frocio, bisessuale e etero tutto insieme che rendersi la vita complicata mantiene giovani. Sono un italiano. Non un italiano vero. Ma per davvero. Che guarda con repulsione alla Lega e alle mafie al berlusconismo ereditato e al clericalismo d’accatto, alla cultura fast food e al decisionismo vigliacco degli uomini delle espulsioni. Che metterà il suo corpo e le sue parole contro questo populismo neofascista camuffato del nuovo che avanza, della politica in franchising e del “l’ha detto la rete” che rete non è. Rifiuto l’idea di un Paese trasformato in supermercato o in cortile di ospedale psichiatrico dove chi sta messo meglio va a caccia di scie chimiche, o in pascolo per quattro ragazzini laureati con i soldi di papà a qualche università privata e che ora si trovano a governare pezzi di questo Paese per conto degli impresentabili genitori che ne hanno già fatto scempio nei vent’anni che abbiamo alle spalle. Con i poveri sotto i ponti e clandestini e i furbi a ingrassare. Sono un italiano che non crede, ma crede nel diritto di ciascuno di credere in quel che gli pare.
Sono un italiano, porco e padano contemporaneamente, che crede nel valore assoluto dell’articolo 1 della Costituzione, e che ha dato gran parte di se stesso per applicare il 21. Sono uno che sa di avere ancora la possibilità di scrivere quello che sto scrivendo solo grazie a qualcuno che ha combattuto contro il nazifascismo.
Il fascismo che è stata roba nostra, perfino Hitler all’inizio andava a lezioni di dittatura da Mussolini. Quel fascismo, quella voglia di fascismo, che è ancora insita nel Dna del nostro popolo. E che oggi passa attraverso adolescenti addestrati alle armi, folle a Pontida, caccia agli omosessuali e ai “negher”, banchi marchiati in una scuola padana, dossier e calunnie e intimidazioni , femminicidi ormai di massa, controllo dei media , lodi e leggine a personam. E che passa, purtroppo, attraverso i troppi “aventini” di questa nostra asfittica classe dirigente. Che si indigna intermittente, ma poi cala le braghe appena intravede un barlume di profitto. Anche piccolo. Anche presunto.
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traceofaftersound · 8 years
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Cose con cui sentirsi accolti e integ(r)at(t)i
C'è quella barzelletta che racconta del tizio che muore e lo portano a vedere il paradiso e l'inferno, e il secondo gli sembra molto meglio del primo, salvo poi scoprire, una volta fatta la sua irreversibile scelta, che era tutta campagna pubblicitaria dato che nella realtà dei fatti è un posto orrendo e sentirsi dire: "mai confondere turismo e immigrazione".
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Onestamente, non so se è in che misura io abbia mai fatto questo errore. Certo, nella mia brevissima esperienza sono intervenuti anche altri fattori: credo che una stessa situazione vissuta da studente e da lavoratore sia percepita a prescindere in modo molto diverso, quindi nel giudizio influisce senz'altro questo filtro, però è vero che quando si comincia a entrare nell'ottica di fermarsi in un altro paese un po' più a lungo termine si iniziano pure a osservare le cose da un punto di vista più disilluso forse.
La mia relatrice dei tempi della triennale raccontava, pur prendendone le distanze, di come ci sia anche chi scherzando ma non troppo ritiene che l'approccio dei giapponesi con gli stranieri sia tranquillamente assimilabile al meccanismo di venerazione dei marebito 稀人/客人, creature divine o soprannaturali estranee che entrano per un certo periodo limitato in contatto con gli umani e a cui si fanno delle offerte perché si crede che la loro benevolenza porti fortuna ma che poi una volta pacificati vengono rispediti da dove sono venuti. Tenendo a mente questo processo di assimilazione e respingimento del divino, mi fa sorridere paragonarlo ai giapponesi che riempiono di regali i visitatori stranieri per poi accertarsi che se ne tornino al loro paese, anche perché mi pare abbastanza presuntuoso considerarsi al pari delle divinità, però insomma capisco cosa possa aver fatto nascere una teoria del genere lol.
L'accoglienza è un tema abbastanza spinoso in qualsiasi paese credo, e se Geppi Cucciari racconta che se è vero che i sardi devono bussare con la testa perché hanno sempre le mani impegnate da un dono al contempo hanno la memoria lunga e si ricordano bene di ciò che viene fatto loro nel bene e nel male, in un'altra isola dall'altra parte del mondo si spendono porzioni considerevoli di stipendio per comprare souvenir da portare a tutti quelli che sanno che siete andati da qualche parte (il mio consiglio: viaggiate ma non ditelo mai a nessuno, non mettete foto su facebook, non fare trapelare la notizia MAI NELLA VITA lol), ma tuttora non mi è chiaro se sia per abitudine, per inerzia, per dovere o per piacere, per gentilezza o per obbligo oppure per tutte queste cose insieme (d'altronde stiamo parlando del paese dove i cioccolatini che si regalano a San Valentino si dividono in honmei-choko 本命チョコ, regalati alla persona amata, giri-choko 義理チョコ, donati per obbligo, tomo-choko 友チョコ, offerti agli amici, fami-choko ファミチョコ per la famiglia e mai-choko マイチョコ per se stessi, quindi insomma fare confusione è un attimo e te lo credo). Da una parte trovo assurda quest'ansia che ogni tanto mi prende di non farmi trovare senza un regalino, soprattutto dai giapponesi perché molto probabilmente loro stessi ne avranno uno per me, ma dall'altra mi ha fatto riflettere su come sia subdolo il meccanismo del dono e come impegni poi le due parti in una catena mai più spezzata di scambi di gentilezze che se porti avanti perché ti fa piacere è un conto, ma se lo fai perché costretto poi capisco perché la gente obbligata a essere sempre formalmente gentile poi in metro è sempre incazzata lol.
Può essere difficile sentirsi accolti a Tokyo, una metropoli dove tredici milioni di persone strisciano, consumano, spendono, si ignorano, covano rancore e mal sopportano il prossimo. Una città dove ognuno cerca rifugio dal mare di persone che vengono rigurgitate ogni giorno fuori da appartamenti minuscoli e da vagoni straripanti, dove una volta che saluti qualcuno questo finisce inghiottito dalla marea di estranei e scompare nel nulla. Ma è anche una città dove le persone si cercano, si danno appuntamento e a volte si trovano anche senza cercarsi. Una stanza affollata dove ci si sente gli unici, una somma di solitudini dove l'unica possibilità di non venire schiacciati dal contatto umano imposto è scegliere i rapporti giusti. In un paese dove di quando in quando mi chiedo se la gentilezza sia genuina e disinteressata o semplicemente un codice sociale strategico (non che non ci si possa fare la stessa domanda in Italia, semplicemente nel proprio Paese è più facile leggere i segni che conducono alla risposta), la fortuna più grande è poter contare su delle relazioni franche che vadano oltre il formalismo.
È già da mo' che non ci credo più ai giapponesi che ti fanno i complimenti per come parli la loro lingua, anche perché chissà come mai te lo dice sempre gente che ti vuole vendere qualcosa lol, ma se poi il sales manager dell'hotel dove stai organizzando un evento a cui porti del cioccolato per ringraziarlo di essere sempre flessibile nonostante tutti i cambiamenti dell'ultimo secondo dopo una decina di minuti ti chiama da parte e ti dice mezzo imbarazzato: "già che mi avete portato il cioccolato, ho lasciato una borsa sotto il tavolo della reception con una tortina, portatela a casa quando finisce l'evento", io un po' mi commuovo. A prescindere dai giri-choko, dalla possibilità che la cortesia mi sia tornata indietro magari solo per formalità, dal fatto che ci credo che sei gentile con tutti i soldi che ti devo pagare lol, potevi non farlo e l'hai fatto.
Sentirsi accolti da una metropoli dispersiva come Tokyo può essere difficile, dicevo, ma capita dove meno te l'aspetti e per motivi anche futili. Per esempio, tutte le mattine quando mi dirigo verso la stazione di Nakano e incrocio questo tizio che viene dalla direzione opposta e siccome credo sia abbastanza puntuale a seconda di a che altezza lo incontro ho un termine di paragone per capire quanto sono in ritardo e che treno riuscirò a prendere senza neanche guardare l'orario; o quando poco prima delle strisce pedonali sento il suono del campanello di un negozio che è uguale identico a quello della cartolibreria del mio paesino in Italia; o quando incontro per caso i miei ex-compagni di università che adesso vivono nella mia stessa zona in giro per qualche commissione; o quando ancora mi fermo ad accarezzare Rikimaru-kun, il cane beniamino del quartiere battezzato così in onore di Ricky Martin, che spesso è legato fuori dalla casa del suo padrone e passa in rassegna la gente con lo sguardo. C'è un tale senso di familiarità insito in tutto questo che io un po' mi sento a casa.
E per un vicentino provinciale cosa c’è di meglio per sentirsi accolto che visitare il Gōtokuji 豪徳寺, un tempio buddhista di scuola Sōtō infrattato in una zona un po’ fuorimano del quartiere di Setagaya, considerato il luogo d’origine del maneki-neko 招き猫 (o come viene scritto nei cartelli del tempio 招福猫児, just because), il gatto con la zampa alzata emblema stesso dell’accoglienza. Esposto soprattutto dagli esercizi commerciali perché si ritiene che attiri i clienti, vi sono diverse leggende circa la sua origine, ma una di queste riguarda proprio il Gōtokuji.
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Si racconta infatti che in periodo Edo (1603-1867) vi fosse in questo tempio un monaco con una grande passione per i gatti e che ne avesse uno con il quale divideva persino il proprio cibo e che trattava come un figlio. Un giorno gli si rivolse pregandolo, se le cure che gli aveva dimostrato gli erano gradite, di ricambiare l’amore con cui lo aveva cresciuto, e non passò troppo tempo prima che al tempio arrivasse in visita un gruppo di guerrieri a cavallo che, di ritorno da una battuta di caccia, dissero di essere stati attirati da un gatto che sembrava invitarli ad entrare. Accolti dal monaco, i guerrieri fecero appena in tempo ad accettare la sua ospitalità che fuori dal tempio si scatenò un temporale con tanto di tuoni e saette (secondo alcune versioni, un fulmine colpì addirittura l’albero sotto il quale avevano precedentemente sostato prima di accorgersi del gatto; secondo altre, l’intervento del gatto fu vitale per permettere loro di evitare una trappola che era stata tesa loro poco più avanti lungo la loro strada). Il gruppo capì che l’animale li aveva salvati e presentandosi come i vassalli del signore di Hikone, Ii Naotaka (secondo altre versioni addirittura il protagonista stesso della vicenda), che in segno di riconoscenza rese prospero il tempio. Dopo la morte del gatto, in sua memoria il monaco costruì una piccola statuetta che ne ricordava le sembianze e da allora si crede che esporla porti fortuna e ricchezza.
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In realtà, nonostante fin dalla stazione omonima, la stazione di Gotokuji appunto, ci sia un maneki-neko che vi dà il benvenuto, quando si arriva al tempio non è proprio subito chiarissimo e lampante che sia questo il luogo di un culto così particolare: appena entrati, sembra un tempio come un altro, con un viottolo che vi conduce davanti a un enorme incensiere con un leone cinese simile a quello dello Zenkōji, superato il quale si può procedere fino a un padiglione abbastanza anonimo fatta scorrere la cui porta d’entrata, però, vi si parano davanti statuine del maneki-neko di tutte le dimensioni che si possono comprare per poi portarle in un’altra zona non proprio evidentissima che è il pezzo forte del tempio, dove andrebbero appoggiate e non portate a casa come ho fatto io con la mia (cioè ma 500 yen di statuetta secondo te glieli lasciavo lì? adesso è posata sulla scarpiera in entrata che mi guarda, ma scherzi). Anche se o forse proprio perché la zona dove tutte le statuette vengono appoggiate non è palesissima, quando la si raggiunge e si vede l’accumulo di maneki-neko non si può non rimanerne colpiti.
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Gatti...
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... gatti ...
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... e ancora gatti! Adesso sì che è un post molto Tumblr. Ah no, manca qualche gif di gatti a caso. Provvediamo subito.
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Abbastanza a posto adesso, sì?
Rallegrandomi della coincidenza che ha voluto che finissi di scrivere questo post decisamente molto nekobakakawaii quando in Italia è ancora il 22 febbraio, considerato in Giappone il Giorno del Gatto (Neko no hi, 猫の日) perché 22.2 può essere letto “ni-ni-ni” ricordando il miagolio del gatto che in giapponese è “nyan-nyan-nyan” (stupidi giapponesi, li amo), credo mi dedicherò ora all’attività che più ho in comune con questi animali.
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[P.S.: qualcuno si è fatto degli amici al Gotokuji.]
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#DC143C
I muri del mio appartamento rimbalzano e amplificano il suono di un sassofono, accompagnato da una chitarra elettrica così silenziosa che si espande nell'aria come un odore; le mie orecchie si accendono e trasmettono l'impulso al cervello, che decide di farmi aprire gli occhi giusto per farmi notare che, il rametto d'incenso sul mio comodino, ha appena esalato il suo ultimo respiro.
Vedo del rosso e non capisco perché lì per lì mi sento come se fossi fuori dal mondo, in un posto in cui non dovrei essere; decido di guardare il mio orologio, compagno fedele che mi è stato accanto nelle gioie e i dolori di questa vita segnata: è un Casio d'annata, comprato a due spicci su Amazon ma affidabile, duraturo, immutabile in tutto questo tempo trascorso insieme.
4:35, non ho bisogno di accendere il display perché è anch'esso illuminato di rosso.
Guardo i secondi scorrere sul display quando capisco il perché di quel colore così accecante: mi sono addormentato di colpo, e ho lasciato i led e la mia piccola cassa Bluetooth accesi ma non solo, perché mi sono addormentato con lo smartphone in mano.
Lo accendo, lo guardo e, con gli occhi appannati dal sonno, mi accorgo che mi ha augurato la buonanotte: s'è accorta che sono andato a dormire senza salutarla e sicuramente si sarà sentita sola, ma rimedierò un giorno o l'altro o forse no, non importa.
Spengo il telefono e lo lascio cadere sul letto, mentre con fare incerto decido di alzarmi: mi siedo ai bordi del letto e guardo la mia stanza vuota, inerme, con solamente il sassofono e la chitarra elettrica che riecheggiano nell'aria; decido però di spegnere la cassa, ho bisogno di silenzio in questo momento.
Il silenzio è l'unico momento in cui non può succedermi niente.
Mi stiro, e nel frattempo mi metto gli occhiali che mi danno sempre un'aria più sofisticata, chissà perché: appesantiscono il mio sguardo, mettono in evidenza le mie fossette sotto gli occhi e le mie occhiaie ma sono io, e senza di loro non sarei quello che sono.
Buffo come gli oggetti abbiano la capacità di definire ciò che siamo.
Li metto e la prima cosa che faccio è andare in bagno, al buio, senza nemmeno degnarmi di vedere dove sto andando perché tra poco devo uscire e sono già in ritardo, come al solito: stranamente riesco a centrare la tazza, non mi succede mai a quest'ora.
Svuoto la mia vescica, ed è come se non lo facessi da giorni, mesi, anni.
Ritorno in camera mia e apro l'armadio, è sempre la prima cosa che faccio quando devo prepararmi per andare a un appuntamento anche se non so mai cosa scegliere: questa volta, però, lo so e devo solo prendere la mia camicia preferita, la mia cravatta delle grandi occasioni e un paio di pantaloni, un paio di scarpe, qualcosa per non morire di freddo, il mio zaino con le solite cianfrusaglie per sopravvivere e il mio accendino color giallo, che ho anche se non fumo; prendo tutto e vado in bagno, perché voglio che si presenti a questo appuntamento il Marco migliore, quello che non riesco mai a vedere se non negli occhi degli altri.
Mi chiudo in bagno anche se sono solo perché voglio essere al sicuro, anche da me stesso.
Entro in doccia: chiudo gli occhi e lascio andare via, grazie allo scorrere dell'acqua, il mio sonno per permettere alle mie incertezze, alle mie ansie, alla voglia di non fallire, di riuscire, di essere di entrare nel mio corpo, quasi per prenderne possesso e per terrorizzarmi, impietrirmi, impedirmi di agire come un veleno in circolo nelle vene delle mie intenzioni ed emozioni.  
Esco, mi asciugo e indosso tutto: sistemo la mia cravatta nel modo migliore che posso, abbottono i polsini stando attento a non far saltare i bottoni e abbottono la camicia stessa stando attendo ad associare i bottoni agli occhielli corrispondenti e allaccio le scarpe stando attendo a infilare i lacci tra il piede e il lato della scarpa stessa, perché mi si slacciano sempre le scarpe e non è questo il caso.
Sono vestito ma mi manca ancora tanti passaggi che compio scrupolosamente, quasi come un rito: devo pettinarmi, sistemare la barba, lavarmi i denti, le orecchie, sistemare le unghie, mettermi il profumo stando attento a non puntare il tutto sulla barba appena tagliata, mettermi le gocce negli occhi, ma anche banalmente schiarire la voce, non sembrare uno in cerca di droga, non essere il solito sciatto del cazzo; le mie premesse vanno a farsi benedire quando mi guardo allo specchio e noto che, per quanto io ci abbia provato, sono comunque il solito sciatto del cazzo: decido che va bene così perché sono me stesso, e se devo fallire in tutto questo non voglio farlo nei panni di un'altra persona.
5:15, il mio Casio è proprio un compagno affidabile.
Prendo le chiavi, spengo le luci, chiudo la porta di casa a chiave ed esco; in pochi secondi sono in auto, navigatore alla mano, destinazione impostata: "15 minuti all'arrivo", forse ce la faccio ad arrivare in tempo.
Accendo i fari, metto la cintura, abbasso la voce del navigatore che mi ha distrutto i timpani e metto in moto, anche se con un po' di fatica per via dell'età della mia auto: dopo pochi minuti imbocco l'autostrada a 3 corsie che mi permetterà di arrivare da lei.
Chiedo a Google di rimettere in riproduzione la canzone che mi ha svegliato stamattina mentre accelero e mi metto su una velocità di navigazione di 130km/h: mi godo il panorama, l'orizzonte ma anche la luce dei fari che si insinua tra le curve di quest'autostrada e che mi permettono di vedere il futuro, anche se soltanto a distanza di pochi metri.
Arrivano a farmi compagnia le mie paure, le mie ansie, le mie insicurezze che sono entrate dentro di me e che non escono più perché adesso fanno parte di me, anche se solo per un po'; ho paura di farmi male di nuovo perché sto di nuovo rimettendo in ballo me stesso e sto mettendo in discussione quello che sono, quello che dico, quello che anche banalmente provo, faccio, penso, ma anche perché il Marco che esiste adesso sta per essere messo alla prova e qualsiasi sarà l'esito di tutto questo ne uscirò cambiato, diverso, in bene o in peggio a seconda di come andrà.
Ma non importa, perché sono le 5:30 e sono in anticipo, proprio come piace a me.
Esco dalla macchina, afferro il mio zainetto e chiudo la portiera con gentilezza, perché non ho più bisogno di correre: indosso lo zaino e incomincio a camminare su questa collina che è ripida, molto, e che diventa difficile da scalare perché le scarpe che ho indossato non sono adatte, anche se non mi importa perché volevo vestirmi elegante a tutti i costi.
Rischio di cadere un paio di volte faccia a terra e le mie mani si graffiano perché atterro su delle pietre appuntite, ma non è importante perché alla fine ci riesco: sono arrivato in cima, e sono anche in orario.
Apro il mio zaino e prendo questa tovaglia, che apro e che appoggio a terra perché voglio sedermi, godermi il momento e non pensare a niente se non a quello che sono e a quello che sto provando adesso, mentre osservo l'orizzonte in camicia, cravatta, pantaloni, scarpe e orologio della Casio.
Ho i brividi, quindi mi metto addosso la giacca che mi sono portato appresso: a volte sono proprio previdente.
Manca poco ed incomincio ad innervosirmi perché l'attesa mi snerva: per smorzare il tutto tiro fuori  il mio accendino giallo e lo roteo tra le dita perché è il mio antistress preferito, oltre che il mio portafortuna personale.
Sono le 5:35, mancano 4 minuti.
Decido di prendere il telefono e di rispondere a quella buonanotte a cui non ho risposto: scrivo semplicemente "buongiorno" anche se, quando lo faccio, mi sento pesante e infantile, nelle mie intenzioni.
Ogni volta che le scrivo buongiorno è come se un pezzo di cuore andasse via, non mi so spiegare il perché ma non importa, perché non sa che sono qui e forse non lo saprà mai.
Il sole spunta, sono le 5:39.
È l'alba, e uno dei raggi rossastri attraversa una delle lenti dei miei occhiali e mi colpisce negli occhi, proprio come le luci a led stanotte, quando mi sono svegliato di colpo.
Sono qui, sto vedendo l'alba e questo mi basta e mi commuovo per questo, tanto: incomincio a piangere e a starnutire, ma non è importante: sono venuto solo per incontrarmi, l'ho fatto, e ne sono felice.
Resto lì per un po', fino a quando non ricevo un "buongiorno", da parte sua.
"Che fine hai fatto ieri?"
"Mi sono addormentato".
"Sei sempre il solito".
"Ti sono mancato o sbaglio? Rido. Torno subito"
"Dove scappi?"
"Secondo te?"
"In bagno"
"Esatto"
Forse è meglio che io me ne vada.
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